Rischiavo di rimanere tra le serre, tra i fiori
coltivati, tra ciclamini e stelle di natale. Nel mondo proprio di un agronomo.
Invece sono finito nella scuola. Non
sembrerebbero vicini, l’agronomia e la cattedra.
Eppure non ho mai patito questa distanza. Anzi,
mi è sembrato che solo sapendo di mucche, di vinificazione, di foraggio ed economia
agricola, avrei potuto navigare nel mare dell’insegnamento.
Solo concependo la scuola come un ecosistema mi
sono orientato.
Perché anche la scuola, come ogni ecosistema, è
la risultante tra una parte inorganica e una organica. D’accordo, sono solo
paroloni per indicare il cemento e le vetrate che d’inverno ci fanno
rabbrividire e ci fanno bollire d‘estate; le scale, ricoperte di linoleum; i
bagni che gocciolano; l’aula docenti senza un vaso di fiori e i lunghi corridoi
che tendono all’infinito.
Poi c’è la parte organica, i viventi: bidello
Eugenio che vorrebbe andare in Tibet, il tecnico Radames che in laboratorio fa
scoccare i fulmini sott’acqua, la collega di latino convinta che gli
antichi abbiano già detto tutto, meccanica quantistica compresa, e
Giacomo, Mattia, Irene e tutti gli altri, centinaia e centinaia, una
comunità, una biocenosi, direbbero i biologi.
Naturalmente alcune scuole sono ecosistemi
piccoli e graziosi, altre intricate foreste. In alcune ci sono aule dove si
respira un senso di libertà, come davanti all’oceano, e in altre spirano venti
artici.
Tutte sono, in quanto ecosistemi, vive. La loro
parte inorganica, il cemento, le tapparelle e i bagni, si sfaldano,
s’inceppano, s’intasano.
La parte organica cresce, evolve, vince, perde,
invecchia.
Solo i banchi non crescono mai...
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