lunedì 28 ottobre 2024

Desertificazione commerciale in Italia: chiusi 140mila negozi in 10 anni

  

Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha visto scomparire oltre 140.000 attività al dettaglio, di cui quasi 46.500 appartenevano al commercio di vicinato, con una perdita significativa per migliaia di comunità locali.

Questa progressiva desertificazione commerciale sta trasformando il tessuto sociale di intere aree del paese, lasciando più di 26 milioni di italiani senza accesso immediato a beni di prima necessità e servizi di base come alimentari, edicole, bar e distributori di carburante.

Secondo i dati presentati nel dossier “Commercio e servizi: le oasi nei centri urbani”, elaborato da Confesercenti e discusso ieri a Roma alla presenza del Ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, il fenomeno interessa in particolare i comuni più piccoli e rurali. Sono oltre 5.653 i comuni colpiti, e quelli con meno di 15.000 abitanti sono i più esposti a questa emorragia di attività: in molte aree, la popolazione è ora costretta a percorrere chilometri per trovare prodotti di uso quotidiano, un disagio che aumenta le difficoltà di chi vive in contesti già svantaggiati.

Tra i settori più colpiti c’è quello alimentare, dove i numeri raccontano una realtà difficile per milioni di italiani. La chiusura delle panetterie ha lasciato senza pane fresco 3,8 milioni di persone in 565 comuni, e per altre categorie alimentari la situazione è simile: 3 milioni di cittadini non trovano più un negozio di bevande, 2,3 milioni non hanno una pescheria, 2,1 milioni hanno perso l’accesso a negozi di frutta e verdura e 1,6 milioni devono rinunciare a una macelleria nel proprio comune.

 

La desertificazione non riguarda però solo l’alimentare: l’abbigliamento e i beni non alimentari seguono un trend altrettanto critico. In molte aree, 3,2 milioni di italiani non hanno un negozio di biancheria vicino, 3,1 milioni devono spostarsi per acquistare vestiti per bambini e 1,2 milioni hanno perso l’accesso a un negozio di abbigliamento per adulti.

Anche l’elettronica e le librerie stanno scomparendo, lasciando milioni di italiani senza possibilità di acquisto nel proprio comune. A peggiorare la situazione contribuiscono la chiusura di numerose edicole e empori locali, con un impatto sulla vita quotidiana e sull’accesso alla cultura e all’informazione.

Infine, la riduzione dei servizi di vicinato colpisce anche attività come parrucchieri e bar, che rappresentano non solo servizi, ma veri e propri luoghi di aggregazione e socialità nelle comunità locali.

In 273 comuni, parrucchieri e barbieri hanno chiuso, mentre i bar sono scomparsi in 246 comuni, lasciando quasi 150.000 persone senza un punto di incontro tradizionale, in particolare nei piccoli centri sotto i 5.000 abitanti.

Questi dati dipingono il ritratto di un’Italia dove la vita nei piccoli borghi diventa ogni giorno più difficile, evidenziando il crescente rischio di un paese in cui i servizi essenziali sono sempre più limitati e le aree interne sempre più isolate.
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martedì 22 ottobre 2024

Traffico di organi: vendere un rene per raggiungere l’Europa – Sara Pierri

  

Il traffico di organi è un fenomeno sommerso che prospera sulle fragilità di migranti e rifugiati. Ogni anno, migliaia di persone sono costrette a vendere parte del loro corpo per cercare di sfuggire a violenze e povertà. Un reportage restituisce loro la voce e getta luce sulle reti criminali che traggono profitto da questo mercato oscuro.

Il traffico di organi è un business globale

Dal 1987, la compravendita di organi è vietata in tutti i paesi del mondo, ad eccezione dell’Iran. Tuttavia, lo sfruttamento delle persone più vulnerabili continua a far crescere questo mercato illegale. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, fino al 10% dei trapianti a livello globale avviene illegalmente, un dato che potrebbe essere ancora più alto, vista la difficoltà nel denunciare tali crimini.
La crescente domanda di organi, specialmente reni, con circa il 10% della popolazione mondiale affetta da malattie renali, si scontra con una carenza cronica di donazioni altruistiche e un sistema sanitario sempre più inefficace. Per soddisfare la domanda di trapianti ne servirebbero 15 milioni ogni anno. Di conseguenza, molti pazienti in Nord America, Europa e nei paesi del Golfo cercano alternative nel mercato nero, alimentando un traffico che genera oltre 
un miliardo di dollari l’anno. Questo rende il traffico di organi uno dei business illegali più remunerativi.

Dalle cliniche all’ombra del mondo: dove avviene il traffico

I principali centri del traffico di organi si trovano in paesi come Pakistan, Egitto, Bangladesh e Cina, ma la rete si estende su tutto il continente africano e asiatico. Qui, migranti disperati e in fuga da guerre e povertà vengono attirati dalle promesse di facili guadagni. Sono vittime perfette a causa del loro stato precario di richiedenti asilo, rifugiati o migranti senza documenti e spesso vengono doppiamente ingannati non ricevendo il compenso pattuito. Le storie di coloro che sono stati costretti a vendere parte del proprio corpo per sopravvivere sono un grido d’aiuto che spesso rimane inascoltato.

 

Le voci dei protagonisti

Seán Columb è un docente di legge all’università di Liverpool, specializzato in crimini transnazionali. Da anni si occupa di traffico di organi e le sue investigazioni sono state pubblicate dai maggiori media mondiali. Nel suo ultimo reportage intitolato “For me, there was no other choice’: inside the global illegal organ trade” (Per me non c’era altra scelta: dentro il commercio illegale globale di organi), pubblicato dal Guardian, racconta le storie di chi, ormai rimasto senza speranze, è caduto nella rete del traffico di organi. I nomi sono di fantasia.

Yonas: il prezzo della libertà

Yonas viene dall’Eritrea, lì ha lasciato la sua famiglia, che spera di aiutare una volta raggiunta l’Europa. Ci ha già provato tre volte: una volta passando dall’Egitto, due dalla Libia. Tutte le volte gli è andata male. È stato arrestato e costretto a pagare per essere rilasciato, nel deserto, sperando di non essere catturato di nuovo. I centri di detenzione per migranti, finanziati dall’Unione Europea, sono luoghi di tortura e sfruttamento. I detenuti sono privi di protezione legale e la loro unica via d’uscita consiste nel pagare ricche tangenti alle guardie.

Così Yonas si è ritrovato ad annegare nei debiti. L’unica soluzione rimasta a disposizione quella di vendere una parte di sé. È al Cairo, cerca lavoro ma non riesce a trovarlo, i suoi debiti aumentano e gli usurai minacciano ritorsioni. È a quel punto che un uomo sudanese lo avvicina, gli racconta di un modo “facile” per fare un sacco di soldi, 10 mila dollari. Una cifra che gli permetterebbe di pagare i suoi debiti e di raggiungere l’Italia per trovare finalmente un lavoro in grado di aiutare la sua famiglia.

L’operazione avviene in una clinica di Alessandria, Yonas viene buttato fuori appena si risveglia, due pastiglie di antidolorifico e via, verso un appartamento al Cairo in cui dovrà stare due settimane per la convalescenza lontana da occhi indiscreti. Invece della cifra pattuita gli vengono consegnati solo 6 mila dollari, può ripagare i suoi debiti ma non può pagare la traversata verso l’Italia. Non può denunciare perché non ha i documenti e rischia l’arresto per aver venduto i suoi organi.

Hakim: il procacciatore

Accanto ai migranti, anche coloro che operano dietro le quinte del traffico di organi vivono in una realtà complessa. Hakim è un procacciatore. Si occupa di trovare i donatori e metterli in contatto con i trafficanti. Alla domanda se si sente mai in colpa per quello che fa risponde che sì, gli dispiace per quelle persone, ma si giustifica dicendo che almeno lui paga sempre i suoi “fornitori”, il 40% dei trafficanti non lo fa. Si considerano dei semplici fornitori di servizi, degli intermediari, che alla fine dei conti salvano pure le vite di chi, quell’organo, lo riceve.

Se non ci fossero medici disposti a fare operazioni illegali, il traffico di organi non esisterebbe. Se c’è qualcuno da incolpare, secondo i trafficanti, sono i dottori corrotti e chi è disposto a pagare fino a 200 mila dollari per un trapianto illegale.

Il giro d’affari di Hakim è aumentato con la guerra civile in Sudan, che ha prodotto 10 milioni di sfollati in disperato bisogno di assistenza umanitaria. Molti cadono nella rete del traffico di organi pur di arrivare in Libia, o per attraversare il Mediterraneo passando dall’Egitto.

Hiba: il dramma delle donne

Hiba è una madre single del Sudan, ha venduto un rene in Egitto per provvedere a sua figlia. Dei 10 mila dollari promessi ne ha ricevuto solo 4 mila, ma non può denunciare perché rischia di essere arrestata. I trafficanti ne sono consapevoli e approfittano della vulnerabilità delle persone che fuggono dalla guerra e dalla fame. Spesso stringono accordi con le guardie di frontiera, che permettono il passaggio ai migranti solo per farli finire nelle mani dei procacciatori al di là del confine. Per le donne spesso la scelta per lasciare il paese è tra l’essere violentate o vendere un rene.

Le sponde opposte delle migrazioni

I racconti di Yonas e Hiba si scontrano con la percezione sempre più distorta che si diffonde nei paesi occidentali. Nella parte ricca del mondo, il discorso sui flussi migratori viene incanalato in un’ottica securitaria, in cui la priorità è proteggere i confini e garantire la sicurezza interna. Le discussioni pubbliche si polarizzano tra chi vede la migrazione come una minaccia e chi la inquadra in termini di giustizia o solidarietà.

Tuttavia, la realtà è ben diversa per chi si trova dall’altra parte. Quella sfruttata e dimenticata, quella mutilata dalle guerre, affamata dalle crescenti disparità di ricchezza, quella che subisce per prima le conseguenze della crisi climatica causata dall’altra parte. Per queste persone la migrazione è l’ultima speranza.

“Basta che restino nel loro paese” è la versione base di decine di varianti che sentiamo dalle persone intorno a noi. Dai nostri vicini spaventati da un fantomatico aumento dei crimini, dallo zio un po’ razzista caduto nella rete della propaganda, dai commenti sui social network sotto l’ennesima notizia di una barca affondata.

Persone che ignorano, volutamente o meno, che attraversare quel mare, ormai definito il più grande cimitero d’Europa, non è una scelta. Non è paragonabile a quella dei giovani che lasciano il proprio paese europeo per essere pagati meglio in un altro, non è paragonabile a quella dei “cervelli in fuga”, non è paragonabile a quella dei pensionati alla ricerca di luoghi caldi. Guai a chiamarli migranti, loro sono expat! Yonas e Hiba non hanno scelto di vendere i loro organi per desiderio, ma perché è l’unico modo che hanno trovato per sopravvivere e dare una possibilità di futuro alle loro famiglie.

Ogni volta che sento quel “basta che restino nel loro paese” penso a David Foster Wallace. Nel suo romanzo Infinite Jest, l’autore paragona la decisione di suicidarsi al salto da un edificio in fiamme: non si tratta di un desiderio di morire, ma di sfuggire a un terrore più grande, quello delle fiamme. Per chi osserva da fuori, la caduta appare incomprensibile; tuttavia, solo chi è intrappolato può comprendere l’insopportabile agonia delle fiamme. Pochi anni dopo, questa riflessione si rivelò profetica. L’undici settembre 2001 decine di persone scelsero di buttarsi dalle finestre delle Torri Gemelle. Non perché volessero morire, ma perché le fiamme erano più terrificanti della caduta.

Allo stesso modo, per molti migranti come Yonas e Hiba, non è la traversata pericolosa, o la vendita di un rene, il terrore maggiore. Per loro quelle fiamme arrivano da ogni direzione. Sono la guerra, la povertà, la fame e la violenza che li circondano. Attraversare il mare o vendere una parte di sé diventa l’unica via di fuga. Il minimo che potremmo fare, in questa parte di mondo, è cercare di capire quanto sia bruciante quel terrore.

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domenica 20 ottobre 2024

Afghanistan: azzerata la produzione dell'oppio - Francesco Corrado

 

La notizia, confermata ufficialmente, è che in Afghanistan i talebani hanno azzerato la produzione di oppio. Per la seconda volta. La cosa si era verificata già nel 2001. Per la precisione la produzione era scesa del 94% rimanendo la produzione residua solo nel territorio del nord sottratto al controllo dei talebani; l'avvenimento aveva ottenuto grande pubblicità ed il lavoro fatto era stato riconosciuto dalle Nazioni Unite. Venne definito da esperti del settore come l'evento più drammatico nella storia del contrabbando di narcotici. Nel 2001 i talebani, una volta ottenuta la vittoria nella guerra civile contro i mujaheddin, guadagnato il controllo su quasi tutto il territorio dell'Afghanistan, hanno messo fuori legge la produzione di oppio che in quel paese era stata rampante dagli anni '80, quando CIA e servizi britannici ne introdussero la coltivazione in larga scala per aiutare i mujaheddin che combattevano contro i russi. Infatti l'uso del commercio di stupefacenti per sostenere conflitti non dichiarati né finanziati regolarmente, è una costante della politica dei paesi occidentali USA in testa, tanto che la geopolitica del narcotraffico segue pedissequamente quella dei conflitti.

Per chi non si fosse mai addentrato nella materia, ricordiamo che furono certamente i francesi ad inaugurare questa modalità operativa durante la guerra di Indocina (cioè la guerra del Vietnam francese) degli anni '50. Per conquistare la fiducia di alcune popolazioni locali e al fine di poterle usare nella guerra, i francesi proposero agli alleati locai di coltivare oppio il cui raccolto sarebbe stato comprato in blocco, al fine di migliorare le condizioni economiche delle tribù coinvolte. Il terminale delle spedizioni di oppio era la Francia dove si raffinava per poi vendere l'eroina nel resto dell'occidente. L'organizzazione criminale che aveva il quasi monopolio del commercio dell'eroina era la famosa mafia marsigliese o corsa, cui di fatto venne garantita impunità, e che in quegli anni divenne celebre in tutto il mondo. I sui elementi di spicco, di fatto, erano quasi tutti corsi ma di stanza a Marsiglia.

All'inizio degli anni '60, dopo la resa dei francesi e con l'arrivo degli americani in Vietnam, il commercio continuò ed aumentò di volume. A cambiare, inoltre, fu il terminale occidentale dell'oppio prodotto in Indocina: non più i marsigliesi ma la mafia siciliana. Così, mentre la criminalità francese veniva sbaragliata in quanto non più utile al progetto geopolitico, a diventare protagonista della scena fu la Sicilia. Nelle raffinerie siciliane, alcune delle quali erano enormi, grazie anche al lavoro di "tecnici" che avevano lavorato per i marsigliesi, si lavorava l'oppio per ottenere l'eroina che finiva sul mercato europeo ma soprattutto americano.

Questa era la dinamica del sistema della droga, che portò alla nascita di un commercio poi scoperto negli anni '80 dalla mega azione giudiziaria condotta da FBI, magistratura italiana (giudici Falcone, Sciacchitano) ed elvetica, nota come Pizza Connection, che in Italia confluì nel Maxiprocesso a Cosa Nostra. In quegli anni, siamo nei '60, la produzione di oppio in Afghanistan era risibile: qualche tonnellata. Era l'Indocina a farla da padrona. Tutto cambia quando, a causa dell'intervento sovietico in Afghanistan, gli USA si inseriscono nella vicenda finanziando i mujaheddin. Anche in quel caso il parlamento statunitense non finanziò la guerra occulta degli USA che, per sostenere i mujaheddin, incentivarono alla coltivazione di oppio fornendo anche assistenza di carattere agronomico. Così l'Afghanistan divenne il principale produttore mondiale di oppio e poi, una volta dotatosi delle raffinerie, di eroina. 

 

Alla luce delle loro idee religiose e politiche i talebani hanno sempre avversato la produzione ed il consumo di droghe, che peraltro nel paese erano diventati un problema serio. Infatti, dopo la guerra contro l'Unione Sovietica, i vari gruppi di mujaheddin, dediti al narcotraffico, sono rimasti nel paese comportandosi come dei gangster. Questi guerriglieri che mantenevano la propria milizia col narcotraffico sono stati proprio l'obiettivo dei talebani che, per quanto possano sembrare deliranti, certamente hanno cercato di sottrarre l'Afghanistan all'arbitrio delle bande armate. Così, come detto sopra, una volta preso il possesso di quasi tutto il paese eliminarono la coltivazione del papavero che rimase concentrata solo nel nord, nelle mani della cosiddetta Alleanza del Nord: signori della guerra che campavano di narcotraffico.

Quando si trattò di invadere l'Afghanistan, prima che arrivassero gli eserciti, esponenti della CIA e della Delta Force, ma non solo,  presero immediatamente contatto coi signori della guerra dell'Alleanza del Nord.

Quindi ricapitoliamo: nell'estate 2001 l'operazione di estirpamento dell'oppio ad opera dei talebani venne considerata compiuta, però 5 mesi dopo, gli USA invasero il paese e subito la produzione di oppio riprese. E riprese a ritmi vertiginosi tanto che nel 2005 l'Afghanistan era tornato ad essere il più grande produttore al mondo di oppio/eroina e nel 2010 produceva il 90% dell'oppio mondiale (wikipedia) quindi da solo produceva nove volte più oppio del resto del mondo messo insieme. Negli anni successivi si è arrivati ad un parossismo senza precedenti nella storia del narcotraffico: ricordando che il rapporto tra oppio ed eroina è di 10 a 1, cioè ci vogliono 10 kg di oppio per fare 1 kg di eroina, l'Afghanistan è arrivato a produrre oltre 1.000 tonnellate di eroina, non oppio, ma eroina, con il Messico secondo produttore con  appena 50 tonnellate, la Colombia terza con 20 e la Birmania quarta con meno di 2 tonnellate annue. Addirittura si è stimato che la produzione afghana fosse il doppio del fabbisogno mondiale.

Una volta che gli USA hanno creato il nuovo stato afgano, il presidente Karzai, marionetta nelle mani degli USA, come uno dei primi atti di governo, ha legalizzato la coltivazione di oppio. Tutto questo mentre sui media mainstream si ripetevano menzogne a proposito del lavoro fatto dalle forze armate occidentali per debellare la coltivazione di oppio. Nel 2018 lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, cioè l'autorità preposta dal governo USA per la ricostruzione dell'Afghanistan, ha pubblicato un rapporto sulla storia recente del narcotraffico in Afghanistan in cui ha dichiarato che non è mai esistita una sola prova che i talebani abbiano trafficato in narcotici né che ne abbiano approfittato in modo indiretto in forma di tassazione o simili. 

Il giornalista Seth Harp, dopo un approfondito lavoro di indagine, che ha portato alla pubblicazione di un libro in materia, afferma: "Il governo afghano sostenuto dagli USA era, a tutti i livelli ed in tutte le regioni del paese, o direttamente implicato nella produzione dell'oppio o ne traeva profitto in termini di tassazione o di estorsione. Tutti i signori della guerra locali che hanno appoggiato il governo di Karzai prima e quello di Afghani poi, erano noti trafficanti." E il buon Harp, nel suo libro, di nomi e cognomi ne fa a bizzeffe a partire dai parenti di Karzai per continuare coi ministri del suo governo e di quello successivo e continuando coi vari signori della guerra che hanno appoggiato gli USA nella campagna militare di Afghanistan. 

I dati economici ci dicono che l'oppio durante l'occupazione americana era, come fatturato, la prima attività economica del paese. Ed infatti lo US Institute of Peace, che è un ente finanziato dal Congresso USA, ha criticato la scelta dei talebani di eliminare (per la seconda volta) l'oppio, perché questa scelta precipiterà il paese in una crisi economica durissima. A dire cose simili  sono stati anche accademici afghani. 

Che dire? La storia della guerra in Afghanistan verrà scritta dagli storici come è giusto che sia. Dipaneranno le molteplici menzogne su cui si è basata, non ultima quella che dipingeva i talebani come narcos accaniti. Chiunque abbia seguito le vicende storiche degli ultimi 80 anni sa che molti governi occidentali hanno collaborato attivamente con le organizzazioni criminali coinvolte nel narcotraffico, dando loro protezione; ne sappiamo qualcosa in Italia. La cosa ha riguardato non solo l'Asia e la geopolitica dell'eroina ma anche il Sudamerica e la geopolitica della cocaina: vale per tutti l'esempio dell'epidemia di crack negli USA, causata dalla protezione garantita ai narcotrafficanti di coca che finanziavano i contras. 

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venerdì 18 ottobre 2024

Fast fashion: ogni settimana 15 milioni di vestiti usati soffocano il Ghana (e c’entra anche l’Italia) - Giuseppe Ungherese

  

Il fast fashion è all’origine di un disastro ambientale e di salute pubblica che si sta verificando ad Accra, in Ghana, a causa dei crescenti volumi di esportazioni di indumenti di seconda mano che provengono dai Paesi del Nord globale (Italia inclusa). A rivelarlo è il nuovo rapporto di Greenpeace Africa e Greenpeace Germania intitolato “Fast Fashion, Slow Poison: The Toxic Textile Crisis in Ghana”, risultato di un’investigazione durata mesi. 

Il documento mette in luce le conseguenze disastrose del fast fashion, un modello di produzione basato sulla sovrapproduzione di capi a basso costo e consumo rapido che finisce per inquinare in modo massiccio questo Paese dell’Africa occidentale. 

Per avere una misura del problema basta pensare a Kantamanto, il secondo mercato di abiti usati più grande del Ghana, che accoglie ogni settimana circa 15 milioni di vestiti (quasi tutti capi di fast fashion) provenienti soprattutto dal Nord del mondo. Purtroppo, quasi la metà di questi capi non trova acquirenti e si accumula nelle discariche, contribuendo a una crisi ambientale senza precedenti. E l’Italia ha un ruolo in tutto questo.

Il ruolo dell’Italia nell’export di abiti usati

Il Ghana è la seconda destinazione per l’importazione di abiti usati dall’Europa, e l’Italia risulta tra i maggiori esportatori mondiali. Con quasi 200 mila tonnellate di vestiti inviati nel 2022, il nostro Paese si posiziona al nono posto a livello globale e terzo in Europa, dietro a Belgio e Germania

Molti dei capi inviati appartengono a marchi di fast fashion noti come H&M, Zara e Primark, mentre brand emergenti come SHEIN si stanno rapidamente aggiungendo alla lista. Questi abiti, in gran parte invendibili, non solo non trovano nuova vita, ma finiscono spesso in discariche illegali o vengono bruciati, con gravi conseguenze per l’ambiente e la salute delle comunità locali.

 

Gli impatti del fast fashion sulla salute e sull’ambiente sono devastanti

La gestione inadeguata dei vestiti usati in Ghana sta innescando una vera e propria emergenza sanitaria. Nei lavatoi pubblici dell’insediamento di Old Fadama ad Accra, Greenpeace ha rilevato livelli preoccupanti di sostanze tossiche nell’aria, tra cui il benzene e altri idrocarburi cancerogeni. Questa contaminazione mette a rischio la vita delle persone che vivono in prossimità di queste zone e contribuisce all’inquinamento del suolo e delle acque. Oltre alla questione chimica, un altro problema è l’abbondanza di fibre sintetiche, come il poliestere, presente in circa il 90% dei capi analizzati. Queste fibre rilasciano microplastiche, inquinando fiumi e mari e trasformando intere coste in vere e proprie “spiagge di plastica”.

 

Una crisi dai contorni neocoloniali

Secondo Sam Quashie-Idun, autore del rapporto di Greenpeace, la situazione del Ghana è un chiaro esempio di squilibrio globale. Le nazioni ricche del Nord del mondo, attraverso l’eccesso di produzione e lo smaltimento di indumenti di scarsa qualità, stanno di fatto trasferendo i loro rifiuti in Paesi più poveri come il Ghana. Questo riflette una mentalità neocoloniale, in cui i benefici economici restano concentrati nelle mani delle grandi aziende, mentre le popolazioni del Sud del mondo ne pagano il prezzo in termini di salute e degrado ambientale. Quashie-Idun sottolinea la necessità di un trattato internazionale che metta fine a questa ingiustizia e tuteli le comunità più colpite.

 

Per fermare l’inquinamento causato dal fast fashion servono azioni urgenti e mirate

Affrontare la crisi del fast fashion significa innanzitutto vietare l’importazione di indumenti non riutilizzabili, limitando le importazioni ai soli capi che possano davvero avere una seconda vita. 

Inoltre, è fondamentale che le grandi aziende di moda si assumano la responsabilità dell’intero ciclo di vita dei loro prodotti, comprese le fasi di smaltimento e riciclo, tramite un sistema di “Responsabilità estesa del produttore” (EPR) a livello globale. 

Infine, per contrastare il problema in modo duraturo, la comunità internazionale dovrebbe sostenere lo sviluppo di un’industria tessile sostenibile in Ghana, creando nuove opportunità economiche per il Paese e limitando la dipendenza dall’importazione di abiti di seconda mano.

La sfida è complessa, ma un cambiamento radicale è possibile. Solo con una cooperazione globale e un’azione decisa si potrà porre fine all’impatto devastante del fast fashion in Ghana, tutelando ambiente e comunità.

Basta fast fashion, è tempo di una moda responsabile!

Chiedi insieme a noi un’azione immediata per porre fine al fast fashion e promuovere un’industria tessile a misura di pianeta.

FIRMA LA PETIZIONE

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mercoledì 16 ottobre 2024

A Gaza crimini oltre ogni comprensione: lettera di 99 medici americani

 

Cari Presidente Biden e Vicepresidente Harris,

Siamo 99 medici, chirurghi, infermieri specializzati, infermiere e ostetriche americani che hanno fatto volontariato nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre 2023. In totale, abbiamo trascorso 254 settimane di volontariato negli ospedali e nelle cliniche di Gaza. Abbiamo lavorato con varie organizzazioni non governative e con l’Organizzazione mondiale della sanità in ospedali e cliniche in tutta la Striscia. Oltre alla nostra competenza medica e chirurgica, molti di noi hanno un background in sanità pubblica, nonché esperienza di lavoro in zone umanitarie e di conflitto, tra cui l’Ucraina durante la brutale invasione russa. Alcuni di noi sono veterani e riservisti. Siamo un gruppo multireligioso e multietnico. Nessuno di noi sostiene gli orrori commessi il 7 ottobre da gruppi armati e individui palestinesi in Israele. La Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità afferma: «La salute di tutti i popoli è fondamentale per il raggiungimento della pace e della sicurezza e dipende dalla più completa cooperazione di individui e Stati». È con questo spirito che vi scriviamo in questa lettera aperta.

Siamo tra i soli osservatori neutrali a cui è stato permesso di entrare nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre. Data la nostra vasta competenza e l’esperienza diretta di lavoro in tutta Gaza, siamo in una posizione unica per commentare diverse questioni di importanza per il nostro Governo mentre decide se continuare a sostenere l’attacco e l’assedio di Israele nella Striscia di Gaza. In particolare, crediamo di essere ben posizionati per commentare l’enorme tributo umano dell’attacco di Israele a Gaza, in particolare il tributo che hanno pagato donne e bambini. Questa lettera raccoglie e riassume le nostre esperienze e osservazioni dirette a Gaza. La lettera è accompagnata da un’appendice dettagliata che riassume le informazioni disponibili al pubblico da fonti mediatiche, umanitarie e accademiche su aspetti chiave dell’invasione di Gaza da parte di Israele. Sia questa lettera che l’appendice sono disponibili elettronicamente su GazaHealthcareLetters.org. Questo sito web ospita anche lettere di operatori sanitari canadesi e britannici ai rispettivi governi, che fanno molte osservazioni simili a quelle qui contenute. Questa lettera e l’appendice mostrano prove evidenti che il bilancio delle vittime a Gaza da ottobre è molto più alto di quanto si creda negli Stati Uniti. È probabile che il bilancio delle vittime di questo conflitto sia già superiore a 118.908, uno sbalorditivo 5,4% della popolazione di Gaza. Il nostro Governo deve agire immediatamente per prevenire una catastrofe ancora peggiore di quella che è già capitata alla popolazione di Gaza e Israele. Un cessate il fuoco deve essere imposto alle parti in guerra, negando il supporto militare a Israele e sostenendo un embargo internazionale sulle armi a Israele e a tutti i gruppi armati palestinesi. Crediamo che il nostro Governo sia obbligato a farlo, sia in base alla legge americana che al diritto umanitario internazionale. Crediamo anche che sia la cosa giusta da fare.

«Non ho mai visto ferite così orribili, su così vasta scala, con così poche risorse. Le nostre bombe stanno falciando donne e bambini a migliaia. I loro corpi mutilati sono un monumento alla crudeltà» (dott. Feroze Sidhwa, chirurgo traumatologico e di terapia intensiva, chirurgo generale del Veterans Affairs). Con solo marginali eccezioni, tutti a Gaza sono malati, feriti o entrambi. Ciò include ogni operatore umanitario nazionale, ogni volontario internazionale e probabilmente ogni ostaggio israeliano: ogni uomo, donna e bambino. Mentre lavoravamo a Gaza abbiamo visto una malnutrizione diffusa nei nostri pazienti e nei nostri colleghi sanitari palestinesi. Ognuno di noi ha perso peso rapidamente a Gaza nonostante avesse un accesso privilegiato al cibo e avesse portato con sé il proprio cibo supplementare ricco di nutrienti. Abbiamo prove fotografiche di malnutrizione pericolosa per la vita nei nostri pazienti, in particolare nei bambini, che siamo ansiosi di condividere con voi. Praticamente ogni bambino di età inferiore ai cinque anni che abbiamo incontrato, sia dentro che fuori dall’ospedale, aveva sia tosse che diarrea acquosa. Abbiamo riscontrato casi di ittero (che indicano un’infezione da epatite A in tali condizioni) in quasi tutte le stanze degli ospedali in cui abbiamo prestato servizio e in molti dei nostri colleghi sanitari a Gaza. Una percentuale sorprendentemente alta delle nostre incisioni chirurgiche si è infettata a causa della combinazione di malnutrizione, condizioni operatorie impossibili, mancanza di forniture igieniche di base come il sapone e mancanza di forniture chirurgiche e farmaci, compresi gli antibiotici. La malnutrizione ha portato ad aborti spontanei diffusi, neonati sottopeso e all’incapacità delle neo mamme di allattare al seno. Ciò ha lasciato i loro neonati ad alto rischio di morte data la mancanza di accesso all’acqua potabile in qualsiasi parte di Gaza. Molti di quei bambini sono morti. A Gaza abbiamo visto madri malnutrite nutrire i loro neonati sottopeso con latte artificiale fatto con acqua inquinata. Non potremo mai dimenticare che il mondo ha abbandonato queste donne e questi bambini innocenti. «Ogni giorno vedevo morire dei bambini. Erano nati sani. Le loro madri erano così malnutrite che non potevano allattare al seno e noi non avevamo latte artificiale o acqua pulita per nutrirli, quindi morivano di fame» (Asma Taha, infermiera pediatrica).

Vi esortiamo a rendervi conto che a Gaza imperversano epidemie. Il continuo e ripetuto spostamento da parte di Israele della popolazione malnutrita e malata di Gaza, metà della quale è composta da bambini, verso aree senza acqua corrente o persino servizi igienici disponibili è assolutamente traumatico. Era e rimane destinato a causare una morte diffusa per malattie diarroiche virali e batteriche e polmoniti, in particolare nei bambini di età inferiore ai cinque anni. In effetti, persino il temuto virus della poliomielite è riemerso a Gaza a causa di una combinazione di distruzione sistematica delle infrastrutture igienico-sanitarie, malnutrizione diffusa che indebolisce il sistema immunitario e bambini piccoli che hanno saltato le vaccinazioni di routine per quasi un anno intero. Temiamo che migliaia di persone siano già morte a causa della combinazione letale di malnutrizione e malattie e che decine di migliaia di altre moriranno nei prossimi mesi, soprattutto con l’inizio delle piogge invernali a Gaza. La maggior parte di loro saranno bambini piccoli.I bambini sono universalmente considerati innocenti nei conflitti armati. Tuttavia, ogni singolo firmatario di questa lettera ha visto bambini a Gaza che hanno subito violenze che devono essere state deliberatamente dirette contro di loro. In particolare, ognuno di noi che ha lavorato in un pronto soccorso, in terapia intensiva o in un ambiente chirurgico ha curato bambini preadolescenti che sono stati colpiti alla testa o al petto regolarmente o addirittura quotidianamente. È impossibile che una sparatoria così diffusa di bambini piccoli in tutta Gaza, sostenuta nel corso di un anno intero, sia accidentale o sconosciuta alle massime autorità civili e militari israeliane. Presidente Biden e vicepresidente Harris, vorremmo che poteste vedere gli incubi che affliggono così tanti di noi da quando siamo tornati: sogni di bambini mutilati e mutilati dalle nostre armi e delle loro madri inconsolabili che ci implorano di salvarli. Vorremmo che poteste sentire le grida e le urla che le nostre coscienze non ci faranno dimenticare. Non riusciamo a capire perché continuate ad armare il paese che sta deliberatamente uccidendo questi bambini in massa.

«Ho visto così tanti nati morti e morti materne che avrebbero potuto essere facilmente evitati se gli ospedali avessero funzionato normalmente» (dott. ssa Thalia Pachiyannakis, ostetrica e ginecologa). Le donne incinte e che allattavano che abbiamo curato erano particolarmente malnutrite. Quelle di noi che lavoravano con donne incinte vedevano regolarmente nati morti e morti materne che erano facilmente evitabili nel sistema sanitario di qualsiasi paese in via di sviluppo. Il tasso di infezione nelle incisioni del taglio cesareo era sorprendente. Le donne hanno subito parti vaginali e persino cesarei senza anestesia e non hanno ricevuto altro che Tylenol in seguito perché non erano disponibili altri antidolorifici. Abbiamo tutti osservato i reparti di emergenza sopraffatti da pazienti che cercavano cure per condizioni mediche croniche come insufficienza renale, ipertensione e diabete. A parte i pazienti traumatizzati, la maggior parte dei letti di terapia intensiva era occupata da pazienti con diabete di tipo 1 che non avevano più accesso all’insulina. La mancanza di disponibilità di farmaci, la perdita diffusa di elettricità e refrigerazione e l’accesso incostante al cibo hanno reso impossibile la gestione di questa malattia. Israele ha distrutto più della metà delle risorse sanitarie di Gaza e ha ucciso quasi mille operatori sanitari palestinesi, più di uno su 20 operatori sanitari di Gaza. Allo stesso tempo, le esigenze sanitarie sono aumentate enormemente a causa della combinazione letale di violenza militare, malnutrizione, malattie e sfollamento. Gli ospedali in cui lavoravamo erano privi di forniture di base, dal materiale chirurgico al sapone. Erano regolarmente tagliati fuori dall’elettricità e dall’accesso a Internet, negavano acqua pulita e operavano con quattro o sette volte la loro capacità di posti letto. Ogni ospedale era sopraffatto oltre il punto di rottura da sfollati in cerca di sicurezza, dal flusso costante di pazienti malati e malnutriti in cerca di cure e dall’enorme afflusso di pazienti gravemente feriti che di solito arrivavano in eventi di vittime di massa.

Queste osservazioni e il materiale disponibile al pubblico dettagliato nell’appendice ci portano a credere che il bilancio delle vittime di questo conflitto sia molte volte superiore a quanto riportato dal Ministero della Salute di Gaza. Crediamo anche che questa sia una prova evidente di diffuse violazioni delle leggi americane che regolano l’uso di armi americane all’estero e del diritto umanitario internazionale. Non possiamo dimenticare le scene di insopportabile crudeltà verso donne e bambini, a cui il nostro Governo è direttamente partecipe.

Quando abbiamo incontrato i nostri colleghi sanitari a Gaza, era chiaro che erano malnutriti e devastati sia fisicamente che mentalmente. Abbiamo rapidamente appreso che i nostri colleghi sanitari palestinesi erano tra le persone più traumatizzate a Gaza, e forse nel mondo intero. Come praticamente tutte le persone a Gaza avevano perso familiari e le loro case. La maggior parte viveva dentro e intorno ai loro ospedali con i familiari sopravvissuti in condizioni inimmaginabili. Sebbene continuassero a lavorare con un programma massacrante, non venivano pagati dal 7 ottobre. Tutti erano perfettamente consapevoli che il loro lavoro come operatori sanitari li aveva segnati come obiettivi per Israele. Ciò rende una presa in giro lo status protetto concesso agli ospedali e agli operatori sanitari dalle più antiche e ampiamente accettate disposizioni del diritto internazionale umanitario. Abbiamo incontrato personale sanitario a Gaza che lavorava in ospedali che erano stati saccheggiati e distrutti da Israele. Molti di questi nostri colleghi sono stati arrestati da Israele durante gli attacchi. Ci hanno tutti raccontato una versione leggermente diversa della stessa storia: durante la prigionia venivano a malapena nutriti, continuamente abusati fisicamente e psicologicamente e infine abbandonati nudi sul ciglio di una strada. Molti ci hanno detto di essere stati sottoposti a finte esecuzioni e altre forme di maltrattamento e tortura. Troppi dei nostri colleghi sanitari ci hanno detto che stavano semplicemente aspettando di morire. I 99 firmatari di questa lettera hanno trascorso complessivamente 254 settimane all’interno dei più grandi ospedali e cliniche di Gaza. Vogliamo essere assolutamente chiari: nessuno di noi ha mai visto alcun tipo di attività militante palestinese in uno qualsiasi degli ospedali o altre strutture sanitarie di Gaza. Vi esortiamo a vedere che Israele ha sistematicamente e deliberatamente devastato l’intero sistema sanitario di Gaza e che Israele ha preso di mira i nostri colleghi a Gaza per torturarli, farli sparire e ucciderli.

Presidente Biden e vicepresidente Harris, qualsiasi soluzione a questo problema deve iniziare con un cessate il fuoco immediato e permanente. Apprezziamo il fatto che stiate lavorando a un accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas, ma avete trascurato un fatto ovvio: gli Stati Uniti possono imporre un cessate il fuoco alle parti in guerra semplicemente interrompendo le spedizioni di armi a Israele e annunciando che parteciperemo a un embargo internazionale sulle armi sia a Israele che a tutti i gruppi armati palestinesi. Sottolineiamo ciò che molti altri vi hanno ripetutamente detto nell’ultimo anno: la legge americana è perfettamente chiara su questa questione, continuare ad armare Israele è illegale.

Presidente Biden e vicepresidente Harris, vi esortiamo a sospendere immediatamente il supporto militare, economico e diplomatico allo Stato di Israele e a partecipare a un embargo internazionale sulle armi di Israele e di tutti i gruppi armati palestinesi fino a quando non verrà stabilito un cessate il fuoco permanente a Gaza, incluso il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani e palestinesi e fino a quando non verrà negoziata una risoluzione permanente del conflitto israelo-palestinese tra le due parti. Vicepresidente Harris, come probabile prossimo presidente degli Stati Uniti, vi esortiamo ad annunciare pubblicamente il vostro sostegno a tale politica e a dichiarare pubblicamente che siete tenuti a rispettare le leggi degli Stati Uniti anche quando farlo è politicamente scomodo.

Presidente Biden e Vicepresidente Harris, siamo 99 medici e infermieri americani che hanno assistito a crimini oltre ogni comprensione. Crimini che non possiamo credere che vogliate continuare a sostenere. Vi preghiamo di incontrarci per discutere di ciò che abbiamo visto e del perché riteniamo che la politica americana in Medio Oriente debba cambiare immediatamente.

Nel frattempo, ribadiamo quanto scritto nella nostra lettera del 25 luglio 2024:
1. Il valico di Rafah tra Gaza ed Egitto deve essere immediatamente riaperto e deve consentire la consegna di aiuti senza restrizioni da parte di organizzazioni umanitarie internazionali riconosciute. I controlli di sicurezza delle consegne di aiuti devono essere condotti da un regime di ispezione internazionale indipendente anziché dalle forze israeliane. Questi controlli devono essere basati su un elenco chiaro, inequivocabile e pubblicato di articoli proibiti e con un chiaro meccanismo internazionale indipendente per contestare gli articoli proibiti, come verificato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari nel territorio palestinese occupato.
2. Una dotazione minima di acqua di 15 litri di acqua potabile a persona al giorno, il minimo del Manuale Sphere in un’emergenza umanitaria, deve essere assegnata alla popolazione di Gaza, come verificato da UN Water.
3. Deve essere ripreso l’accesso completo e senza restrizioni di professionisti medici e chirurgici e di attrezzature mediche e chirurgiche alla Striscia di Gaza. Ciò deve includere gli articoli portati nei bagagli personali degli operatori sanitari per salvaguardarne la corretta conservazione, sterilità e consegna tempestiva, come verificato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Incredibilmente, Israele continua a impedire agli operatori sanitari di origine palestinese di lavorare a Gaza, persino ai cittadini americani. Ciò prende in giro l’ideale americano secondo cui “tutti gli uomini sono creati uguali” e degrada sia i nostri ideali nazionali che la nostra professione. Il nostro lavoro salva vite. I nostri colleghi sanitari palestinesi a Gaza sono disperatamente alla ricerca di sollievo e protezione, e meritano entrambe le cose.

Non siamo politici. Non pretendiamo di avere tutte le risposte. Siamo semplicemente professionisti della guarigione che non possono rimanere in silenzio su ciò che abbiamo visto a Gaza. Ogni giorno in cui continuiamo a fornire armi e munizioni a Israele è un altro giorno in cui le donne vengono fatte a pezzi dalle nostre bombe e i bambini vengono assassinati dai nostri proiettili.

Presidente Biden e vicepresidente Harris, vi esortiamo: ponete fine a questa follia ora!
Sinceramente

2 ottobre 2024

Mark Perlmutter e altri 98

Per il testo originale della lettera: https://www.gazahealthcareletters.org/usa-letter-oct-2-2024. La traduzione in italiano è di Domenico Gallo

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lunedì 14 ottobre 2024

Paesi Baschi: A volte correre rende liberi - Gianni Sartori

 

Sette militanti baschi verranno processati per avere – secondo l’accusa – favorito il passaggio della frontiera a un gruppo di migranti durante la Korrika

A sette mesi dai fatti contestati, la mattina del 2 ottobre sette militanti baschi venivano convocati presso il commissariato di Bayonne (Ipar Euskal Herria, Paese Basco sotto amministrazione francese). Ne uscivano soltanto dopo molte ore, nel tardo pomeriggio e dovranno presentarsi in tribunale per essere processati il 25 gennaio 2025.

Le accuse? Aver fornito “aiuto per entrare e per soggiornare in Francia a persone in situazione irregolare” e per aver agito come una “banda organizzata” (un’associazione a delinquere in pratica).

Tale azione umanitaria, definita dai responsabili di “azione civile”, costituisce un reato a tutti gli effetti per la legge francese, in base al CESEDA (il codice per l’entrata e il soggiorno degli stranieri e il diritto d’asilo).

Era stata concordata tra una dozzina di organizzazioni per consentire il passaggio di 36 “esuli” (migranti) confusi tra i partecipanti alla tradizionale corsa podistica basca di marzo, la Korrika (da Irun – Hego Euskal Herria, in territorio spagnolo – a Hendaye – Ipar Euskal Herria, in territorio francese).

Nel comunicato di rivendicazione (in data 28 marzo 2024) veniva stigmatizzata “la politica migratoria repressiva dell’Europa-fortezza che colpisce gli esiliati spingendoli verso le reti criminali di sfruttamento e della tratta di esseri umani”. Richiedendo “l’apertura delle frontiere e in particolare dei ponti come quello tra Irun e Hendaye (il Ponte Santiago nda) per garantire la libera circolazione”.

I sette baschi inquisiti (identificati grazie a un video) provengono da varie organizzazioni della sinistra basca abertzale. Tra cui il sindacato LAB (Langile Abertzaleen Batzordeak), Bidasoa Etorkinekin (un’associazione di aiuto ai migranti), il partito basco EH Bai e La France Insoumise. Mentre una ventina di organizzazioni si erano “autodenunciate” per aver collaborato all’azione di solidarietà, oltre 80 avevano espresso il loro sostegno e indetto una manifestazione davanti al commissariato di Bayonne.

Uno dei sette accusati, Eñaut Aramendi del sindacato LAB, ha spiegato che tutte le domande poste dagli inquirenti si basavano sul video della corsa, diffuso pubblicamente. Aggiungendo che “non sono soltanto sette persone che verranno giudicate, ma sette militanti di una ventina di organizzazioni”. E quindi, attraversodi loro “sono migliaia di persone aderenti a queste strutture che verranno incriminate. In quanto società dobbiamo interrogarci: siamo d’accordo con quello a cui assistiamo quotidianamente? Se per portare queste tematiche nel dibattito pubblico dobbiamo andare in tribunale, ebbene ci andremo”.

E comunque – aveva concluso – io quel giorno ho visto solamente gente che correva“.

Amaia Fontang, portavoce di Etorkinekin (una federazione di associazioni di volontariato) ricordava che “qui, nel Paese basco i nostri militanti non nascondono di aiutare i migranti. Quando vediamo persone sperdute al margine della strada, li portiamo al centro Pausa (un centro d’urgenza per l’accoglienza a Bayonne nda). Rammaricandosi comunque che questa vicenda venga a cadere “in un momento politico assai inquietante (al ministero degli Interni è stato nominato Bruno Retailleau nda) per i difensori dei diritti fondamentali dei migranti. La politica di estrema destra portata avanti dal governo sulla questione migratoria ci preoccupa”.

Fatalmente l’episodio ha rinfrescato il dibattito in merito al cosiddetto “reato di solidarietà” aperto in Francia ancora nel 2017 dalle azioni umanitarie di aiuto ai migranti dell’agricoltore Cédric Herrou.

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sabato 12 ottobre 2024

Tenore di vita in Cina, nel 1978 e nel 2023 - Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

  

Spesso i numeri risultano noiosi, ma non sempre e non in ogni caso.

Nel 1978 la popolazione cinese spendeva infatti mediamente ben il 63,9% del proprio reddito solo per acquistare cibo e vestiti, mentre tale percentuale era via via crollata fino al 29,8% nel 2023.

Si trovavano frigoriferi in solo lo 0,2% delle famiglie cinesi nel 1981, ma la percentuale in via di esame era esplosa fino al 103,4% nel 2023.

Televisori a colori? Li possedeva solo lo 0,6% delle famiglie nel 1981, contro invece il 107,8% nel 2023.

Lavatrici? Erano utilizzate solamente dal 6,3% dei nuclei familiari cinesi nel corso del 1981, rispetto ai 98,2% del 2023.

L'area abitabile procapite risultava pari, nel 2023, a 38,6 metri quadri nelle città cinesi, ben 4,8 volte più che nel 1978; nelle campagne la superficie abitabile procapite invece raggiungeva la considerevole quota di 48,6 metri quadri.

Inoltre l'aspettativa di vita dei cinesi aveva raggiunto quota 78,6 anni nel 2023, superando la media raggiunta in quello stesso anno dagli Stati Uniti e quasi raddoppiando la propria rispetto a quel 1949 prerivoluzionario, nel quale essa risultava ancora equivalente a soli 43,6 anni.

Nel 2023 il 99,8% delle comunità urbane cinesi aveva accesso alle autostrade, contro la piccola manciata di grandi città degli anni Settanta, mentre il 99,9% delle comunità rurali riceve ormai i segnali televisivi e il 96,1% di esse possiede stazioni di servizio medico, percentuali che sono da paragonare ai quasi zero del 1978 negli stessi settori.

Abbiamo presentato dei dati e "fatti testardi" (Lenin) apparentemente aridi ma che, invece, illustrano meglio di mille discorsi il gigantesco e multilaterale processo di sviluppo raggiunto dalla Cina prevalentemente socialista, a partire specialmente dal 1978: in soli 46 anni, quindi, il gigantesco paese asiatico è passato da una situazione in gran parte equivalente a quella dell'Italia del 1901 a quella della nostra penisola nel ... 2024, almeno per quanto riguarda le zone urbane cinesi

 

Fonte: "China sees improving livelihood in 75 years", 7 ottobre 2024, in en.people.cn

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venerdì 11 ottobre 2024

Diritto alla casa in Italia, il rapporto all’Onu rileva violazioni - Massimo Pasquini

  

L’esame periodico universale, da parte dell’Onu, EPU / Universal Periodic Review, UPR è uno dei principali strumenti del Consiglio dei diritti umani dell’ONU (CDH) e permette di stilare un bilancio della situazione dei diritti umani in tutti i Paesi membri, secondo un calendario fisso. Il 4° CICLO – 48a SESSIONE UPR, si terrà a gennaio-febbraio 2025.

In quell’occasione sarà verificato lo stato di attuazione dei diritti umani in Italia. A novembre 2024 sono previste a Ginevra una serie di audizioni che riguarderanno il Governo italiano ma anche associazioni di abitanti.

In vista di tale occasione l’Alleanza internazionale degli Abitanti e l’Unione Inquilini hanno già inviato un Rapporto e saranno chiamati in audizione a novembre 2024 a Ginevra. Il Rapporto si riferisce alle violazioni dell’Italia sul diritto alla casa recato dall’articolo 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (Pidesc).

Il Rapporto presenta una analisi dettagliata delle violazioni ai Trattati e alle Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese e ratificate dal Parlamento e si riferiscono, in particolare:

All’articolo 11 del PIDESC, che afferma “il diritto a un livello di vita adeguato per sé e la propria famiglia che includa un alloggio adeguato e il diritto al miglioramento continuo delle proprie condizioni di vita.”; e all’art. 2 PIDESC che impegna l’Italia ad operare con il massimo delle risorse di cui dispone al fine di assicurare progressivamente con tutti i mezzi appropriati, compresa l’adozione di misure legislative, la piena attuazione dei diritti riconosciuti dal PIDESC.

Il quadro che delinea il Rapporto si riferisce a un ciclo lungo di governo del Paese, che investe gli ultimi 40 anni e che ha accumulato una serie di violazioni e inadempienza che hanno determinato la condizione di sofferenza abitativa strutturale. A

llo stesso tempo, il Rapporto mette in luce gli aspetti fortemente peggiorativi messi in atto dall’attuale governo e conseguiti nella presente XIX Legislatura, con un concetto di sicurezza che mostra l’obiettivo di assumere come paradigma della sicurezza la repressione delle forme della protesta e della solidarietà sociali e la criminalizzazione della povertà, invece di nuove politiche pubbliche che ne affrontino le radici strutturali.

Il Rapporto delle due associazioni per quanto riguarda il mercato locativo evidenzia come pur in una condizione di recessione e/o stagnazione, non ha dato segnali di raffreddamento, anzi di ulteriori incrementi (+ 14,6% solo tra gennaio 2023 e gennaio 2024).

Tale tendenza è determinata da due fattori: la scarsità relativa delle case messe sul mercato delle locazioni da parte dei proprietari (a fronte di oltre 700.000 richieste di locazione, l’11% delle abitazioni disponibili non viene concesso in locazione); il crescente peso degli affitti brevi e in clamorosa espansione a causa dell’aspettativa di maggiore redditività e dall’assenza di efficaci misure di regolamentazione.

Questi fattori, sottolinea il Rapporto, causano la diffusa morosità, dovuta alla crisi economica e sociale e alla dinamica inflazionistica: quasi un terzo dei locatori ha dichiarato di non aver percepito alcuni canoni mentre il 13% degli inquilini ha affermato di aver saltato almeno una rata.

Questo in un contesto in cui aumenta la povertà assoluta certificata dall’ISTAT in maniera molto netta. Le famiglie in affitto in condizione di povertà assoluta sono 983.000, circa 100.000 in più rispetto alle 889.000 del 2021. Una famiglia con minori su quattro, che vive in affitto, è in una condizione di povertà assoluta a fronte di 1 su 14 nel complesso della popolazione residente.

 

Per quanto riguarda l’abbandono dell’edilizia residenziale pubblica Federcasa ha fornito i seguenti dati rispetto all’ERP, riferiti al 2024: Totale alloggi ERP: 769.745, Alloggi ERP sfitti: 60.217 sfitti. Nel 2016, Federcasa affermava di contare in 806.000 alloggi in assegnazione A fine degli anni 80, il patrimonio ERP in assegnazione effettiva era intorno a un milione di alloggi.

Il Rapporto si riferisce anche alla condizione dei senza tetto e delle politiche discriminatorie. Con dati parziali e sottostimati, si segnala negli ultimi 10 anni un raddoppio del fenomeno, giungendo a circa 100 mila persone.

Secondo una indagine della Federazione Italiana Organismi per le Persone Senza Dimora (fio.PSD): il 62% dei senzatetto ha infatti un reddito mensile proveniente da attività lavorativa (anche informale e saltuaria) con un guadagno medio mensile tra le 100 e le 499 euro, mentre il 30 % vive di espedienti e collette. Il 17% non ha alcuna fonte di reddito. Permangono politiche discriminatorie nei confronti delle popolazioni Rom, Sinti e Camminanti d) Sfratti, pignoramenti.

Dopo la pausa della pandemia è ripresa la corsa pazza degli sfratti: nel 2022 sono state emesse quasi 42 mila nuove sentenze di sfratto, di cui 33.522 per morosità. Nel 2022 si è assistito anche alll’esplosione, con una crescita del 199,07% delle richieste di esecuzione con l’Ufficiale Giudiziario, e del numero degli sfratti eseguiti con la forza pubblica, aumentati di ben il 218,60%.

A fronte di questa drammatica situazione, la normativa dell’Italia non ha stabilito in nessun caso il passaggio da casa a casa, cioè ad “abitazione alternativa adeguata” per le persone non in grado di provvedere autonomamente, come precisato dai Commenti generali del Comitato ONU sui diritti N. 4 (1991) on the right to adequate housing e N. 7 (1997) on forced evictions.

Questi dati dimostrano da parte dell’Italia non solo una sottovalutazione se non indifferenza rispetto alla questione abitativa ma anche le continue e strutturali violazioni del diritto alla casa.

Passaggi interessanti del Rapporto riguardano l’impatto dell’intelligenza artificiale sul comparto abitativo e della turistificazione.

In ultimo ma non di minore importanza il Rapporto segnala come ulteriore e gravissimo elemento di violazione incrementale del diritto alla casa, il provvedimento ancora in corso di esame al Senato, dopo il passaggio alla Camera, definito “DDL Sicurezza”.

Secondo il Rapporto il governo italiano, invece di affrontare i nodi della sofferenza abitativa strutturale e i guasti provocati dalle leggi approvate in questa legislatura, agisce nella direzione di criminalizzare la povertà e di reprimere le organizzazioni sindacali, le associazioni e i movimenti che offrano qualsiasi forma di “utilità”, quindi anche forme di solidarietà e di aiuto, per resistere fino al passaggio da casa a casa, come trattati e convenzioni internazionali obbligano.

Il Rapporto si conclude invitando le istituzioni e agli organismi internazionali, nonché alla comunità internazionale e agli Stati che partecipano alla sessione UPR, affinché appoggino le 19 raccomandazioni che il Rapporto pone alla attenzione dell’UPR, rivolte al Governo italiano, al Parlamento, alle Regioni e alle Amministrazioni locali, ciascuno nell’ambito della propria giurisdizione, che prevedono un profondo cambiamento rispetto a quanto (non) fatto fino ad oggi in materia di politiche abitative.

Qui il testo integrale del Rapporto inviato da Alleanza Internazionale degli Abitanti e Unione Inquilini

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giovedì 10 ottobre 2024

Sconnessi? - Claudio Canal

 

Guardare avanti, si dice. Guardare fisso, invece, la propria mano che sostiene un apparecchietto nero con schermo, detto smartphone. Consultare, sbirciare, controllare, scrollare, ascoltare, pagare, scrivere, parlare, filmare… Al ristorante, per strada, in chiesa, nel passeggino, al cinema, in arrampicata, al supermercato, in auto, in classe, in ospedale, sul bus, sul water, a letto, in bici, al lavoro, ai mari e ai monti… in tasca, in mano. A testa bassa.

Paesaggio umano smisuratamente social. Ognuno di noi al guinzaglio del proprio smartphone. Ad ogni latitudine, più o meno. Ad ogni età, neonato e pensionato, per ogni sesso. Super intersezionale. La psichiatria, che ha il naso fino, ha inventato il problematic smartphone use (PSU) Ma quale problematicObvious smartphone use. Non è un gingillo, è una Lampada di Aladino dai mille favori. È un essere più che uno strumento tecnico. Non sono un filosofo e torno a incantarmi con questo congegno luccicante che ci ha catturati, dionisiacamente “sussunti” direbbero gli intenditori. Se fossi nato vent’anni fa non mi stupirebbe toccar quotidianamente con mano la nostra universale dedizione all’Angelo Custode che ogni giorno ci accompagna e ci nutre, mi sarebbe risuonato perfettamente naturale, oggettivo, da sempre. Una felice evoluzione dell’umanità.

Di chi è figlia questa alchimia universale? Del capitalismo digitale, di quello cognitivo, di quello zombi? Di un neo colonialismo psichico? Di una fantomatica tecnodittatura? Di un dio cattivo, o anche buonino, che escogita una nuova religione? Di quei cinque o sei giovanottoni diventati paperon de’ paperoni giocando con il web e inventando questo e quello? Di un presente a capitalismo morto, che sarebbe ancora peggio del capitalismo vivo? Di me boccalone e dei miei simili che ci facciamo accalappiare da questa sbalorditiva pietra filosofale rettangolare?

Se esiste un capitalismo sciamanico, ecco, è quello. Fascinans et tremendum, come diceva saggiamente qualcuno parlando del Sacro. Sull’affascinante non ci sono dubbi, si comincia a nutrire qualche timore sul tremendo. È un coitus un po’ interruptus e un po’ no il rapporto che abbiamo con lo smartphone. Ricevere di continuo stimoli e scariche di dopamina genera una gradevole eccitazione che alla lunga si esaurisce in una fiacca generalizzata quasi comatosa. Gli alti e bassi di odio amore per l’aggeggio in questione sono snervanti e paradossalmente corroboranti. Ci fanno sentire vivi per il contrasto che creano in noi. La voglia di liberarcene, almeno per un po’, e la ricerca inquieta della gratificazione che ci procura, scrollaggio forsennato e ostinato cliccaggio si accavallano e si accartocciano, sommergendoci. Un doping senza frontiere. Se me lo chiedessero risponderei spavaldo che “smetto quando voglio”, arrossendo per la fandonia appena formulata. Nel cellulare ci sto in comoda forma trinitaria: come lavoratore che addestra a sua insaputa algoritmi e produce valore per qualche santone camuffato da piattaforma, come merce perché miniera da cui estrarre dati, profili, tendenze, contatti, desideri, come consumatore vorace che si rimpinza del sublime e dell’orrido della rete in una delle infinite nicchie a me assegnate.

Alimenta questa fermentazione cosmica una Terra Santa, una Valle con le sue diramazioni planetarie tra Russia e Cina. Si chiama Silicon Valley e verrebbe da definirla Fasciston Valley e sarebbe non solo sbagliato, ma anche semplicistico. La Silicon, e aggregati, si è poco per volta tramutata in un Olimpo con divinità di vario calibro, un centro di pensiero nello stesso tempo avveniristico e reazionario, con teologie e mistiche adeguate, che qualcuno elegantemente definisce Lungotermismo Accelerazionismo, affiancati da una galassia che si autodefinisce, non arbitrariamente, Gramsciani di Destra. L’esponente più in vista è Elon Musk, tifoso di Trump, bannato in Brasilevenerato da Giorgia M. e criticato severamente dal Financial Times, che è tutto dire.

Se io sono un dato, se lo è il gatto che non ho, se lo è Mozart e il mio vicino di pianerottolo, se presente, passato e scaglie di futuro sono data, se le-parole-che-sto-scrivendo sono data, se Tutto è datificabile e datificato e me lo ritrovo nel gingillo cellulare alla maniera di travolgenti scritture e audio e video e relative notifiche da cui sono implacabilmente sedotto, ebbene qualche pensierino mi viene. Il più presentabile dice: è possibile modellare una ecologia mentale che renda lo smartphone e la sua seduzione meno totalitaria, il feticcio un po’ meno feticcio, la demenza meno demenza? Che la soggettivazione che ci impone sia meno pervasiva e meno guidata dal siliconvalleypensiero? “Non c’è problema”, dice lui in formato Google: c’è una vasta gamma di app che ti aiutano a disintossicarti. Che sarebbe, dico io, come rivolgersi al migliore spacciatore per farsi aiutare a smettere. Cioè la perfetta logica del neoliberismo (o come lo vogliamo chiamare) che si alimenta delle crisi che provoca. Vorrei sottrarmi in modi che non so ancora alle attrattive dello smartphone, l’Onnipotente, e dei mille mondi che contiene, giusto per scalfire l’intontimento che mi provoca e oppormi al flusso di incantesimi che mi rovescia addosso. Essere più lucido, meno eccitato dalla merda e dal miele che cola dalla rete. Non per ritrovarmi in armonia con l’universo, ma in conflitto con lui così come si è venuto conformando. In resistenza.

Vorrei una pedagogia dei connessi, per parafrasare Paulo Freire, una pedagogia liberatoria che trovi le strade per sconnettersi dalla colonizzazione in atto, da questo entanglement spurio, che elabori percorsi critici di riappropriazione digitale non consolatori, che preveda luoghi non da remoto e rigorosamente off line di confronto e di progetto. Una pedagogia politica non dedita alla palingenesi universale né al benessere del singolo. Che si dedichi all’equipaggiamento di salva.gente mentali per piccoli nuclei di persone composte da nativi digitali e mortivi digitali come me. Disposti a pagare il costo psichico che l’operazione di salvataggio comporta.

Un’utopia? Un sogno? Una baggianata?

Due riferimenti bibliografici

Juan Carlos, De Martin, Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica, add editore, Torino, 2023: Un’analisi esauriente ed acuta degli aspetti tecnici e culturali del nostro apparecchio, chiamiamolo così.

Tiziano Bonini, Emiliano Treré, Algorithms of resistance. The Everyday Fight Against Platform Power, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, 2024: gli algoritmi come campo di battaglia hanno soggetti che li contestano dall’interno. Una ricerca innovativa che mi auguro di rileggere in italiano.

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