Una
soluzione noi ce l’avremmo pure. Probabilmente è una soluzione
anti-costituzionale, come la maggior parte delle soluzioni che
proponiamo per risollevare l’editoria, la cultura, la letteratura in questo
Paese. E anche per quanto riguarda l’overtourism abbiamo abbozzato un
ddl da repubblica popolare centroafricana, proprio in questi ultimi giorni,
tra una pausa e l’altra, mentre passeggiavamo abbottati da pranzi e cenoni
nel centro storico di Roma, un grande cantiere con dentro gente che
si fa le foto scambiando gli scavi della metro C per rovine, i ponteggi
sopra il palazzaccio per un’installazione del bulgaro Christo, il Giubileo
per una festa a tema con il satanista Padre Guillerme in console, o
l’Osteria da Fortunata per un ristorante, quando invece è chiaramente una
specie di Alcatraz dove finiscono i pentiti di mafia a fare la
pasta a mano dentro una teca. A camminare per il centro, ma solo se si
è di buonumore per la tredicesima, si ha persino l’illusione di
vivere in una grande metropoli, si respira l’aria progressista della
globalizzazione – vedi che belli gli scambi culturali, il dialogo
tra i popoli, la condivisione del proprio patrimonio artistico. Ma poi
rinsavisci subito al bestemmione del tassista che stava per mettere sotto
Kim Jong Un a Corso Vittorio Emanuele, quando per prendere un gelato ti
devi fare un’app, per una carbonara spendi tutta la tredicesima e ti arriva
una fetta di cane, e quando scopri che Castel Sant’Angelo non lo rivedrai
mai più – a meno che non decidi di fare un sit-in di tre giorni e tre notti
davanti alla biglietteria insieme al cast di Squid Game. Allora
capisci che ci hanno inculato. E che il turismo è la più grande
impostura di questo secolo, la simulazione di un viaggio autistico che in
realtà non avviene. Tutta la città, dalle osterie ai negozi, dai musei al
paesaggio, si adegua al pregiudizio che il turista ha di Roma, che non ha
niente a che fare con Roma, ma all’amplificazione artificiale di quei
caratteri e costumi che crediamo possano piacere di più allo straniero. E
così, non solo dobbiamo sorbirci gli innumerevoli disturbi che creano le
orde di barbari in bermuda, ma dobbiamo anche cambiare noi per compiacerli,
ed ecco che Roma, quella reale, diminuisce, si fa più piccola, si
conforma all’immaginario che altrove si è creato di essa, e perciò anche
noi romani siamo sempre più in contatto con la finzione di noi stessi.
Quindi ben vengano tutte quelle iniziative alla Tourist Go Home, e quelle
degli attivisti che invitano a mettere adesivi o gomme da masticare sopra i
lucchetti con le chiavi degli Airbnb sparsi nel centro della città. Che
sia vietato Airbnb, che si mettano limiti ai giorni di affitto, che si
tassino i locatori senza pietà, che si buchino le gomme agli autobus a due
piani che intasano il Lungotevere. Meglio morire definitivamente
come Paese, sommerso dallo scioglimento dei debiti, che pensare di poter
campare con il turismo. Ma che razza di progetto a lungo termine è? Con che
voglia ci alzeremo dal letto la mattina, per prenderci cura del giardinetto
del mondo che diventerà l’Italia, dove i cinesi verranno a comprare
scatolette d’aria compressa del Lago di Stocazzo? Dove gli americani
verranno a giocare a beerpong – non potevano farlo nel Minnesota? –
credendo, come credono tutti gli americani, che l’Europa sia un’invenzione
di Walt Disney? Ma la nostra soluzione è ancora più radicale
dell’attivismo civile, delle proteste virtuose, delle pressioni
sull’amministrazione. Queste scappatoie ci ricordano quegli stucchevoli
suggerimenti pasoliniani di Parise contro la società dei consumi, in un
libretto pubblicato nel 1972, Il Rimedio è la povertà. Come
pretendi che nel mezzo dell’espansione consumistica e del benessere le
persone scelgano di rinunciare al comfort? Dice Parise: «Povertà è godere
di beni minimi e necessari, quali il cibo necessario e non superfluo, il
vestiario necessario, la casa necessaria e non superflua. Povertà e
necessità nazionale sono i mezzi pubblici di locomozione, necessaria è la
salute delle proprie gambe per andare a piedi, superflua è l’automobile, le
motociclette, le famose e cretinissime “barche”». Parise era un grande ma
queste sono tutte cazzate con cui probabilmente Goffredo si è comprato una
barchetta. Nei fatti, però, non lo ha ascoltato nessuno. Se le
persone possono scegliere tra una cosa giusta che però comporta fatica e
impegno e una sbagliata ma facile da fare, opteranno per la seconda. Con
in mano un qualsiasi mezzo o tecnologia, l’umanità li impiegherà sempre nel
peggiore dei modi possibili. Vedi Intelligenza artificiale. La useremo per
fare più guerre e per cambiare i pannoloni agli anziani. Siamo fatti così,
siamo belli anche per questo. Lo stesso vale per il turismo: se porta soldi
facili, allora vincerà sempre. La nostra soluzione all’overtourism perciò è
un’altra, benché mutuata da quella di Parise: Il rimedio è la
criminalità. Bisogna incentivare il ritorno della criminalità
disorganizzata e diffusa nel centro storico di Roma. Piccoli delinquenti
saranno allocati negli Airbnb sfitti, convertiti in case popolari, e
incoraggiati a compiere furti, scippi, rapine, borseggi, sequestri di
persona, minacce di ogni genere nei confronti dei turisti. Se non possiamo
vincere con la giustizia, possiamo vincere con la paura. Il centro deve
diventare luogo ostile, brutale, feroce, per chi non conosce le dinamiche
locali, la lingua, le vie giuste in cui passare. La pagina Instagram del
Comune di Roma appalterà la comunicazione istituzionale a Welcome to
Favelas. Il Monte di Pietà, nel rione Regola, si occuperà della
ricettazione della refurtiva, generando inizialmente un indotto sufficiente
a pareggiare gli scompensi della diminuzione dei turisti. La città dovrà
tornare ad avere pessima fama su Tripadvisor e sulle Lonely Planet
(strumenti di egemonia planetaria anglosassone), come ai tempi del Conte di
Montecristo, quando al carnevale si rapivano i figli dei nobili stranieri
in cambio di un riscatto, o ai tempi del Marchese del Grillo. Si creeranno
nuove situazioni epiche, rinnoveremo l’immaginario ormai stantio della
Banda della Magliana e quello netflixiano di Suburra, per riscoprire la
romanità dei bulli di quartiere, dei Più, dei Meo Patacca, dei duelli,
delle zaccagnate in panza (che ci hanno reso, nell’Ottocento, i chirurghi
più bravi d’Europa), delle osterie piene di puttane e eunuchi e cardinali e
nobili, la Roma mazziniana di Ciceruacchio, quella notturna e
situazionista di Mario Appignani, degli sballati, degli strippati, delusi,
stralunati, sgabbiati, dei terroristi del sistema, l’irascibile schiera
degli infelici, la Roma dimmerda di Remo Remotti, la Roma di Dario
Bellezza, invivibile e incresciosa, perciò liberata da chi vuole
bonificarla per renderla gradita al turista. Il centro ritornerà ad essere
quello che è sempre stato: crocevia di tendenze assurde, punto di incontro
di aristocrazia e sottoproletariato, commistione di generi e stili di vita
improbabili, che dialogano sul serio, frizionano fino a generare una
vitalità spontanea e violenta che fu la principale ricchezza cittadina,
prima dei monumenti e dei musei. E si tornerà a cantare per le vie del
centro, si tornerà a fare l’amore a Trastevere, torneranno i macellai, i
bordelli, i coltelli, torneranno i poeti.
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