A Sassari
l’hanno chiamata Matrìca, a Carbonia si chiamerà Mossi&Ghisolfi, a Nuoro
vorrebbe farlo Clivati,
anche per Chilivani è già stato approvato un progetto per la realizzazione di
impianto di biogas con materia prima proveniente dall’agricoltura. Neanche se
la Sardegna fosse il doppio di quella che è, basterebbe a nutrire questi
impianti voraci. Si tratta di notizie riprese negli ultimi giorni. Con una
nuova e peggiore, che va loro incontro: non è vero che il governo rinuncia a
far pagare l’Imu dei terreni agricoli, ne ha solo spostato a gennaio il
versamento.
Mentre noi
si viaggia nelle strade per protestare contro l’occupazione militare delle
nostre terre e l’arrivo delle scorie nucleari, la conferma del solito
meccanismo di sviluppo ci si para davanti agli occhi, in avvio per i prossimi
trenta-cinquanta anni. E se, come affermato ieri, pare che il Pd diSoru voglia essere partecipe dei movimenti
anti-servitù, lo stesso partito risulta il protagonista politico e
l’interlocutore sardo dell’invasione delle campagne sarde con le coltivazioni
di cardi e di canne, le cui caratteristiche infestanti e consumatrici di acqua
e suolo lascio descrivere agli esperti agronomi. Comunque, una tragedia per
l’agricoltura e per l’economia sarda.
La
gestione delle motivazioni è quella che portò alla petrolchimica di
sessant’anni orsono: la fame di occupazione “moderna” e l’adeguamento
dell’Isola agli standard continentali. Qualche giorno fa erano i sindacati
chimici ad insistere con Pigliaru perché non abbia indecisioni verso
Matrìca: in realtà erano in piazza per bloccare le crescenti incertezze sugli
enormi svantaggi e danni per la Sardegna del procedere del progetto. Matrìca ed
i suoi sindacati (chi non è dentro la materia non sa che il sindacato dei
chimici nei fatti non è altro che un coordinamento di organismi sindacali aziendali,
ai quali sarebbe drammatico affidare i nostri destini) hanno puntato
sull’esclusiva per sé dell’utilizzo delle terre sarde, sono loro che per primi
hanno “occupato il posto”, legato a sé l’università di Sassari ed il ceto
politico locale, fatto le sperimentazioni promettendo risanamenti ambientali
sempre rimandati ed occupazione probabilmente gonfiata.
Nel
frattempo altri vogliono attingere a quel piatto, indifferenti al fatto che la
Sardegna ha surplus di costosa energia e disattenti al fatto che il territorio
non regge tutta quella richiesta di coltivazione e che la gente va imparando a
porsi le giuste domande: a chi giova? Quali prezzi, e fino a che punto, l’Isola
è disponibile a pagare per quelle decine di occupati, costretti a venire
utilizzati già dall’inizio quale arma di ricatto contro l’interesse generale di
un’agricoltura produttrice di beni commestibili, per difendere invece gli
interessi esterni importati dai tramiti locali? Argomentazioni quali le nostre
iniziano a penetrare.
Tore Cherchi – che ha sul tavolo un investimento di
bioraffineria di canne da 220 milioni di euro del gruppo Mossi&Ghisolfi,
che dovrebbe creare 300 posti di lavoro (150 diretti) a Porto Vesme – non ci
dice di quanta terra avrà bisogno per arrivare a 80mila tonnellate l’anno di
etanolo. Preferisce parlare di “una opportunità per la notevole estensione di
terre marginali (la canna cresce anche in aree salse o da bonificare)”.
Nella sua
ottica il problema delle terre risulta successivo e secondario, per noi resta
principale: una volta che l’investimento fosse realizzato, sarebbe facile
contrapporre il destino di quei pochi operai a quello dei giovani che volessero
tornare alla terra. Tema di sovranità alimentare e di presenza agricola nel
nostro territorio. C’è poi la giusta paura del monopsonio: una cordata delle
aziende utilizzatrici dei cardi e delle canne controllerebbe i prezzi della
materia prima, con gli effetti da noi già sperimentati con i caseari romani ed
il latte portato dai pastori. Prima o poi i coltivatori di canne e cardi
sarebbero costretti a vendere le terre.
Questo
processo verrà accelerato dal pagamento dell’Imu. Parte delle nostre campagne
sono in mano ad affittuari che le leggi hanno favorito. Proprietari lontani o
anziani troveranno dannoso possedere delle terre oppresse dalle tasse,
accetteranno qualsiasi compenso che l’industria fosse all’inizio disponibile ad
offrire, ad affittarle per un lungo periodo e persino a venderle del tutto.
Immaginatevi le terre sarde in acquisto da parte di associati all’Eni o al
gruppo Mossi&Ghisolfi: non vi richiama il land grabbing (accaparramento delle terre) attuata
dei cinesi in Africa?
Ma
proiettatevi in avanti, anno dopo anno, con l’indispensabile ricambio dei
coltivi già irrorati di concimi per le sementi agricole geneticamente
modificate: una terra non nostra e non più fungibile per le coltivazioni di cui
abbiamo bisogno e che ora importiamo. Peggio: interi territori diventerebbero
disponibili all’acquisto da parte delle multinazionali. Non peccate di
fantasia: pensate che, anche per il turismo, un territorio invaso da cardi e
canne sia paragonabile all’attuale coperto da natura, greggi e coltivazioni?
Il tema
che andiamo affrontando rappresenta una conquista di territorio assimilabile
alle servitù militari. Dopo quella militare, industriale, ambientale e
culturale è in atto la costruzione della servitù agricola. Come le altre,
richiesta persino da parte di alcuni di noi.
Perché:
pensate che, venerdì prossimo, quando Pigliaru incontrerà a Nuoro la classe dirigente
locale, questa non gli rivolgerà la domanda che ieri faceva a se stesso Clivati da Ottana: “Dobbiamo puntare su una
produzione biosostenibile, ma per farlo occorrono interventi da parte del
Governo e della Regione!”. Li avrà con sé tutti, i dirigenti locali. Ed i
Nuoresi chiederanno di avere pure loro la fabbrica di biodisel per la piana di
Ottana e per tutta la provincia. Lo rivendicheranno come un loro diritto. E
che: loro sono da meno dei Sassaresi e dei Sulcitani?
Salvatore
Cubeddu
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