domenica 7 luglio 2013

Ho grazie, la mia scuola è un orto (la compagnia dlla fotosintesi) - Fulvio Ervas

Rischiavo di rimanere tra le serre, tra i fiori coltivati, tra ciclamini e stelle di natale. Nel mondo proprio di un agronomo.
Invece sono finito nella scuola. Non sembrerebbero vicini, l’agronomia e la cattedra.
Eppure non ho mai patito questa distanza. Anzi, mi è sembrato che solo sapendo di mucche, di vinificazione, di foraggio ed economia agricola, avrei potuto navigare nel mare  dell’insegnamento.
Solo concependo la scuola come un ecosistema mi sono orientato. 
Perché anche la scuola, come ogni ecosistema, è la risultante tra una parte inorganica e una organica. D’accordo, sono solo paroloni per indicare il cemento e le vetrate che d’inverno ci fanno rabbrividire e ci fanno bollire d‘estate; le scale, ricoperte di linoleum; i bagni che gocciolano; l’aula docenti senza un vaso di fiori e i lunghi corridoi che tendono all’infinito.
Poi c’è la parte organica, i viventi: bidello Eugenio che vorrebbe andare in Tibet, il tecnico Radames che in laboratorio fa scoccare i fulmini sott’acqua, la collega di latino  convinta che gli antichi abbiano già detto tutto, meccanica quantistica compresa, e  Giacomo, Mattia, Irene e  tutti gli altri, centinaia e centinaia, una comunità, una biocenosi, direbbero i biologi.
Naturalmente alcune scuole sono ecosistemi piccoli e graziosi, altre intricate foreste. In alcune ci sono aule dove si respira un senso di libertà, come davanti all’oceano, e in altre spirano venti artici. 
Tutte sono, in quanto ecosistemi, vive. La loro parte inorganica, il cemento, le tapparelle e i bagni, si sfaldano, s’inceppano, s’intasano.
La parte organica cresce, evolve, vince, perde,  invecchia.
Solo i banchi non crescono mai...

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