Una vita scappando. I fuggitivi del Sahel e noi
Un gruppo di cristiani, scappando dal villaggio di Dolbel, sono arrivati ieri a Niamey. Il motivo della fuga è da trovarsi nel massacro di sei persone, di mattina presto, perpetrato nel villaggio di Fangio, non lontano dal loro. Come in altri villaggi della zona e altrove, il messaggio dei Gruppi Armati Terroristi è lo stesso: scappare per salvare se stessi e la la propria famiglia. Si uniscono alle altre migliaia di persone che, per vivere e sperare, devono fuggire dalla loro terre e lasciare la casa e i beni che costituiscono la loro povera ricchezza. Una vita scappando, appare come una delle metafore del nostro e di altri tempi storici. Una drammatica parabola della nostra condizione umana. Ancora prima di far scappare gli altri c’è la fuga da se stessi e da ciò che costituisce la propria umana identità. Chi fugge da sé prima o poi farà fuggire gli altri dalla propria terra.
La prima volta di questa fuga mi vide testimone a Monrovia, in Liberia. Fu la conclusione della guerra civile durata una quindicina d’anni. La gente, per migliaia, si ammassava sulle strade della capitale terrorizzata per l’annunciato arrivo dei ribelli del LURD (Liberiani Uniti per la Riconciliazione e la Democrazia). Sotto la pioggia battente di stagione scappava, portando sul capo o su mezzi di fortuna, il salvabile in quella circostanza. Un materasso, qualche coperta, il necessario per cucinare, le zanzariere e gli immancabili bambini appesi alle spalle dei genitori. Una scena da apocalisse e dunque da rivelazione unica e decisiva del vero volto della guerra, di ogni guerra. Le guerre sono i morti, i feriti, gli abbandonati e soprattutto loro, quelli che fuggono per salvarsi e sperare un’altra parte. Dove andate, si chiedeva loro : non sappiamo, dicevano, lontano.
Il vicino Burkina Faso, patria di Thomas Sankara e del giornalista bruciato dai sicari del potere Norbert Zongo, è vittima di attacchi terroristi da cinque anni. Ciò sta causando, oltre le numerose vittime, migliaia di sfollati e dunque una crisi umanitaria senza proporzioni nella storia recente del Paese. Il loro numero è passato da 560 mila del dicembre 2019 a oltre un milione nel dicembre dell’anno scorso. Sui 300 comuni che conta il Paese almeno 266 accolgono una parte degli sfollati. Il 54 per cento di questi ha meno di 15 anni. La scelta principale è stata finora la fuga dal loro luogo di nascita. Dopo aver vissuto il trauma della marcia forzata, della paura di attacchi, rappresaglie, regolamenti di conti e conflitti etnici ereditati o provocati, sarà difficile vivere una vita ‘normale’. D’altra parte la così chiamata ‘normalità’ è ciò dal quale sono scaturiti i drammi di cui si parla.
La povertà endemica, il cambiamento climatico, la violenza armata, l’insicurezza alimentare e la malnutrizione continuano a mantenere il Sahel in una estrema fragilità. Nelle regioni toccate dai conflitti armati i civili sono confrontati a una crisi di protezione e hanno dovuto fuggire altrove. I servizi di base, la salute e l’educazione, sono seriamente bloccati. Circa 5 mila scuole sono chiuse e così pure oltre 130 dispensari con disagi evidenti per le donne in stato di gravidanza . Quest’anno circa 29 milioni di Saheliani avranno bisogno di assistenza e di protezione, cinque in più dell’anno scorso. Nel Niger, infine, nell’ultimo rapporto dell’ Alto Commissariato per i Rifugiati, vengono rilevati oltre 234 mila rifugiati, circa 300 mila sfollati interni e più di 3 mila richiedenti asilo. Ciò senza contare le migliaia di migranti di passaggio e gli ospiti delle case dell’OIM.
I fuggitivi del Sahel non sono numeri o accidenti di percorso ma uno dei volti e simboli del nostro tempo che scappa da sé senza sapere dove andare. Prima di trovarsi, forse, c’è da andare lontano.
Mauro Armanino, Niamey, 16 maggio 2021
Schiavi, servi e liberi. Appunti dal Sahel
C’è stata la tratta atlantica ma prima ancora quella araba verso il Nord Africa e la costa orientale. Gli schiavi sono coloro che, spossessati della loro dignità umana, sono ridotti a cose o strumenti senza volontà propria. Le guerre, le razzie, le violenze generazionali hanno reso la schiavitù parte della configurazione delle società. Ad ogni epoca i propri schiavi. La nostra non è da meno di quelle che ci hanno preceduto e di cui abbiamo raccolto e sovente perfezionato l’eredità. La schiavitù dei corpi è particolarmente violenta perché si iscrive nelle fibre che ci costituiscono e si diffonde allo spirito, alle relazioni e a tutto ciò che costituisce la complessità della vita. Schiavi nelle menti e nelle parole che della schiavitù diventano espressione grammaticale. Schiavi della violenza armata che traduce la violenza ideologica, la peggiore delle violenze, perché generatrice del più grande tradimento, quello della realtà. La perversione della realtà e dei volti umani che la costituiscono genera la riduzione dell’altro a oggetto, simbolo o rappresentazione del nemico da abbattere o eliminare. Schiavi della paura di pensare, parlare, scegliere, manifestare o semplicemente vivere da umani. Schiavi del potere, del successo, della Grande Divisione tra l’apparire e l’essere, tra la menzogna e la verità, tra il pensiero e la parola. Schiavi bambini nelle miniere che permettono all’economia del numerico di funzionare e all’energia ‘verde’ di prosperare. Schiave sessuali sulle strade delle città europee che arrivano dal continente africano e da altre parti del mondo. Promesse, illusioni, pressioni famigliari, competizioni economiche, ignoranza, sete di guadagno facile, reti criminali e complicità politiche. Questo e altro riproducono le moderne schiavitù che attualizzano quelle antiche. Le schiavitù sul lavoro, vero e proprio terreno di sfruttamento che evidenzia la sudditanza di classe. Le schiavitù etniche, culturali, famigliari e identitarie che sono funzionali al mantenimento delle relazioni di potere.
Le servitù, invece, hanno qualcosa di particolare. Ad appena sedici anni Etienne de la Boetie, scrive uno dei testi più radicali sui meccanismi della dominazione politica. Secondo lui, se il popolo è oppresso, la colpa non è dei tiranni ma del popolo stesso. Questo meccanismo porta un nome: la servitù volontaria. Si abdica alla propria e innata sovranità per paura, convenienza, interesse o forse perché, nella propria vita, non si è conosciuto altro che la servitù, trasformatasi poi in ‘abitudine’ (habitus). Si vive da servi, si pensa da servi, si agisce da servi, si sogna da servi e ci si accontenta di quanto la servitù possa offrire di meglio. Il pensiero addomesticato, il politicamente corretto, la strategia della bandiera che cambia direzione col vento, nascono da un pensiero e una vita gregaria. Servi del sistema, del potere, della moda di contraffare la storia quotidiana, l’attitudine a ‘strisciare’ per evitare di prendere posizione, la codardia di mettersi dal lato dei vincitori, l’adesione a precetti religiosi per addomesticare l’insurrezione disarmata. Questo e altro addestrano il soggetto alla servitù volontaria. L’obbedienza cieca al capo ne diviene il segno rivelatore.
La libertà comincia con un no. Il rifiuto ha sempre costituito un gesto essenziale. I santi, gli eremiti ma anche gli intellettuali, il piccolo numero di persone che hanno fatto la Storia, sono coloro che hanno detto no, mai i cortigiani o i valletti dei cardinali. Per essere efficace, il rifiuto dev’essere grande e non piccolo, totale e non su questo o un altro punto. Questo scriveva Pier paolo Pasolini sulla ‘Stampa’ nel 1975, un millennio differente dal quello nel quale ci troviamo oggi. Appena dopo il rifiuto arriva però il sì nuziale alla vita intesa come straordinaria avventura dell’impossibile. Il sì alle scelte di parte degli oppressi e al camminare accanto e dentro ai poveri, per fare strada assieme. Il si all’eresia che solo dalla debolezza e dalle periferie scaturirà l’unica speranza possibile per l’umano. Un sì migrante che attraversa frontiere e crea inediti percorsi di umana convivialità. Un sì alla mani nude, ai volti scoperti, alla parole vere che spuntano come fiori nel mare, alla follia delle sconfitte che trasformano il pianto in risurrezione, al silenzio che accarezza il vento, amaro, della libertà.
Mauro Armanino, Niamey, 9 maggio 2021
Mercenari, mercanti e militanti nel Sahel - Mauro Armanino
Niamey, 25 aprile, la liberazione. Si trovano dappertutto e forse sono la maggioranza. I mercenari compongono e infiltrano praticamente tutti gli ambiti della società. Sono coloro che lavorano, agiscono e combattono solo in cambio di una remunerazione. Li troviamo nelle piccole, medie o grandi agenzie umanitarie e, visto come vanno le cose nel Sahel e dintorni, hanno davanti a loro un un futuro assicurato. Li scopriamo nel mondo della politica intesa come interessata amministrazione dell’esistente. Si rivelano in modo comico e indecente nelle periodiche e nevralgiche competizioni elettorali. Si scambiano gli schieramenti e le ‘maglie’ esattamente come in ambito sportivo odierno. Persino nello sport, che di una società è uno degli specchi fedeli, il mercenariato è non solo accettato ma anche imposto per contratto bilaterale. In ambito educativo i mercenari costituiscono l’assoluta garanzia di continuità di un sistema che alla fine non cerca altro che di riprodurre se stesso. Nell’orbita religiosa, considerata come una delle espressioni dell’assoluto divino, questa categoria di persone trova il proprio spazio di manovra e di rilevanza.
Sfruttando l’umana fragilità, lo sradicamento sociale, la perdita di riferimenti etici e la globalizzazione della miseria, crescono i mercenari di consolazione, successo, prestigio e progresso sociale. Si fanno un nome, una carriera e un futuro. Colmano con promesse di felicità futura e di guarigioni immediate, il vuoto creato dalla inutile corsa all’accumulazione di denaro che, non da oggi, si rivela come l’unico dio a cui sacrificare la vita. I mercenari si trovano anche nelle relazioni umane, spesso rivestite di un’aura di quasi sacralità, come la la famiglia, le amicizie e le relazioni intime di cui la prostituzione assume un ruolo emblematico. Non parliamo, infine, dello spazio militare che, ormai da tempo e per scelta, ha promosso i mercenari al ruolo riconosciuto di ‘Contractors’, i quali, senza leggi o limiti legati alla deontologia del mestiere, hanno le strade aperte ad ogni tipo di abuso.
A loro assomigliano i mercanti che, in certo modo, ne assicurano la perpetuità. Comprano, acquistano e soprattutto SI vendono. Gli acquirenti non mancano. Le banche, i partiti, i sindacati, le organizzazioni non governative, i religiosi in cerca di clienti, le multinazionali che vanno dove si paga meno la mano d’opera o le leggi sono favorevoli agli investimenti. Oggigiorno nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si vende a partire dai corpi umani e dal tempo, mercanzia rara come la salute. Si vendono assieme alle paure, i vaccini, i test dell’indotta pandemia dei nostri tempi, il passaporto sanitario, le parole, le verità e i brandelli di futuro appesi ad un filo come panni stesi ad asciugare. Tutto si mercanteggia a partire dalla giustizia che si modella a seconda di chi è indagato e dovrebbe rendere conto dei suoi atti. Quando il mondo si trasforma in un solo e grande mercato non rimane altro che sperare che arrivino loro, i militanti.
Fortuna esistono anche e soprattutto qui. I militanti che, fedeli alla definizione che li rende così preziosi, lavorano attivamente alla difesa o alla propazione di un’idea, di una dottrina, di una convinzione che li supera e per la quale sono disposti a dare la vita. Per i diritti umani, per la dignità della donna, contro ogni tentativo di asservimento o schiavitù delle creature più fragili, per un’ecologia integrale, perche giustizia sia fatta, contro la dimenticanza o lo stravolgimento della storia, per la libertà di espressione, per il rispetto delle parole, per la decenza del lavoro e per una pace disarmata. Nel Sahel, come altrove in Africa, sono da contare a centinaia i militanti che fanno esperienza della repressione e della persecuzione. Sono uccisi, rapiti, presi come ostaggi, censurati e soprattutto si trovano ospiti nelle diverse prigioni di stato che si contraddistinguono per crudele inadempienza del proprio ruolo a servizio della giustizia. Si trovano uomini, donne, giovani e adulti che stanno pagando di persona la convinzione che le ragioni per cui si vive sono più importanti e decisive della vita stessa. A loro non basta la ‘nuda vita’ per sentirsi pienamente umani. Ci sono tra loro i santi, i profeti, i poeti, i partigiani, gli innamorati, i migranti in cerca di utopie che malgrado tutto esistono ancora. Ed è grazie a loro che la storia avanza con un senso e una direzione. Sono semplicemente imprescindibili.
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Confinamenti, sconfinamenti e tre giocattoli nel Sahel
Li ha posti con un gesto naturale sulla tomba di terra di Aliya morta a due mesi. Un pesciolino, una trombetta e un uccellino. Questi i giochi da bambini che Johnson, lui stesso malato, ha deposto sulla terra ancora fresca di sepoltura. Un gesto di sconfinata tenerezza perché Aliya, ovunque essa si trovi in questo momento, possa imparare a giocare ciò che, nella sua troppo breve esistenza, non ha potuto fare prima. Accanto ai giochetti colorati di plastica, una croce di ferro piantata nella terra, sconfinata come tutte le croci dei cimiteri e della storia umana. Saranno per sempre assieme, i giochetti e la croce, nel leggero strato di cemento buttato sulla terra come un secondo grembo in attesa di germoglio. I fiori e i rami piantati accanto al momento della sepoltura già erano secchi di vento che soffia in questi giorni su Niamey, la capitale. Altrettanto sconfinata appare l’avventura di Patrick originario dalla Repubblica Democratica del Congo che ha abbandonato nel 2005 per andare altrove a cercare la sua vita smarrita in patria. Qualcosa come quindici anni in Algeria, prima studiando poi lavorando e cercando infine di attraversare il mare per raggiungere l’Europa di tutti i sogni. Arrestato, espulso e deportato si trova adesso nella capitale, ospite dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, da tre mesi in attesa di rimpatrio. Non rimpiange il vissuto e afferma la ferma volontà di ‘ricostruirsi’ dopo tutto questo tempo. I tentativi falliti di viaggio in Occidente e il ‘razzismo’ di vari algerini che gli hanno portato via tutto. Si stupisce che l’Unione Africana non dica nulla ai governanti dell’Algeria sull’iniquo trattamento riservato ai migranti e ai rifugiati , in seguito alle loro disposizioni. ‘Con nulla sei arrivato e con nulla devi partire’, questa la logica che giustifica la confisca dei beni che migranti e rifugiati hanno messo da parte in anni di duro e spesso sfruttato lavoro nel Paese. Ingiustizie sconfinate che gridano nel deserto dell’indifferenza di politici e società civile.
Chi la fa l’aspetti, verrebbe voglia di dire, con la saggezza di un tempo. Abbiamo giocato a confinare popoli, migranti, desideri di trasformazione, aneliti di giustizia e fragili tentativi di riappropriazione di dignità. Abbiamo moltiplicato muri, cancelli, sistemi di controllo, radar, tracciamenti di esseri umani ‘clandestini’, reclusioni dietro reticolati di cartone, inventato biometrie e armi ogni volta più numeriche. Abbiamo, per decenni, scavato fosse, tracciato trincee, creato abissi, progettato voragini, disegnato mari e deserti come recinzioni per fintamente proteggerci e adesso tocca a noi. Confinati fisicamente, mentalmente, socialmente, economicamente e soprattutto umanamente da scelte politiche al soldo di interessi ideologici e monetari. Doveva capitarci perché potessimo provare ciò che nel frattempo avevamo dimenticato. Che, in questa vita e forse pure nell’altra, siamo tutti migranti e che la vita stessa è migrazione e che il mondo e la terra sono di tutti e in particolare dei poveri. Abbiamo dimenticato che siamo creature di sabbia, nude, fragili, mortali, precarie, provvisorie ed eterne solo quando accettiamo la nostra identità di frontiera, tra terra e soffio, amante, di vita. Fa sorridere che qui, in mancanza di meglio, come riporta un giornale locale, ad essere confinate sono…le galline. Il giornale in questione cita il Punto focale dell’Organizzazione Mondiale della Salute Animale che rileva l’esistenza di due focolai di influenza aviaria a Niamey. Il primo in un cortile con circa 40 volatili e il secondo in un allevamento con varie migliaia di galline per la produzione di uova. I gesti barriera sono stati subito introdotti, riporta il giornale, assieme ad una stretta quarantena dei malcapitati animali e l’isolamento degli stessi da ogni contatto esterno. Il settimanale conclude con una nota di solidarietà nei confronti del pollame in questione e desidera ricordare agli animali che dovrebbero sentirsi privilegiati perché, nel 2006, erano state freddamente abbattuti almeno 17 mila volatili.
Johnson, senza chiedere a nessuno, ha delicatamente deposto sulla terra della tomba di Aliya tre giochetti come regalo. Una trombetta multicolore per suonare, un pesciolino rosso per un mare che ancora non c’è e un uccellino giallo polvere di vento , per volare lontano.
Mauro Armanino, Niamey, 13 marzo 2021
Disobbedienze e divieti nel Sahel e in altre parti del mondo - Mauro Armanino
Niamey, 21 marzo 2021. La manifestazione dell’opposizione, annunciata da due settimane e prevista per il sabato 20 marzo, è stata vietata da un’ordinanza un paio di giorni prima della data. Troppo tardi per reagire e organizzarsi in altro modo. A giustificazione del divieto il timore di disordini in città, dopo quanto accaduto alla rapida e anticipata pubblicazione dei risultati delle elezioni presidenziali. L’uso del net è stato sospeso nel Paese per una decina di giorni, vietando il diritto alla comunicazione. Profittando dell’epidemia, la cui diffusione è stata qui e in genere nel Sahel estremamente ridotta, sono state vietate manifestazioni, assemblee numerose e chiuse a tratti scuole, moschee e chiese. E’ stata vietata la circolazione perché si son chiuse le frontiere tra i Paesi dell’Africa Occidentale. Per chi viaggia in aereo non ci sono divieti se si passa il test di controllo Covid alla partenza e all’arrivo. Quanto al passaggio delle frontiere tra questi Paesi, pur ufficialmente vietato, con un poco di incoscienza e di soldi a doganieri e altri addetti ai lavori, si transita.
E’ vietata la mobilità verso il nord dell’Africa perché, com’è risaputo, le frontiere dell’Europa hanno migrato fin qui e c’è da giurare che scenderanno ancora, verso la costa e fino all’Atlantico. Anche la mobilità sociale, seppur insinuata dalla Costituzione delle Settima Repubblica è, a tutti gli effetti, vietata. I figli dei possidenti studiano nei licei e nelle università private, possono persino andare all’estero e godere delle migliori condizioni di soggiorno. Saranno le ‘élite’ al potere la prossima tornata. Di padre in figlio e di madre in figlia, secondo la dinastia e le mutevoli alleanze politiche. I contadini contadini, gli allevatori allevatori, i mendicanti mendicanti e i politici, c’è da giurarlo, politici. Il conto torna sempre per chi si trova in cima alla classifica dei redditi. Pierre-Joseph Proudhon, filosofo e economista anarchico, diceva che la proprietà è un furto ma oggi si fa del furto la proprietà e chi è povero, dicono gli economisti d’oggi, se lo merita o se lo è cercato. Si vieta il futuro per la categoria sociale più numerosa nel Sahel: i giovani, che rappresentano lo specchio di ciò che saremo, un giorno, senza neppure accorgercene. Vietato sognare un mondo nuovo che non sia già sotto controllo dei poteri dominanti del sistema. Vietato credere in un Dio altro che non corrisponda a quello che la maggioranza ha deciso quello che debba essere. Potente tra i potenti e comunque in grado di regolare le cose in modo che tutto cambi perché nulla cambi. C’è il divieto formale di dire e raccontare ciò che ad uno sembri essere la verità delle cose, il divieto di dire e usare le parole di quanto si vede e si sperimenta, il divieto di evidenziare la realtà del tempo, il divieto formale di riconoscere e gridare, come nella nota fiaba di Hans Christian Andersen, ‘I vestiti dell’imperatore’, che il re è nudo. Vietato mostrare il viso, il cuore, i pensieri e le mani, vietato protestare, pubblicare, difendere i poveri dai soprusi della giustizia, vietato provare a cambiare la rotta della storia, vietato immaginare un mondo libero e trasparente, vietato trasgredire il disordine stabilito e garantito dalla continuità della violenza legittima di chi ne possiede il monopolio. E’ vietato sovvertire ciò che è politicamente corretto, vietato dissentire, se non nelle condizioni e le modalità previste dalla legge e purché ciò non vada a discapito della quiete pubblica. Vietato fare silenzio, meditare, contemplare, ascoltare, camminare e perdere il sentiero battuto. E’ formalmente vietato cantare e giocare senza voler vincere, zufolare e passeggiare sotto la pioggia, sedersi sulla panchina davanti al mare, rincorrere una nuvola con il pensiero e immaginare di trovarsi come il guardiano del faro prima della tempesta e del naufragio delle promesse della vita.
Per fortuna nel Sahel non ci mancano le occasioni per disobbedire. La sabbia, per cominciare, è disobbediente per natura e da lei abbiamo imparato a non lasciarci facilmente organizzare dal potere costituito. Come lei ci spostiamo a piacimento del vento e delle situazioni. Arriviamo tardi perché nel frattempo c’è stato un decesso, una crisi di malaria, la visita imprevista di uno straniero, l’elettricità che manca senza preavviso, la maestra ancora in congedo di maternità, l’impiegato statale appena uscito a cercare i figli, la signora della banca assente per fare acquisti , il meccanico che non trova gli utensili giusti e tutto aggiusta con la preghiera finale per riparare la macchina, i semafori che non funzionano e il traffico è più scorrevole, le elezioni che diventano battaglie campali, i bambini che scrivono il loro nome col gesso e sono orgogliosi di indossare il vestito che la mamma ha regalato per il compleanno che hanno dimenticato.
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