martedì 29 giugno 2021

Il furto di pesce - Roberta Ferruti

 

In Provincia di Latina a pochi metri di distanza dal confine con la Provincia di Roma, c’è un piccolo borgo rinascimentale con poco più di duemila abitanti, Giulianello, frazione del Comune di Cori, noto per un bellissimo laghetto di origine vulcanica. In questo laghetto, i pastori da sempre vi portano le greggi all’abbeveraggio, i giulianesi vi vanno a pesca, oppure vi organizzano feste, incontri e passeggiate. Una comunità contadina coesa che ha nel territorio una delle principali risorse.

Succede però che un giorno, nel 1978, il professor Agostino Gabrielli, cittadino giulianese, viene denunciato con l’accusa di furto di pesce nelle acque del lago, di proprietà, secondo l’accusa, del signor Raffaele Prosperi. La difesa viene affidata a un giovane avvocato, Raffaele Marchetti. Il processo penale, si protrae a lungo tra appelli e ricorsi e si conclude soltanto nel 2003, stabilendo che il laghetto doveva essere consegnato dai privati all’intera comunità di Giulianello. Una vittoria su tutta la linea dell’avvocato Marchetti, da sempre appassionato difensore dei diritti delle collettività, che apre la strada all’accertamento degli usi civici, tema giuridico molto complesso e affascinante, per stabilire il riconoscimento alla collettività della possibilità di trarre sostentamento dalle risorse presenti in un territorio in un’ottica di tutela e valorizzazione del patrimonio ambientale, paesaggistico e culturale.

Giulianello del resto è un paesino dalla forte connotazione agricola e la cultura contadina, tramandata da generazione in generazione è ancora oggi molto presente. Andando a scavare nella storia di Giulianello, l’avvocato Marchetti scoprì che sin dall’Alto Medioevo, il territorio era divenuto speciale demanio della Chiesa romana, poi successivamente infeudato e passato dunque sotto la gestione delle famiglie nobili Conti, Salviati e Borghese. Un territorio feudale abitato e “usato” da sempre da contadini che esercitavano usi collettivi riconosciuti e rispettati dalla Chiesa e dai Signori. Si trattava degli usi di semina, del pascolare gratuito, dello spigatico, del legnatico, insomma, di tutto quello che poteva servire a sostentare la comunità. Diritti di uso civico che si sono tramandati intatti per secoli fino ai giorni nostri anche se, lungo tutto l’arco del ‘900, ci sono stati diversi tentativi di soppressione da parte dei signori locali e la piccola comunità di Giulianello è stata costretta ad attivarsi per mantenere e proteggere questi diritti. Le cronache locali riportano, ad esempio, che nel 1921 alcuni cittadini sono convenuti in giudizio davanti la Giunta d’Arbitri di Velletri per ripristinare alcuni diritti civici gravanti su quello che era considerato un territorio feudale, senza ottenere però alcun esito. Da allora, attraverso un percorso di battaglie legali che si è intersecato con quello per il diritto all’uso del lago, si è giunti fino al 1993, anno in cui la piccola comunità ha finalmente visto riconosciuto l’accertamento dei diritti di uso civico con sentenza definitiva e non modificabile. È stato perciò finalmente sancito un diritto legittimo della comunità violato per oltre settant’anni.

Riesce persino difficile immaginare quanto debba ricevere una collettività dopo aver subito settant’anni di violazioni di diritti legittimi. Un danno enorme come enorme è la cifra di risarcimento che la gente di Giulianello si è trovata ora a dover gestire. Nel frattempo l’avvocato Marchetti è prematuramente deceduto lasciando l’eredità morale a un gruppo di giovani locali che avevano seguito passo dopo passo l’evolversi dei processi. Un gruppo di persone motivate dal bene comune, con la voglia di mettere in pratica quei valori di collettività tanto discussi e dibattuti in questi lunghi anni di impegno. Nel 2010, attraverso una raccolta firme, si è costituito un ente gestore dei diritti, ASBUC – Amministrazione separata beni di uso civico – allo scopo di assicurare “… conservazione, sviluppo e tutela del patrimonio e diritti di godimento collettivo della comunità di abitanti sotto tutti gli aspetti, della produzione, di salvaguardia del sistema ambientale e territoriale, di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio, garantendo l’intangibilità delle risorse non rinnovabili e l’utilizzo di quelle rinnovabili nei limiti della sostenibilità e per i bisogni degli utenti titolari” si legge nello statuto. La gestione è collettiva, l’assemblea è sovrana. Il Consiglio di Gestione si occupa delle questioni amministrative e porta in assemblea le proposte che vengono discusse e votate dalla comunità che attivamente partecipa. I primi anni di amministrazione sono stati determinanti perché il nascente Consiglio di Gestione ha dovuto creare le basi per lo svolgimento di tutte le attività amministrative e nonostante difficoltà e ostacoli di varia natura, si è riuscito a dar vita all’ente che ora è in grado di avviare e concretizzare idee e progettualità di cui si discute nel paese da decenni. Nel maggio 2021 la comunità di Giulianello si è espressa con parere largamente favorevole sulla proposta di acquisto di 105.51.83 ettari nell’area del laghetto e di un edificio storico, lo Stallone, per realizzare uffici di pubblica utilità. Si tratta di una scelta che segnerà radicalmente la storia di questo paesino perché la ricostituzione del patrimonio collettivo è il presupposto essenziale per dar vita ad attività basate sulla tutela e sulla valorizzazione del territorio e a progettualità che faranno da volano per l’economia locale.

Finalmente, la piccola comunità di Giulianello con tenacia e costanza è riuscita ad avviare un percorso di rinascita attraverso la partecipazione attiva dei cittadini. Grazie ai diritti di uso civico si sta imparando che esiste un nuovo modo di “possedere” in cui il soggetto attivo è la collettività che opera delle scelte che vanno oltre il mero calcolo venale e richiedono una capacità di immaginare il futuro della comunità. In altre parole, Giulianello non sta semplicemente acquistando dei beni ma sta dando concretezza a una visione della società.

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lunedì 28 giugno 2021

La base logistica di tutto quanto - Miguel Martinez

  

Gli anarchici tendono a scrivere in maniera ridondante e sovraccarica, ma spesso ci azzeccano più degli altri. Il Rovescio è un sito che ha questi difetti, ma anche questi pregi, entrambi in abbondanza. Visitandolo, sono rimasto colpito da un articolo sulla questione della logistica. Inizia con una tirata teorico-emotiva, arriva al sodo dopo molti paragrafi, ma il sodo è decisivo (e lo riporto in fondo a questo articolo).

Si parla di quello che sta succedendo nel settore della Logistica, cioè del sistema di circolazione delle merci su cui si fonda tutto il resto. Pensate a tutto il circo che orienta le scelte politiche delle persone. Se sappiamo che qualcuno ha dato della pescivendola alla Meloni, se sappiamo che c’è un trans che dice che è sensibile alle offese, se un ghanese clandestino ha molestato una ragazzina, se sappiamo che Alessandra Mussolini si è messa in posa arcobaleno su Instagram per dire che “l’amore viene prima di tutto“… bene, tutto questo scemenzaio esiste perché usiamo dispositivi che anonimi ci portano entro 24 ore a casa, Covid o non Covid – scintillanti meraviglie che si lasciano dietro una traccia di scorie dal Congo alla Cina. Ed è solo l’ultima tappa di un flusso di distruzione tenuto in piedi grazie a migliaia e migliaia di satelliti che vegliano su ogni passaggio.

Il pianeta intero, in questi anni, cielo e terra, è stato ristrutturato in funzione della Logistica, come ci ricorda un interessante rapporto di Recommon:

“In un report precedente, How infrastructure is shaping the World (Come le infrastrutture danno forma al mondo), Counter Balance ha inteso sondare gli interessi politico-economici alla base dei “mega corridoi” infrastrutturali: le reti transcontinentali su strada, rotaia, aria e mare costruite per servire sistemi di consegna just-in-time, e per consentire l’estrazione di risorse minerarie ed altre materie prime in zone sempre più sperdute, con grandi costi socio-ambientali.

Questi corridoi, concludeva il rapporto, sono un tentativo cosciente di “riorganizzare la geografia economica” in funzione del capitale. Per arrivare ad una “gestione integrata dei corridoi”, per esempio, questi vengono trasformati in zone di libero scambio in cui progressivamente si abbattono tasse, controlli sui confini, burocrazia ed altre barriere “erette dall’uomo” che, citando la Banca Mondiale, “aumentano le distanze” rallentando il trasporto delle merci.

Anche i diritti dei lavoratori e i salari vengono erosi, poiché l’agenda dei corridoi genera sacche di lavoro sottopagato “agglomerando” gli individui in zone economiche “a grappolo”.

Grazie alla logistica, al supermercato possiamo sempre trovare il passato di pomodoro a un prezzo che in teoria non permetterebbe alcun margine al produttore, e quindi possiamo essere certi che sia stato prodotto utilizzando truffe, devastando l’ambiente e violando ogni possibile norma sulla sicurezza o sui diritti dei lavoratori.

Gli operatori della logistica sono in massima parte stranieri, ma non fanno notizia come fa invece il calciatore miliardario preso in giro con “battute razziste” da tifosi semiproletari. Nessuno si sogna di essere inclusivo verso il camionista marocchino o il rider senegalese. E infatti il loro problema non è il pregiudizio contro “il diverso credo religioso o colore della pelle“. Il loro problema è intrinseco al ruolo che svolgono nella megamacchina.

La logistica si presta male alla mediatizzazione: i “padroni” sono ditte che appaiono e scompaiono spesso dietro fallimenti truffaldini, non scrivono scemenze su Facebook che si possano ritorcere contro di loro; e i loro lavoratori hanno troppo da fare per pensare pure a fare gli influencer.

Il termine “fascismo”, usato dagli intellettuali, significa all’incirca qualunque cosa non piaccia personalmente a loro. Ma il fascismo reale, in Italia, nel 1919, è nato come organizzazione di picchiatori armati che reprimevano fisicamente le lotte operaie e dei mezzadri, con l’applauso di un vasto ceto medio e urbano che vedeva ricomparire sulle bancarelle i prodotti della campagna a prezzi abbordabili.

E anche con la comprensibile complicità di molti braccianti che si arruolavano nelle squadre per fargliela pagare ai (relativamente) fortunati mezzadri.

Ora, i padroni delle terre toscane del Novecento non erano sadici pieni di pregiudizi che si divertivano a far picchiare i contadini. Semplicemente, i padroni dovevano modernizzare la produzione per adeguarla alla concorrenza internazionale, già allora intensa. Ma i mezzadri si rifiutavano di condividere i costi di tale modernizzazione, visto che non avevano alcuna certezza di poter restare nei loro poderi. Quindi, giù botte e olio di ricino.

Oggi, il lavoro umano è in grandissima parte stato spostato sulla logistica. Dice il rapporto di Recommon:

“Ormai non sono più soltanto gli operai della catena di montaggio ad essere considerati produttori: anche camionisti, portuali e consumatori, visto che i dati relativi alle attività di consumo quotidiane sono diventate merci sempre più ambite.”

Normalmente, quando un lavoratore diventa esigente, si chiude la fabbrica e la si sposta in Bangladesh. Ma la logistica per sua natura, non si può spostare, perché è ciò che permette lo spostamento di tutto il resto. Ci sarà una furiosa corsa alla sostituzione dell’uomo con droni e veicoli senza guidatore controllati dall’Intelligenza Artificiale, ma nel frattempo c’è ancora bisogno del camionista che deve arrivare al deposito esattamente in tempo per consegnare il pacco all’omino in bici che suona al mio campanello. E siccome il cliente esige consegne sempre più veloci e puntuali per prodotti sempre più economici, la pressione ricade necessariamente sull’ambiente in primo luogo (a parte i trasporti, i comuni italiani ovunque stanno autorizzando la costruzione di capannoni in cambio di oneri di urbanizzazione), e sul lavoratore in secondo luogo.

L’Italia è “invasa” da immigrati, perché solo lavoratori sfruttati fino in fondo permettono di mantenere in crescita il Pil e tenere prezzi impossibilmente bassi (così bassi, ma su questa la Destra “identitaria” tace, da distruggere l’economia contadina italiana, salvo le reti agroindustriali). Ecco che riemergono bande armate, che picchiano chi si oppone. Bande armate, alcune regolarmente registrate presso la Camera di Commercio, che non fanno “saluti romani”, ma picchiano direttamente, senza che nessuno chieda che vengano messe al bando. Bande i cui militanti sono probabilmente quasi tutti stranieri anche loro; come è certamente il caso di quelle cinesi citate dal Rovescio.

Comunque ecco a voi la cronaca del Rovescio: fate la tara al linguaggio, perché i fatti sono più o meno quelli.

Il primo febbraio la celere di Piacenza carica un picchetto davanti alla TNT/Fedex. Il pretesto è che alle 22:00 c’è il coprifuoco e quindi non si può manifestare. Gli operai scacciano gli sbirri a sassate, il picchetto va avanti ad oltranza tanto che gli infami della Cgil locale organizzano pure delle manifestazioni davanti alla questura per chiedere di poter entrare a lavorare, dato che la parte violenta degli operai non glielo permetterebbe. Si espongono i vertici del sindacato di regime per affermare di aver parlato con la TNT/Fedex e di assicurare che il sito locale non sarebbe stato chiuso.

Infami che vengono presto accontentati: il 10 marzo scatta una operazione repressiva con trenta indagati, due arresti, cinque divieti di dimora, sei avvisi di revoca del permesso di soggiorno (se sei un immigrato e scioperi, te ne torni a casa tua!), 13mila e 200 euro di multa. Operazione di plastica chiarezza in tempi di Unità Nazionale: i decreti Speranza (repressione sanitaria, coprifuoco) e i decreti Salvini (deportazione per gli stranieri che scioperano) Uniti per la Nazione, in guerra contro gli sfruttati. La Fedex approfitta della mazzata per chiudere il polo di Piacenza, in barba alle assicurazioni su ciò che solo pochi giorni prima i loro servi in CGIL promettevano essere impossibile.

Ne nascono scioperi in tutta Italia, i siti della TNT/Fedex bloccati a singhiozzo per tre mesi. Si scatena però anche una violentissima repressione, portata avanti a tutti i livelli. Se dovessimo usare la stessa ratio che muove i teoremi delle procure contro di noi, si dovrebbe affermare che c’è una evidente regia, un comitato esecutivo dietro la multiforme azione di polizia (le cariche, i fogli di via da Milano per chi partecipa ai blocchi) e le squadracce di picchiatori professionisti (aggressioni con spranghe, bastoni, spray al peperoncino, pistole taser) della SKP di Milano, l’agenzia di bodyguard e investigazioni private usata sempre più spesso dai padroni della logistica per mazzolare gli scioperanti.

Ma le violenze vanno avanti ben oltre la Fedex e la stessa logistica. A Prato, gli operai tessili in sciopero contro le condizioni schiavistiche imposte loro dalla mafia cinese che produce materie prime per le multinazionali della moda, vengono ripetutamente attaccati, presi a mattonate, a pistolettate, investiti… e di nuovo (stessa regia? stesso comitato esecutivo?) caricati dalla polizia.

Da ultimo, venerdì 18 giugno, davanti ai cancelli del magazzino LIDL di Biandrate, in provincia di Novara, tre operai vengono investiti, nel tentativo di bloccare l’uscita delle merci, da un camionista che al contrario quel presidio lo vuole sfondare. Adil Belakhdim, 37 anni, sindacalista e referente novarese di SI Cobas, muore sul colpo.

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domenica 27 giugno 2021

Camara Fantamadi, morto sul lavoro, da schiavo

 

LUTTI. CAMARA FANTAMADI - Peppe Sini (*)


Si chiamava Camara Fantamadi
dal Mali venuto in Italia
lavorava come bracciante
sotto lo scoppio del sole
il cuore non ha retto
aveva 27 anni.

Non lo ha ucciso soltanto
la calura e la fatica
lo ha ucciso la violenza padronale
lo ha ucciso un sistema di sfruttamento
schiavista e razzista
lo ha ucciso un regime
mafioso e fascista.

Si insorga adesso affinché cessi questo orrore
che ogni giorno si rinnova nel nostro Paese.

Si insorga adesso per abbattere
la schiavitù e l’apartheid imposti nel nostro Paese
dalle mafie e dai governi assassini.

Ogni essere umano ha diritto alla vita
alla dignità alla solidarietà
salvare le vite e’ il primo dovere.

(*) ripreso da «Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino» proposti dal “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo (numero 4148 del 27 giugno 2021 anno XXII)

 

 

Al mercato rionale di buon’ora


Arrivo al mercato rionale di buon’ora. A Roma in questi giorni c’è un caldo umido da morire! Giro tra i banchi riempiendomi gli occhi coi meravigliosi colori dei prodotti agroalimentari italiani. “Ah il made in Italy non si batte, dal pomodoro all’acciaio chirurgico!” … Nella mia mente ripasso ricette e ansie da pessima cuoca, optando per il classico sugo pomodoro e basilico e dei peperoni da cuocere al forno “che fa tutto lui“… 

Senza quasi rendermene conto arrivo al solito banco. Amir mi saluta con un gesto della mano mentre spruzza acqua fresca sulla lattuga, la moglie Amina mi passa il cestino e prepara già le buste di carta, piazzandosi alla vecchia bilancia 

“Ciao!” 

– “Buongiorno! Oggi a quanto stanno i pomodori da sugo?” 

– “2 infarti e 70”

– “E i peperoni? Non si legge bene il prezzo…”

– “Quelli 1 collasso e 90″

– “uhm … Amir oggi hai aumentato i prezzi eh? E io chiedo lo sconto a tua moglie. Tanto è lei il boss!” Ridiamo tutti e tre. 

– “Prendi le ciliegie, oggi ti faccio un buon prezzo” Amir non può fare a meno di mercanteggiare, gli piace troppo – “Assaggia …raccolte a mano.” 

– “Buone!” 

– “Per te oggi solo 2 pestaggi di caporalato” 

– “Per me … Lo dici a tutti i clienti! Ti conosco sai?” Ridiamo di nuovo. È una mattina calda, afosa, ma l’ombra dei gazebo  e il profumo della frutta mette di buon umore.

Pago, ricevo i miei due sacchetti di carta rigorosamente riciclata pieni di ottimi prodotti a km zero, li sistemo nella sportina di canapa biologica che fa tanto consumatrice responsabile, saluto e mi avvio al parcheggio occhieggiando tutte le bontà esposte sui vari banchi. Sistemo nel portabagagli il mio bottino a km zero, consapevolmente e responsabilmente acquistato al banco dei prodotti bio. E tornando a casa non penso ai lavoratori invecchiati prima del tempo, lontani dalle loro famiglie, in un Paese che li respinge come corpi estranei se chiedono diritti ma li accoglie a braccia aperte nei ghetti di baracche sperduti nelle campagne, dove diventano carne da cannone per imprenditori senza scrupoli e senza anima.

Quando mangerò i miei spaghetti pomodoro e basilico, al fresco, nel mio appartamento climatizzato, ne avrò dimenticato i costi umani, la mafia che gestisce tutta la filiera e le vittime quotidiane dello sfruttamento. 

Domani avrò dimenticato anche l’ennesimo ragazzo venuto da molto lontano attratto dall’illusione di un lavoro e di una vita migliore e morto sul ciglio della strada dopo aver lavorato per pochi spiccioli sotto il sole cocente, senza sosta, nelle ore più calde e afose di questi giorni …

Li dimentichiamo tutti, sempre.

Camara Fantamadi, 27 anni, veniva dal Mali. È morto di fatica e di caldo per 6 euro l’ora.

(dalla pag Fb di Melitea)


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sabato 26 giugno 2021

Amen - Benedetta Buccellato

 

 

Ho letto la notizia apparsa su Repubblica di ieri sulla richiesta di 110.000 figure STEAM (acronimo di Science, Technology, Engineering, Arts and Mathematic). La richiesta è stata comunicata dal vicepresidente di Confindustria per il capitale umano: le imprese italiane stanno cercando, oltre a ingegneri, informatici, matematici e chimici, anche i laureati in indirizzi artistico-umanistici. Caspita, mi sono detta, finalmente è in arrivo un nuovo Umanesimo! La soddisfazione è durata solo qualche frazione di secondo, il tempo di leggere che i neo-letterati, artisti e umanisti si occuperanno “di descrivere con linguaggio pervasivo i prodotti nelle vetrine digitali”.

Amen.

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venerdì 25 giugno 2021

ALUMINIUM - Gianmario Pugliese

 

La produzione industriale di imbarcazioni ha raggiunto caratteristiche tali da costituire un notevole impatto ambientale, paragonabile ad altri settori più evoluti come quello automobilistico. In particolare, le principali difficoltà si verificano nel trattamento delle imbarcazioni nella fase di dismissione, che si traduce in un grave danno all’ambiente e conseguenti costi di gestione.

Attualmente, si stima un parco nautico di oltre 650 mila unità, di cui il 90 per cento costruite in Fibre reinforced polymer (Frp) – composito di resina polimerica rinforzata con fibre – o vetroresina con fibre di vetro (Gfrp).
L’utilizzo massiccio di questo materiale composito per la produzione nautica risale agli anni Settanta e le sue caratteristiche fisiche e meccaniche, unitamente ai bassi costi di produzione e alla versatilità formale del processo, lo hanno portato a diventare il materiale principale per la produzione di imbarcazioni, da piccole barche a yacht di lunghezza superiore ai 40 metri.
Analizzando il ciclo di vita di questo materiale nelle fasi di produzione, uso e dismissione, uno degli aspetti più critici riguarda proprio lo smaltimento. La loro durata, pluridecennale, fa emergere solo oggi il grande problema legato all’incapacità di gestire la loro dismissione.

Per queste ragioni, le imbarcazioni alla fine della loro vita utile vengono abbandonate nei porti o nei piazzali, o peggio affondate illegalmente, favorito da una carenza di regolamentazioni. Dal punto di vista legislativo, infatti, la nautica accusa un certo ritardo rispetto ad altri settori produttivi, soprattutto per quanto riguarda le direttive che regolamentano il fine vita. Si sta lavorando alla redazione della normativa UNI 810505 relativa proprio al problema della dismissione nella nautica, mentre a livello europeo si fa riferimento alla 2008/98/CE, che classifica le tipologie dei rifiuti indicandone una gerarchia di valore, e privilegiando il riciclo allo smaltimento. La stessa sancisce il trasferimento della responsabilità, e quindi i costi, del rifiuto dal proprietario al produttore.

Giunte a fine vita, le imbarcazioni andrebbero rottamate, ma in realtà questo non avviene quasi mai. Il processo non è organizzato in quanto il prodotto non si predispone a tale operazione. La demolizione dovrebbe avvenire successivamente ad un disassemblaggio del prodotto: separazione dei materiali e recupero dei componenti riutilizzabili. La caratteristica principale che rende l’imbarcazione “inquinante” è legata alla sua complessità materica. Se per le automobili sono ormai presenti procedure e strutture organizzate per lo smantellamento, riciclo e smaltimento, per le barche in vetroresina la questione è irrisolta. Il prodotto è assemblato con l’intento di renderlo un insieme monolitico più durevole possibile nel tempo, ma non necessariamente smontabile, a meno che non lo richiedano delle specifiche necessità di manutenzione. Ci troviamo, quindi, di fronte al problema generato dalla necessità di smantellare un oggetto composto da vetroresina, legno, vetro, acciaio, rame e impianti elettrici, per poterne eventualmente recuperare un certo valore in termini di riutilizzo, riciclo e recupero di energia. Il disassemblaggio è pertanto una parte cruciale del processo, e dal momento che il prodotto non è pensato per questa operazione, questa risulta molto svantaggiosa economicamente. Studi recenti hanno stabilito che per il disassemblaggio si spenderebbe oggi circa il 70 per cento del costo di produzione.

Nonostante le lacune legislative e le problematiche irrisolte di disassemblaggio e riciclo, il settore si è orientato alla ricerca di soluzioni che incentivino la produzione a cambiare rotta verso una maggiore sostenibilità e gli investimenti in ricerca e progettazione sono uno dei punti chiave in questa direzione.

Dal punto di vista della produzione si cerca di ottimizzare l’uso di materiali ecocompatibili e facilmente riutilizzabili, tra tutti l’alluminio. Per molto tempo nel campo nautico è stato visto come un materiale speciale, in un certo senso aristocratico, che veniva utilizzato per costruire imbarcazioni sofisticate. Oggi ha aumentato la sua popolarità grazie alla comparsa sul mercato di lancette di origine nordamericana. Un materiale totalmente riciclabile. Una barca di alluminio dopo qualche decennio di utilizzo può essere tagliata e riportata a livello di materia prima, pronta per un altro uso senza sprecarne neppure un centimetro quadrato.
Il peso molto contenuto dell’alluminio lo rende ideale anche per essere abbinato a motori elettrici che notoriamente non sono prodighi di cavalli, così da poter navigare in totale sintonia con l’ambiente. Senza dimenticare che utilizzando motorizzazioni meno potenti, a parità di misure e prestazioni di una barca di vetroresina – prodotta tramite un processo chimico irreversibile, oltre che inquinante – si risparmia benzina e si diminuiscono le emissioni inquinanti.

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giovedì 24 giugno 2021

Toyota: “Avventato concentrarsi solo sulle auto elettriche”. E il Ministro Cingolani è d’accordo - Omar Abu Eideh

 

Sembra esserci un sostanziale allineamento fra le posizioni di Toyota, il più importante costruttore del mondo, e quelle del ministro della Transizione ecologicaRoberto Cingolani. Infatti, il colosso giapponese dell’auto, al fine di decarbonizzare la mobilità e perseguire una transizione energetica economicamente e socialmente sostenibile, ha ribadito nuovamente la volontà di puntare su tutte le tecnologie oggi a disposizione e di non focalizzarsi esclusivamente su quella delle auto elettriche a batteria.

“È troppo presto per concentrarsi su una sola opzione”, ha confermato il vice presidente della compagnia, Shigeki Terashi, durante un’assemblea degli azionisti, rimarcando l’importanza di un approccio “multi-tecnologico” alla transizione energetica. Per Toyota, infatti, le endotermiche a basse emissioni e le ibride non sono destinate a essere pensionate del breve termine e costituiranno un’alternativa ai modelli 100% elettrici perlomeno per altri 30 anni. Peraltro, Toyota è fra i pochissimi costruttori al mondo a disporre contemporaneamente della tecnologia termica, di quella ibrida, ibrida plug-in, elettrica a batteria e a idrogeno (fuel cell), elemento che il costruttore sta impiegando anche per alimentare i motori termici.

L’approccio di Toyota appare controcorrente rispetto a quello di molti altri costruttori, che hanno fissato lo stop definitivo a tutte le altre tecnologie che non siano quella elettrica a batteria già nell’arco dei prossimi due o tre lustri. Per i giapponesi, invece, tutte le soluzioni a basso impatto ambientale sono utili alla causa ambientale e si deve tener conto anche delle preferenze del mercato (che oggi premia le ibride e le termiche a basse emissioni). “Alcune persone amano i veicoli elettrici a batteria, ma altri non considerano convenienti le attuali tecnologie. Alla fine ciò che conta è quello che i clienti scelgono”, ha sottolineato Masahiko Maedachief technology officer dell’azienda.

Senza contare che per Toyota (e non solo) rimangono sul tavolo una serie di dubbi circa i benefici ecologici delle auto elettricheerroneamente indicate come veicolo a “zero emissioni”. Per la multinazionale, invece, per valutare il reale impatto ambientale di un’auto è necessario considerare tutte le fasi che riguardano la vita del prodotto, dalla sua costruzione – inclusa l’estrazione di terre rare necessarie per la produzione degli accumulatori – allo smaltimento. “Stiamo scegliendo di guardare all’intero ciclo di vita”, ha chiarito Terashi.

Posizioni che ricordano quelle del ministro della Transizione ecologicaRoberto Cingolani, che punta sul pragmatismo: “La transizione ecologica deve essere giusta: non dobbiamo lasciare indietro nessuno. Dobbiamo curarci di chi comunque non potrà passare all’auto elettrica e lo dobbiamo aiutare a convertirsi a un mezzo molto più ecologico del vecchio Euro 0 o Euro 1Già un passaggio a una macchina nuova Euro 6, che inquina meno, in questo momento dà un fortissimo impulso alla decarbonizzazione”. Ciò senza nulla togliere alla rotta tracciata, che è quella di “accelerare l’elettrificazione e la penetrazione delle macchine elettriche e ibride nel mercato”. Ma per raggiungere tale obiettivo, secondo Cingolani, è necessario “far crescere la domanda e l’offerta non solo delle macchine, ma anche dell’infrastruttura di ricarica, che non vuol dire solo le colonnine ma anche ‘una rete smart‘”.

Tuttavia, secondo il Ministro, molto si può fare svecchiando l’attuale parco circolante: “In Italia abbiamo un parco di auto private di circa 30 milioni di macchine”, sostiene il Professor Cingolani. “Una dozzina di milioni, forse anche di più, sono auto altamente inquinanti, ossia Euro 0, Euro 1 ed Euro 2. Diciamolo chiaramente: non tutti hanno la possibilità di cambiare l’auto ogni quattro anni. Molti la tengono per tanto tempo e quindi diventa vecchia e inquinante”.

 

In definitiva, “è chiaro che la transizione elettrica è necessaria e che tutti, domani, vorremmo andare con mezzi elettrici”, ha proseguito il ministro della Transizione ecologica. “Però vorrei ricordare che in questo momento un mezzo elettrico familiare di segmento B costa quasi il doppio di un mezzo a combustione interna. Vediamo allora da dove si parte. Oggi abbiamo 10-12 milioni di auto altamente inquinanti: in questo momento, un loro passaggio all’Euro 6 dà già un forte impulso alla decarbonizzazione”. Quindi, per Cingolani, “chi oggi ha un’auto diesel Euro 1, comprando una diesel Euro 6 ottiene un grande miglioramento. Di sicuro la transizione verso l’elettrico durerà una decina d’anni e ci saranno delle soluzioni transitorie”.

Concetti, quelli del Ministro, che erano già stati esposti dallo stesso nel corso di un webinar dedicato alla mobilità: “Dobbiamo essere realisti, la transizione ecologica non si realizza in un attimo” e “non possiamo dire alle famiglie ‘da domani comprate tutti Tesla”. Una questione che è anche legata all’infrastruttura: “Se pure avessimo da domani veicoli tutti elettrici, non sapremmo dove ricaricarli. L’obiettivo sacrosanto della progressiva e definitiva elettrificazione del trasporto va perseguito con un approccio concreto e pratico che tenga conto della sostenibilità sociale, dell’aggravio dei costi per le famiglie e della sfida tecnologica. L’obiettivo di ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 richiede un mix di realismo e una scommessa tecnologica sul futuro”.

Va sottolineato, poi, che il Ministro, contrariamente a molti costruttori, non crede solamente nell’automobile elettrica alimentata a batteria ma anche in quelle dotate di fuel cell: “Dobbiamo procedere con l’elettrificazione del parco auto e far decollare la vettura alimentata a idrogeno. Il Pnrr, però, non fa miracoli: sul piano culturale, per esempio, vediamo circolare in strada troppe automobili con un unico passeggero, il conducente, e questo è un problema”.

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mercoledì 23 giugno 2021

Taranto e Portoscuso, i metalli pesanti inquinano i bambini. Nel silenzio - Gruppo d’Intervento Giuridico

 

Più piombo nel sangue uguale meno intelligenza.

Non è una novità assoluta, ma si tratta di un’autorevole conferma.

Più alto è il livello di piombo nel sangue durante l’età infantileminore è il quoziente intellettivo e, conseguentemente, minore è la possibilità di successo in età adulta.

Ora lo afferma anche “The effects of the exposure to neurotoxic elements on Italian schoolchildren behavior”, autorevole ricerca coordinata da Stefano Renzetti e pubblicata su Scientific Reports di Nature (maggio 2021).

Nulla di nuovo, però.

Per ogni aumento di 5 microgrammi (mcg) di piombo per decilitro di sangue si perdono 1,5 punti di quoziente intellettivo.

Così hanno affermato i dati raccolti in una ricerca svolta da un’equipe della Duke University (U.S.A.) e pubblicati nel 2017 sul Journal of American Medical Association (Association of Childhood Blood Lead Levels With Cognitive Function and Socioeconomic Status at Age 38 Years and With IQ Change and Socioeconomic Mobility Between Childhood and AdulthoodAaron Reuben,Avshalom Caspi, Daniel W. Belsky, e altri, 28 marzo 2017) condotta su un campione di 565 neozelandesi.

Ma già nel 2008 l’Università degli Studi di Cagliari (Dipartimento Sanità pubblica, Medicina del lavoro) nel corso di una ricerca (Plinio Carta, Costantino Flore) affermò chiaramente la sussistenza di deficit cognitivi in un campione di bambini di Portoscuso, dovuto a valori di piombo nel sangue superiori a 10 milligrammi per decilitro (vds. “Environmental exposure to inorganic lead and neurobehaviour altests among adolescents living in the Sulcis-Iglesiente, Sardinia” in Giornale italiano di medicina del lavoro ed ergonomia, 15 aprile 2008, in http://www.biowebspin.com/pubadvanced/article/18409826/#sthash.kjkUGkfA.dpuf).

La letteratura medica, infatti, ha finora indicato un’associazione inversa statisticamente significativa tra concentrazione di piombo ematico e riduzione di quoziente intellettivo, corrispondente a 1.29 punti di QI totale per ogni aumento di 1 µg/dl di piomboemia (sulla tossicità del piombo vds. http://www.phyles.ge.cnr.it/htmlita/tossicitadelpiombo.html).

Ora, molto probabilmente, sarà necessario rivedere al ribasso le stime: 5 microgrammi, infatti, corrispondono a 0,005 milligrammi.

Portoscuso come a Taranto il piombo nel sangue è una realtà.

Finora solo la recente sentenza di primo grado della Corte d’assise di Taranto del 31 maggio 2021, solo poche sentenze della Corte d’appello di Cagliari e della Corte di cassazione per Portoscuso.

E’ una realtà sostanzialmente impunita, nonostante reiterate denunce ecologiste.

Ed è una realtà che non fa vergognare amministratori pubblici assenti e industriali inquinatori.

Che i responsabili consapevoli siano maledetti, almeno.

Gruppo d’Intervento Giuridico odv

 

 

da Il Fatto Quotidiano19 giugno 2021

 

 A Taranto la combinazione tra piombo e arsenico ha effetti deleteri sul quoziente intellettivo dei bambini che vivono a ridosso dell’ex Ilva.

È la conclusione che si legge nello studio italiano pubblicato su Scientific Reports di Nature il 10 maggio scorso e mai reso noto finora nel nostro Paese. Tra gli autori c’è il professor Roberto Lucchini, che a ilfattoquotidiano.it spiega: “Questo lavoro evidenzia come le aree svantaggiate siano ad aumentato rischio di problemi neurocomportamentali oltre al rischio di minori capacità neurocognitive”(Marco Carta, Valentina Petrini)

“L’interazione sinergica fra piombo e arsenico provoca effetti ancora più marcati su varie funzioni del neurosviluppo nei bambini rispetto a quelli che si possono individuare con l’analisi ‘tradizionale’ che considera i singoli elementi tossici separatamente”. Roberto Lucchini è docente di Medicina del Lavoro. Si divide tra Brescia e la Florida International University di Miami, dove insegna. Al telefono risponde da Brasilia. C’è stata da poco la sentenza Ambiente Svenduto: in primo grado la Corte d’Assise ha stabilito che quello provocato dalla gestione privata della famiglia Riva tra il 1995 e il 2012 è stato un disastro ambientale. Ora gli occhi sono puntati sul Consiglio di Stato che a giorni dovrebbe pronunciarsi in merito all’ordinanza di chiusura dell’aria a caldo emessa dal Comune di Taranto e che invece fotografa l’emergenza ambientale e sanitaria dal 2012 ad oggi.

Non solo. Pochi giorni fa Il Fatto Quotidiano ha pubblicato la notizia che è stata consegnata al ministero della Transizione Ecologica guidato da Roberto Cingolani la nuova VDS, Valutazione del Danno Sanitario che attesta che a 6 milioni di tonnellate annue di acciaio “permane un rischio sanitario non accettabile”. 6 milioni di tonnellate di acciaio è esattamente la quantità che vuole produrre la fabbrica nella sua nuova veste di “Acciaierie d’Italia”, joint venture tra Arcelor Mittal e lo Stato italiano attraverso Invitalia. E mentre è in atto questa discussione sul futuro della produzione di acciaio a Taranto, lo studio Lucchini arriva come un fulmine a ciel sereno. Riguarda un tema importantissimo: i disturbi del neurosviluppo nei bambini dai metalli pesanti, noti per essere neurotossici. Taranto è un territorio fortemente interessato dalla presenza di metalli pesanti. Per questo anche le virgole di questo studio sono importanti per tutela la salute dei più deboli.

Scusi professor Lucchini ma dove è uscito questo suo nuovo studio?
“Su Scientific Reports di Nature, il 10 maggio scorso”.

Ah recentissimo.
Per un contesto come quello di Taranto questa scoperta è fondamentale, perché lì abbiamo una ‘mistura’ di elementi nocivi nelle emissioni industriali e attraverso questo tipo di studi riusciamo a valutare le conseguenze sulla salute non solo dei singoli inquinanti, ma anche nell’interazione fra loro.

Professore ma questo studio è solo in inglese, perché la ricerca non è stata ancora tradotta in italiano?
Siamo ancora impegnati sull’analisi dei dati, per questo non c’è stata una comunicazione ufficiale.

Lo studio è anche firmato anche dal Dipartimento Salute della ASL di Taranto, che ha cofinanziato il progetto. Non crede sia necessario renderlo pubblico anche alla popolazione locale?
Ha ragione. La responsabilità è anche di noi ricercatori, che siamo immersi nei numeri e posticipiamo spesso la comunicazione, che invece è fondamentale tanto quanto i risultati dei nostri calcoli.

Non è la prima volta che uno studio fondamentale per la salute pubblica dei tarantini rimane non divulgato. Tra l’altro in un momento così delicato in cui vanno prese decisioni importanti per il territorio, sarebbe stato giusto darne adeguata diffusione. Veniamo alla ricerca. In pratica avete scoperto che se prendiamo il piombo e l’arsenico singolarmente osserviamo alcuni dei loro effetti nocivi, se però li valutiamo nella loro interazione ne spuntano molti altri. È così?
Esattamente. Tra l’altro i valori limite di esposizione di questi metalli si basano sui componenti individuali di una esposizione multipla. Si può quindi essere al di sotto di un certo livello protettivo di esposizione per un singolo componente, ma anche a quel livello ‘basso’ quel componente può produrre effetti nocivi se in compresenza ed in interazione con altro componente.

Traduco. Le emissioni di piombo e arsenico possono essere entro i limiti consentiti dalla legge, ma se sono presenti entrambi insieme fanno male comunque, anzi di più.
Si. Entrambi possono essere a livello ‘basso’ di esposizione ma la loro interazione sinergica può provocare effetti.

Insomma professore, non è propriamente un aggiornamento migliorativo della situazione sanitaria a Taranto.
Già! Si può essere al di sotto di un certo livello protettivo di esposizione per un singolo componente, ma anche a quel livello ‘basso’ quella sostanza può produrre effetti nocivi se è in compresenza ed in interazione con un altra.

La ricerca pubblicata su Scientific Reports di Nature il 10 maggio 2021 è un aggiornamento di analisi che lei conduce su Taranto dal 2012.
Esatto. Nel 2012 siamo partiti concentrandoci in particolare sugli effetti dell’esposizione ai metalli con proprietà neurotossiche sui bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni.

 

Avete diviso i bimbi in tre fasce: quelli che vivono a ridosso dell’Iilva, quelli ad una distanza media e infine quelli più lontani. In ciascun gruppo rientravano 4 scuole. Cosa è emerso?
Una differenza di 13 punti tra il quoziente d’intelligenza dei bimbi più vicini al siderurgico rispetto a quelli più lontani. Non solo, chi vive più a ridosso della fabbrica aveva una concentrazione di cadmio e arsenico nelle urine e di manganese nei capelli superiore a chi risiede lontano. La differenza di 13 punti di QI va intesa come ‘normalizzata’ per livello socioeconomico e intellettivo della madre, cioè a parità di questi fattori fra una zona e l’altra. Quindi dovuta solo al fatto di essere a breve distanza dalla emissione.

Quindi per dirla brutalmente, un bambino del quartiere Tamburi ha un quoziente intellettivo più basso di circa 13 punti rispetto a un coetaneo di Talsano (località distante dallo stabilimento siderurgico). Parliamo di bambini sani, non ammalati che però sulla base di test neuropsicologici per calcolare memoria, attenzione, ragionamento e concentrazione, mostrarono molte differenze.
Sì.

I risultati di questo primo studio iniziato nel 2012 però sono arrivati nel 2016. Poi nel 2019 siete tornati ad approfondire l’impatto neurocognitivo dovuto all’esposizione ai metalli sempre nei bambini tra 6 e 12 anni. Le scuole, 12 in totale, sono sempre le stesse. E cosa è emerso a distanza di sette anni dalla prima ricerca?
Se nel primo studio ci eravamo focalizzati sulle funzioni neuropsicologiche, quindi quoziente intellettivo, ma anche tendenza all’autismo, deficit di attenzione e altre forme di patologie infantili, successivamente abbiamo sviluppato meglio l’interazione tra fattori ambientali e socioeconomici, dimostrando che questi due, insieme, peggiorano ulteriormente le funzioni neurologiche.

Cioè in pratica se sei povero e contemporaneamente vivi in un quartiere inquinato, come Tamburi, sei ancora più esposto ad effetti nocivi delle emissioni.
Sì. Se nella prima ricerca era stata registrata una diminuzione di 13 punti del quoziente intellettivo nelle aree di Tamburi, rispetto a Talsano, nell’aggiornamento del 2019, la diminuzione cresce fino a 16 punti, questo perché nel corso degli anni si sono raffinati gli strumenti di analisi. Quindi questo studio evidenzia come le aree svantaggiate siano ad aumentato rischio di problemi neurocomportamentali oltre al rischio di minori capacità neurocognitive.

 

Nella ricerca voi scrivete: “L’area di studio è la città di Taranto, nel sud Italia, dove opera da molti decenni un vasto polo industriale che comprende uno dei più grandi produttori di acciaio in Europa, causando l’emissione di elementi tossici e molti altri composti chimici in un’ampia area circostante”. Però poi parlate sempre genericamente di “fonte di emissione”.
Abbiamo sempre suggerito la necessità di approfondire. Dovremmo essere il triplo e avere il triplo dei fondi. Non riusciamo a far tutto.

 

L’inquinamento da metalli riscontrato nel sangue dei bambini a quando risale?
Quello che gli indicatori di sangue mostrano è un dato relativo, perché riflette il livello di inquinamento attuale. Quando questi bambini sono nati è probabile è che i livelli di esposizione fossero più alti. Non sappiamo quale fosse l’inquinamento, ad esempio, quando si trovavano nella vita fetale, che rappresenta uno dei momenti di maggiore vulnerabilità. Anche per questo nel corso del tempo abbiamo iniziato a raccogliere i denti da latte e speriamo al più presto di poter fare uno studio specifico. I denti sono come gli alberi. Se fai una sezione laser trovi i cerchi concentrici. Andando a fare una microsezione dei denti da latte possiamo individuare i livelli di esposizione del passato. Il dente da latte inizia a crescere nelle prime settimane di vita intrauterina. È l’unico campione biologico che ci consente di andare indietro nel tempo.

La speranza è siano studi e ricerche utili a chi deve prendere decisioni e che non vengano invece ignorati e chiusi in un cassetto. Nella pubblicazione di Nature edizione 2021 i ricercatori valutano l’effetto neurocomportamentale dell’esposizione a oligoelementi tra cui piombo, mercurio, cadmio, manganese, arsenico e selenio e le loro interazioni. Il campione scelto è composto da 299 scolari residenti nell’area fortemente inquinata di Taranto. Le analisi sono state condotte su sangue intero, urina e capelli. Dei 6 metalli considerati, piombo e arsenico sono quelli che hanno dato spunti di riflessione più importanti. Il piombo nel sangue ha influenzato principalmente i problemi sociali, il comportamento aggressivo, l’esternalizzazione e i problemi comportamentali totali. L’arsenico nelle urine ha mostrato un impatto su ansia e depressione, problemi somatici, problemi di attenzione e comportamenti di violazione delle regole oltre a un’associazione significativa a diversi tratti psicologici riconducibili all’autismo. Si tratta di indicazioni precoci che non costituiscono la malattia ma sono importanti per fare prevenzione in fase precoce ed evitare la patologia. L’esatto meccanismo neurotossicologico attraverso il quale una miscela di metalli può portare a problemi comportamentali non è ancora chiaro e sono necessarie ulteriori indagini e prove su come le miscele di metalli e le interazioni tra le sostanze chimiche possono influenzare comportamento. Aumentata iperattività e tratti psicopatologici, compromissione del comportamento sociale e maggior rischio di autismo sono stati rilevati nei quartieri di Tamburi e Paolo VI, che si trovano a distanza ravvicinata rispetto alla fonte emissiva industriale.

 

da qui

martedì 22 giugno 2021

I nostri antenati: delfini e balene - Marco Belpoliti

A vederlo non ci si crede. Uno dei primi antenati del delfino è un mammifero con il muso simile a un topo, quattro gambe e una lunga coda, e le unghie come un cervo. Si chiama Indohyus. Prove molecolari ci dicono che sarebbe il precursore dei cetacei, e perciò anche delle balene. Apparteneva alla famiglia degli artiodattili, animali con un numero di dita pari, nota come Raoellidae. Quando veniva minacciato si gettava in acqua sulle coste della Tetide, l’oceano che esisteva a quel tempo, 48 milioni di anni fa, di cui restano secondo alcuni studiosi delle vestigia nel mar Caspio e nel Mediterraneo. Allora un comune gruppo di antenati terrestri viveva in zone paludose con canali fluviali, prima di passare definitivamente al mare. Se vogliamo andare più indietro, a 53 milioni di anni, nell’Eocene, ci sono i pakicetidi. Tutte le particolarità di questi animali si ritrovano oggi nei delfini: nuotatori provetti, narici a fessura, struttura delle ossa dell’orecchio e i denti triangolari e seghettati. Qualche anno fa in Pakistan sono stati reperiti dei resti fossili di un mammifero che è un incrocio con un coccodrillo, Ambulocetus. Insomma i nostri delfini attuali sono gli eredi di animali remotissimi di cui conservano alcune caratteristiche peculiari. Gli zoologi, poi, sostengono che l’animale terrestre maggiormente imparentato con loro è l’ippopotamo, che trascorre molto tempo in acqua e che si è adattato a una situazione che ha finito per plasmare i delfini e le balene così come oggi ci appaiono. Circa 35 milioni di anni fa gli animali che chiamiamo oggi delfini abbandonarono la terraferma per diventare creature marine.

 

Come scrive Alan Rauch, studioso di biologia, e oggi insegnante di inglese nella università della North Carolina, in Il delfino (tr. it. di Fiorenza Conte, Nottetempo, pp. 281), la loro sembrava una mossa evolutiva con pochissime possibilità di riuscita, invece ha funzionato. Del resto noi veniamo da lì, dal mare, e per diventare quello che siamo diventati ci siamo ancorati saldamente alla terra, al suolo asciutto. I delfini e le balene hanno fatto il contrario e ci sono riusciti. 10 milioni di anni dopo sono diventati le creature eleganti, leggere e saettanti nel mare e nei fiumi del Pianeta che amiamo. E sono, nonostante la caccia che gli abbiamo dato per millenni, sulla cresta dell’onda, non solo in senso figurato. Se poi si pensa che i nostri antenati diretti cominciano a emergere dal magma del passato solo 2 milioni di anni fa per diventare l’Homo sapiens iniziale, si capisce quanto siamo distanti anche temporalmente da questi nostri cugini cetacei. Eppure, scrive Rauch, per quanto uomini e delfini si siano evoluti nell’ambito di due diverse solitudini, i delfini sono tra gli animali più amati nel corso della storia dell’umanità. Non come i cani e i gatti, ma poco ci manca; e solo perché non siamo noi stessi animali acquatici, anzi spesso temiamo l’acqua; questo ce li rende misteriosi, oltre che dei beniamini, soprattutto per i bambini.

 

A quale ordine appartengono i Delfini? Sono Cetacei, ovvero dei mammiferi marini, che dividono in due grandi specie: Misticeti e Odontoceti. Senza inoltrarci troppo in queste tassonomie, che hanno un loro indubbio fascino e che sono anche in grande movimento (le tradizionali classificazioni sono state messe in discussione dalla tassonomia cladistica e dalle tecniche molecolari), gli Odontoceti, cui appartengono i delfini, sono mammiferi d’acqua provvisti di denti e di un unico sfiatatoio e privi di fanoni come invece i Misticeti (si veda Hasoram Shirihai e Brett Jarret, Balene, delfini e foche, tr. it. di Melani Traini, Ricca editore). Esistono dieci famiglie e i Delfini Oceanici e gli Zifidi sono le più grandi per numero di specie; mentre il capodoglio, anche lui un Odontoceto, costituisce invec una famiglia a sé. Poi ci sono quelle dei Delfini di fiume: Beluga e Narvalo (2 specie), Focene (6 specie) e Delfini (più di 36 specie e 17 generi, e ogni anno se ne scoprono di nuove). La storia dell’evoluzione dei mammiferi è affascinante e sorprendente, come sa chi è appassionato di questi temi.

 

I primi mammiferi si sono evoluti da un gruppo di rettili chiamati Sinapsidi circa 125 milioni di anni fa (anche qui i cambiamenti di definizioni e le scoperte di fossili sono continue). I mammiferi hanno cinque principali caratteristiche: respirano aria, hanno una peluria sul corpo, che serve anche come elemento tattile (le vibrisse, ad esempio); hanno un cuore a quattro camere, che mantiene una temperatura costante in tutto il corpo; si riproducono attraverso una struttura placentare invece che usare l’uovo esterno, per cui partoriscono i piccoli vivi e completamente formati; allattano la prole con il latte prodotto dalle femmine attraverso le ghiandole mammarie. Per molti secoli i delfini sono stati considerati alternativamente pesci o mammiferi. Anche qui, senza entrare nei dettagli anatomici, sia le balene che i delfini sembrano senza peli, totalmente glabri, invece visti da vicino hanno follicoli peliferi e alcune specie persino dei baffi. Passando a vivere nell’acqua hanno trasformato nel corso di milioni di anni la loro forma per fare meno attrito possibile. Sotto la pelle hanno un tegumento, che è uno strato di grasso che contiene dei lipidi e collagene: una vera tuta isolante; così le ghiandole mammarie sono nascoste sui lati; mentre il pene è dentro il corpo ed esce durante l’accoppiamento attraverso una fessura. Rausch spiega nel suo saggio come fanno ad allattare i piccoli, come respirano e dove hanno l’ombelico. Tutte cose stupefacenti. Gli occhi poi sono un capolavoro.

 

Come riescono a vedere nell’acqua salata dato che non sono pesci? Sono anche in grado di mutare la forma normalmente piatta in sferica, così da avere una visione stereoscopica in avanti e di lato, e facendo sporgere leggermente gli occhi dalle orbite quando escono dall’acqua. Mentre tutti i mammiferi normalmente dormono chiudendo tutti gli occhi, i delfini hanno un occhio aperto nel sonno, e hanno la capacità di mettere in uno stato di riposo metà cervello alla volta, poiché a differenza degli altri mammiferi non respirano in modo automatico (in noi è il sistema nervoso detto vago a farci respirare in automatico mentre riposiamo addormentati). Insomma, sono pieni di sorprese per chi li ha studiati a lungo. Ma quanto sono intelligenti i delfini? La risposta non è facile, perché le loro capacità cognitive sono comprensibili dentro un contesto ambientale, ed è stato possibile studiarli solo in cattività, in una situazione in cui forse solo la loro fisiologia e anatomia è analizzabile in modo compiuto. L’oceano, scrive Rauch, non è uno spazio omogeneo, e zone d’acqua vicine sono spesso differenti, così come lo sono i territori di una regione: tra montagna e pianura c’è una bella differenza; le zone del mare sono diverse in termini di temperatura, salinità, effetti prodotti dalla profondità e altre variabili ancora. I delfini sono animali molto sociali; si spostano a branchi composti da 15 a 600 esemplari; la loro socialità è definita come “fissione-fusione”. Il gioco è una componente molto importante del loro comportamento, ed è questa la ragione che li fa molto amare dagli umani.

 

Uno degli aspetti che appare importante nel loro comportamento è la ecolocalizzazione, ovvero l’uso di suoni – i bisonar – con cui navigano nel mare. Solo a metà del Novecento uno zoologo, Donad Griffin, segnalò l’uso del sonar nei pipistrelli, per quanto il primo scienziato a sperimentarlo con cognizione fu Lazzaro Spallanzani nel Settecento, ma non fu preso in considerazione. Nel momento in cui Griffin stava per pubblicare le sue ricerche, altri studiosi si dedicavano agli ultrasuoni dei delfini: una scoperta recente. Con questi stessi mezzi comunicano tra loro all’interno del gruppo. Il sistema anatomico che produce i suoni fa capo alle cosiddette “labbra foniche”, che sono delle sacche poste nelle narici. Il fischio esce attraverso lo sfiatatoio mentre altri segnali sono emessi sotto forma di ecolocalizzazione. Il modo con cui li ricevono e ascoltano passa attraverso la mandibola inferiore, e giungono alla testa che è ben isolata; i suoni sono assorbiti da ogni orecchio separatamente. Qualcosa davvero di particolare e di molto raffinato e preciso. Il fatto fondamentale è che i delfini si muovono in un elemento, l’acqua, molto più denso dell’aria dove ci muoviamo noi, e quindi con una forte prospettiva tridimensionale. Questo ha fatto evolvere in questo modo la parte anteriore del loro corpo. L’uomo che ha più studiato questi aspetti dei delfini, sino a cercare di delineare una definizione del loro linguaggio, e insieme la possibilità di comunicare con gli umani, è John Cunnigam Lilly (1915-2001).

 

Questo neuroscienziato ha studiato fisica, medicina e informatica, e si è occupato delle capacità del cervello dei cetacei di sviluppare l’intelligenza e il linguaggio. Lilly, uomo ecclettico, si è occupato anche di psicoanalisi. I suoi primi esperimenti si svolsero intorno a un oggetto, una piccola piscina, detta “vasca di deprivazione sensoriale”, piena di acqua salata, dove le persone, lui stesso e i suoi collaboratori, potevano galleggiare varie ore isolati da tutti gli stimoli che il cervello poteva ricevere. Negli anni Cinquanta ha compiuto anche esperimenti con l’LSD, poi si è dedicato allo studio dei delfini. A San Thomas nelle Isole Vergini ha fondato il Communication Reasearch Institute, che aveva lo scopo di promuovere la comunicazione tra umani e cetacei, passando dalla metodologia di tipo scientifico fondata sul metodo quantitativo, a quella basata su esperienze qualitative. Lilly e i suoi aiutanti vivevano praticamente insieme ai delfini. Si tratta di una ricerca di tipo empatico in cui Konrad Lorenz è stato un pioniere, e poi anche Jane Goodall, che si è dedicata agli scimpanzé. Allora era sicuramente una novità e in particolare con un mammifero che vive in un ambiente molto diverso dal nostro. Lilly ha scritto due libri tradotti anche in italiano: La comunicazione tra l’uomo e il delfino (Cesco Ciapanna, Roma 1981) e L’intelligenza dei delfini (Iduna, Sesto San Giovanni 2018), dove è ricostruito il suo lavoro con questi meravigliosi abitanti del mare. Ha esaminato il meccanismo del sonno, poi le vocalizzazioni, quindi ha provato a insegnare ai delfini a imitare i suoni umani.

Nelle sue ricerche si convinse delle possibilità di comunicazione telepatiche tra uomini e animali. Per questo il suo lavoro pioneristico fu messo al bando dalla scienza ufficiale. Ci sono ben due film dedicati a lui, una figura carismatica e molto discussa negli anni Sessanta e Settanta: Il giorno del delfino (1973) con George C. Scott che interpreta Lilly e Stati di allucinazione (1980) con William Hurt nella parte di un personaggio ispirato al neuroscienziato, che nella pellicola usa droghe e le vasche di isolamento per i propri esperimenti. Dopo queste ricerche così eterodosse e ispirate alle trasformazioni culturali degli anni Cinquanta, la ricerca sui delfini è ritornata a standard più tradizionali e sul nome di Lilly è caduto un interdetto, per quanto i più noti studiosi, David e Melba Caldwell, autori di Cetology, la prima sintesi sul tema, fossero perfettamente a conoscenza delle esperienze del neuroscienziato americano. Alla fine dei suoi studi, Lilly, conscio che i delfini che studiava erano prigionieri di un ambiente chiuso, convinto che possedessero una intelligenza molto sviluppata, li liberò e chiuse il suo centro.

 

Non è l’unico che ha professato idee simili sui cetacei. Hal Whitehead, ricercatore marino, studioso delle balene, sostiene da tempo che l’area del cervello dei capodogli addetta ai processi mentali e sensoriali consci è molto estesa e che la neocorteccia, associata nei primati alla competenza sociale, appare notevolmente sviluppata. In Sperm Whales: Social Evolution in the Ocean (University of Chicago Press), pur in assenza di prove sperimentali, molto difficili da ottenere viste le condizioni in cui vivono questi cetacei, e per via delle loro dimensioni, sostiene che le balene possiedono una memoria ampia, e manifestano una propria cultura, ovvero che raccolgono informazioni attraverso le loro interazioni sociali, che usano per adattarsi all’ambiente marino così complesso. In più avrebbero sviluppato emozioni, concetti astratti e, a suo dire, persino una religione. Laurie Anderson, l’artista americana, ha dedicato una performance a Lilly nel 1995, dove parla di lui: “John Lilly, l’uomo che dice di saper parlare con i delfini, raccontò che era in un acquario e parlava con una grande balena che nuotava in tondo nella sua vasca. E la balena continuava a fargli domande telepaticamente. E una delle domande che la balena continuava a fargli era: in tutti gli oceani ci sono muri?”. La caccia alle balene ha segnato drammaticamente per questi cetacei la storia della stessa marineria europea e americana degli ultimi due secoli. “Pull my boys! Sperm, sperm’s the play!”, così urla Starbucks, il primo ufficiale del Pequod, ovvero “Vogate ragazzi! L’olio, l’olio è la posta!”, che può essere tradotto: “Tirate, ragazzi miei! Lo sperma, è lo sperma che conta!”. Moby Dick di Melville, pubblicato nel 1851 senza alcun successo in Gran Bretagna e Stati Uniti, rivela nelle parole del marinaio della nave maledetta il sottofondo taciuto della caccia a questo animale ancestrale, che solca i mari. La balena viene direttamente dalla Genesi, scrive Philip Hoare in Leviatano ovvero la balena (tr.it. di D. Sacchi e L. Civalleri, Einaudi), è “un mito del quinto giorno”, secondo la poetessa Mary Oliver, capace di inghiottire profeti come Giona e marinai come Sinbad: “simboleggia l’innocenza in tempi di pericolo”. Le prime tracce di questa creatura risalgono a 50 milioni di anni fa. Il cetaceo cacciato da Achab deriva dal Pakicetus, un quadrupede dalla corporatura volpina, cui seguirono le lontre gigantesche e altri generi di “balene ambulanti”.

 

La balena è stata scoperta da europei e americani nel 1712 quando è diventata oggetto delle nostre scorribande. Un animale degno dei mostri dell’Apocalisse, il libro che descrive gli ultimi giorni del mondo. La leggenda dei primi balenieri narra che la nave di Christopher Hussey, trascinata dal vento oltre i limiti della consueta pesca a Nantucket, scoprì in quell’anno il capodoglio e iniziò a predarlo. Fu Richard Owen, l’inventore del termine “dinosauro”, che vide per primo i resti di quella creatura che precedeva l’età adamitica, e che chiamò Zeuglodonte, “una delle creature più straordinarie che i mutamenti del globo avessero cancellato”. Da lì vengono le balene. Circa 35 milioni di anni fa pensarono bene di abbandonare gli archeoceti, destinati all’estinzione, e si divisero, come si è detto, in quei due rami dei Misticeti e degli Odontoceti. Nella moderna tassonomia dei mammiferi marini ci sono due grandi gruppi: Cetacea e Pinnipedi. Sono Misticeti le Balene franche, le Balenottere, la Balena grigia e la Caparea, mentre è un Odontoceto il Capodoglio, di cui esistono 3-4 specie diverse, un animale unico, a sé. Questo è l’oggetto della caccia senza fine di Achab. Possiede una forma bizzarra con una colossale testa squadrata così grande da contenere al suo interno perfino un’automobile; scende sino a 3 chilometri sotto la superficie dei mari sfruttando il suo organo degli spermaceti, oggetto del desiderio dei predatori, che lei usa come strumento di ecolocalizzazione nel buio; ha una organizzazione sociale molto complessa, paragonabile a quella umana, basata su fattori come l’età e il sesso. Come scrive Hoare, è stata la spinta idrostatica dei flussi oceanici ad aver consentito alle balene di evolvere sino a diventare i possenti animali che conosciamo. Nei mari del mondo gli Odontoceti si nutrono in modo classico usando i denti, mentre i Misticeti pascolano setacciando i loro bocconi che restano imprigionati dai fanoni.

 

Il capodoglio avvistato nel Settecento da Hussey è il più grande carnivoro esistente, più grande ancora di ogni dinosauro esistito e, seppur immerso nell’acqua, non beve mai. Nel corso di trecento anni d’implacabile inseguimento negli oceani e nelle acque artiche l’animale antidiluviano è stato quasi sterminato. Così come i cowboy di terra uccisero sessanta milioni di bisonti, i cowboy di mare con le loro navi-mattatoio hanno predato oltre settecentomila cetacei appartenenti alle diverse famiglie. Una storia cruenta che s’incentra su quel prezioso olio-sperma. Nel 1833 la filiera della pesca occupava settantamila uomini solo negli Stati Uniti e valeva settanta milioni di dollari; dieci anni dopo era il doppio. In quel periodo gli Stati Uniti esportavano in Europa quattro milioni di litri d’olio l’anno. Possiamo ritenere a ragione che la fortuna della Gran Bretagna imperiale si sia fondata su due cose: la tratta degli schiavi per lo zucchero e l’uccisione delle balene per l’olio. Londra, la città meglio illuminata del mondo, aveva nel Settecento cinquemila lampioni che bruciavano quel prezioso liquido. Il cetaceo più cacciato del globo è programmato per vivere a lungo – ha dieci battiti cardiaci al minuto – e si riproduce con molta lentezza: le femmine partoriscono un solo piccolo alla volta ogni quattro-sei anni e li nutrono per due anni con un latte che, come dice Ismaele in Moby Dick, è molto dolce e ricco e sarebbe perfetto accompagnato con le fragole. Le balene comunicano tra loro in modo complesso, si organizzano in clan e comunità, condividendo lingue e dialetti.

 

Decimando i più antichi capodogli della Terra, si chiede Hoare, cosa abbiamo perso? Una parte della memoria ancestrale del mondo, lingue sconosciute, codici semisconosciuti di comunicazione, un pezzo non più recuperabile della storia del nostro Pianeta che, da quando l’abitiamo noi, dall’età detta Antropocene, perde ogni giorno pezzi della propria fauna e flora. Al termine della sua caccia Achab scaglia l’arpione contro la Balena bianca: “Così! Lancio il lancione”. Ma la fune s’attorciglia intorno al suo collo e il capitano viene strappato dalla lancia. L’equipaggio lo vede inabissarsi avvinto al fianco bianco dell’animale. Questo torna indietro e affonda il Pequod. Le acque inghiottono tutti tranne Ismaele, affinché potesse tornare a raccontare il folle inseguimento della balena. Un’artista italiana, Claudia Losi, ha pubblicato di recente un libro, The whale theory (Johan&Levi), dedicato alla balena, dove racconta un suo progetto sviluppato nel corso degli anni, che contiene molte informazioni di ordine antropologico, oltre che scientifico, e interventi di vari studiosi di questo animale. Nella storia umana e nella mitologia i delfini appaiono invece come un simbolo decisamente positivo: emblema di libertà, gioia e gioco. Nelle leggende di molti popoli sono presentati come animali socievoli, a proprio agio con gli umani.

 

Di più, spesso sono nient’altro che esseri umani trasformati in cetacei da malefici o da incontri inattesi con divinità o esseri malvagi. Sembra che questi miti ripercorrano in forma figurata il passaggio dei loro antichi progenitori dalla Terra al Mare. Appaiono poi come creature magiche sovente collegate ad aspetti sessuali: possono trasformarsi a loro volta in esseri umani per sedurre le donne. La metamorfosi dei cetacei è un dato presente nelle storie dei popoli amerindi e del nord del Pianeta, dove i delfini appaiono nelle fantasie e nei sogni collettivi di queste popolazioni. Una delle prime raffigurazioni che conosciamo del delfino è nella civiltà minoica cretese nel Palazzo di Cnosso, che fu abitato tra il 1700 e il 1400 a.C.; qui sono presentati nel loro aspetto naturale, senza uomini che li cavalchino o presenze divine. Rappresentano spesso la perizia marittima delle navi prima greche e poi romane. Le storie più antiche nella mitologia greca riguardano l’oracolo di Delfi. Apollo, che con l’uccisione di un serpente si intitolò il tempio della città prima dedicato a Gaia, è detto in alcuni casi Delfinio. La parola “delfino” deriva dal greco delphys, che significa “utero”, perché probabilmente era già nota ai greci la prerogativa dei cetacei di partorire dal proprio utero piccoli vivi; esiste anche una connessione tra questo nome e il sesso femminile degli oracoli posti nei santuari, che elargivano risposte agli interrogativi dei pellegrini che vi si recavano. I delfini sono legati al tema del suono, segno che gli antichi avevano compreso il nesso tra loro e l’emissione di suoni misteriosi. Molte storie raccontano di esseri umani gettati in mare da navi o sbalzati fuori bordo per le tempeste, e salvati dai delfini.

 

Ancora nel 1999 un bambino cubano, sopravvissuto a un naufragio nel corso di un tentativo di fuga dall’isola raccontò ai suoi soccorritori di essere stato portato a riva dai delfini. Il mito continua ancora oggi ad alimentare fatti straordinari con i cetacei come protagonisti. Tutte queste storie sono un tentativo di “cogliere un aspetto della socievolezza, dell’intelligenza e di quell’agio apparentemente naturale esibito con gli esseri umani” (Rauch). Uno dei simboli più noti nell’arte della stampa è quello proposto nell’emblema di Aldo Manuzio, il grande editore veneziano, in cui compare un delfino intrecciato a un’ancora e associato a un motto, “Festina lente”, ovvero: “affrettati lentamente”. Questo stesso simbolo, forse non a caso, è stato scelto da Italo Calvino come proprio motto in una delle sue Lezioni americane. I delfini dunque non nuotano solo liberi negli oceani, ma abitano i nostri miti e costituiscono un’immagine positiva di prudenza, saggezza e agilità. Riusciremo a rispettarli e a non perseguitarli come hanno fatto nel passato le navi che cacciavano balene per i mari del mondo? Tra il 1972 e il 1994 sono stati catturati oltre 2000 delfini per rinchiuderli in acquari e vasche, destinati al divertimento del pubblico adulto e dei bambini. Ancora oggi nel mondo ci sono 200 oceanari che li ospitano, per lo più sono tursiopi e stenelle, così che ci sono oltre 1000 delfini in cattività. Un numero ancora troppo grande.


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