Il futuro, secondo Doctorow, è quindi di società come Local Motors: nata a sud di Boston ha progettato e realizzato un auto da corsa con il contributo creativo di migliaia di appassionati. "La Rally Fighter è passata dal progetto al mercato in 18 mesi, il tempo che ai colossi dell'auto a Detroit serve per cambiare le decorazioni di una portiera", ironizza in proposito Anderson. Questa rivoluzione industriale ha molto della cultura fai-da-te degli americani ma con un cuore, anzi un cervello italiano. Non si tratta più infatti soltanto di stampare o tagliare oggetti, ma di renderli intelligenti. E interconnessi. Per fargli fare delle cose. A questo pensa Arduino. Ha un nome da re ma non è una persona, è un microcomputer da 20 euro che ha conquistato il mondo (ce ne sono in giro 400mila ufficiali, con il profilo dell'Italia stampato sul circuito elettronico, più almeno altrettanti clonati in Cina). Lo ha creato nel 2005 un giovane ingegnere ribelle, Massimo Banzi, 42 anni, mentre faceva un corso di interaction design agli studenti della scuola di Ivrea. A cosa serve Arduino? Banalizzando, a far compiere un'azione ad un oggetto: per esempio a farti ricevere un sms quando la tua pianta ha bisogno di acqua. E a moltissime altre cose più importanti. Tutte quelle che puoi immaginare. "Arduino è una piattaforma per il futuro", sintetizza Banzi che all'estero è una vera star, uno dei leader della rivoluzione in corso. Arduino è un progetto aperto, così come la MakerBot, i droni di Anderson, l'auto da corsa di Boston e come tutto quello che fanno i "maker". Vuol dire che sono stati progettati collettivamente, usando la rete, e non hanno copyright.
Questo è un aspetto cruciale adesso che decine di venture capital si avvicinano a un settore dove intravedono possibilità di guadagno. Adafruit per esempio, è una startup nata in un loft del quartiere di Wall Street e diventata famosa con degli oggetti intelligenti realizzati riciclando le scatole metalliche per mentine Altoid: l'anno scorso ha venduto kit per 5 milioni di dollari. Ma come investire in un'azienda che non brevetta nulla e che anzi, si vanta di condividere tutto? Bre Pettis, che per MakerBot impega 82 persone e ha venduto kit per stampanti 3D fai-da-te per 10 milioni di dollari, avverte: "Chi non condivide i propri progetti, sbaglia". Punto. È anche questa la cultura digitale a cui faceva riferimento Anderson nel suo saggio: la condivisione e la partecipazione applicata alla produzione di oggetti. E se vi sembra una cultura di nicchia, sappiate che sta dilagando. Alle Maker Faire cinque anni fa andavano poche migliaia di persone: ora sono centinaia di migliaia, gli sponsor sono Microsoft, Pepsi Cola e Ford, e da tre anni una edizione molto spettacolare si svolge in Africa. Mentre i FabLab, lanciati dal Mit per replicare laboratori dove produrre facilmente oggetti, sono arrivati in tutto il mondo, persino in Afghanistan e CostaRica. In Italia ne è appena aperto uno, a Torino, si chiama Officine Arduino ed è nato sulla scorta di un FabLab sperimentale varato in occasione degli eventi per celebrazioni dei 150 anni. Nessuno sapeva dire bene cosa fosse quel posto lì, ma c'era tutti i giorni la fila. Le persone facevano cose. I "maker" stanno arrivando.
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