(Ad Angelino Alfano, Silvio
Berlusconi, Beppe Grillo, Giorgia Meloni, Mario Monti, Matteo Renzi, Matteo
Salvini, Niki Vendola. In forma privata e in forma pubblica, scrivo a voi,
leader di forze presenti nel Parlamento della Repubblica, per sottoporvi una
questione, al tempo stesso, personale e generale: il problema del fine vita)
Mi chiamo Walter Piludu, ho 64 anni, vivo a Cagliari.
Nell’agosto del 2011 mi è stata diagnosticata la SLA. Posso scrivere questa lettera solo grazie ad un computer a comandi oculari.
La malattia ha infatti progredito velocemente nel suo avido tragitto: da metà del 2013 sono completamente immobilizzato, vivo con un tubo che collega, 24 ore al giorno, il mio naso ad un respiratore meccanico, le mie funzioni vocali sono fortemente compromesse, non avendo più il riflesso difensivo della tosse mangio e bevo ogni volta con il terrore che qualcosa vada di traverso – mi è già successo due volte – generando una situazione terribile di soffocamento. Inoltre, vivendo solo da molti anni, ho dovuto abituarmi a condividere la mia casa di 80 mq. con badanti extra-comunitari ai quali mi sono dovuto affidare, giorno e notte.
Queste notazioni credo siano utili per tentare di trasmettere una specifica concretezza ad una questione che altrimenti potrebbe essere declinata a mera questione filosofica astratta.
Peraltro, ad onta della mia condizione, non sono afflitto da fisime suicidarie e, anzi, facendo leva sulle mie residue risorse intellettuali, sulla vicinanza di alcune care amicizie e, soprattutto, sugli affetti familiari, riesco tuttora a trovare un senso alla mia esperienza umana.
Sono però del tutto consapevole del mio destino: sempre che non intervenga prima una fatale crisi respiratoria che sopravanzi l’azione meccanica del respiratore, sono condannato a perdere completamente – più prima che poi – le mie funzioni vocali.
A tale evento – non aggirabile, secondo il mio attuale sentire, da nessun marchingegno elettronico per ragioni sia pratiche sia spirituali – io ho deciso di collegare il punto finale della mia vita.
Non avendo avuto in dote alcuna credenza religiosa e avendo il sereno convincimento che la morte sia la fine di tutto, non prendo affatto sottogamba questo tema.
Appunto perché la vita è una, unica, irripetibile esperienza, essa deve poter essere vissuta senza essere avvertita come una insopportabile prigione.
C’è, insomma, un diritto inalienabile, di dignità e di libertà, che deve essere garantito ad ogni persona.
E allora io mi chiedo e vi chiedo: come potrò rendere operative le mie volontà?
Mi chiedo e vi chiedo: perché costringermi ad andare in Svizzera invece di poterlo fare vicino ai miei affetti, nella mia terra, nella mia patria?
Ancora, mi chiedo e vi chiedo: se, come temo, non potrò andare in Svizzera, in ragione di insuperabili ostacoli logistici ed emozionali, in quale altro modo potrò realizzare la mia volontà se non col rifiuto di acqua e cibo e, dunque, con una lenta morte per sete e fame?
Naturalmente, c’è sempre la possibilità – quien sabe?- che, al momento cruciale, io possa cambiare idea o perdere la forza necessaria. Ma se la mia determinazione avrà la meglio sulla mia eventuale incertezza, mi chiedo e vi chiedo: è accettabile, è umano, è pietoso costringere una persona e i suoi cari ad un tale fardello di prolungata, indicibile sofferenza?
Ho abusato, e me ne scuso, con l’artificio delle domande retoriche. Quanto alla ruvida asprezza della descrizione della mia “soluzione finale”, preferisco il rischio di apparire fastidioso o invadente pur di non rinunciare a trasmettere a voi, leader della politica, il sentimento di angoscia nel quale vive un vostro concittadino.
Non ho mai avuto simpatia per la faciloneria e la superficialità e, dunque, ho la piena consapevolezza che non bastano queste mie scarne, individuali considerazioni sul fine vita o – per chiamare le cose con il loro nome – sull’eutanasia, a scalare la vetta della enorme complessità di questo problema, nel quale si intrecciano aspetti, ognuno degno di rispetto, di ordine filosofico, religioso, medico, legale.
Per di più – avendo partecipato, pur in modo microscopico, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’90, alle cose della politica come funzionario e dirigente locale del PCI e come assessore e Presidente della Provincia di Cagliari – non mi sfuggono le difficoltà della politica a misurarsi su questo tema, stretta come è da una pluralità di convincimenti ideali, appartenenze ideologiche, considerazioni di opportunità, valutazioni di utilità.
Ma, pur non dimenticando che anche la non decisione è una decisione, so che l’essenza, vorrei dire la nobiltà, della politica sta nella sua capacità di osare, nel coraggio di assumere decisioni in grado, a volte in tempi imprevedibilmente rapidi, di rendere migliore la vita delle persone e della società.
E’ in nome di questi valori alti della politica che mi sono rivolto a voi nella vostra funzione di leader ma anche in quanto persone, in ciascuna delle quali, ne sono certo, risiede un forte attaccamento ai princìpi di libertà e un sentimento genuino di umanità e di compassione.
Ho già avuto la sfrontatezza di indirizzarvi questa lettera e non ho, assolutamente, l’aspettativa di una vostra risposta.
Sento invece di chiedervi un silenzio operoso: perché, senza sgargianti bandierine di parte e senza querule primazie propagandistiche, almeno su un tema come questo, si riesca a trovare l’inedito coraggio di una sostanziale intesa che stimoli la predisposizione di un serio e approfondito disegno di legge e faciliti la scelta di un percorso parlamentare efficace e concludente, in un quadro, se non di auspicabile ma improbabile unanimismo, almeno di assenza di battaglie campali.
E’ una richiesta ingenua la mia? Sì, certamente lo è. Ma, credetemi, nella disperazione anche l’ingenuità può offrire un po’ di energia vitale e un po’ di speranza.
Il nostro Paese, per compiere un decisivo passo in avanti verso una più giusta e moderna civiltà, deve dotarsi di una sapiente legge sul fine vita.
E allora, per concludere questa lunga lettera, non se ne avrà a male Alessandro Manzoni se prendo in prestito – modificandola alla bisogna – una delle sue più celebri frasi: «con juicio» ma «adelante». (Cagliari, 29 settembre 2014)
Nell’agosto del 2011 mi è stata diagnosticata la SLA. Posso scrivere questa lettera solo grazie ad un computer a comandi oculari.
La malattia ha infatti progredito velocemente nel suo avido tragitto: da metà del 2013 sono completamente immobilizzato, vivo con un tubo che collega, 24 ore al giorno, il mio naso ad un respiratore meccanico, le mie funzioni vocali sono fortemente compromesse, non avendo più il riflesso difensivo della tosse mangio e bevo ogni volta con il terrore che qualcosa vada di traverso – mi è già successo due volte – generando una situazione terribile di soffocamento. Inoltre, vivendo solo da molti anni, ho dovuto abituarmi a condividere la mia casa di 80 mq. con badanti extra-comunitari ai quali mi sono dovuto affidare, giorno e notte.
Queste notazioni credo siano utili per tentare di trasmettere una specifica concretezza ad una questione che altrimenti potrebbe essere declinata a mera questione filosofica astratta.
Peraltro, ad onta della mia condizione, non sono afflitto da fisime suicidarie e, anzi, facendo leva sulle mie residue risorse intellettuali, sulla vicinanza di alcune care amicizie e, soprattutto, sugli affetti familiari, riesco tuttora a trovare un senso alla mia esperienza umana.
Sono però del tutto consapevole del mio destino: sempre che non intervenga prima una fatale crisi respiratoria che sopravanzi l’azione meccanica del respiratore, sono condannato a perdere completamente – più prima che poi – le mie funzioni vocali.
A tale evento – non aggirabile, secondo il mio attuale sentire, da nessun marchingegno elettronico per ragioni sia pratiche sia spirituali – io ho deciso di collegare il punto finale della mia vita.
Non avendo avuto in dote alcuna credenza religiosa e avendo il sereno convincimento che la morte sia la fine di tutto, non prendo affatto sottogamba questo tema.
Appunto perché la vita è una, unica, irripetibile esperienza, essa deve poter essere vissuta senza essere avvertita come una insopportabile prigione.
C’è, insomma, un diritto inalienabile, di dignità e di libertà, che deve essere garantito ad ogni persona.
E allora io mi chiedo e vi chiedo: come potrò rendere operative le mie volontà?
Mi chiedo e vi chiedo: perché costringermi ad andare in Svizzera invece di poterlo fare vicino ai miei affetti, nella mia terra, nella mia patria?
Ancora, mi chiedo e vi chiedo: se, come temo, non potrò andare in Svizzera, in ragione di insuperabili ostacoli logistici ed emozionali, in quale altro modo potrò realizzare la mia volontà se non col rifiuto di acqua e cibo e, dunque, con una lenta morte per sete e fame?
Naturalmente, c’è sempre la possibilità – quien sabe?- che, al momento cruciale, io possa cambiare idea o perdere la forza necessaria. Ma se la mia determinazione avrà la meglio sulla mia eventuale incertezza, mi chiedo e vi chiedo: è accettabile, è umano, è pietoso costringere una persona e i suoi cari ad un tale fardello di prolungata, indicibile sofferenza?
Ho abusato, e me ne scuso, con l’artificio delle domande retoriche. Quanto alla ruvida asprezza della descrizione della mia “soluzione finale”, preferisco il rischio di apparire fastidioso o invadente pur di non rinunciare a trasmettere a voi, leader della politica, il sentimento di angoscia nel quale vive un vostro concittadino.
Non ho mai avuto simpatia per la faciloneria e la superficialità e, dunque, ho la piena consapevolezza che non bastano queste mie scarne, individuali considerazioni sul fine vita o – per chiamare le cose con il loro nome – sull’eutanasia, a scalare la vetta della enorme complessità di questo problema, nel quale si intrecciano aspetti, ognuno degno di rispetto, di ordine filosofico, religioso, medico, legale.
Per di più – avendo partecipato, pur in modo microscopico, dalla fine degli anni ’60 ai primi anni ’90, alle cose della politica come funzionario e dirigente locale del PCI e come assessore e Presidente della Provincia di Cagliari – non mi sfuggono le difficoltà della politica a misurarsi su questo tema, stretta come è da una pluralità di convincimenti ideali, appartenenze ideologiche, considerazioni di opportunità, valutazioni di utilità.
Ma, pur non dimenticando che anche la non decisione è una decisione, so che l’essenza, vorrei dire la nobiltà, della politica sta nella sua capacità di osare, nel coraggio di assumere decisioni in grado, a volte in tempi imprevedibilmente rapidi, di rendere migliore la vita delle persone e della società.
E’ in nome di questi valori alti della politica che mi sono rivolto a voi nella vostra funzione di leader ma anche in quanto persone, in ciascuna delle quali, ne sono certo, risiede un forte attaccamento ai princìpi di libertà e un sentimento genuino di umanità e di compassione.
Ho già avuto la sfrontatezza di indirizzarvi questa lettera e non ho, assolutamente, l’aspettativa di una vostra risposta.
Sento invece di chiedervi un silenzio operoso: perché, senza sgargianti bandierine di parte e senza querule primazie propagandistiche, almeno su un tema come questo, si riesca a trovare l’inedito coraggio di una sostanziale intesa che stimoli la predisposizione di un serio e approfondito disegno di legge e faciliti la scelta di un percorso parlamentare efficace e concludente, in un quadro, se non di auspicabile ma improbabile unanimismo, almeno di assenza di battaglie campali.
E’ una richiesta ingenua la mia? Sì, certamente lo è. Ma, credetemi, nella disperazione anche l’ingenuità può offrire un po’ di energia vitale e un po’ di speranza.
Il nostro Paese, per compiere un decisivo passo in avanti verso una più giusta e moderna civiltà, deve dotarsi di una sapiente legge sul fine vita.
E allora, per concludere questa lunga lettera, non se ne avrà a male Alessandro Manzoni se prendo in prestito – modificandola alla bisogna – una delle sue più celebri frasi: «con juicio» ma «adelante». (Cagliari, 29 settembre 2014)
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