martedì 27 agosto 2024

“Quale strategia sanitaria il governo regionale intende applicare?” - Elisabetta Caredda

 

Durante il confronto tra i sindaci della Barbagia Mandrolisai e la Governatrice Todde, i delegati del Comitato sulla sanità del luogo, presenti all’incontro, hanno appreso che la Presidente si è assunta la responsabilità di bloccare la delibera che apriva la strada all’assunzione dei medici cubani. Ma il Comitato si chiede: “Non sarebbe meglio assumere un medico cubano a 4000 al mese piuttosto che pagare circa 1000 al giorno un medico a gettone?”


La recente visita istituzionale della governatrice della Sardegna agli amministratori del territorio nuorese, tenutasi a Sorgono, delude il Comitato Sos sanità Barbagia Mandrolisai.

“Durante il confronto aperto con i Sindaci dell’intera nostra area territoriale – spiega a Quotidiano Sanità Bachis Cadau, portavoce del comitato - che le hanno esposto le varie vertenze della nostra comunità, abbiamo appreso che la Presidente Alessandra Todde si è assunta la responsabilità di bloccare la delibera che apriva la strada all’assunzione dei medici Cubani. La sua affermazione per noi è stata pari ad una doccia fredda!”

L’iniziativa in merito alla procedura per la sottoscrizione di un accordo di collaborazione per l’attività di supporto al SSR tra il Governo della Repubblica di Cuba e la Regione Autonoma della Sardegna era stata presentata dall’assessore Carlo Doria lo scorso anno. Nel mese di gennaio 2024 Doria aveva inoltre annunciato, da quel che si era appreso da testate stampa locali, che in Sardegna sarebbero dovuti arrivare “128 medici e 30 infermieri da destinare alle sedi più critiche, con un contratto fino al 31 dicembre 2025 con possibilità di rinnovo”.


Quell’iniziativa voleva essere anche una risposta dell’ex assessore agli appelli persistenti del Comitato Sos Barbagia-Mandrolisai sul problema delle carenze di organico, auspicando in una soluzione.

“Siamo in presenza di un atto a nostro avviso negativo – tuona Bachis -, da considerarsi uno scippo istituzionale vero e proprio. La Governatrice congela infatti i 12 milioni già deliberati per fare arrivare i medici cubani, che non sono medici a gettone, e che aspettavamo perché rappresenterebbero ‘un toccasana’ per l’ospedale San Camillo e tutti gli ospedali periferici. Ci contavamo, era da tanto tempo che incalzavamo i vertici asl e regionali, lo stesso Doria diceva che l’iter era attivo ed a buon punto”.

“E’ innegabile che seppur in ritardo – prosegue il portavoce del Comitato -, ma la precedente giunta ha lasciato in eredità un ottimo strumento, una ottima legge tra l’altro bipartisan. Ci lascia perplessi e con l’amaro in bocca il fatto che la presidenza si sia fatta carico di non utilizzare questa opportunità”.

“Ci chiediamo: ma non sarebbe meglio assumere un medico cubano a 4000 al mese piuttosto che pagare circa 1000 al giorno un medico a gettone? Tenuto conto che il bando Ares prevede per i cosiddetti ‘medici in affitto’ una 
retribuzione pari a 85 euro l’ora”.

“Vorremo poter comprendere quale strategia sanitaria intendono applicare. Abbiamo necessità di risposte concrete. Nel frattempo ci sia concesso se pure abbiamo sentito di nutrire tante perplessità dalle notizie apprese, senza che sia stata citata alcuna alternativa al blocco dell’assunzione dei medici cubani” – conclude Bachis.

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domenica 25 agosto 2024

Schiavitù volontarie e fragili liberazioni - Mauro Armanino

Nella fine dell’agosto del 1791, nell’isola di Santo Domingo, oggi Repubblica di Haiti, cominciò l’insurrezione che avrebbe giocato un ruolo determinante nell’abolizione della tratta atlantica degli schiavi. Ricostruire quella straordinaria storia di ribellione nel Sahel oggi mette in evidenza due cose. La prima: le porte di “non-ritorno”, i luoghi dai quali furono deportati dodici milioni di africani, si sono moltiplicate perché la mercificazione delle persone si è, col tempo, perfezionata. La seconda: nessun cambiamento, trasformazione o autentica rivoluzione potrà cadere dall’alto di un’illuminata minoranza. “Le uniche liberazioni possibili non possono che scaturire, nutrirsi e crescere – scrive Mauro Armanino, ricordando Etienne de la Boétie e il Discorso sulla servitù volontaria – a partire dalla debolezza e la fragilità dei poveri che, soli, hanno il segreto della quotidiana lotta per la r-esistenza…”

 

La schiavitù, processo nel quale la persona è espropriata della sua umana dignità, non è affatto terminata. Difficile dimenticare la tratta atlantica di milioni di schiavi preceduta e accompagnata dal quella dei mari orientali attraverso le piste carovaniere del deserto. In questo ambito Paesi “cristiani” e “musulmani” hanno utilizzato entrambi la schiavitù come sistema economico e sociale, mare Mediterraneao compreso. La tratta degli schiavi ha saputo adattarsi e prosperare nelle mutevoli contingenze storiche senza nulla perdere della sua cinica strategia di annientamento. In Africa Occidentale la pratica della schiavitù si riproduce in vari Paesi a seconda dei gruppi etnici, dei rapporti di potere culturale, economico e politico. Per ogni epoca le sue “compatibili” schiavitù.

Nella notte del 22 al 23 agosto del 1791 iniziò l’insurrezione nell’isola di Santo Domingo, oggi Repubblica di Haiti, che avrebbe giocato un ruolo determinante nell’abolizione della tratta atlantica degli schiavi. Ed è in questo contesto che la giornata internazionale della memoria della tratta degli schiavi e della sua abolizione è commemorata ogni anno il 23 agosto. Detta celebrazione vuole inscrivere questa tragedia nella memoria collettiva dei popoli col progetto interculturale “Le Strade delle persone ridotte in schiavitù”. Alcuni luoghi della costa atlantica, come la “Porta del non-ritorno” di Ouidah nel Bénin e quella dell’isola di Gorea in Senegal, sono emblematici. Le porte di “non-ritorno” si sono oggi moltiplicate perché la mercificazione delle persone si è, col tempo, perfezionata.

Tutto, proprio tutto, è stato gradualmente trasformato in mercanzia. Il tempo, le frontiere, il corpo umano, la sessualità, il lavoro e la vita stessa fin dal suo scaturire nel grembo materno. Dalle nostre parti si assiste all’arruolamento di bambini nei gruppi armati, lo sfruttamento degli stessi nelle miniere e nelle piantagioni per sfociare infine nella mendicità, la prostituzione e il lavoro domiciliare. D’altra parte è bene non dimenticare che, nel Sahel, la prima e grande schiavitù è la miseria. La sua figlia naturale sono le carestie che si riproducono con paziente regolarità e coinvolgono, secondo le ultime statistiche della Alliance Sahel, almeno 38 milioni di persone. Quanto accade in Libia coi migranti che sono da tempo detenuti, imprigionati, sfruttati e,spesso, violentati, è storia ben nota.

Quanto alla schiavitù mentale, fonte e culmine di tutte le servitù elencate, essa inizia il giorno nel quale si accetta, spesso con inconscia gratitudine, la propria schiavitù. Senza sudditi sinceri, fedeli e consenzienti nessuna schiavitù e nessun tiranno potrebbe esercitare il suo potere di dominazione. Ricordava infatti Etienne de la Boétie:

Sono dunque i popoli stessi a lasciarsi o per dire meglio a farsi maltrattare, sarebbero salvi solo se smettessero di servire. È il popolo che si fa servo e si taglia la gola; che, potendo scegliere fra essere soggetto o essere libero, rifiuta la libertà e sceglie il giogo, che accetta il suo male, anzi lo cerca’.

Nel Sahel i colpi di stato a ripetizione e l’avvilimento delle esperienze democratiche post indipendenza sono lo specchio dei nostri popoli.

Scrive ancora de la Boétie:

Non è forse evidente che i tiranni per imporsi hanno sempre cercato di abituare i popoli non solo ad ubbidire e servire ma anche a venerarli?

Nessun cambiamento, trasformazione o autentica rivoluzione potrà cadere dall’alto di un’illuminata minoranza civile o militare. Le uniche liberazioni possibili non possono che scaturire, nutrirsi e crescere a partire dalla debolezza e la fragilità dei poveri che, soli, hanno il segreto della quotidiana lotta per la r-esistenza. Il primo passo sarà quello consigliato dall’autore del Discorso sulla servitù volontaria:

Decidete una volta per tutte di non servire più, e sarete liberi! Vi chiedo … soltanto di smettere di sostenerlo e lo vedrete, come un colosso di cui si sia spezzata la base, crollare sotto il proprio peso e spezzarsi.

È questa la vera porta di non-ritorno.           

                  

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martedì 20 agosto 2024

Le alternative realmente sostenibili per la produzione di energia: i tetti fotovoltaici, tanto ignorati quanto preziosi.

 

Per sopperire ai fabbisogni energetici dell’intero patrimonio residenziale italiano basterebbe realizzare pannelli fotovoltaici sul 30% dei tetti a uso abitativo del Bel Paese.

E’ il risultato dello studio ENEA pubblicato sulla Rivista Energies (N. Calabrese, D. Palladino, Energy Planning of Renewable Energy Sources in an Italian Context: Energy Forecasting Analysis of Photovoltaic Systems in the Residential Sector, 27 marzo 2023).

Inoltre, afferma e certifica l’I.S.P.R.A. (vds. Report Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2023, Report n. 37/202), è molto ampia la superficie potenzialmente disponibile per installare impianti fotovoltaici sui tetti, considerando una serie di fattori che possono incidere sulla effettiva disponibilità di spazio (presenza di comignoli e impianti di condizionamento, ombreggiamento da elementi costruttivi o edifici vicini, distanza necessaria tra i pannelli, esclusione dei centri storici).

Dai risultati emerge che la superficie netta disponibile può variare da 757 a 989 km quadrati. In sostanza, si spiega, “ipotizzando tetti piani e la necessità di disporre di 10,3 m2 per ogni kW installato, si stima una potenza installabile sui fabbricati esistenti variabile dai 73 ai 96 GW”. A questa potenza, evidenziano i ricercatori dell’Ispra, si potrebbe aggiungere quella installabile in aree di parcheggio, in corrispondenza di alcune infrastrutture, in aree dismesse o in altre aree impermeabilizzate; “ipotizzando che sul 4% dei tetti sia già installato un impianto, si può concludere che, sfruttando gli edifici disponibili, ci sarebbe posto per una potenza fotovoltaica compresa fra 70 e 92 GW”.

Energia producibile senza particolari impatti ambientali e conflitti sociali., sarebbe una scelta altamente positiva a fini di produzione energetica e di tutela del paesaggio.

Domanda banale: per quale singolare motivo le ricerche tecnico-scientifiche di ENEA e I.S.P.R.A. non vengono tenute in debito conto ai fini delle politiche e della pianificazione energetica ambientale?

Forse perché non devono esser disturbati programmi e progetti delle grandi società energetiche, a iniziare da quelle in mano pubblica?

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

 

da MEDIA, sito web tematico di ENEA, 15 giugno 2023

Energia: ENEA, con fotovoltaico su 30% tetti soddisfatto fabbisogno elettrico residenziale.

Per soddisfare l’intero fabbisogno elettrico del settore residenziale nazionale servirebbe installare pannelli fotovoltaici sul 30% circa della superficie complessiva dei tetti degli edifici ad uso abitativo del nostro Paese, che equivale a quasi la totalità dell’area idonea all’installazione di questi dispositivi. È quanto ha calcolato l’ENEA nello studio pubblicato sulla rivista open access Energies che descrive il reale potenziale del fotovoltaico in Italia al 2030 e al 2050 impiegando solo le superfici di copertura di edifici esistenti, senza la necessità di ulteriore uso del suolo.

“Nel nostro Paese gli edifici ad uso residenziale sono oltre 12 milioni con una superficie complessiva dei tetti di circa 1.490 km2, di cui solo 450 km2, pari appunto al 30% circa, potrebbero avere caratteristiche adeguate all’installazione di pannelli fotovoltaici”, spiega Nicolandrea Calabrese responsabile del Laboratorio ENEA di Efficienza energetica negli edifici e sviluppo urbano e coautore dello studio insieme al collega Domenico Palladino, ricercatore dello stesso laboratorio.

Lo studio evidenzia come, ipotizzando di occupare interamente questa superficie ottimale (circa 450 km2), si potrebbero generare oltre 79 mila GWh di energia elettrica per una potenza complessiva installata di 72 GW. Anche se si riuscisse a occupare una superficie inferiore (indicativamente circa 310 km2), l’energia prodotta sarebbe in grado di soddisfare il fabbisogno energetico elettrico del settore residenziale pari a un consumo medio annuo di circa 65,5 mila GWh.

Tuttavia, gli scenari più ‘probabili’ evidenziati dallo studio ENEA dimostrano che la potenza fotovoltaica installata potrebbe essere solo pari a 6 GW, ovvero l’11,5% dell’obiettivo nazionale fissato in 52 GW di nuova capacità fotovoltaica al 2030 (due volte e mezzo la potenza registrata nel 2020). Al 2050, lo studio stima che la produzione di energia elettrica da fotovoltaico potrebbe coprire potenzialmente poco meno del 40% del fabbisogno nazionale, ma con significative differenze a livello regionale: Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia dovrebbero avvicinarsi agli obiettivi nazionali anche seguendo scenari più cautelativi, mentre altre regioni necessiterebbero di scenari più spinti.

“Per sostenere e promuovere il fotovoltaico sui tetti serve rimodulare gli incentivi o adottare nuove azioni su base regionale. Per questo abbiamo definito un nuovo indice[1] che misura il potenziale fotovoltaico di ciascuna regione e che potrebbe essere di supporto ai decisori politici e agli enti locali per adottare strategie energetiche sempre più efficaci e specifiche per ogni singolo territorio”, sottolinea Domenico Palladino.

A livello territoriale, lo studio ENEA ha calcolato che al 2050 nel Nord-ovest[2] si potrebbe produrre oltre 5.500 GWh di energia elettrica con il fotovoltaico sui tetti, consentendo di soddisfare fino al 50% del fabbisogno residenziale. Nel Nord-est[3] questa percentuale potrebbe superare il 50%, con una produzione complessiva di 7.100 GWh. Al Centro[4], la percentuale scenderebbe a circa il 40%, mentre nel Sud e nelle Isole la copertura del fabbisogno raggiungerebbe percentuali via via più basse.

Nonostante il potenziale e la convenienza del fotovoltaico sulle coperture degli edifici, rimangono da affrontare sfide come la natura intermittente di questa fonte di energia e procedure amministrative che restano complesse, anche se di recente è stata varata una normativa che punta a ridurre la burocrazia e a promuovere nuove installazioni sui tetti di edifici esistenti, compresi quelli dei centri storici. “Negli ultimi anni sono stati realizzati molteplici interventi di efficientamento energetico del nostro patrimonio edilizio, ma molto rimane da fare: gli edifici residenziali sono responsabili ancora del 12% delle emissioni e del 30% del fabbisogno energetico complessivo del nostro Paese soprattutto a causa della climatizzazione e delle scarse prestazioni termiche dell’involucro edilizio”, concludono i due ricercatori ENEA.

Note

[1] Regional potential index (RPI) è il rapporto tra la potenza fotovoltaica installata e il massimo teorico che potrebbe essere installato sulla superficie ottimale calcolata del tetto (pari a circa 450 km2 a livello nazionale). Questo indice è stato calcolato per tre anni di riferimento (2021, 2030 e 2050) all’interno dello studio.

[2] Valle d’Aosta, Piemonte, Liguria e Lombardia.

[3] Trentino, Friuli-Venezia Giulia, Veneto ed Emilia-Romagna.

[4] Toscana, Umbria, Marche e Lazio.

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domenica 18 agosto 2024

L’AIFA ammette l’inefficacia del cosiddetto vaccino anti-Covid

 

di Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB)

 

Parere del Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB) sull'ultima dichiarazione dell'agenzia del farmaco Italiana

 

In questi giorni molti italiani hanno preso atto con stupore delle affermazioni con cui l’AIFA ha ammesso pubblicamente che “allo stato attuale, nessun vaccino COVID-19 approvato presenta l’indicazione “prevenzione della trasmissione dell’infezione dall’agente Sars cov-2”.

Tale stupore, in realtà, non appare giustificato, anzitutto perché già nell’ottobre 2022 i vertici della Pfizer avevano ammesso, di fronte al Parlamento europeo, di non aver mai testato la capacità del cosiddetto vaccino anti-Covid di arrestare la trasmissione del virus Sars-Cov-2; e in secondo luogo perché, fin dall’inizio di questa vicenda, e dunque prima delle pubbliche ammissioni della Pfizer, è universalmente noto che l’immissione in commercio del vaccino in questione è stata autorizzata in forza dell’art. 4 del regolamento della Commissione europea n. 507/2006, secondo cui un medicinale per uso umano può essere introdotto sul mercato “malgrado non sia stati forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale” medesimo e dunque in condizioni di assoluta incertezza scientifica in merito alle proprietà del medicinale per il quale l’autorizzazione è concessa (1).

Le affermazioni dell’AIFA appaiono, quindi, più che stupefacenti, scontate e tardive. Realmente stupefacente sarebbe semmai ricordare chi o cosa ha convinto a suo tempo milioni di italiani a credere nelle proprietà salvifiche di un medicinale i cui effetti erano, in realtà, sconosciuti ab origine: che siano state, forse, le dichiarazioni del Presidente del Consiglio che ha introdotto l’obbligo vaccinale (“non ti vaccini, ti ammali, muori, oppure fai morire”) o le dichiarazioni del Presidente della Repubblica che ha sanzionato quell’obbligo (“invocare la libertà di non vaccinarsi è in realtà una richiesta di licenza di mettere in pericolo la salute e la vita altrui”)?

In ogni caso, le ammissioni dell’AIFA hanno almeno il merito di chiarire una volta per tutte, e definitivamente, che la campagna pseudo-vaccinale altro non è stata che una gigantesca sperimentazione di massa di un farmaco dagli effetti sconosciuti, sperimentazione alla quale i cittadini sono stati in parte spinti gentilmente e in parte obbligati a partecipare e ai quali è stato estorto un “consenso” che, per definizione, non poteva essere “informato”, attesa l’impossibilità, da parte di chiunque e in particolare da parte dei medici-vaccinatori, di conoscere previamente i rischi e i benefici del farmaco in questione e, quindi, di comunicarli in anticipo ai partecipanti alla sperimentazione medesima.

È tuttavia evidente che le responsabilità dei mandanti e degli esecutori materiali di questa sperimentazione di massa non si fermano alla violazione del principio di consenso informato – come codificato dal Codice di Norimberga del 1947, dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 e dall’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 – avendo gli uni e gli altri calpestato scientemente, sistematicamente e, finora, impunemente anche gli altri principi generali di bioetica e di biodiritto: dal principio di precauzione al principio di beneficenza al principio di non maleficenza, solo per ricordarne alcuni.

Ma tutto ciò ancora non basta, perché la gestione del Covid ha permesso di pianificare, per la prima volta su scala planetaria, strategie biopolitiche fondate sull’imposizione di strumenti di controllo sociale, quali il Green Pass, che di fatto hanno trasformato i diritti fondamentali dei cittadini in mere concessioni governative. La portata di questo attentato alle fondamenta stesse dello Stato di diritto va ben oltre l’imposizione dell’obbligo vaccinale, essendo ormai evidente che il concetto di premialità sotteso al Green Pass resterà ancorato alle decisioni politiche e alle scelte normative che saranno imposte anche in altri contesti (sostenibilità ecologica, energetica, alimentare, ecc.) da classi dirigenti ormai organiche, e non più solo funzionali, alle élites finanziarie transnazionali e ai diktat da esse elaborati a livello globale.

A questo punto resta da chiedersi perché l’AIFA ammetta oggi, con tanto candore, ciò che il CIEB, unitamente a una piccola parte della comunità scientifica, sostiene con i suoi Pareri fin dal 2021.

Delle due l’una: o ciò è stato fatto per saggiare il grado di arrendevole autocommiserazione degli italiani e la possibilità di continuare indisturbati l’opera di demolizione dello Stato di diritto; o è stato fatto per provocare una reazione che dovrebbe spingersi, coerentemente, fino a chiedere a tutti i promotori della campagna vaccinale, e in particolare alle più alte cariche dello Stato, di assumersi le responsabilità del proprio operato.

Chissà se la seconda, ipotetica reazione sarebbe tollerata dai poteri che si celano dietro il velo della sovranità statale e che hanno tutto l’interesse a creare le condizioni in grado di giustificare l’introduzione di misure restrittive delle libertà personali ancora più stringenti di quelle ricordate finora, esattamente come sta accadendo in Inghilterra in questi giorni: e cioè, in altre parole, a creare un nuovo ordine attraverso il caos.


Il testo originale del Parere è pubblicato sul sito: www.ecsel.org/cieb

Note:
1 Cfr. L’art. 4 del regolamento della Commissione europea n. 507/2004, in GUCE n. L92 del 20 marzo 2006, pag. 6. Al riguardo, si veda anche il Parere n. 1 del CIEB del 20 dicembre 2021.

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venerdì 16 agosto 2024

Frutta e verdura “brutta”: quanta ne sprechiamo e quanto ci costa - Eleonora Ballatori

  

La corrispondenza tra “bello” e “buono” è oggetto di disquisizioni da 2.500 anni, ma quali sono i canoni estetici che guidano il mercato (e le nostre scelte) in materia di frutta e verdura? E cosa succede quando si scontrano con gli effetti del cambiamento climatico?


Quando si tratta di frutta e verdura “brutta”, i consumatori hanno un limite di tolleranza del 40%, superato il quale non sono più disponibili all’acquisto. Ovvero: in un sacchetto di dieci carote, solo quattro possono apparire imperfette perché il cliente sia ancora disposto a comprarlo. A stabilirlo è l’Ohio State University in una ricerca del 2021, da cui emerge che si tende a percepire come “scadente” un prodotto la cui dimensione, forma o colore si discosti dagli standard estetici prevalenti nella grande distribuzione organizzata (GDO). Tale diffidenza è dovuta, da un lato, a una conoscenza sempre più limitata della produzione alimentare, che nelle economie moderne avviene spesso a grande distanza dal suo consumo. Dall’altro lato, chi potrebbe contribuire all’educazione del consumatore favorendo un riavvicinamento consapevole alla filiera, sceglie di non farlo: i rivenditori sono più che propensi a escludere dall’assortimento quegli alimenti che non hanno un aspetto standard.

Il corto circuito delle responsabilità

Nell’ambito del rapporto Siamo alla frutta pubblicato nel 2021, l’associazione ambientalista Terra! ha fatto questa domanda alle principali insegne distributive italiane: “Sareste disponibili a mettere a scaffale frutta non sempre perfetta esteticamente (di calibro piccolo, con ammaccature da grandine, ecc.), ma ottima dal punto di vista organolettico?”. Il 57% ha risposto di no perché “il cliente non la comprerebbe”, il 29% non sa o non risponde e solo il 14% ha confermato di farlo già.

Si crea così un circolo vizioso in cui i rivenditori sostengono di agire per assecondare i gusti del cittadino-consumatore e rimettono il problema in capo ai soli produttori, che dovrebbero trovare altri canali – altrettanto remunerativi – per la merce di seconda o terza scelta; mentre i produttori, dal canto loro, insistono sulla responsabilità della grande distribuzione nell’aver educato i clienti ad accettare solo la perfezione. Questo sistema, sottolineano inoltre, ha altre conseguenze dannose: i prodotti non conformi agli standard della GDO vengono o scartati o ceduti all’industria di trasformazione a un prezzo inferiore, che copre a malapena i costi di produzione e garantisce la sopravvivenza solo di quelle aziende agricole che riescono a fornire un’alta percentuale di prodotti di prima scelta.

“Sani, leali e mercantili”

Fino a quindici anni fa l’Unione Europea, nel tentativo di uniformare e regolare il mercato, adottava norme molto rigide riguardo dimensioni, forma e consistenza di quasi quaranta prodotti ortofrutticoli destinati al consumo fresco. Per esempio, cetrioli e carote dovevano avere una curvatura massima di 10 millimetri, pena l’esclusione. Con il Regolamento 543 del 2011, successivamente modificato dal Reg. 428/2019, la legislazione si è ammorbidita, “limitando” il proprio intervento a dieci prodotti che però, da soli, costituiscono il 75% del valore commerciale degli scambi europei: mele, agrumi, kiwi, lattughe, pesche, pere, fragole, peperoni, uva da tavola e pomodori. La premessa alle oltre 160 pagine di norme è il proposito di commercializzare prodotti “sani, leali e mercantili”. Ovvero quelli certamente buoni da mangiare, puliti e privi di parassiti, ma anche impeccabili dal punto di vista estetico.

Prendendo in esame solo alcuni dei requisiti per entrare nelle Categorie “Extra” e “I” (cui appartiene quasi il 90% dell’ortofrutta venduta dalla GDO) troviamo, ad esempio, che le mele rosse devono avere “colorazione adeguata” per almeno tre quarti della superficie e che eventuali “ammaccature lievi” sono ammesse, ma per un massimo di 1 cm quadrato, sul totale; i kiwi devono essere “ben formati: sono esclusi i frutti doppi o multipli”; le pesche possono presentare “lievi segni di pressione” su una superficie non superiore a 1 cm quadrato , così come le fragole ammettono una “piccola zona bianca” la cui estensione non deve però superare un decimo della superficie totale. Infine troviamo che gli acini dell’uva da tavola devono essere “distribuiti uniformemente sul graspo”, mentre i pomodori costoluti sono ritenuti conformi solo se presentano “protuberanze non eccessive”. Tutti i prodotti, inoltre, devono rientrare nei calibri minimi previsti.

Cibo perso, cibo sprecato

Nel rapporto Reducing food loss: What grocery retailers and manufacturers can do, pubblicato da McKinsey nel 2022, si legge che ogni anno va persa o sprecata una quantità di beni alimentari stimabile tra il 33 e il 40% della produzione totale. In tutto, due miliardi di tonnellate di cibo che spariscono lungo la filiera: il 16% a causa delle perdite che si verificano al momento del raccolto (food losses), mentre il 14% per colpa dello spreco in fase di distribuzione e consumo (food waste). Secondo l’UNECE, la Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite, è come se ogni anno venissero riempiti 33 milioni di camion di cibo da buttare.

Analizzando il mercato globale dei pomodori, il prodotto in assoluto più soggetto a food loss con 50-75 milioni di tonnellate perse ogni anno, McKinsey stima così le cause della perdita: un terzo è legata al surplus di produzione, un altro terzo è costituito da cibo commestibile ma non conforme alle specifiche del cliente e il restante terzo è a causa di danni che rendono il cibo non commestibile. Questo significa che due terzi della perdita sono prodotti buoni da mangiare, che potrebbero essere reindirizzati al consumo umano.

La natura non è una fabbrica

“Vogliono frutti perfetti, grandi, tutti uguali, come se fossero usciti dalla fabbrica. Ma la natura non è perfetta”, dice Gianni Amidei, presidente di OI Pera (Organizzazione Interprofessionale della Pera) intervistato da Terra!. Nonostante l’agricoltura sia il secondo settore per emissioni di gas serra in Europa, allo stesso tempo è quello che patisce di più le conseguenze del cambiamento climatico. Solo nel 2020 l’Italia ha vissuto circa 1400 tra precipitazioni intense, fenomeni siccitosi, ondate di caldo e inondazioni: il risultato sono raccolti di calibro inferiore e più frequenti difetti superficiali. In Emilia-Romagna, principale polo produttivo europeo di pere, negli ultimi quindici anni sono spariti 6mila ettari sui 28mila complessivi. Non solo perché grandinate o gelate tardive hanno ripetutamente azzerato la produzione, ma anche perché i frutti, perfetti dal punto di vista organolettico ma resi irregolari dai capricci del clima in mutamento, non vengono accettati dai supermercati. I dati aggiornati per l’Italia, diffusi dall’osservatorio Waste Watcher nello studio Il caso Italia 2023 si allineano a quelli globali: solo nel tragitto dal campo ai rivenditori, nel 2022 sono andate perse 4,2 milioni di tonnellate di cibo, di cui il 26% nel comparto agricolo, il 28% nell’industria di trasformazione e l’8% nella distribuzione.

Chi fa fronte comune vince: il caso Melinda

Per erodere lo strapotere della GDO nel dettare prezzi e regole, oltre che per riguadagnare posizioni nel mercato dell’export, la filiera italiana dovrebbe superare la disaggregazione che la caratterizza e imparare a fare sistema. Un caso virtuoso in questo senso è quello del consorzio Melinda, che dal 1989 gestisce l’intera commercializzazione dei suoi affiliati (il 99% dei produttori trentini), condividendo tecniche all’avanguardia e offrendo una forza contrattuale senza pari nel rapporto con le insegne. Questo significa non solo non essere obbligati a “svendere” il proprio prodotto, ma anche avere l’autorità necessaria per scalfire i canoni estetici imperanti. Melinda ci è riuscita creando il marchio Melasì con cui, grazie a un’efficace campagna di marketing, ha portato la grande distribuzione (e i consumatori) ad accettare anche le mele di seconda o terza categoria danneggiate dalla grandine o di più piccolo calibro.

Chi dovrebbe fare il primo passo?

Al di là delle singole iniziative, tuttavia, la soluzione più efficace sarebbe un’azione congiunta a livello nazionale, in cui la GDO dovrebbe approfittare della propria posizione dominante sul mercato per sensibilizzare i consumatori e ridare valore economico ai prodotti di seconda scelta, mentre le istituzioni dovrebbero anticipare l’UE nel porre un freno legislativo all’ossessione per l’estetica prima che, unita alle conseguenze del cambiamento climatico, mandi alla deriva l’intero comparto.

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giovedì 15 agosto 2024

L’industria turistica è nociva come quella fossile - Ferdinando Pezzopane, Tiare Gatti Mora

 

Per politici e imprenditori il turismo è il «petrolio dell’Europa meridionale». In effetti estrae benefici dalla natura a vantaggio di pochi e danno di molti. Su queste basi nelle Canarie è nato un movimento contro il turismo

Negli ultimi mesi in Spagna si sono moltiplicate le manifestazioni contro il turismo, simbolo di un’insofferenza sempre più radicata della società spagnola rispetto a un modello di sviluppo basato su un settore i cui benefici sono appannaggio di pochi, mentre le conseguenze negative sono vissute dalla maggioranza. 

Il turismo in tutta l’area mediterranea è spesso dipinto tanto dai discorsi dei politici quanto degli imprenditori come il «petrolio dell’Europa meridionale». Così negli ultimi anni il settore ha continuato a espandersi anche in virtù delle scelte dei governi raggiungendo livelli ipertrofici, arrivando a determinare le scelte in campo di politiche pubbliche e rappresentando rispetto al Prodotto interno lordo (Pil) valori che oscillano nel 2022 dall’11.3% croato ai più modesti, seppur elevati, 6.9% della Spagna (12.5% nel 2019) e 6.2% dell’Italia. Percentuali di gran lunga superiori alla media degli altri paesi dell’Ue che si ferma al 4.5%

A livello europeo è dunque evidente come il bacino mediterraneo si configuri all’interno delle catene globali del valore come un’area prettamente turistica, avendo progressivamente abdicato a qualsiasi forma di ragionamento politico e collettivo circa la produzione manifatturiera e tecnologica. In questo modo anche il livello di occupazione nel settore turistico è tendenzialmente più elevato, cosa importante soprattutto alla luce del fatto che il lavoro prodotto da questi servizi ha tendenzialmente livelli di precarietà più elevati e salari e qualificazioni medie più basse. Sempre in Spagna, secondo uno studio condotto dall’Eurostat, i salari medi per le attività turistiche e ricettive erano pari nel 2020 a 6.4 e 12.8 euro lordi l’ora rispetto a una media nazionale totale di circa 17. 

Uno scenario dunque per chi lavora molto più buio rispetto ai già bassi salari nazionali, il tutto al netto di un maggior livello di profitti per le imprese, determinato sia da un minor tasso di investimento necessario sia da costi nettamente inferiori, considerando le concessioni balneari per i lidi e i diversi costi più o meno diretti di cui si fa carico lo Stato attraverso varie forme di sussidi. 

Nel 2023 nell’Ue il turismo impiegava più giovani, donne e migranti rispetto agli altri settori. Un elemento questo spesso richiamato dalla politica, nel caso italiano dalla ministra del turismo Daniela Santanché, in chiave estremamente positiva data la capacità di attivare categorie che altrimenti rimarrebbero «inattive». In realtà è evidente come la maggiore presenza di categorie marginalizzate è dovuta proprio agli elevati livelli di precarietà del settore. In Spagna i sindacati Ccoo (Comisiones Obreras) e Ugt (Unión General de Trabajadores) hanno denunciato in più occasioni come nel settore, secondo un’analisi da loro condotta, il 41.6% dei lavoratori nelle attività alberghiere e della ristorazione sia classificato come precario, con salari nel 40% dei casi sotto i 1.200 euro lordi mensili e come anche a causa della turistificazione agli stessi lavoratori risulti difficile trovare casa in prossimità del proprio lavoro. 

Una delle note sul sito del Ministero dell’Industria e del Turismo spagnolo evidenzia come il settore impieghi circa il 13.3% della forza lavoro a livello nazionale. Continuando la nota si presenta l’aumento consistente dell’impiego turistico nelle isole Canarie e Baleari come un successo frutto di una più ampia strategia di destagionalizzazione del turismo volta a rendere la Spagna una meta per tutto l’anno e non solo durante l’estate. Ma al netto del successo decantato dalla classe politica e imprenditoriale è proprio su queste isole che nel 2024 ci sono state le principali manifestazioni contro il turismo.  

Al centro della maggior parte delle richieste dei movimenti c’è la richiesta di moratorie turistiche e l’imposizione di un limite alle abitazioni che possono essere acquistate da stranieri. Si tratta di richieste che potrebbero sicuramente raffreddare i flussi turistici, con il rischio però di distogliere lo sguardo da un problema di cui la situazione turistica è solo un sintomo: l’assenza del diritto alla casa.  

Abbiamo intervistato Iván Cerdeña Molina, attivista del comitato Asociación Tinerfeña de Amigos de la Naturaleza (Atan), da diversi anni impegnato in azioni contro la turistificazione dell’isola e recentemente impegnato nella manifestazione contro il turismo alle Canarie. 

In Italia, come anche in Spagna, il turismo viene rappresentato come un settore economico fondamentale per i nostri paesi. Si parla spesso di turismo come petrolio dei paesi del Mediterraneo, ma è evidente che questa narrativa, guardando alle condizioni di lavoro offerte dal settore, è sicuramente falsa per chi lavora, mentre è vera per gli imprenditori e chi estrae valore attraverso varie forme di rendite, come quelle immobiliari. Nelle isole e in altre aree del paese il turismo è una monocultura, che ha quasi completamente azzerato gli altri settori del lavoro. Le Canarie negli ultimi anni, come tutta la Spagna, hanno visto aumentare i flussi turistici e anche l’opposizione al turismo. A Tenerife c’è stata una delle prime manifestazioni di quest’anno contro il turismo. Da dove nasce la vostra lotta e come interpretate il turismo nello sviluppo dell’isola?  

Parte tutto da una situazione insostenibile nelle Canarie. Da più di cinquant’anni noi (Atan) lottiamo per l’ambiente. La differenza è che quel problema che già tempo fa vedevamo arrivare, cioè il cambiamento climatico, ora è qui e tutta la popolazione ne è affetta in diverse forme. 

Gli stessi lavoratori del turismo sono coscienti dei problemi del settore. A me piace la metafora del petrolio del mediterraneo, del petrolio delle Canarie, perché il turismo è la principale industria delle Canarie, che ci piaccia o no, e funziona allo stesso modo dell’industria dei combustibili fossili, cioè estraendo benefici dalla natura, perché il turismo qui si basa sull’estrazione della natura delle Canarie e sta portando tutti i benefici in Europa, esattamente come accade col petrolio tra nord e sud, tra paesi poveri e occidente. Inoltre, proprio come nel caso delle aree dove viene estratto il petrolio, la gente del posto continua ad avere salari da fame e condizioni di vita terribili, oltre alla contaminazione nel caso del turismo dovuta alla cementificazione. La dinamica è la stessa che accade col petrolio, col litio e le industrie estrattive in generale.

I servizi nel nostro sistema economico sono sempre meno pensati per i cittadini e chi abita le nostre città e isole, e sempre più per attirare i grandi capitali e i turisti. Nel caso di Tenerife quanto è evidente nella differenza fra i servizi erogati per i cittadini e quelli solo per i turisti? La politica chi credete stia veramente rappresentando e sostenendo con le proprie scelte economiche? 

I servizi pubblici alle Canarie sono prevalentemente orientati al turismo, e così anche le infrastrutture. Buona parte dell’ampliamento di esse e della continua necessità di farle crescere è una conseguenza del modello turistico attuale. In isole con del territorio limitato con mancanza d’acqua, nel quale si importa il 90% degli alimenti che consumiamo, non è accettabile continuare a costruire servizi attorno ai soli turisti. Un esempio dei nostri servizi pubblici orientati verso i turisti è la sanità pubblica: nel sito ufficiale per il turismo delle Canarie un titolo dice «Le isole Canarie, una destinazione che si prende cura della tua salute», sotto al quale si afferma come le isole offrano ai loro visitatori temporanei la migliore offerta di qualità sanitaria. 

Il Governo delle Canarie è capace di vendere, o meglio, di regalare, la sanità pubblica delle Canarie ai turisti così da attrarne di più. Questo è puro turismo sanitario. Così si allontanano i cittadini dall’uso dei servizi pubblici per renderli esclusivi per i turisti ed è successo anche con le strade, con i parchi, con le case per le vacanze, con gli alberghi costruiti dove non dovrebbero. Sono arrivati al punto di espellere coloro che abitavamo in aree turistiche sulle varie isole dicendo che alcune aree sono esclusive per i turisti. 

Abbiamo parlato di come i residenti vengano espulsi da alcune aree, il turismo tendenzialmente porta anche a una concentrazione della proprietà privata, come nel caso del mercato immobiliare, nelle mani di poche imprese e singoli imprenditori. Nel caso di Tenerife negli ultimi anni avete assistito a un aumento del prezzo per l’acquisto e l’affitto degli immobili, e cosa ha significato questo per chi vive nell’isola? 

I prezzi della casa stanno aumentando a un tasso del 3% su base mensile. Un affitto che al Medano costava 400 euro 8 anni fa, adesso può costare intorno agli 850, 900 euro. Quello che succede è che la presenza di immobili affittati per le vacanze stabilisce una competizione diretta con chi si trova ad affittare casa per vivere tutto l’anno, perché le attività residenziali e turistiche si sviluppano negli stessi luoghi. 

Se da un lato ci sono privati che affittano singole loro proprietà ai turisti, ci sono poi specialmente grandi proprietari e fondi immobiliari che stanno acquistando e costruendo alle Canarie. C’è poi un altro fenomeno che si sta sviluppando ed è l’acquisto da parte degli europei sia per la speculazione e la successiva vendita dopo un aumento del prezzo sia per l’affitto per le vacanze. Ci sono anche proprietari locali che lo fanno. In questo modo il mercato immobiliare è stato stravolto: gli annunci che si trovano alle Canarie sono di abitazioni di lusso. Come risultato di questo fenomeno la stessa pubblicità immobiliare è diretta fuori dalle Canarie, o alle Canarie ma in lingua inglese, francese, tedesca o italiana, sottolineando il fatto che siano case di lusso. La «clientela» alla quale vengono offerte queste case ha un potere di acquisto elevato ed è disposta a pagare 300.000 euro semplicemente perché è vicina alla spiaggia, perché è al Medano, ecc. Ci sono per esempio tedeschi che comprano una casa per venirci tre mesi all’anno e il resto del tempo l’affittano come casa-vacanze. Tornando invece ai grandi proprietari c’è un fondo immobiliare che da poco ha comprato 500 abitazioni alle Canarie per destinarle al turismo o ad affitti brevi.

Avete ragionato su quali possano essere le soluzioni possibili sul piano normativo e, anche andando oltre la sola richiesta di leggi, a interventi economici specifici? 

È una questione che impatta principalmente le persone meno abbienti. Coloro che dispongono di maggiori risorse economiche riescono a restare ai margini degli effetti negativi della turistificazione, essendo in molti casi agenti promotori. Nel caso degli effetti della crisi climatica è vero che non scappa nessuno, ma i più ricchi possono permettersi cure mediche private, il che spiega perché sono in grado di svendere la sanità pubblica online. 

Esiste una classe politica legata alle lobby della costruzione e del turismo, che opera al loro servizio, ignorando completamente le richieste concrete provenienti dai movimenti. Le nostre richieste includono: moratorie turistiche, limitazioni all’acquisto di case da parte di stranieri, un’ecotassa solida e la fine dei progetti illegali. Questi sono i punti di partenza per un cambio di modello profondo. La moratoria approvata anni fa dal Governo delle Canarie, che permetteva di continuare a costruire alberghi a 5 stelle, non è sufficiente perché questi progetti si devono fermare tutti.

È come se la classe politica vivesse in una realtà separata e non percepisse l’impatto della turistificazione e della crisi climatica sulla nostra isola. Esistono le persone comuni e poi chi comanda, al servizio dei lobbisti, i quali a loro volta sono interessati solo a sfruttare il più possibile il territorio delle Canarie, nel minor tempo possibile, per il massimo profitto diretto. E se nel farlo distruggono risorse naturali, passano sopra al territorio, alla cultura locale, causano lo spiazzamento della popolazione, contribuiscono al cambiamento climatico, distruggono specie locali, peggiorano le condizioni di lavoro e aumentano lo stress, non gliene importa nulla perché contano solo i loro benefici.

Il Governo precedente, teoricamente progressista e attento alla natura e al territorio, ha aspettato la fine della legislatura per cominciare a sostenere le posizioni dei movimenti. Hanno avuto quattro anni per limitare l’acquisto di case agli stranieri e per chiedere una moratoria turistica: perché non l’hanno fatto? Neanche l’auto-denominato «governo più progressista della storia delle Canarie» si è avvicinato alle richieste dei movimenti ecologisti. Al contrario, hanno sfruttato il movimento ogni volta che hanno potuto solo per ottenere più voti.

*Tiare Gatti Mora, laureata presso la King’s College London, è una giornalista italospagnola che collabora come giornalista audiovisiva e militante con media e organizzazioni italiane, spagnole e anglosassoni. Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino, è attivista del Collettivo di Comunicazione Chrono. 

da qui

martedì 13 agosto 2024

L'IKEA e le antiche foreste dei Carpazi romeni - Greenpeace (*)

 

L'Europa si è da tempo presentata come una difensora della biodiversità e protettrice dell'ambiente.
Ma in Europa si commettono ogni giorno crimini contro la natura, spesso impunemente. Questi atti di distruzione (descritti in questa relazione come "crimini contro la natura") non sono commessi con pistole e coltelli, ma con bulldozer e motoseghe. Foreste secolari in Repubblica Ceca, foreste dei Carpazi in Romania e Polonia, e le foreste boreali di Svezia e Finlandia - tutte centrali nella lotta dell'Europa contro la crisi della natura e del clima - vengono distrutte per produrre prodotti di breve durata in vendita in tutto il mondo.
Questi "crimini naturali" si verificano legalmente, a volte anche all'interno di aree Natura 2000, ma li stiamo chiamando crimini perché è uno scandalo che la distruzione delle nostre ultime foreste ad alto valore di conservazione sia ancora consentita.

Per molti consumatori è importante non essere complici del disboscamento, ma con catene di fornitura complesse, leggi contraddittorie e società situate in varie giurisdizioni, diventa impossibile per i consumatori identificare i prodotti della cupidigia aziendale che stanno distruggendo i nostri ultimi tesori naturali. Il caso che segue fa parte di una serie che abbiamo chiamato 'The Nature Crime Files - Declassified' - un richiamo a una corretta protezione degli ecosistemi, che sono la base della nostra vita.

#1 Le foreste europee - vitali per la nostra sopravvivenza - non sono protette in modo efficace.
#2 L'estrazione di legno dalle foreste europee più antiche è un esempio del fallimento dell'attuazione degli obiettivi comunitari in materia di protezione della biodiversità.
#3 I prodotti in legno ricavati da foreste secolari possono finire nelle case europee.
#4 Le imprese devono agire immediatamente per fermare l'approvvigionamento di legname da tutte le foreste secolari e delle altre foreste ad alto valore conservativo. Per essere protette efficacemente, queste foreste devono essere lasciate indisturbate da attività dannose come il disboscamento.

LA FORESTA DEI CARPAZI IN ROMANIA

Le foreste secolari e altre foreste ad alto valore di conservazione sono particolarmente vitali per la salute e il benessere del pianeta. Sono ricche di biodiversità e svolgono un ruolo importante nella prevenzione e mitigazione degli effetti della crisi climatica e naturale. Purtroppo, all'interno dell'UE, queste foreste sono scarse, di dimensioni limitate e esistono solo in zone frammentate. Le montagne dei Carpazi sono la patria della più grande area d'Europa di foreste vergini e antiche al di fuori della Scandinavia e della taiga russa. Sono la seconda catena montuosa più lunga d'Europa, che attraversa otto paesi dell'Europa continentale (Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Ucraina, Romania, Serbia, Ungheria).
La superficie totale del territorio è di 209.000 km 2 (1), più grande di quella dell'Austria, dell'Ungheria e della Slovenia messe insieme. È anche uno degli ecosistemi biologicamente più unici al mondo. Ma questa enorme area di grande importanza ecologica e di bellezza naturale si riduce ogni giorno. Negli ultimi 100 anni, nuove attività industriali hanno modificato le foreste dei Carpazi e persino ora si stanno costruendo nuove strade forestali per rendere sempre più accessibile l'estrazione del legname (2). 
Le foreste primarie e quelle di vecchia data non mappate stanno scomparendo a ritmi estremi. Negli ultimi due decenni, sono stati distrutti più di 7350 km2 di alberi dei Carpazi a causa dell'estrazione del legname. In tutta la regione dei Carpazi, ogni ora viene abbattuta un’area [forestale ampia come] cinque campi di calcio (3).

LA FORESTA DEI CARPAZI ROMENA IN CIFRE:
# Il 43,7% delle foreste carpatiche sono in Romania e di queste solo il 2,4% (1700 km 2) attualmente sono sotto stretta protezione (4).
# Circa il 7% delle foreste rumene hanno più di 120 anni (5).
• 120 - 140 anni = 4.7% [2640km² ]
• 140 - 160 anni = 2.4% [1120km²]
• >160 anni = 0.7% [450km²]
# Si stima che negli ultimi 20 anni, la Romania abbia perso più del 50% delle sue foreste primarie (6) intatte a causa delle attività di taglio.

Se distrutte, le foreste dei Carpazi porteranno via con loro un patrimonio naturale fondamentale e importanti reti di sicurezza per il clima e la biodiversità in Europa centrale e orientale. Queste non sono aree che possono essere sostituite o rigenerate con foreste gestite, e il loro sfruttamento deve cessare immediatamente. Nella strategia sulla biodiversità per il 2030, l'UE si è impegnata a estendere la protezione rigorosa delle sue aree più biodiverse al 10% (7).

L'Unione Europea, che è brava a promuoversi come paladina della biodiversità, non ha finora saputo proteggere le sue foreste più antiche. Circa il 93% delle foreste secolari cartografate sono incluse nella rete Natura 2000 (8), un sistema di aree protette istituito dal l'UE, e l'87% delle foreste secolari sono sotto la protezione rigorosa da interferenza umana (9). Questo suona benissimo, ma la realtà non potrebbe essere più differente. Le foreste secolari 'protette' sono spesso protette solo su carta (10) e rimangono esposte al disboscamento.
Nel frattempo, le foreste rimanenti non sono nemmeno ufficialmente riconosciute come secolari dalle autorità e quindi sono esposte allo sfruttamento. Secondo il rapporto del Joint Research Centre report dell'UE, l'Europa presenta un deficit cartografico di 4,4 milioni di ettari di foreste secolari, che è un’area più grande dei Paesi Bassi (11). La mancanza di una mappatura adeguata, unita a un quadro giuridico poco chiaro su una protezione rigorosa (12), sta consentendo a queste foreste vitali di essere sfruttate dall’industria del legno. Un chiaro esempio del mancato rispetto da parte dell'UE di impegni efficaci in materia di biodiversità.

COSA SUCCEDE COL LEGNO DELLE FORESTE SECOLARI?

Il team di investigazione di Greenpeace Central and Eastern Europe (CEE) ha iniziato con queste semplici domande:
Chi sta distruggendo le ultime foreste vergini in Europa?
Dove va a finire il legno?
A cosa serve questa preziosa risorsa?
Il nostro team di investigatori ha seguito le tracce e ci ha portato ai fornitori di aziende di mobili, come il molto amato e ampiamente celebrato marchio europeo, IKEA. IKEA gestisce quasi 500 negozi al dettaglio in tutto il mondo, per più della metà in Europa. Come uno dei maggiori consumatori mondiali di legno (13), IKEA ha la responsabilità globale di rispettare i propri impegni in materia di sostenibilità. Secondo alcune stime, per la produzione di mobili IKEA un albero viene abbattuto ogni due secondi (14).

"Stiamo promuovendo metodi forestali responsabili. Lo facciamo per influenzare il settore e anche per contribuire all'importante lavoro di porre fine alla deforestazione." Mikhail Tarasov, Global Forestry Manager, IKEA Svezia.

Ma è davvero così?
Nonostante tutti i loro sforzi sulla sostenibilità, IKEA, come una lunga lista di imprese, sta facendo affari con le aziende che si procurano il legno da foreste secolari che non sono efficacemente protette. Secondo IKEA, quasi il 98% del legno utilizzato è certificato Forest Stewardship Council (FSC) (15).
Tuttavia, come dimostrato dai casi di distruzione della natura, il sistema di certificazione FSC non sempre riconosce le foreste secolari per il loro vero valore di biodiversità. Questo, a sua volta, consente pratiche di silvicoltura industriale e di taglio sotto la certificazione FSC, anche in foreste che dovrebbero essere strettamente protette. Nel frattempo, le ultime foreste secolari del l'UE vengono decimate, con tanto di permesso, e questi alberi secolari appaiono nei salotti, cucine e camere per bambini in tutta l'Unione Europea e oltre.

IKEA acquista la maggior parte del suo legno da Polonia, Lituania e Svezia. Dichiara che nelle sue catene di approvvigionamento solo il 4% del legno vergine proviene dalla Romania (16)Secondo l'analisi di Greenpeace Central and Eastern Europe, dei 15 maggiori produttori romeni di mobili, sette rifornisco IKEA, e il loro fatturato complessivo per il 2022 è stato di circa 480 milioni di euro (17).
In questo rapporto ci concentriamo su un sistema di approvvigionamento del legno, dove le aziende produttrici di mobili trasformano tronchi e/o legno segato direttamente dalle foreste, o (più spesso) proveniente da fornitori intermedi e dai loro depositi. Greenpeace CEE ha visitato foreste secolari in tutta la Romania, dove l'età media degli alberi era compresa tra 120 e 180 anni, in base ai piani di gestione forestale pubblicamente disponibili (18).

Esaminando attentamente l’intera catena di approvvigionamento, dai siti di disboscamento ai depositi di legname, esaminando i permessi di trasporto con attribuzioni di geolocalizzazione e visitando gli impianti di lavorazione, Greenpeace CEE ha scoperto la distruzione sistematica di foreste secolari, tra cui due siti protetti Natura 2000. La distruzione di foreste secolari o di altro alto valore di conservazione è stata collegata ad almeno sette diversi fornitori IKEA in Romania.
La maggior parte di questi fornitori dell’IKEA produce prodotti per numerose aziende europee e internazionali. Tuttavia, stando ai siti web dei produttori, agli articoli online e ad altre informazioni disponibili al pubblico, IKEA è senza dubbio il principale cliente della maggior parte delle aziende che l’indagine di Greenpeace CEE ha collegato alla distruzione delle foreste secolari. Uno dei produttori, Plimob, produce praticamente esclusivamente per IKEA.

Partendo da uno dei mobili IKEA più iconici, l'amata culla e struttura letto per bambini SNIGLAR, le sedie INGOLF, lo sgabello BEKVÄM, i divani KIVIK fino agli articoli per la casa più piccoli come il tagliere PROPPMÄTT o le grucce in legno BUMERANG - Greenpeace ha visitato i negozi IKEA in tutta Europa tra settembre 2023 e marzo 2024 e ha trovato prodotti di produttori associati a legno proveniente da foreste secolari in 13 paesi: Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Israele, Italia, Polonia, Svezia, Svizzera e Regno Unito.

Data la diffusa presenza di legno proveniente da foreste secolari nella catena di fornitura di IKEA, sembra estremamente probabile che questo legno finisca in questi prodotti identificati. Greenpeace CEE ha dato a IKEA l'opportunità di commentare i risultati di questa indagine. IKEA non ha contestato le informazioni. Una delle collezioni iconiche di IKEA, SNIGLAR, che offre culle e strutture per letti per bambini, è pubblicizzata (19) come una collezione di prodotti durevoli e realizzati con materiali naturali rinnovabili che fanno bene sia al portafoglio che al pianeta.

Dalle foreste ai negozi. I risultati dell’indagine

Le indagini di Greenpeace CEE hanno collegato i letti con reti a doghe e le culle in legno massello di faggio a due produttori rumeni, Masifpanel SRL e Iris Service Ciuc SA. Entrambi i produttori erano collegati alla distruzione delle foreste secolari.
Masifpanel ha acquistato il legno di faggio dalla S.C Colcear Servcom SRL, a cui è stata concessa la concessione per l'abbattimento di 3150 m3 di foresta (principalmente) di faggio a Caraș-Severin, 500 km a ovest di BucarestSi tratta di un'area quasi incontaminata di straordinaria bellezza, in una foresta di almeno 120 anni che fa parte della rete di aree protette dell'UE Natura 2000.
Iris Service Ciuc SA dispone di una rete diversificata di fornitori, con legname proveniente da almeno 15 entità diverse e numerosi siti di disboscamento in tutta la Romania. Accettano anche legname direttamente da una bellissima foresta di 160 anni gestita da Ocolul Silvic Moinesti. Culle e strutture letto per bambini, prodotte da Masifpanel o Iris Service Ciuc SA (20), sono state trovate nei negozi IKEA in Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Ungheria, Italia, Israele, Polonia e Svezia. Masifpanel, quando ha avuto la possibilità di commentare, ha riconosciuto di aver ricevuto legname dall'area Natura 2000 indicata, affermando che la distruzione non è illegale. Iris Service Ciuc SA non ha risposto.INGOLF è una delle collezioni di sedie più riconoscibili di IKEA. È realizzata in legno massello, che secondo IKEA è uno dei loro materiali preferiti e parte della loro eredità scandinava. Le sedie INGOLF sono prodotte dalla Plimob SA, con sede nella regione di Maramureș, che vanta una lunga tradizione nella lavorazione del legno. La contea di Maramureș, nel nord della Romania, è un centro di produttori di mobili (quattro produttori su cinque producono prodotti per IKEA). Si stima che il 20% dei mobili rumeni venga prodotto qui, a causa della presenza di grandi volumi di risorse di legname (21).

Una delle cinque unità di produzione gestite da Plimob in Romania è un moderno stabilimento di produzione di mobili poco durevoli con una capacità di produzione di 2,5 milioni di sedie all'anno (22). Secondo le indagini di Greenpeace CEE basate su dati disponibili al pubblico, il legno della Plimob SA proviene da una rete di aziende che si sovrappone in gran parte ad altri fornitori IKEA.
Il più grande fornitore di questi è Silva Grup, che ha trasportato almeno 8000 m3 di legno proveniente principalmente dalla Romania centrale tra l'inizio del 2023 e febbraio 2024. Una delle aree in cui Silva Grup ha una concessione per tagliare 1600 m3 presenta alberi con un'età media di 140 anni. Le sedie INGOLF prodotte dalla Plimob SA sono state trovate nei negozi in Austria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Italia, Israele, Polonia, Svezia e Svizzera.

Metodologia della ricerca

L'indagine di Greenpeace CEE si è basata su:

1. Analisi dei dati disponibili al pubblico forniti da SUMAL (https://inspectorulpadurii.ro/#/) ed all'Agenzia di Ricerche Ambientali (EIA NGO), un sistema gestito dal Ministero dell'Ambiente della Romania che offre l'accesso alle informazioni pubbliche come i confini amministrativi delle foreste, i permessi di taglio e i permessi di trasporto con attributi di geolocalizzazione.
2. Analisi delle immagini satellitari ad alta risoluzione provenienti da vari fornitori.
3. Analisi dei piani di gestione forestale, parzialmente disponibile sui siti web del ministero dell'ambiente.
4. Visite multiple in loco a siti di taglio ed agli impianti di lavorazione del legno, nonché ai fornitori diretti di IKEA.
5. Visite ai negozi IKEA in tutta Europa

Sul dossier sono disponibili le analisi dei seguenti casi:

  • NATURE DESTRUCTION CASE #1 Masifpanel SRL
  • NATURE DESTRUCTION CASE #2 Aramis Invest SRL
  • NATURE DESTRUCTION CASE #3: Taparo SA
  • NATURE DESTRUCTION CASE #4 CH Industrial Prod SRL
  • NATURE DESTRUCTION CASE #5 IRIS Service Ciuc SA
  • NATURE DESTRUCTION CASE #6 Plimob SA
  • NATURE DESTRUCTION CASE #7: AVIVA SRL

(1. Continua)

(*) Traduzione di Ecor.Network.


Nature crime files. Assemble the truth: old-growth forest destruction in the Romanian Carpathians
Greenpeace
Greenpeace Central and Eastern Europe, April 2024 - 18 pp.

Download: 



Note:

1. Cyglicki, R., Hoffmann, M., Hrynyk, Y., Cibor, K., Galusca, C. (2022), The Carpathian forests. Europe’s natural heritage under attack, Vienna, Greenpeace Central and Eastern Europe.
2. Ibid.
3. Ibid.
4. Ibid.
5. National Forest Inventory. Forest resources assessment in Romania, Forest area by region.
6. Brisis, I.A., Veen, P. (2005), Virgin forests in Romania. Inventory and strategy for sustainable management and protection of virgin forests in Romania, Royal Dutch Society for Nature Conservation (KNNV) in co-operation with Romanian Forest Research and Management Institute (ICAS).
7. European Commission (2020), Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions. EU Biodiversity strategy for 2030. Bringing nature back into our lives, 20 maggio 2020.
8. Mays Barredo, J., Brailescu, C., Teller, A., Sabatini, F.M., Mauri, A. and Janouskova, K. (2021), Mapping and assessment of primary and old-growth forests in Europe, Luxembourg, Publications Office of the European Union.
9. European Commission (2021), Earth Day: New report shows there are still pristine forests in Europe and calls for their mapping and strict protection, 22 April 2021.
10. Mikolāš, M., Piovesan, G., Ahlström, A., Donato, D.C., Gloor, R., Hofmeister, J., Keeton, W.S., Muys, B., Sabatini, F.M., Svoboda, M., Kuemmerle, T. (2023), Protect old-growth forests in Europe now, Science, Vol. 380, Issue 6644, p.466.
11. Barredo, J., Brailescu, C., Teller, A., Sabatini, F.M., Mauri, A. and Janouskova, K. (2021), Mapping and assessment of primary and old-growth forests in Europe, Luxembourg, Publications Office of the European Union.
12. Ibid.
13. Ikea Museum (n.d.), The story of Ikea. Good for the forest. Good for people.
14. Kerfriden, M., Deleu, X., Schmidt, R., Abdelilah, A. (2024), Ikea, the tree hunter: Our documentary is now live, 27 February 2024, Disclose Films et Premières Lignes.
15. Ikea (n.d.), People & planet. The wood we use.
16. Ibid.
17. ListaFirme (n.d.), Lista firmelor din România (Romanian version)/ Romanian companies (English version).
18. Tutti i dati relativi all'età media degli alberi in questo rapporto provengono da: Ministerul Mediului, Apelor și Pădurilor, Serviciul de telecomunicații speciale (n.d.), SUMAL 2.0 - Inspectorul Pădurii.
19. Ikea (n.s.), Products: SNIGLAR Crib.
20. Greenpeace è stata in grado di identificare i produttori IKEA con prodotti specifici basandosi sul sistema di identificazione univoco dei produttori IKEA, con ogni prodotto che riporta un'etichetta che identifica i suoi produttori.
21. CSIL Market Research. Industry Studies and Market Research for the Furniture, Lighting and Furnishings sector (2018), Romania. A promising hub for upholstered furniture companies.
22. Revista din Lemn/ PLIMOB S.A. (2023), Scaune IKEA fabricate la PLIMOB Sighetu Marmatiei.

https://ecor.network/estrattivismo/la-distruzione-delle-antiche-foreste-dei-carpazi-romeni/