È una questione di lingua, dice Shubranshu Choudhary. Parla del suo stato
d'origine, il Chhattisgarh, nel cuore di una regione montagnosa dell'India centrale: terra di
foreste, miniere, e di popolazioni «tribali» - così l'India definisce i suoi nativi, gli adivasi
(letteralmente «abitanti originari»). «In queste zone rurali, finché resti lungo la strada principale
si parla hindi. Ma se ti addentri anche solo un paio di chilometri, sentirai solo la lingua locale», ci
dice. «Qui l'hindi ha la stessa funzione sociologica che ha l'inglese nella società indiana nel suo
insieme: chi lo parla è inserito in una struttura di potere, chi non lo parla non ha voce».
Ecco una nuova prospettiva sul conflitto che qui ha uno dei suoi punti caldi. Le zone
montagnose del Chhattisgarh infatti sono considerate una roccaforte della ribellione armata di
ispirazione maoista emersa alla fine degli anni '90 in un'ampia fascia dell'India rurale. Un
conflitto esasperato dalla corsa a sfruttare le risorse naturali di cui quelle montagne sono ricche:
miniere di ferro, carbone, bauxite, e di conseguenza acciaierie, raffinerie, centrali termiche.
L'avanzata industriale ha espropriato terre e inasprito ingiustizie antiche. Su questo terreno si è
diffusa la ribellione armata, a cui lo stato ha risposto per lo più in termini militari.
Come giornalista e producer della Bbc, Shubranshu Choudhary ha riferito spesso sui maoisti.
Finché si è convinto che la premessa del conflitto è proprio un problema di comunicazione.
«Non ci sono giornalisti adivasi nei grandi media. I reporter vengono dalle grandi città. Arrivano
in un villaggio e chiedono: chi parla hindi? Se qualcuno lo parla, quello diventa il solo
interlocutore». Le autorità dello stato fanno altrettanto: cento milioni di adivasi parlano lingue
che la mainstream India non capisce. I pochissimi («forse il 2%») che parlano hindi sono
«cooptati a rappresentare tutti gli adivasi. Ma gli altri, la stragrande maggioranza, non hanno
voce»...
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