lunedì 30 settembre 2024
venerdì 27 settembre 2024
mercoledì 25 settembre 2024
lunedì 23 settembre 2024
“Non voglio soldi sporchi di sangue”. Calciatore norvegese rifiuta il trasferimento in club israeliano
Il calciatore norvegese Ole Saeter ha rifiutato un'offerta di trasferimento da parte del club israeliano Maccabi Haifa, sollevando forti obiezioni morali.
Saeter, 28enne attaccante del Rosenborg, ha dichiarato al canale norvegese
TV 2 di non poter accettare l'accordo, nonostante la sicurezza finanziaria che
gli avrebbe portato.
“Non voglio che il denaro sporco arrivi sul mio conto. Sarebbe un incubo”,
ha affermato Saeter a proposito dell'offerta.
Ha aggiunto che l'accordo avrebbe potuto renderlo “finanziariamente
indipendente”, ma il calciatore del Rosenborg ha insistito sul fatto che non
poteva rappresentare un Paese i cui valori e le cui azioni erano contrari.
“È un Paese che non ho né la moralità né i valori a cui ispirarmi per
rappresentarlo”, ha proseguito.
Saeter ha collezionato 53 presenze con il Rosenborg dal 2021, segnando 32
gol e fornendo 11 assist.
Israele ha affrontato le critiche internazionali per l'offensiva militare
in corso a Gaza, lanciata dopo un attacco del gruppo palestinese Hamas il 7
ottobre dello scorso anno.
Nonostante una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
che chiedeva un cessate il fuoco, il conflitto è continuato, con quasi 41.300
persone, soprattutto donne e bambini, uccise e oltre 95.500 ferite, secondo le
autorità sanitarie locali.
domenica 22 settembre 2024
Il rapporto choc del Garante Nazionale: carceri al collasso - Damiano Aliprandi
Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, dopo la recente scomparsa di D’Ettore, composto ora dall’avvocata Irma Conti e dal professore Mario Serio, ha recentemente pubblicato un rapporto che getta l’ennesima luce inquietante sulla situazione delle carceri.
(da il dubbio)
Lo studio,
aggiornato al 16 settembre 2024, rivela un quadro allarmante di
suicidi e sovraffollamento che mette nuovamente in discussione l’intero sistema
penitenziario. Dall’inizio dell’anno, 67 detenuti (anche se secondo lo studio
attento di Ristretti Orizzonti siamo a 70) hanno deciso di togliersi la vita,
un numero che supera di gran lunga i 48 suicidi registrati nello stesso periodo
del 2023.
Questo drammatico aumento di 19 casi in
soli nove mesi evidenzia una crisi profonda che si sta consumando lontano dagli
occhi della società. Il profilo di chi sceglie di porre fine alla propria vita
dietro le sbarre è variegato, ma emergono alcuni dati significativi. La
stragrande maggioranza sono uomini (65 su 67), con un’età media di 40 anni. Il
54% sono italiani, mentre il restante 46% proviene da 15 diversi paesi,
sottolineando come il disagio non conosca nazionalità. Particolarmente colpite
sono le fasce d’età tra i 26 e i 39 anni (30 persone) e tra i 40 e i 55 anni
(18 persone), evidenziando come il suicidio colpisca soprattutto nel pieno
della vita adulta.
La posizione giuridica di chi si toglie
la vita offre ulteriori spunti di riflessione: 29 erano stati condannati in via
definitiva, ma ben 24 erano in attesa di primo giudizio, 9 avevano una
posizione cosiddetta “mista con definitivo”, cioè con almeno una condanna
definitiva e altri procedimenti penali in corso, 2 ricorrenti, 2 appellanti e 1
internato provvisorio. Questo dato solleva interrogativi sulla gestione dei
detenuti in attesa di processo e sulle condizioni in cui sono costretti a
vivere.
Il rapporto del Garante non si limita a
fornire numeri, ma scava più a fondo, rivelando dettagli che dipingono un
quadro ancora più preoccupante. Delle 67 persone che si sono suicidate,
18 (il 27%) risultavano senza fissa dimora, mentre 31 (il 46%) erano
disoccupati. Questi dati suggeriscono una correlazione tra
marginalità sociale e rischio di suicidio in carcere, evidenziando come il
sistema penitenziario spesso si trovi a gestire problematiche che vanno ben
oltre la semplice detenzione. L’analisi delle sezioni in cui sono avvenuti i
suicidi rivela un altro dato allarmante: l’ 85% dei casi (57 su 67) si è
verificato in sezioni a custodia chiusa, suggerendo che l’isolamento e la
mancanza di contatti sociali possano essere fattori determinanti nella
decisione di togliersi la vita.
Ma il dramma dei suicidi è solo la punta
dell’iceberg di un sistema in crisi. Il rapporto evidenzia un aumento
generalizzato degli eventi critici rispetto all’anno precedente. Aggressioni,
atti di autolesionismo, tentativi di suicidio e manifestazioni di protesta sono
tutti in aumento, dipingendo l’immagine di un ambiente sempre più teso e
instabile. Al centro di questa crisi c’è il problema del
sovraffollamento. L’indice di sovraffollamento è passato dal 115,36%
del 30 giugno 2022 al 131,77% del 16 settembre 2024. In pratica, le
carceri italiane ospitano un terzo di detenuti in più rispetto alla loro
capacità. Alcuni istituti raggiungono livelli di sovraffollamento estremi, come
San Vittore (226,56%), Brescia (206,04%), Foggia (194,78%) o Verona (186,48%).
Il Garante ipotizza una correlazione
diretta tra l’aumento del sovraffollamento e l’incremento degli eventi critici,
suggerendo che le condizioni di vita sempre più difficili all’interno delle
carceri possano essere un fattore scatenante per comportamenti autolesionisti o
violenti. Non meno preoccupante è il dato sui decessi per cause da accertare:
17 dall’inizio dell’anno, di cui 10 italiani e 7 stranieri. Anche in questo
caso, l’età media si aggira intorno ai 40 anni, confermando come la fascia
centrale della vita adulta sia quella più a rischio.
Il rapporto del Garante Nazionale si
configura come un grido d’allarme che non può essere ignorato. La situazione
nelle carceri ha raggiunto un punto critico, dove sovraffollamento, mancanza di
prospettive e condizioni di vita degradanti stanno creando un mix esplosivo. In
tutto questo si inserisce anche il dibattito in corso sul disegno di legge
sulla sicurezza, attualmente in Parlamento, che sta sollevando forti
preoccupazioni tra i Garanti territoriali. Il Portavoce della Conferenza
Nazionale dei Garanti, Samuele Ciambriello, e il Coordinamento nazionale
denunciano il rischio di misure di dubbia legittimità costituzionale che
potrebbero avere conseguenze devastanti sul sistema carcerario italiano.
L’esasperazione nelle carceri, aggravata
da condizioni inumane e dall’indifferenza istituzionale, rischia di far
esplodere la situazione. Nonostante esistano proposte per alleggerire la
pressione, come la liberazione anticipata speciale promossa dal deputato
Roberto Giachetti e Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino, il Parlamento
sembra ignorarle, mettendo a rischio la stabilità del sistema penitenziario. Il
disegno di legge sulla sicurezza, attualmente in discussione, introduce diverse
misure altamente contestate. Tra queste, l’abolizione del differimento
obbligatorio della pena per le donne incinte e le madri di bambini piccoli, in
contrasto con le norme sulla tutela della maternità. Inoltre, le nuove
disposizioni rafforzano i controlli nelle carceri e nei centri per migranti,
introducendo pene più severe per le proteste, anche quelle pacifiche.
In particolare, si teme una
criminalizzazione del dissenso, con l’equiparazione tra atti di violenza e
semplici forme di disobbedienza civile, come gli scioperi della fame. I Garanti
per i diritti delle persone private della libertà hanno espresso profonda
preoccupazione per queste misure, lanciando un appello al ministro della
Giustizia affinché intervenga. Preoccupazione anche della garante per
l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, che a prosito delle tensioni negli
Ipm, da Milano fino a Roma, ha dichiarato: “È un dato oggettivo l’aumento significativo
degli ingressi negli istituti penali minorili a seguito del decreto Caivano:
parliamo di un + 50,6% in un anno. Credo che gli Ipm debbano essere
profondamente ripensati perché siano veramente luoghi di recupero del
minorenne”.
sabato 21 settembre 2024
Alzheimer: tra burocrazia e costi crescenti, le famiglie allo stremo
La gestione economica della cura per le persone affette da Alzheimer rappresenta un problema non ancora risolto nel sistema sanitario italiano, e rischia di aggravarsi nei prossimi decenni.
Una
questione particolarmente critica riguarda chi debba sostenere i costi della
permanenza nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA) quando viene
diagnosticata la demenza.
Nonostante
le normative prevedano che il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) debba coprire
gran parte delle spese, la realtà spesso lascia a carico delle famiglie oneri
pesanti.
In Italia,
il numero di persone colpite da demenza è destinato ad aumentare in modo
significativo: dai 1,5 milioni attuali a 2,3 milioni entro il 2050, secondo le
stime della Federazione Alzheimer Italia.
Questo
incremento pone interrogativi seri su come il sistema sanitario potrà far
fronte alla crescente domanda di assistenza, soprattutto considerando che i
fondi stanziati per supportare queste esigenze non vengono utilizzati in modo
uniforme.
Diverse
regioni, infatti, pur avendo accesso a finanziamenti specifici, non li impiegano
adeguatamente per potenziare le cure e i servizi.
Il fondo
destinato al sostegno dei malati di demenza è stato recentemente rifinanziato
con 34,9 milioni di euro per il triennio 2024-2026, come ricordato da Beatrice
Lorenzin (Pd).
Tuttavia, la
mancata spesa di queste risorse da parte di alcune regioni, evidenziata anche
da Annarita Patriarca (Fi), dimostra come la burocrazia e la gestione
disomogenea dei finanziamenti rappresentino una barriera all’accesso alle cure.
Oltre alla
questione finanziaria, resta aperto il dibattito sulle modalità di ripartizione
delle spese per le RSA. Solo poche strutture ricevono finanziamenti diretti dal
SSN per la cura di pazienti affetti da demenza, mentre in molte altre i costi
vengono divisi tra le famiglie e le autorità locali.
Quando una
diagnosi di Alzheimer sopraggiunge dopo il ricovero, le famiglie si trovano
spesso a sostenere spese che dovrebbero essere a carico dello Stato. Questa
mancanza di chiarezza legislativa e operativa ha spinto Uneba, l’associazione
che rappresenta le RSA, a chiedere un intervento del governo per definire
regole precise.
L’assenza di
un approccio uniforme alla gestione delle strutture per anziani fragili si
riflette anche nelle diverse normative regionali. Ogni regione stabilisce
requisiti specifici per il personale e i servizi offerti, e questo genera
complicazioni per gli operatori del settore.
Questi
ultimi, vincolati a rispettare leggi diverse a seconda della località, non
hanno autonomia decisionale riguardo la copertura dei costi. Di conseguenza,
Uneba sottolinea che le RSA non dovrebbero essere ritenute responsabili per le
difficoltà economiche delle famiglie, essendo esse stesse soggette a normative
stringenti.
Tuttavia,
mentre la questione dei costi continua a pesare sul sistema, i progressi nel
campo medico e scientifico non si fermano. A Brescia, ad esempio, il Comune ha
siglato un accordo con l’Associazione Alzheimer Uniti d’Italia e altre
fondazioni, tra cui l’Istituto di Ricerca Fatebenefratelli, unico in Italia
specializzato nella ricerca sulle demenze adulte.
Questo
centro è impegnato nella sperimentazione di nuove tecnologie e trattamenti, ma
ha anche messo in evidenza le sfide che le famiglie devono affrontare, in
particolare per quanto riguarda l’esclusione sociale e la mancanza di supporto.
La
Federazione Alzheimer Italia e Alzheimer’s Disease International hanno lanciato
un appello affinché il tema della demenza venga portato all’attenzione del
prossimo G7 Salute, sollecitando una risposta coordinata a livello globale.
Nonostante i
continui progressi scientifici, una cura definitiva per l’Alzheimer rimane
ancora lontana. Questo rende la prevenzione fondamentale: fattori di rischio
come l’obesità, il fumo, l’alcol e la sedentarietà possono aumentare la
probabilità di sviluppare la malattia. Secondo Alessandro Padovani, presidente
della Società Italiana di Neurologia, ridurre questi fattori potrebbe abbassare
il rischio fino al 40%.
Tra le
iniziative più significative nel campo della prevenzione si segnala lo studio
ComfortAge, guidato dalla Fondazione Policlinico Gemelli. Questo progetto sta
cercando di mappare i fattori di rischio e sviluppare strategie per ridurre
l’incidenza della demenza, aprendo nuove strade per affrontare una malattia che
coinvolge sempre più persone e famiglie.
lunedì 16 settembre 2024
Perché il “bel paesaggio” può distruggere il paesaggio - Frederick Bradley
Le recenti
notizie sul fenomeno dell’overtourism nelle 5 Terre e a Santorini
mettono in evidenza un problema che accomuna molti territori il cui sviluppo
socio-economico ha avuto il suo motore trainante in quelle che vengono
giustamente definite bellezze paesaggistiche. È noto che problemi analoghi
affliggono sia altri territori di pregio, come, ad esempio, la Val d’Orcia, sia
diverse città d’arte, di cui San Gimignano è forse il caso più emblematico.
Quasi che
possedere un bel paesaggio sia non solo la fortuna di luogo speciale, ma anche
la sua nemesi per ciò che quella bellezza arriva a comportare. Sembra un non
senso il fatto che un territorio di alto valore estetico venga penalizzato dal
suo stesso paesaggio, e in effetti, se ciò accade non è imputabile al paesaggio
in sé, ma all’accezione che comunemente ne viene data.
Almeno
questa è l’interpretazione che scaturisce dall’analisi delle fasi che hanno
caratterizzato la crescita socio-economica di molti territori
paesaggisticamente rilevanti, modellati dall’uomo nel corso dei secoli.
Nello sviluppo di queste aree è possibile riconoscere otto fasi sequenziali in
cui l’approccio al paesaggio è passato dalla sua valutazione cognitiva, quindi
che ne percepisce il significato, a quella meramente estetica, dove viene
equiparato a un panorama. È proprio in questo passaggio che si sono create le
condizioni per cui il cosiddetto “bel paesaggio” ha portato paradossalmente a
incidere negativamente sul territorio.
Fase 1
In origine
il territorio era povero e/o sottosviluppato, spesso un ambiente rurale rimasto
ai margini della crescita socio-economica degli anni ‘60-’70 del secolo
scorso. Il paesaggio non suscitava interesse per l’osservatore
dell’epoca, attratto più dai segni della modernità incombente che non dal
retaggio di un mondo ormai appartenente al passato da cui tendeva ad
allontanarsi.
Fase 2
Il
territorio viene “scoperto” dal viandante colto, spesso benestante, che dà
inizio alla sua colonizzazione riattando edifici dismessi o abbandonati nel
sostanziale rispetto delle realtà locali. L’attrattiva principale dell’area è
la bellezza del suo paesaggio rurale e/o storico in quanto privo di
significative modifiche recenti, e soprattutto rispondente a canoni
riconducibili, anche inconsciamente, alla nostra identità storico-culturale.
Fase 3
Il
territorio conosce le prime forme di turismo culturale che seguono
sostanzialmente l’approccio della prima colonizzazione, di cui condivide la
visione paesaggistica. Nel paesaggio vengono identificati luoghi di
alto valore simbolico, oltre che estetico, e viene scoperta la cultura
enogastronomica locale e, più in generale, quella materiale legata al
prodotto tipico.
Fase 4
Il
territorio viene scoperto anche dal grande pubblico, spesso tramite media che
lo mostrano attraverso icone rispondenti a canoni estetici di valore
commerciale. Il paesaggio diviene uno strumento di marketing su base
estetica. L’aumentata frequentazione turistica porta un notevole
benessere economico alla popolazione locale.
Fase 5
Sulla spinta
del successo economico, la popolazione locale sposa incondizionatamente
l’azione di marketing delle agenzie turistiche, le cui offerte vendono il
paesaggio come bene estetico. Anche i contenuti territoriali divengono oggetto
di marketing. Si pongono le basi per la massificazione del turismo,
favorita dalla politica locale che vi vede un’ottima opportunità di crescita
del territorio. In questa fase il paesaggio perde progressivamente il
legame con il territorio, come espressione della sua realtà ambientale,
sociale e culturale, per divenire un elemento astratto, funzionale
esclusivamente al richiamo turistico.
Fase 6
Grazie al
turismo di massa e alla sua aumentata popolarità a livello internazionale, l’area
è ora in grado di richiamare investimenti esterni interessati al suo valore
turistico-industriale. Le icone paesaggistiche giocano un ruolo ancora più
pregnante in quanto presentati a modello della “Bella Italia”, spesso con
l’avvallo della certificazione UNESCO che ne sancisce l’originalità. Il
paesaggio è ormai ridotto a un’icona e il territorio, svuotato di contenuti,
diviene uno sfondo per selfie.
Fase 7
Il carattere
industriale del turismo di massa porta al progressivo svilimento dell’identità
culturale locale. Compaiono in commercio prodotti, anche gastronomici, copia di
quelli tipici originali, se non addirittura legati a culture/territori diversi
ma comunque riconducibili al “made in Italy”. Si sviluppa un’edilizia
residenziale brutta copia dell’architettura locale. Il territorio è
spesso ridotto a supporto di iniziative con finalità turistiche poco o nulla
attinenti alla realtà locale. Il paesaggio perde di identità e assume
il valore di cartolina. Divenuto così un panorama (o scena), non di
rado il paesaggio viene usato come sfondo di istallazioni artistiche,
finalizzate anche a rivitalizzarne l’interesse.
Fase 8
La
popolazione locale si trova spesso impreparata a gestire i flussi turistici di
massa che arrivano a incidere negativamente sul territorio. Compare il
fenomeno dell’overtourism. Sorgono non luoghi commerciali più o meno
mascherati da attività di localismo. Il benessere economico inizia a
confliggere con un territorio ormai modellato in funzione del turismo di massa,
e con la conseguente perdita dello stile e dei ritmi di vita di un tempo. Parte
della popolazione locale non riconosce più il suo paesaggio originario, basato
non su stereotipi estetici ma sul riconoscimento del valore identitario del
territorio. Si sente l’esigenza di un cambio di paradigma dello
sviluppo turistico a cui la politica locale non vuole rispondere (per
interesse) e/o non è in grado di farlo (per incompetenza).
Ovviamente
lo schema di sviluppo turistico di territori paesaggisticamente rilevanti qui
riportato ha un carattere generale, e non mancano eccezioni a più di una delle
fasi descritte. Tuttavia, esso ben rappresenta quanto avvenuto in realtà
importanti tanto da far comprendere come nelle politiche di valorizzazione
territoriali sia necessario guardare al paesaggio per i suoi contenuti
essenziali, aprendo così a un turismo di qualità, che non come
sterile immagine ad uso e consumo smodato del territorio che raffigura.
giovedì 12 settembre 2024
Le spiagge sono della natura e delle persone, non di chi ci lucra - Paolo Ermani
Tempi di vacanze e di spiagge assaltate da italiani e turisti, ma sono spiagge particolari perché non appartengono più alle persone o alla natura; sono spesso occupate da privati che ne hanno fatto l’ennesima fonte di profitto sulle spalle della collettività.
Tempi di vacanze e di spiagge
assaltate da italiani e turisti, ma sono spiagge particolari perché non appartengono
più alle persone o alla natura; sono spesso occupate da privati che ne hanno
fatto l’ennesima fonte di profitto sulle spalle della collettività. Tanto
è ormai la normalità usare natura e beni collettivi pagandoli spiccioli
allo Stato per ricavarci lauti guadagni.
E così le spiagge sono strapiene di stabilimenti balneari attrezzati dove a
costi non bassi, il cittadino paga per qualcosa che dovrebbe essere a
disposizione e libero. I posti di spiaggia libera si restringono sempre di
più, quindi a meno che non si vogliano fare chilometri o trovare
posti sperduti, si è quasi costretti a pagare per stare sulle nostre
spiagge.
Ci sono casi emblematici come le spiagge liguri, che spesso sono di qualche
metro e in quei pochi metri viene occupato anche il centimetro quadrato
dagli stabilimenti privati per accaparrarsi il vacanziero. Poi ci si
lamenta che la vita è cara, ma ciò è ovvio se tutto viene costantemente messo
a disposizione di chi ci deve fare profitto.
Ma chi di profitto ferisce, di profitto perisce, perché c’è chi lo sa fare
meglio degli altri e sono le multinazionali. Così arriva la Red Bull che
si prende 120 mila metri quadrati di litorale nel triestino dando
l’elemosina di 9 milioni di euro (che per multinazionali di quel tipo, ci
pagano il caffè al CEO), per farci il parco giochi della vela per il
titolare Dietrich Mateschitz.
Vista la situazione, adesso gli stabilimenti balneari italiani protestano,
perché non vogliono che gli si porti via il bocconcino prelibato,
esattamente come è successo per gli agricoltori, che prima trasformano il
cibo in merce avvelenando l’impossibile e poi quando arrivano i giganti per
fare le stesse cose ma con molta più potenza economica, allora non va più
bene. Ma se tu accetti che il profitto sia la sola e unica logica per la
quale lavori e pensi, non puoi lamentarti se chi, facendo gli stessi
ragionamenti, ti spazza via. Abbiamo voluto privare i cittadini e la natura dei
loro spazi e farne un negozio e ora le conseguenze nefaste sono evidenti.
Tra l’altro per rendere gli stabilimenti balneari sempre più appetibili, si
effettuano lavori con ruspe, camion e varia per rubare spazi a dune o
altro che possa in qualche modo diminuire la possibilità di piazzare
ombrelloni, sdraio, giochi, intrattenimenti con attrezzature di ogni tipo. Gli
stabilimenti si inventano mille servizi e vendite di qualsiasi cosa e a
fine giornata spesso si passano trattorini (che inquinano e consumano
combustibili fossili per uno degli innumerevoli assurdi e insensati usi
degli stessi) o si incaricano persone (spesso immigrati) per livellare la
sabbia, perché quelle scomode cunette che si creano devono essere
eliminate per fare in modo che il turista cammini sulla sabbia piatta come
se fosse sul pavimento di casa.
E come se già la gestione delle spiagge da parte dei privati non fosse una
aspetto assurdo, sempre in nome del sacro profitto, adesso arrivano pure
gli stabilimenti firmati da stilisti di grido che battezzano quei luoghi
con firme, colori, stoffe, mobilia, accessori, trasformandoli in “emozionanti esperienze
di stile”. Il tutto a caro prezzo ovviamente e rendendo quei posti ancora più
esclusivi, perché si sa, l’italiano si deve distinguere mostrando il suo
lato fashion e su come è bravissimo a buttare i soldi.
Chissà se mai arriverà un giorno in cui le persone riprenderanno l’uso delle
proprie spiagge, finalmente libere e a disposizione di tutti o dovremo
tutti vestirci da lattine di Red Bull o chi per lui, prima di buttarci in
acqua.
sabato 7 settembre 2024
Ambiente e salute a Gaza: una catastrofe nella tragedia della guerra - Fabrizio Bianchi
È partita nel corso del week end la campagna vaccinale contro la
polio a Gaza, nel corso di una tregua che dovrebbe essere garantita da
Israele proprio per permettere di somministrare il vaccino a più di
640mila bambini. Le code testimoniano la grande partecipazione della
popolazione gazawi. Ma al di là dell'urgente risposta al ritorno della polio, la
situazione sanitaria nella striscia è drammatica sotto tutti i punti di
vista.
Da un recente Rapporto dell’agenzia
per la protezione ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), pubblicato
a giugno scorso, sulla situazione ambientale e i rischi per la salute nella striscia
di Gaza emergono dati raccapriccianti: da dati satellitari è
stimato che le bombe abbiano distrutto il 37% delle abitazioni e
ne abbiano danneggiate gravemente il 27%, producendo 39
milioni di tonnellate di detriti di varia natura, circa 107 kg per ogni
metroquadro di territorio, con un gravissimo inquinamento di terreni e acque. I
sistemi idrici, di trattamento dei rifiuti e igienico-sanitari vengono
definiti distrutti o prevalentemente inattivi, con la conseguenza
che si aggrava di giorno in giorno la situazione ambientale e crescono a
dismisura i rischi per la salute, nell’immediato e sul medio e lungo tempo.
La lettura del rapporto UNEP, che ha come titolo “Impatti ambientali del
conflitto in Gaza – Valutazione preliminare”, lascia atterriti: se è
possibile, la crudezza dei numeri stampati è anche più forte e
tragica delle immagini passate giornalmente dai media.
L’ambiente della striscia di Gaza era già in condizioni difficili prima del
7 ottobre, con una forte pressione sugli ecosistemi a causa dell’alta densità
di popolazione, di conflitti ricorrenti, delle condizioni di deprivazione
socio-economica, in un’area vulnerabile ai cambiamenti climatici.
Distruzione ambientale e rischi per la salute
Le distruzioni recenti e in corso ad opera delle forze armate israeliane
hanno praticamente annullato tutti gli sforzi fatti per migliorare i
sistemi di gestione ambientale, specie per dotare la popolazione di
impianti di desalinizzazione dell'acqua, di trattamento delle acque reflue, di
sviluppo di sistemi a energia solare e per il ripristino della zona umida
costiera di Wadi Gaza.
Le macerie contengono materiali e sostanze pericolose: ordigni
inesplosi, rifiuti di ogni genere, amianto, polveri, che comportano rischi per
la salute umana per esposizioni che più si protraggono nel tempo e più
produrranno gravi danni all’ambiente e alla salute. Per questa, ragione è
fondamentale abbreviare il tempo per la rimozione, il risanamento, la
ricostruzione.
A seguito della chiusura dei cinque impianti di trattamento delle
acque reflue, le acque non depurate, che contengono agenti patogeni
e sostanze chimiche pericolose, inquinano i terreni, le acque dolci e
costiere, e le spiagge, dove cercano di sopravvivere oltre 2 milioni di
palestinesi. Acque e terreni sono contaminati anche dai metalli pesanti
che sono nei pannelli solari distrutti, e dalle numerose sostanze chimiche
contenute nelle munizioni esplose, da aggiungere ai rischi degli ordigni
inesplosi, che sono particolarmente gravi per i bambini.
Il sistema di gestione dei rifiuti è collassato, 5 impianti di
trattamento su 6 sono gravemente danneggiati: il rapporto UNEP riporta che, già
alla fine del 2023, 1.200 tonnellate al giorno di rifiuti si accumulavano
intorno ai campi e ai rifugi.
Pur in assenza di dati di monitoraggio, l’aria è valutata gravemente
inquinata dagli incendi e dalle combustioni a cielo aperto di legna,
plastica e rifiuti.
In questo quadro aumentano a dismisura i rischi di ogni tipo di
malattia, che siano acute, croniche, infettive, assai difficili da
prevedere e su cui poco possono fare i presidi sanitari d’urgenza tenuti
coraggiosamente in piedi dalle ONG, mentre c’è bisogno di riorganizzare un
sistema sanitario che sia in grado di affrontare gli impatti della guerra.
Naturalmente al primo posto ci sono i presidi per la cura e riabilitazione,
ma sarà importante anche ricostruire la capacità di rilevamento di dati
ambientali e sulla di salute della popolazione, indispensabili per la
comprensione della situazione e la programmazione di un sistema sanitario in
grado di rispondere alle criticità principali post-belliche.
I rischi sono già realtà
Il poliovirus di tipo 2 rilevato a luglio in liquami
provenienti dai siti di Khan Younis e Deir Al- Balah e il primo caso confermato
di poliomielite in un bambino di 10 mesi non vaccinato a Deir Al- Balah, sono
eventi gravissimi, che non accadevano da 25 anni.
Il caso viene presentato in modo superficiale, alludendo al potere
risolutivo di una campagna di vaccinazione affidata alla somministrazione per
bocca del vaccino Sabin (OPV, basato su virus Polio vivi attenuati), da
effettuarsi in una situazione densa di difficoltà, e non priva di
rischi. Infatti, esiste una probabilità, seppure bassa, di effetti
collaterali del vaccino OPV (in Italia è in uso un piano di 4 dosi di vaccino
inattivato di tipo Salk) e tra i fattori di rischio riconosciuti per lo
sviluppo di casi gravi di poliomielite ci sono lo stato di gravidanza,
l’immunodeficienza, la presenza di ferite o lesioni, condizioni fin troppo frequenti
in questo periodo.
La situazione richiede un intervento su larga scala per la
vaccinazione urgente, ma ha bisogno di un piano più complesso che
contempli richiami vaccinali e attenzione anche agli adulti, che possono
infettarsi, sebbene con più bassa probabilità, per via oro-fecale o per
contatto con ammalati o portatori sani.
In estrema sintesi, nessun ecosistema è risparmiato dalle
conseguenze dirette e indirette della distruzione bellica, gli ambienti
marini e costieri, i terreni coltivabili e l’aria. Oltre alle enormi perdite
umane dirette, gli effetti sulla salute oggi visibili sono solo la punta
dell’iceberg, e ciò che accadrà in seguito è solo approssimativamente stimabile
in assenza di un ritorno alla pace.
Il rapporto UNEP conclude con l’appello “al cessate il fuoco per salvare
vite umane e ripristinare l'ambiente, per consentire ai palestinesi di iniziare
a riprendersi dal conflitto e ricostruire le loro vite e i loro mezzi di
sussistenza a Gaza. Un'analisi ambientale, che comprenda la valutazione della
contaminazione da munizioni e degli altri inquinamenti legati al conflitto,
dovrebbe essere parte integrante della pianificazione della ripresa e della
ricostruzione.”
- Ne avevamo parlato anche qui su Il Bo Live a inizio agosto: Striscia di Gaza: un'emergenza (anche)
sanitaria
“Cambiano gli scenari di guerra ma non
cambia la sostanza e la smisurata ipocrisia di chi rifiuta la colpa o non si
assume responsabilità
Nel libro di Tiziano Terzani “Lettere contro la guerra”, di recente ristampa, è scritto: “Che
differenza c’è fra l’innocenza di un bambino morto nel World Trade Center e
quella di uno morto sotto le nostre bombe a Kabul? La verità è che quelli di
New York sono i «nostri» bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri
100.000 bambini afghani che, secondo l’UNICEF, moriranno quest’inverno se non
arrivano subito dei rifornimenti, sono i bambini «loro». E quei bambini
«loro» non ci interessano più.”
venerdì 6 settembre 2024
Hanno trovato squali positivi alla cocaina, e non fa ridere - Anna Cortelazzo
Quando si viene a sapere che un animale è risultato positivo a una sostanza
stupefacente, può scattare un sorriso al pensiero, alimentato anche da
pellicole dal dubbio umorismo come Cocainorso, una commedia tratta
purtroppo da fatti realmente accaduti: nel 1985 un orso nero morì di overdose,
dopo che uno spacciatore cadde da un aereo con un carico di cocaina del valore
di 15 milioni di dollari. La mancata apertura del paracadute comportò non solo
la morte dello spacciatore, ma anche quella dell’incolpevole orso, che per caso
aveva trovato il carico e aveva ingerito quasi 4 grammi della sostanza in grado
di uccidere anche un animale da 100 chilogrammi.
Il problema è proprio questo: dietro alla facile ironia che ha portato a
soprannominare il malcapitato Pablo Escobear, le sostanze stupefacenti
prodotte dall’uomo hanno un impatto importante, e a volte mortale, anche sugli
animali che ci entrano in contatto e che non scelgono liberamente di assumerle.
Il caso della cocaina è fortunatamente raro,
ma una birra avanzata lasciata incustodita in un bosco è un evento più
frequente, e non si contano i casi di animali domestici intossicati da oppioidi
o altri farmaci lasciati incustoditi dai loro umani di riferimento. Casi come
questi sono la riprova che ci troviamo a convivere con animali, selvatici e
non, senza curarci più di tanto delle loro esigenze, delle loro abitudini e del
loro essere diversi dagli esseri umani.
In un contesto del genere farà quindi molto meno sorridere la notizia
che nelle acque del Brasile sono stati trovati degli squali positivi
alla cocaina, e non è nemmeno la prima volta. Negli ultimi anni questo
fenomeno ha catturato l'attenzione del pubblico, anche qui grazie al (o per
colpa del) cinema, perché si sono diffusi film ma anche documentari che
affrontano la tematica. Pellicole grottesche come Cocaine
Shark, tra l’altro, non aiutano a trasmettere un’immagine
corretta di un animale a rischio estinzione: un animale fragile che come tale
andrebbe tutelato, ma è difficile farlo quando la percezione pubblica è viziata da un immaginario nutrito dalla
serie Lo squalo.
La tematica degli squali che si ritrovano inconsapevolmente ad assumere
droga è stata affrontata anche da un più serio documentario dal titolo quasi
identico, Cocaine Sharks, in cui un gruppo di
scienziati cerca di capire se gli squali del Golfo del Messico ingeriscano
cocaina, visto che spesso gli spacciatori, messi alle corde dalle autorità, la
buttano in mare per distruggere le prove. Il lavoro degli scienziati si era
rivelato inconcludente, facendo forse tirare agli spettatori un provvisorio
sospiro di sollievo (in Italia il documentario non è ancora disponibile).
Ora invece abbiamo le prove del fatto che gli squali possono essere
positivi alla cocaina, e anche se non sono pericolosi come quelli delle pellicole di serie B,
che diventano creature aggressive con caratteristiche somatiche che hanno solo
un piccolo barlume delle fattezze originarie, la situazione è problematica, sia
per ragione etiche che per problemi di conservazione delle specie. Uno studio condotto in Brasile ha fornito le
prime evidenze concrete che gli squali sono effettivamente esposti alla
cocaina. Le tracce di questa sostanza sono state trovate nei muscoli e nel
fegato di 13 esemplari di squalo brasiliano dal naso affilato, uno squalo di
piccole dimensioni classificato come vulnerabile dalla UICN, anche
se è necessario procedere con ulteriori ricerche in modo da capire se gli
squali (e gli esseri umani che li mangiano) vengano effettivamente danneggiati
dall’esposizione, tanto più che cinque delle 10 femmine analizzate erano
incinte, e non si conoscono ancora le conseguenze della droga sui feti degli
animali (però è lecito supporre che ci siano, visti gli esperimenti analoghi
condotti in passato sugli zebrafish).
Il problema, tra le altre cose, non è rappresentato soltanto dalla cocaina
che viene gettata in mare in caso di retate: la droga viene rilevata anche
nelle acque reflue, e non solo in Brasile. Esistono molti laboratori illegali
nei quali gli scarti delle sostanze vengono gettati negli scarichi, per poi
raggiungere il mare se non vengono rispettate le norme di smaltimento. Il giro
cambia, ma il risultato no. Un’altra ipotesi è che gli squali si trovino ad
assumere la cocaina indirettamente, mangiando pesci che a loro volta ci sono
entrati in contatto, ma indipendentemente dalle modalità di assunzione ciò che
è certo è che tutti i campioni di fegato analizzati sono risultati
positivi, e la concentrazione era di 100 volte superiore a quella riscontrata
negli studi precedenti su altri animali acquatici.
Lo squalo brasiliano dal naso affilato è stato scelto proprio perché vive
prevalentemente in ambiente costiero, e quindi si è ipotizzato che fosse
l’esemplare perfetto per questo tipo di test. L’animale trascorre infatti la sua
vita in un luogo circoscritto, senza spostarsi più di tanto, e non in un luogo
a caso, ma tra le acque costiere di un paese in cui il traffico di cocaina è
particolarmente elevato. La zona, inoltre, non ha un sistema fognario adeguato
e lo smaltimento degli scarti è da migliorare, per usare un eufemismo. Ora che
è stata trovata la conferma di ciò che gli esperti sospettavano da tempo,
sarebbe interessante proseguire le ricerche anche in altri luoghi del mondo,
per vedere quanto questa situazione sia diffusa.
La scoperta di cocaina negli squali brasiliani mette in luce un grave
problema di inquinamento che richiede attenzione immediata e ulteriori
ricerche, ma anche iniziative di contrasto al traffico di droga. La protezione
degli ecosistemi marini è fondamentale non solo per la salute umana (ricordiamo
che molti abitanti della zona consumano carne di squalo perché ricca di proteine,
e forse lo facciamo anche noi senza saperlo), ma anche per la conservazione
della biodiversità, perché come dicevamo è probabile che la cocaina sia dannosa
per i feti e che renda gli animali più suscettibili ad altre malattie.
giovedì 5 settembre 2024
Plastica nel Po: misurarla non è facile - Marco Boscolo
Quanta plastica transita nei fiumi? La realtà è che non lo sappiamo e provare a rispondere a questa domanda non è affatto semplice come potrebbe sembrare. A fine aprile, a Ferrara, sono stati presentati i risultati di un progetto che ha per lo meno provato a farlo. Si chiamava Monitoraggio Applicato alle Plastiche del Po (MAPP) e a promuoverlo sono stati la Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile e l’Autorità di Bacino distrettuale del fiume Po. Per poco meno di due anni, tra settembre 2021 e giugno 2023, il progetto ha provato a misurare la quantità di plastica che passa nel Po utilizzando tre diversi metodi: l’osservazione diretta dei rifiuti galleggianti (floating litter) da diversi punti lungo il corso del fiume, lo studio via GPS dei percorsi che i rifiuti galleggianti intraprendono e un tentativo della loro individuazione tramite l’analisi delle immagini satellitari. Nessuna delle metodologie ha permesso di raggiungere una risposta definitiva, ma sono uno dei pochi tentativi diretti di misurazione effettuati sul Po e sui fiumi in generale.
I limiti delle stime
Al progetto MAPP ha partecipato anche Simone Bizzi, esperto
di geomorfologia fluviale dell’Università di Padova, che ha fatto parte del
team che ha sperimentato l’analisi satellitare per individuare la plastica
galleggiante. “Esistono diverse stime della quantità di rifiuti plastici
prodotti in una determinata area”, spiega, “e si basano su una serie di
indicatori come per esempio la densità abitativa e industriale, il PIL locale,
ecc. per inferire quanta plastica viene prodotta” e, quindi, quanta di questa è
lecito aspettarsi che finisca nei fiumi. Ma tra le stime e la realtà potrebbero
esserci delle discrepanze significative. “Sappiamo che in mare c’è molta
plastica”, continua Bizzi, “e l’abbiamo anche potuta misurare abbastanza
accuratamente”. L’esempio più famoso è quello del cosiddetto Pacific Trash Vortex, un’isola di rifiuti di
plastica nell’oceano che è ben visibile anche dal satellite, ma anche lungo le
coste del Mediterraneo si possono vedere accumuli di rifiuti. Di conseguenza la
domanda è quanta di questa plastica arrivi dai fiumi.
Per rispondere, all’interno del progetto MAPP si è escogitato un sistema
piuttosto semplice, ma ingegnoso. In diversi momenti dell’anno e da diversi
punti del corso del Po sono state rilasciate in acqua delle sfere
galleggianti che contenevano un segnalatore GPS. In questo modo è stato
possibile monitorare il loro viaggio nel corso dei giorni e delle settimane
successive, simulando il comportamento dei rifiuti plastici galleggianti. Il
risultato più interessante è che solo il 15% è arrivato al mare. In altre
parole, solo una piccola parte della plastica che transita sul Po finisce
davvero in mare. Dove finisce però l’altro 85%?
“I segnalatori GPS hanno permesso di
individuare alcuni punti lungo l’asta del fiume dove questi oggetti
galleggianti tendono a incagliarsi”, racconta Bizzi. Per esempio, nella seconda
sessione di lancio dei segnalatori da Cremona alcuni si sono incagliati a pochi
chilometri dalla città, altri hanno percorso molti chilometri e solo alcuni
sono arrivati in uno dei rami nel Delta del Po. “Questo tipo di risultato è uno
dei più interessanti del progetto”, spiega Bizzi, “perché ci fa capire
come molti rifiuti vengono intercettati dalla vegetazione riparia”,
cioè le piante che crescono lungo le rive del fiume. Inoltre, c’è una parte di
questa plastica che si trasforma in microplastica e, quindi, diventa invisibile
all’occhio nudo. “Con che velocità avvenga questo passaggio è una domanda
aperta”.
Cosa succede con il fiume in piena
Il monitoraggio a vista del passaggio dei rifiuti plastici ha il vantaggio
di essere quantitativo e preciso, ma non può essere effettuato
continuativamente. In più, come si può leggere dal rapporto finale del progetto MAPP, e come
ci conferma Bizzi, non è stato effettuato nelle condizioni di massima portata
del fiume. Questo è il momento in cui la forza dell’acqua porta probabilmente
con sé la maggior parte dei rifiuti galleggianti. Non solo, “è in questi
momenti che da geomorfologo dei fiumi ipotizzo che ci possa essere una nuova
movimentazione di quegli accumuli di fiumi lungo il corso”, ci spiega. In altre
parole, quando il fiume ha più forza è ragionevole pensare che riesca a
disincagliare almeno una parte degli oggetti intrappolati lungo le sue sponde che,
così, riprendono il loro viaggio verso la foce.
Per provare ad approfondire i risultati fin qui raggiunti, a settembre
dovrebbe partire un nuovo progetto di monitoraggio che sfrutterà due telecamere
“smart” in grado di classificare in modo autonomo i tipi di oggetto
galleggiante che vedono. Sono telecamere che sfruttano il deep learning, una tecnologia
basata sull’intelligenza artificiale, e che permetteranno di monitorare in modo
continuativo il fiume, misurando in modo più preciso quanta plastica vi
transita. Se tutto verrà confermato, le due telecamere saranno piazzate una
all’incirca a Isola Serafini, nel piacentino, e una all’altezza più o meno di
Pontelagoscuro, nel ferrarese.
Sebbene si tratti di un risultato che dovrà essere confermato dal possibile
nuovo progetto, l’individuazione delle aree di accumulo dei rifiuti ottenuta
dal progetto MAPP ha fornito un’indicazione significativa per due motivi. Il
primo è che mostra dei punti precisi lungo il corso del fiume dove
andare a scovare la plastica che non arriva al mare. Il secondo, più
pratico, è che individua i tratti del fiume dove è più sensato eseguire delle
pulizie dalla plastica[F1] .
martedì 3 settembre 2024
Il business della sanità e le liste d’attesa - Giorgio Cavallero
Le liste d’attesa sempre più lunghe e talora inaccessibili sono, nella sanità, un dato di fatto, un’evidenza ingombrante nonostante i numerosi tentativi di occultamento. Recentemente, dopo i richiami della Corte dei conti, la magistratura ha ribadito che non è lecito chiudere le agende delle prenotazioni, ma non è raro che vengano fissati appuntamenti con scadenze superiori anche a dodici mesi.
Ovviamente
la lunga lista d’attesa colpisce coloro che non possono pagare di tasca propria
nel privato o
in intra moenia e coloro che non riescono ad aggirarle con
sistemi clientelari o utilizzando artifici leciti (o ritenuti tali). Esistono,
infatti, diverse “facilitazioni” per l’accesso alle prestazioni sanitarie: il
pagamento di polizze sanitarie, l’adesione a fondi di sanità integrativa, le
convenzioni di categoria, i sistemi di “welfare aziendale” sono forme di
sanità complementare che prevedono dei benefici fiscali e incentivano così una
parte della popolazione sottraendo risorse al sistema e, in definitiva, alla
generalità degli utenti. E ci sono, poi, forme di agevolazione più ambigue: per
esempio in alcuni casi pagando un supplemento è possibile tagliare la coda.
Tutto ciò mentre viene giustamente richiesto ai medici di base di indicare e
certificare l’urgenza della prestazione. Nel contesto descritto, è evidente che
la priorità dell’accesso è dettata quasi esclusivamente dal reddito del
paziente e dalla sua capacità di pagare o dalla sua appartenenza a categorie
protette, mentre l’urgenza e la gravità della patologia diventano spesso un
criterio secondario. Si stravolge, così, il dettato costituzionale: perché la
salute non è più un diritto fondamentale e perché, paradossalmente, mentre la
Carta afferma che la Repubblica «garantisce cure gratuite agli indigenti» sono
proprio questi ultimi a non avervi accesso e a non essere garantiti. La
conseguenza è un gravissimo problema di equità, di credibilità delle
istituzioni e, in ultima analisi, di carenza di democrazia reale.
Lo scorso 18
aprile 2024 Istat ha stimato che, nel 2023, 4,5 milioni di italiani hanno
rinunciato a visite mediche per motivi economici e liste di attesa troppo
lunghe. In questo
quadro, in particolare per le classi più povere, il ricorso al Pronto soccorso
diventa l’unica possibilità per ottenere un accesso tempestivo alle cure.
Tuttavia l’ingorgo dei servizi di emergenza costituisce un ulteriore problema
per il sistema sanitario e per tutta la popolazione oltre che uno strumento
anomalo, costoso e inadeguato per gestire le problematiche legate alla
cronicità, alla non autosufficienza alla prevenzione e alla cura delle
patologie non acute. Non curare una parte della popolazione o curarla in regime
di urgenza non è un risparmio: non a caso la Costituzione (i Costituenti erano
memori di quanto avvenne con “l’epidemia spagnola”) afferma che la salute è non
soltanto «un fondamentale diritto dell’individuo» ma anche «un interesse della
collettività». Le infezioni da Covid hanno ulteriormente dimostrato che la
salute di ciascuno dipende inesorabilmente anche dal quella degli altri e che è
pericoloso e sconveniente anche dal punto di vista economico avere delle sacche
di popolazione prive di assistenza sanitaria. Paradossalmente la
recente pandemia ha determinato un aumento esponenziale delle sottoscrizioni di
polizze sanitarie individuali anziché di investimenti durevoli e strutturali
per la sanità pubblica. A fianco della crescita della popolazione esclusa
dalle cure, si crea così una grande massa di cittadini che, per curarsi,
ricorre al pagamento in proprio. Conseguentemente, la carenza di servizi
sanitari costituisce un fattore di impoverimento di una larga fascia di
popolazione.
In Italia,
la spesa sanitaria out of pocket, comprendente
tutte le prestazioni sanitarie erogate ai cittadini che prevedono un esborso di
denaro da parte dell’utente, continua inesorabilmente a salire. Come ha
rilevato il monitoraggio della spesa sanitaria 2023 pubblicato dalla Ragioneria
dello Stato, la spesa sanitaria a carico dei cittadini è passata da
28,13 miliardi nel 2016 a 40,26 miliardi nel 2022, con un incremento,
solo nell’ultimo anno, del 8,3%, raggiungendo il 22,9% della spesa complessiva
contro una media europea del 15,7%. In definitiva i tagli alla sanità
pubblica hanno creato un ricco mercato privato che vede costantemente
l’ingresso di nuovi soggetti e imprese che orientano gli investimenti. In altri
termini, la sanità è un settore che rappresenta un business in costante
espansione e durevole nel tempo. Se poi ai privati viene consentito di
selezionare sia le prestazioni, evitando quelle meno remunerative, che la
tipologia dei pazienti, si comprende la corsa ad entrare nel sistema
sanitario. Inoltre nel nostro Paese persiste e prolifera un
sistema di commistione pubblico-privato istituzionalizzato senza eguali. In tutto il mondo esistono
erogatori pubblici e privati, ma con una chiara distinzione di ruoli e con il
servizio pubblico pagatore che decide integralmente le prestazioni e i servizi
da erogare e svolge controlli non occasionali ma strutturali. Da noi, invece,
si arriva all’autoprescrizione di prestazioni da parte dei diretti fruitori
della remunerazione. L’ideologia della commistione pubblico privato – che si
traduce in investimenti in partnerariati (preferiti anche quando non
necessari), accreditamenti e convenzionamenti con strutture private nonché
esternalizzazioni finalizzate a ridurre i salari degli operatori – produce una
persistente pratica di devoluzione al privato di funzioni pubbliche che trova
nel concetto di sussidiarietà la sua cornice. È la riproposizione estesa di
quanto a suo tempo concesso nel campo della sanità, dell’istruzione e
dell’assistenza alle strutture ecclesiastiche. È l’ideologia del “meno Stato
più privato” che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ideologia praticata
abbondantemente anche da governi sedicenti “di sinistra”.
È in questo
quadro che si è determinato l’allungamento delle liste d’attesa, dovuto principalmente a un
incremento della domanda Tale incremento, peraltro, è solo in parte ascrivibile
ai maggiori bisogni sanitari, pur reali sia per l’aumento della popolazione
ultra sessantacinquenne (portatrice di maggiori patologie), sia per il costante
progresso delle cure. Esiste, infatti, un pericoloso consumismo sanitario, una
costante istigazione ad esami e farmaci inutili, alimentata da pressioni
mediatiche (che incidono su una popolazione con una cultura sanitaria scarsa e
incerta: del resto siamo un Paese con un livello di scolarità tra i più bassi
d’Europa) e dalla conseguente necessità di “prescrivere qualcosa” per
assecondare le aspettative di una popolazione fragile ed ansiosa che richiede
rassicurazione. Il resto lo fanno gli interessi economici che derivano
dall’implementazione dei consumi. Di fatto si calcola che sia inappropriato un
terzo delle prestazioni diagnostiche, mentre l’uso di molti farmaci e
parafarmaci sfrutta esclusivamente l’effetto placebo. Le cosiddette
“liberalizzazioni”, che hanno equiparato i farmaci e la sanità a qualunque
altro bene di consumo, hanno inoltre portato a un abnorme incremento
dell’offerta e di bisogni, spesso voluttuari, indotti per alimentare il mercato
sanitario. Le liste d’attesa sono un buon affare e stanno creando un
mercato fiorente di sanità a pagamento: sono proprio gli esami inutili che
determinano i maggiori utili finanziari. L’Organizzazione Mondiale della
Sanità ha chiarito che è l’investimento nella sanità pubblica ad avere
determinato i significativi risultati raggiunti nell’aspettativa di vita mentre
la spesa out of pocket vi contribuisce in minima parte.
Oltre che
dell’incremento della domanda, il prolungamento delle liste d’attesa nel servizio
pubblico (che, a differenza di quanto accade nelle attività a pagamento, cresce
costantemente) risente di numerosi fattori. C’è, anzitutto, la
riduzione dell’offerta da parte del Servizio Sanitario Nazionale
per mancanza di medici e infermieri il cui numero è
inferiore al 2010 nonostante l’incremento della loro età media. Le scarse
retribuzioni del settore pubblico, poi, determinano fuga degli
specialisti verso il privato e all’estero. La selezione delle
prestazioni da parte del privato, inoltre, rende il servizio
pubblico gravato dalle prestazioni più complesse, onerose e impegnative per il
personale. Tutto ciò a fronte di una spesa pubblica per il SSN pari al
6,6% del PIL (in diminuzione nella programmazione dei prossimi anni:
6,2% nel 2025 e 6,1% nel 2026) contro una media europea del 7,1%. Mentre nell’Unione
europea la spesa pubblica pro capite è, mediamente, di 3.562
euro, in Italia scende a 2.312. E la situazione è aggravata dal
fatto che i costi dei farmaci sono uguali e che l’Italia è, nel mondo, il Paese
con l’età media più elevata dopo il Giappone.
Non c’è più
spazio per la retorica del servizio sanitario migliore del mondo: non è più
così da molto tempo nonostante il sacrificio degli operatori. Non a caso
l’Unione europea, dopo il riscontro dell’elevata e anomala mortalità durante la
pandemia, aveva previsto per la sanità italiana, attraverso il MES, un
finanziamento straordinario di 38 miliardi (che prevedeva una restituzione in
10 anni al tasso del 1%), che è stato, peraltro, sdegnosamente rifiutato.
La conclusione è obbligata: le liste d’attesa sono l’esito di un incrocio di problemi apparentemente di carattere tecnico, ma in realtà di natura esclusivamente politica che dipendono dall’impianto culturale e ideologico dei governi.
lunedì 2 settembre 2024
Chi dissente è criminale. Il caso Tav in Val di Susa - Livio Pepino
Volere la Luna e il Forum Disuguaglianze e Diversità hanno iniziato, nel giugno scorso, una riflessione comune sulle molte facce della svolta autoritaria in atto nel Paese. Alla prima tappa di quella riflessione (il convegno romano del 20 giugno) ha fatto seguito nei giorni scorsi la pubblicazione dell’e-book “Verso una svolta autoritaria? L’Italia e l’Europa tra neoliberismo e restrizione della democrazia”, scaricabile gratuitamente da questo sito (https://volerelaluna.it/materiali/2024/08/28/verso-una-svolta-autoritaria/) e da quello del Forum (https://www.forumdisuguaglianzediversita.org/download-verso-una-svolta-autoritaria/). Anche per sottolineare ulteriormente l’iniziativa pubblichiamo qui l’intervento di Livio Pepino dedicato alla repressione del dissenso, con particolare riferimento alla situazione della Val Susa. (la redazione)
1. Da un lato la deriva
autoritaria che sta aggredendo l’assetto istituzionale del Paese; dall’altro il
tentativo di fare terra bruciata intorno ai barbari, ai marginali e ai ribelli.
Le due cose si tengono e si comprendono appieno solo nel loro collegamento.
Alla marginalità e al dissenso radicale sono stati dedicati i primi
interventi legislativi del Governo della destra e della sua maggioranza (affiancati
da attenzioni particolari delle autorità amministrative e di
molte Procure). Nel giro di poco più di un anno è stato, tra l’altro,
fortemente limitato il diritto di riunione, sono state inasprite le pene (già
abnormi) per la protesta ambientale, è stato ripristinato il blocco stradale e
sono state aggravate le sanzioni per i reati commessi nel corso di
manifestazioni. E non basta. Il disegno di legge governativo n. 1660 sulla
sicurezza, all’esame della Commissione Giustizia della Camera, completa l’opera
con un ulteriore aumento della pena per le occupazioni di immobili, la
previsione del blocco ferroviario, oltre a quello stradale, come reato (con
pena da 6 mesi a 2 anni) «quando il fatto è commesso da più persone riunite»
(cioè sempre, considerato che un blocco stradale o ferroviario realizzato da
una sola persona è una semplice ipotesi di scuola…), l’ulteriore aumento di un
terzo della pena per la resistenza e violenza a pubblico ufficiale se commesse
in danno di ufficiali o agenti di pubblica sicurezza (e dunque,
prevalentemente, nel corso di manifestazioni), l’introduzione del delitto di
rivolta in istituto penitenziario (con la precisazione che la “rivolta” si può
realizzare «mediante atti […] di resistenza anche passiva all’esecuzione degli
ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi da tre o più
persone riunite»), l’estensione della sfera di applicazione della scriminante
dell’uso legittimo delle armi da parte di ufficiali e agenti di polizia e via
elencando. E c’è chi, nella maggioranza, ha presentato un emendamento teso ad
aumentare a dismisura (sino a un massimo di 25 anni secondo l’interpretazione
più attendibile) la pena per il delitto di resistenza e violenza a pubblico
ufficiale se commessa «per impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di
un’infrastruttura strategica» (sic!): non passerà, ma è indicativo di un
clima nel quale l’Ungheria è vicina e il codice Rocco impallidisce. Ma tutto
questo non è cominciato ieri e, anche per cercare di invertire la tendenza,
occorre capire come si è arrivati a questo punto.
2.
Illuminante è la vicenda del movimento no Tav, cioè dell’opposizione alla nuova linea ferroviaria
Torino-Lione, diventata, negli anni, il crocevia di questioni
fondamentali per la nostra democrazia.
La Val Susa è una piccola valle alpina attraversata dalla Dora Riparia,
con una popolazione di 90.000 abitanti e 40 Comuni. Una valle un tempo
bellissima, che l’uomo ha gravemente ferito. Nei luoghi dove dovrebbe
iniziare il traforo (di 57 km!) della nuova linea (di complessivi 270
km) già corrono due strade nazionali, un’autostrada e una ferrovia (utilizzata
al 30% delle sue potenzialità), tutte destinate a restare. Non è difficile
immaginare cosa sia una valle (abbastanza stretta, com’è, in genere,
delle valli) attraversata da cinque arterie di grande percorrenza… Di
più, questa valle è, secondo il coordinamento dei medici di base che
vi operano, uno dei territori del Paese con la maggior concentrazione di tumori
e di patologie connesse con l’amianto e l’uranio (presenti in misura
significativa nelle montagne che si vorrebbero scavare). Non stupisce, in
questo contesto, che, fin da quando, nei primi anni ‘90 del secolo scorso,
si è iniziato a parlare dell’opera, gran parte dei valsusini non
abbia condiviso gli entusiasmi dei promotori (guidati dalla Fondazione
Agnelli), estasiati dalla possibilità di spostarsi da Milano a Parigi per
prendere un aperitivo sotto la Tour Eiffel (sic!). E l’entusiasmo non è
certo aumentato quando, nei decenni successivi, le profonde trasformazioni
sociali e un occhio ai dati hanno indotto i fautori dell’opera a lasciare
a terra i passeggeri e a convertire il progetto da alta velocità in alta capacità
per trasporto merci (a cominciare da quelle auto che, intanto, la ex Fiat
smetteva di costruire a Torino…). Di qui la nascita del movimento
no Tav, da subito impegnato contro lo scempio ambientale e l’attentato
alla salute della popolazione, l’inutilità della nuova linea (data la caduta
verticale degli scambi di merci sulla direttrice est-ovest), lo spreco di
risorse in periodo di gravissima crisi economica. Ragioni ulteriormente
consolidatesi nel tempo alimentando un’opposizione tuttora viva e vitale, dopo
oltre 30 anni. Così il microcosmo della Val Susa, angolo del Piemonte in
precedenza sconosciuto ai più, è diventato un laboratorio: di
partecipazione, di azione politica, di democrazia dal basso,
ma anche di criminalizzazione e repressione del dissenso.
I fatti, dunque.
La serietà delle ragioni dell’opposizione (concernenti i diritti
fondamentali delle persone) e il carattere diffuso della protesta (con
manifestazioni che hanno superato i 70.000 partecipanti) avrebbero
meritato, in una democrazia coerente con il proprio nome, un
confronto reale e approfondito. Invece… Lascio la parola al
Tribunale permanente dei popoli che, nella sentenza 8 novembre 2015, ha
rilevato, tra l’altro, che «si sono ignorati totalmente le opinioni, gli
argomenti, ma ancor più il sentire vivo delle popolazioni direttamente colpite»
e che «ciò rappresenta, nel cuore dell’Europa, una minaccia estremamente grave
all’essenza dello Stato di diritto e del sistema democratico che deve
necessariamente essere fondato sulla partecipazione e la promozione dei diritti
e il benessere, nella dignità, delle persone». In altri termini, si è
proceduto in Val Susa con un approccio di carattere neocoloniale,
trasferendo nel nostro Paese metodi praticati nel secolo scorso dalle
potenze occidentali in Africa, in Asia e in America latina: certo, con
modalità meno brutali e cruente, ma seguendo la stessa logica, in una
prospettiva di crescente svuotamento della democrazia, le cui istituzioni
diventano sempre più luoghi di ratifica di decisioni prese altrove.
3. La sequenza e le modalità
dell’intervento istituzionale contro il movimento di opposizione in
Val Susa sono esemplari.
La prima
reazione dell’establishment è stato il tentativo di marginalizzare
la protesta, confidando nel suo sgonfiamento sotto l’azione
del tempo.
Protagonisti di questa operazione, oltre ai promotori, le istituzioni
nazionali e regionali e i media (quei media nei cui consigli di amministrazione
sedevano – e siedono – spesso gli azionisti di società interessate all’opera e
che, in tutta la vicenda, saranno una presenza decisiva). Si sono
alternati, in questa fase, riconoscimenti di facciata, paternalistiche
assicurazioni di futuri confronti, grottesche rappresentazioni dei
protagonisti della protesta come anacronistici Obelix o Asterix
(quando non come aborigeni con l’osso al naso, ripresi dall’iconografia
coloniale fascista), critiche a un presunto luddismo incapace di guardare al
futuro e legato alla sindrome Nimby (“Non nel mio cortile”), patriottici
richiami allo spirito del Conte di Cavour “padre” del primo traforo del Frejus
e molto altro ancora. Poi, visto che gli “indiani di valle” non
accennavano a demordere si è cambiato registro.
È iniziata
così la seconda fase, quella “del bastone e della carota”, nella quale
si sono susseguiti tentativi di “comprare” il movimento con promesse di
compensazioni (lustrini e perline dei tempi moderni), istituzione di finti
tavoli di concertazione (a cominciare dall’Osservatorio per
l’asse ferroviario Torino-Lione, pubblicizzato come luogo del confronto
democratico, ma presto trasformatosi in “caminetto” riservato ai sindaci
favorevoli all’opera), velate minacce di interrompere il confronto e di passare
alle “maniere forti”. Ma l’effetto è stato opposto a quello sperato: il
movimento no Tav, lungi dal disgregarsi, si è ulteriormente rafforzato, è
riuscito a impedite carotaggi e apertura di cantieri, è diventato un
riferimento nazionale e internazionale, ha aggregato tecnici
e intellettuali e ha riscosso un ampio consenso di opinione (quantificato,
dall’Ispo di Mannheimer, in un’indagine commissionata dal Corriere
della Sera all’inizio del 2012, nel 44 per cento degli italiani).
Ciò ha
aperto la strada alla terza fase: quella della criminalizzazione e
della repressione, iniziata nel 2005 e sviluppatasi in
modo particolarmente brutale a partire dal 2011, dopo lo sgombero del presidio
allestito alla Maddalena di Chiomonte per impedire l’inizio dello scavo di un
tunnel geognostico e i connessi scontri. I passaggi fondamentali di questa
fase sono, in estrema sintesi, i seguenti:
a) la creazione, in Val Susa, di una
sorta di stato di eccezione realizzato attraverso un’inedita militarizzazione
del territorio (assai maggiore di quella riscontrabile in zone a forte presenza
criminale, con presenza massiccia, in funzione dissuasiva e di
controllo, di forze dell’ordine e di reparti dell’esercito, spesso in tenuta
antisommossa); l’istituzione (in evidente continuum con
la prassi iniziata a Genova nel luglio 2001) di zone rosse in
prossimità dei cantieri (aperti o semplicemente previsti), con divieto
generalizzato di accesso, recinzioni di filo spinato e concertina e presidi di
forze di polizia (si contano, dal 2011, oltre 50 ordinanze prefettizie in tal
senso, emesse senza soluzione di continuità ai sensi dell’art. 2 del Testo
Unico di Pubblica Sicurezza, che – come noto – le prevede solo «nel caso di
urgenza e per grave necessità pubblica»…; una gestione dell’ordine
pubblico, in occasione di qualsivoglia evento o manifestazione, disinteressata
a ogni forma di contrattazione e caratterizzata da interventi
estremamente violenti, uso di idranti, lancio di lacrimogeni ed addirittura di
gas vietati da convenzioni internazionali;
b) un provvedimento
legislativo ad hoc (l’art. 19 della legge n. 183/2011) con il
quale «le aree e i siti del Comune di Chiomonte, individuati per
l’installazione del cantiere della galleria geognostica e per la realizzazione
del tunnel di base della linea ferroviaria Torino-Lione, costituiscono aree di
interesse strategico nazionale»;
c) la torsione della
giurisdizione da luogo di accertamento di eventuali responsabilità per
reati specifici in protagonista di politiche di diretta tutela dell’ordine
pubblico, con alcune modalità del tutto anomale: c1) l’istituzione,
presso la Procura della Repubblica di Torino, di un pool per
la persecuzione dei reati connessi con l’opposizione al Tav
addirittura prima dell’esplodere del conflitto e dei connessi reati (e il
suo attuale assorbimento nel Gruppo Terrorismo ed Eversione dell’Ordine
Democratico: sic!); c2) la creazione di
corsie preferenziali per la trattazione dei procedimenti a carico di
appartenenti al movimento no Tav (anche se per reati di minima entità, come i
danneggiamenti alle reti dei cantieri, accantonati, secondo le disposizioni organizzative
dell’ufficio, ove commessi in altri contesti), a fronte dell’inerzia o dei
tempi lunghi riservati a quelli a carico degli operatori di polizia; c3) la
lievitazione del numero di indagati e arrestati (nel periodo dal 2011 al 2019,
gli imputati sono stati oltre 2.000 con una punta di 327, quasi uno al giorno,
nel 2011); c4) la dilatazione impropria, da parte della
Procura della Repubblica e dei giudici della cautela, del concorso di
persone nel reato sino a delineare quella che è stata definita una
“responsabilità da contesto”; c5) il ricorso a contestazioni
(a dir poco) sovradimensionate, sino a quella di «attentato per finalità
terroristiche» (la cui infondatezza è stata dichiarata in tutti i gradi di
giudizio ma che, intanto, ha prodotto effetti devastanti tra i
quali un anno di carcere duro e in condizioni di isolamento per gli
imputati e di massacro mediatico per l’intero movimento no Tav); c6) l’uso
massiccio, anche nei confronti di incensurati, di misure cautelari, trasformate
da extrema ratio in regola (fondate sempre su una presunta
pericolosità sociale, perlopiù desunta da annotazioni incontrollate di polizia
e spesso esclusa nei successivi dibattimenti); c7) il
frequente diniego, in fase esecutiva, di misure alternative al carcere, nonostante
l’inserimento sociale e l’attività lavorativa dei condannati, con motivazioni
concernenti esclusivamente l’appartenenza al movimento No Tav;
d) il ricorso sempre più ampio
(60 casi nella sola estate 2023) a misure di prevenzione o di polizia,
in particolare l’avviso orale, il foglio di via e l’obbligo di soggiorno;
e) il ricorso ad azioni civili
vessatorie, come le
richieste di risarcimento dei ministeri degli Interni e della Difesa nei
confronti di attivisti in relazione ai costi sostenuti dall’amministrazione per
«l’attività infoinvestigativa svolta ai fini dell’individuazione dei
responsabili degli illeciti […] e di ripristino dell’ordine pubblico»;
f) un’ulteriore aggressione ai
patrimoni degli esponenti più attivi del movimento mediante l’applicazione di
sanzioni amministrative per fatti (diffusione di musica,
somministrazione di bevande senza autorizzazione, infrazioni al codice della
strada etc.) intervenuti nel corso di manifestazioni o eventi abitualmente
tollerati in occasioni analoghe;
g) il supporto di una
informazione embedded (in particolare della Stampa,
della Repubblica e del Tg3) arruolata nell’attività di
propaganda e onnipresente partecipe delle operazioni di ordine
pubblico al seguito delle forze di polizia, le cui pagine sono diventate simili
a comunicati stampa della Procura e sempre meno distinguibili dai mattinali
della Questura.
4. È tempo di conclusioni. La
criminalizzazione e la repressione del dissenso in Val
Susa rappresentano una ipotesi scolastica di costruzione di
quel diritto penale del nemico che accompagna, da sempre,
l’irrigidimento autoritario delle istituzioni. Con due
necessarie chiose. La prima è che, dopo trent’anni, in Val Susa non è
ancora stato costruito neppure un metro della nuova linea ferroviaria Torino-Lione
e i tempi si stanno ulteriormente dilatando (anche per la parziale marcia
indietro della Francia, cointeressata all’opera): ma, in parallelo,
l’apparato repressivo lì utilizzato è diventato un sistema ordinario,
quotidianamente sperimentato dai lavoratori della logistica, dagli studenti
nelle piazze e nelle Università e dagli esponenti del movimenti ambientalisti
radicali, da Ultima Generazione a Extinction Rebellion (assurti al rango di
nemico pubblico). La seconda chiosa è che la repressione dei
movimenti sta diventando, con il governo della destra, più accentuata e
sistematica ma non è nata oggi: è stata sperimentata nel tempo con governi di
diverso colore (e, in particolare, da una sinistra sempre propensa a
fare la destra). Sarebbe tempo di aprire gli occhi e di cambiare
approccio. Forse non è troppo tardi…