Da molto tempo si
sente un gran bisogno di accendere un dibattito sulla produttività dei boschi
in Sardegna, e sulla compatibilità di tale funzione con le altre più di
carattere ambientale, da quella idrogeologica a quella naturalistica. Già
trent’anni fa all’Università i docenti invitavano gli studenti a farsi
promotori nei confronti dei nascenti movimenti ambientalisti di una
diffusione della cultura forestale, cercando con tutta la delicatezza
necessaria di spiegare che la selvicoltura, eseguita secondo la scienza e
tecnica appresa dall’esperienza dei secoli passati e secondo le più recenti
metodologie dettate dalla selvicoltura naturalistica, è portatrice di sviluppo
economico, di presidio idrogeologico delle montagne, e che può, anzi deve,
conformarsi alle funzioni paesaggistiche e naturalistiche sempre più richieste
da parte di una società diventata nel frattempo più sensibile a tali tematiche.
Da tener presente che a quei tempi doveva ancora essere emanato il c.d.
Decreto Galasso che avrebbe attribuito ope legis una tutela paesaggistica a
tutti i boschi.
Rispetto
ad allora, sembra che non vi sia stata la capacità da parte del mondo
accademico, imprenditoriale, professionistico di spiegare ai profani
della materia la compatibilità tra utilizzazione economica e tutela delle
funzioni ecologiche dell’ecosistema boschivo, ma viceversa vi è stata semmai un
irrigidimento ulteriore da parte di quest’ultimi, al punto tale che addirittura
qualche settore politico ed economico ha attribuito al termine
“ambientalista” un significato dispregiativo, facendo torto a chiunque
abbia a cuore la conservazione della natura e un mondo migliore.
La
Sardegna, per quanto riguarda la questione forestale, è un caso particolare nel
panorama italiano. Particolare perché, a differenza delle altre regioni,
storicamente non si riconosce al bosco una funzione di produzione
legnosa. Le motivazioni possono ricondursi al fatto che le prevalenti specie
arboree nostrane come il leccio, la sughera, la roverella, mal si
adattano ad un utilizzo come legname da lavoro per la produzione di assortimenti
di maggior valore rispetto alla legna da ardere, con l’eccezione del castagno
che però ha un areale piuttosto ristretto. Altro motivo è riconducibile alla
convinzione di una scarsa produttività dei boschi dovuta a un regime climatico
mediterraneo con scarse precipitazioni, che limita le produzione. Essendo poi
la Sardegna una terra che ha da tempo immemore basato la sua economia
prevalentemente sulla pastorizia, al bosco si è sempre guardato come luogo da
pastura per gli armenti, in cui una selvicoltura razionale non può
trovare spazio perchè antagonista della pastorizia. Inoltre le vicende dello
sfruttamento forestale del secolo diciannovesimo, iniziato con la ricerca da
parte del regime sabaudo degli assortimenti adatti alla propria marineria, facendone
commercio anche con altre nazioni, continuato con lo sfruttamento per la
produzione delle traverse della nascente rete ferroviaria nazionale, e
protrattosi ancora successivamente con la produzione del carbone di legna,
produzione che è continuata fino alla fine della metà del secolo scorso, ha
determinato sostanzialmente un’avversione da parte della società sarda per ogni
ulteriore utilizzazione legnosa. Avversione alimentata anche dal fatto che lo
sfruttamento boschivo intensivo è stato condotto in prevalenza da società ed
imprenditori non isolani, coinvolgendo solo marginalmente maestranze ed operai
locali, non contribuendo pertanto un arricchimento reddituale ed un
accrescimento professionale della popolazione sarda. La mancanza di un’imprenditorialità
locale ha determinato anche il venir meno dell’interesse di pianificare le
utilizzazioni boschive affinchè i tagli si svolgessero con regolarità,
garantendo la continuità nel tempo dell’attività, presupposto di un sistema che
contemperi la rinnovazione del capitale boschivo nel corso del tempo. Non
essendo gli imprenditori esterni proprietari dei terreni, ma soltanto
acquirenti del soprassuolo, non avevano alcun interesse al mantenimento della
produttività degli stessi, ma viceversa l’interesse consisteva nel realizzare
nell’immediato il massimo profitto, con il conseguente successivo abbandono
delle terre sfruttate. Eccezione può farsi per le compagnie di sfruttamento
minerario, grandi consumatrici di legname per l’armamento delle gallerie e per
l’alimentazione dei forni di lavorazione del minerale. Infatti, lo sfruttamento
minerario è un’attività che si protrae per parecchio tempo, tant’è che si
esprime con il termine di “coltivazione mineraria”. Vi era pertanto l’interesse
a garantirsi nel tempo l’approvvigionamento degli assortimenti legnosi
necessari, e conseguentemente a regolamentare lo sfruttamento dei boschi in
maniera intelligente. Prova ne è per esempio la conservazione del bacino
forestale di Marganai, inserito nel più importante centro minerario della
Sardegna e di cui ancora oggi se ne apprezza la consistenza boschiva.
L’avversità
culturale all’utilizzazione boschiva è pertanto un retaggio storico degli
errori del passato. E ancora oggi dall’opinione pubblica viene precluso il
riconoscimento ai boschi sardi della produzione di beni primari, con
l’eccezione delle sugherete il cui assortimento commerciale è tuttavia un
prodotto secondario del bosco. Tale disconoscimento è largamente diffuso anche
nel mondo accademico e in parte dagli stessi operatori pubblici del settore.
Parlare di funzione produttiva primaria dei boschi sardi è diventato
praticamente un tabù, un sacrilegio.
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