lunedì 11 luglio 2011

Australia batte Europa

Il primo ministro australiano Julia Gillard ha reso pubblico domenica, in una conferenza stampa al parlamento australiano di Canberra, il piano del governo per tassare le aziende che producono più anidride carbonica a partire dal luglio 2012. Attualmente solo l’Unione Europea e la Nuova Zelanda impongono tasse a livello nazionale sulle emissioni di anidride carbonica (la cosiddetta “carbon tax”) e in passato i governi australiani hanno tentato inutilmente di far approvare un provvedimento simile in parlamento.

Il piano illustrato dal primo ministro prevede che, a partire dal 1 luglio 2012, le aziende che producono almeno 25.000 tonnellate di anidride carbonica all’anno siano tassate per circa 23 dollari australiani (più o meno 17 euro) per tonnellata. Secondo le analisi, il provvedimento riguarderà circa 500 aziende, ma diversi settori saranno esclusi dal provvedimento (come il settore agricolo) e altri riceveranno compensazioni per rendere più leggero l’impatto del provvedimento, come la produzione di acciaio ed energia elettrica e le miniere di carbone.

L’Australia ha una delle più alte quantità di gas serra emesse per abitante del mondo, complice il fatto che la sua produzione elettrica dipende dal carbone (di cui è tra i maggiori esportatori mondiali) per circa l’80%.

Il dibattito sulla “carbon tax” è molto vivo in Australia da diversi mesi. I critici fanno presente che i prezzi dei beni di consumo cresceranno di quasi l’1%, e i sondaggi mostrano che il 60% della popolazione è contraria al provvedimento: l’industria dell’energia e l’opposizione politica hanno protestato molto contro il nuovo piano, organizzando manifestazioni lo scorso marzo in tutte le maggiori città australiane. Il governo spera di riguadagnarsi la fiducia dei consumatori con un futuro aumento della spesa pubblica per il welfare e le pensioni, resa possibile dai soldi guadagnati dalla tassa sulle emissioni…

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…il Parlamento Europeo in seduta plenaria si è espresso negativamente sulla proposta di innalzamento dell’obiettivo prefissato del taglio delle emissioni di gas serra per il 2020, che si intendeva portare dal 20 al 30%, rispetto ai livelli del 1990, entro la fine del decennio. “Favorirebbe la crescita economica e creerebbe nuovi posti di lavoro” aveva affermato alla vigilia del voto il deputato Verde dei Paesi Bassi Bas Eikhout, relatore del rapporto in Commissione Ambiente “e poi minor spesa per l’importazione di energia e miglioramento della salute”.
Tra coloro che spingevano per l’ulteriore riduzione, oltre a Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Portogallo, Spagna, Svezia e Regno Unito (nonostante la rivolta interna di molti tories per le politiche ambientaliste del “greenest government ever” di David Cameron) anche grandi multinazionali: Coca Cola, Sony, Nike, Google, IKEA, Barilla, Electrolux, Vodafone e altre 64 aziende di primo piano.

Tra gli oppositori, la Polonia, (la cui contrarietà sembra aver giocato un ruolo importante) che dal 1° Luglio ha assunto la presidenza semestrale dell’UE e che dipende per quasi la totalità del suo fabbisogno energetico dal carbone (oltre 90%). Janusz Lewandowski, Commissario polacco al Bilancio dell’UE, in un’intervista ad un giornale del suo paese aveva espresso le proprie perplessità riguardo le responsabilità del carbone come principale causa dell’effetto serra abbracciando posizioni negazioniste sul riscaldamento globale.
Nonostante ciò la Polonia sta cercando di rispettare gli impegni presi in sede europea diversificando le fonti di produzione dell’energia attraverso il rilancio del programma nucleare (abbandonato dopo Chernobyl e la caduta del muro di Berlino), che diverrà operativo praticamente in concomitanza con la chiusura degli impianti tedeschi, e che non sta incontrando particolari resistenze nell’opinione pubblica polacca.

Ma che l’obiettivo del 30% fosse troppo ambizioso lo pensava anche il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, che a maggio con una lettera aveva invitato i parlamentari italiani a Bruxelles a non votare a favore dell’aumento dei tagli alle emissioni di gas serra. Chi si opponeva affermava che questo avrebbe comportato maggiori costi e avrebbe fatto fuggire le industrie verso quei paesi in cui non esiste una legislazione stringente in tema d’ambiente…

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