sabato 11 gennaio 2025

TRANS SARCIDANA - Gian Luigi Deiana

un vagabondaggio, tre ferrovie abbandonate, e un dicembre tragico dell’umanità


il sarcidano non è solo un territorio interno della sardegna: sub specie storica, e più ancora preistorica, ne è piuttosto l’insieme degli organi vitali, quelli dai quali dipende la salute e il senso di tutto il resto, tutto il corpo di questa isola piena di spiriti;

all’atto della proclamazione dell’unità d’italia, un secolo e mezzo fa, si impose ovunque, in questa approssimativa nuova nazione, una sorta di prova di ferro: letteralmente di ferro, cioè fare qua e là la ferrovia;

e dunque la ferrovia, il nuovo leviatano della modernità, non poté eludere l’organo vitale di questa grande isola (per sé, di fatto, ben poco sabauda e forse ben poco italiana): e quindi non poté eludere il sarcidano, poiché essa, altrimenti, non avrebbe avuto senso;

la linea ferroviaria sarcidanese presenta approssimativamente la forma di una ypsilon, Y; dovremmo poter immaginare la sua gamba di ferro e i suoi due bracci di ferro come segmenti di circa ottanta chilometri ciascuno: ma solo in senso virtuale; la traduzione reale è ben più complicata;

la gamba della ferrovia di pianura, cagliari-mandas, si distende per circa sessanta chilometri; attraversa distese lievi, da sempre votate alla coltivazione del grano, ma incrocia anche piccole storie di ribellione e dell’anarchia; là dietro, nell’orizzonte del tempo, dormono i secoli delle economie schiavistiche classiche, e poi delle economie feudali successive ma forse più classiche ancora;

quando da sud entri nel sarcidano, togliti il cappello, e onora l’anarchia;

dopo mandas, un borgo eretto a granducato quattro secoli fa ((circa 1630, ai tempi di un grande cambiamento in cui, per un piccolo esempio, al guado di un piccolo fiume slavo-germanico chiamato spreer nacque un minuscolo borgo che poi ebbe il nome di berlino)), dopo mandas cominciano le selve, i contrafforti e le montagne: qui la ferrovia si diparte, secondo logiche in parte orografiche e in parte cervellotiche: un ramo va a nord, per oltre ottanta chilometri, e finisce al borgo montano di sòrgono; l’altro ramo va a est, esattamente per centosessanta chilometri, e finisce all’approdo marinaro di arbatax;

il ramo nord, mandas-sorgono, attraversa di netto la barbagia occidentale, e si può intuire la ragione di investimento su una ferrovia così azzardata: là c’era il legname necessario alle vere ferrovie italiche, quelle del nord; tuttavia, non so perchè, la linea si fermò proprio lì, a sorgono, mentre secondo logica avrebbe potuto guadagnare, ormai agevolmente, la piana del tirso e di lì centrare macomer e poi bosa: cioè il mare occidentale;

e invece no: la linea macomer-bosa, cioè cinquanta chilometri, fu realizzata; il territorio intermedio, mandrolisai-barigadu, ovvero la subregione tra sorgono e macomer, invece no: nonostante i gangli essenziali fossero acquisiti proprio dalla società delle ferrovie; insomma, il ramo occidentale di questa ipsilon delle ferrovie minori appare proprio come un braccio spezzato, ovvero un braccio senza avambraccio: ora non ci si fa proprio caso, a meno che tu non ci vada a piedi, con tutto il tempo necessario a fantasticarci sopra; puoi farlo: hai qualche centinaia di chilometri a disposizione per fantasticarci sopra;

la linea mandas-arbatax, appunto il ramo orientale, centosessanta chilometri ovvero almeno duecentomila dei tuoi passi su traversine e su ghiaia, fu invece integralmente compiuta; ma come linea è cervellotica oltre ogni dire; io a fare tutti quei centosessanta chilometri affiderei non tanto quei bravi che vantano ammirevoli camminate sul cammino di santiago, là in spagna: io vi affiderei santiago stesso, santu jaccu nostru; sarei anche contento di vagabondare con lui: perché i santi, se fa, non stanno lì a far perdere tempo a Dio onnipotente: i santi veri vanno in giro;

questo ramo, il ramo orientale della trans sarcidana, attraversa con immensi tornanti tutta la barbagia orientale: orroli, nurri, biddanoatolu, betilli, sadali, seui, niala, ussassai, gairo, villagrande, arzana, lanusei, elini, sella illocci, tortolì, e finalmente arbatax e il mare;

confesso ora che ho difficoltà a mettere insieme la descrizione dei luoghi al di fuori di me e di ciò che si muoveva dentro di me, e che io all’andare dei passi cercavo pazientemente di acquietare: perchè io ero in fuga;

io ero in fuga da una guerra di cui non sono bersaglio; da case distrutte che non sono la mia; da bambini uccisi che non sono i miei; solo l’immagine di mia madre e mio padre, giù al camposanto, mentre incrociamo lo sguardo;

eia, io ero in fuga: ottanta + centosessanta + cinquanta … duecentonovantachilometri di trans sarcidana, come una infinita preghiera;

cinquecentomila traversine corrose, rotaie silenziose e pazienti, forse quattrocentomila passi, uno più uno meno, di uno che benedice la diserzione, la lotta per disertare, e l’anarchia;

mi è capitato di ringraziare non so chi, forse il grande spirito, in quelle ore di mezzogiorno in cui ho trovato corbezzoli per mettere nello stomaco qualcosa, sotto di elini o sotto di magomadas; e quelle immagini meravigliose là di prima mattina a tinnura, tra la chiesa e la scuola, senza nessuno in giro: c’è gente che sa dipingere davvero in sardegna, sui vecchi muri, o che sa dare spiritualità a ceppaie di castagno ormai apparentemente inutili e morte;

e la grande pace delle piccole greggi della planargia, verso sindia; e la stupefacente curiosità dei piccoli gruppi di caprette, verso elini; e quel cartello di un piccolo ovile non mi ricordo dove, che diceva: “caro ladro, se lo fai per bisogno non affannarti a entrare qui di nascosto: chiedi quello che ti può servire, perché noi e le nostre bestie siamo una famiglia, anche per te; e non stare a cercare varchi nella rete: il cancello qui è aperto” ….

quando cammini le immagini si presentano lentamente, con tutta l’immensa umiltà del creato e con l’effimera illusorietà dell’opera umana; camminavo dentro una nenia visionaria, e qua e là mi sentivo come in uno stato di benefica ipnosi; la mia nenia si svegliava e si acquietava sui versi di un piccolo poema americano intitolato “visions of johanna”, e johanna qui era la mia isola, con signorili mandrie di vacche montane sui pendii e qua e là il monotono rumore di pale eoliche sui crinali … e la sibilla, con una mano piena di pioggia;

non so perchè sto scrivendo queste cose ora; forse perchè sono su una nave, come capita spesso a noi sardi, e la nave non ha ancora lasciato il porto; l’attesa, eterna compagna;

o forse perchè la fuga, la fuga, in questo tempo che ha sdoganato l’assassinio di massa, il terrore quotidiano, il genocidio pianificato, e la falsità come testata giornalistica globale, la fuga è in realtà quasi l’unico modo per rientrare dentro di sè:

la fuga.

da qui

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