domenica 20 febbraio 2011

La Cina (e non solo) prende l'Africa in leasing

Da cinque anni a questa parte, colossi economici governativi e non (quali Petrochina, prima impresa di Stato della “People Republic of China”) realizzano enormi investimenti sulle distese agricole dei Paesi in Via di Sviluppo, per garantirsi l’approvvigionamento diretto delle derrate.
L’espressione “neo-colonialismo” - coniata dal Direttore Generale della FAO, Jacques Diouf - è riferita ai terreni ove si realizza circa un quinto della produzione mondiale di cibo, oggetto di conquiste da Paesi più o meno lontani come Cina e Corea del Sud, India, Kuwait, Qatar, Yemen, Arabia Saudita.
La Banca Mondiale stima che gli acquisti e gli affitti internazionali di terre interessino circa 50 milioni di ettari in Africa, Asia e America Latina: una stima prudente in assenza di notizie certe, a causa dell’opacità di contratti spesso non soggetti a obblighi di registrazione.La Cina, per citare qualche esempio, si è aggiudicata proprietà e sfruttamento di latifondi in Camerun, Tanzania e Monzambico (per il riso), Uganda e Zimbabwe (cereali), Filippine, Laos, Kazakhstan, ecc.
Alcuni osservatori parlano di vero e proprio “land grabbing” (appropriazione di terreni), in casi come quello della sud-coreana Daewoo che nel 2008 aveva provato ad acquisire un diritto di utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari, il 50% delle terre arabili del Madagascar per la durata di 99 anni (tentativo poi fallito grazie alle proteste internazionali).
Le differenze tra il metodo neo-colonialista e l'approccio europeo alla cooperazione non sono del tutto rascurabili.
1) accesso delle popolazioni locali alle risorse produttive. I “neo-coloni” spesso acquistano le piantagioni direttamente dai governi locali, in assenza di diritti o documenti che riconoscano e attestino la proprietà di molte aree
2) destino delle produzioni. I raccolti sono esclusivamente destinati all’export. Si investe solo sulle monoculture (senza badare alla loro in-sostenibilità), in alcuni casi per produrre bio-carburanti anziché cibo.
Il paradosso? Paesi come il Sudan e l’Etiopia, a dispetto della grave malnutrizione che affligge le loro popolazioni, sono grandi esportatori di derrate agricole delle quali hanno completamente perso il controllo.
Ma il diritto internazionale (OMC, contratti bilaterali di investimento) tuttora non lascia scampo.
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La penetrazione cinese in Africa ha conosciuto una vertiginosa accelerazione negli ultimi due anni. Il commercio tra la Cina e il continente nero, valutato lo scorso anno a 115 miliardi di dollari, è aumentato del 43,5% rispetto al 2009. Gli investimenti cinesi vanno espandendosi rapidamente in 45 Paesi africani, concentrandosi in quelli tradizionalmente sotto influenza francofona o anglofona, come il Kenya, la Tanzania, il Rwanda, la Nigeria, lo Zambia e l’Algeria.
La Cina ha investito 22 milioni di dollari in Kenya per modernizzare gli esistenti porti di Mombasa e Lamu, per la modernizzazione dell’esistente rete ferroviaria e per la costruzione di una colossale autostrada che faciliti il trasporto terrestre tra Kenya, Etiopia, Sud Sudan e Rwanda. L’autostrada faciliterà il trasporto di merci da questi Paesi al porto keniota di Lamu. In Tanzania le aziende cinesi hanno investito 200 milioni di dollari nei settori agricolo, farmaceutico, minerario, edile e nelle infrastrutture stradali. Mentre gli alleati storici e punta di diamante della penetrazione cinese rimangono il Sudan e lo Zimbabwe.
Questa rapida espansione economica, unita al fabbisogno crescente di materie prime per sostenere l’industria nazionale, alla debolezza dell’Europa, al declino americano e alle recenti destabilizzazioni sociali in vari Paesi arabi, sono certamente i fattori principali che hanno spinto il Comitato Centrale di Pechino ad adottare una politica di rottura con l’occidente – la quale potrebbe rappresentare il preambolo per una stagione di guerre indirette tra Cina e Occidente combattute sul suolo africano per decidere la supremazia sulle materie prime per i prossimi vent’anni…
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Accordi economici e promesse di sostegno politico hanno caratterizzato le prime due tappe, in Zimbabwe e Gabon, di un viaggio africano del ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi.
Ad Harare, si legge in una nota del ministero degli Esteri di Pechino, sono state sottoscritte intese in materia di “cooperazione economico-commerciale e tecnologica”. Ma a segnare la visita sono state anche dichiarazioni sull’“amicizia sincera” tra Cina e Zimbabwe rilasciate sia da Yang sia dal presidente Robert Mugabe. Significativo il questo senso il sostegno offerto da Pechino, membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, a una revoca delle sanzioni economiche e finanziarie applicate a partire dal 2002 da Stati Uniti e Unione Europea (UE) nei confronti di numerosi dirigenti e imprese di Harare.
Cooperazione economico-commerciale e convergenze politiche sono stati i temi dominanti anche in Gabon. Durante l’incontro con Yang, il presidente Ali Bongo Ondimba ha detto di sperare in crescenti contributi della Cina allo sviluppo delle infrastrutture nazionali, dagli assi stradali alla rete elettrica. In settimana la visita di Yang proseguirà in Guinea, Togo e Ciad.
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…E per aggiudicarsi ettari su ettari di terreno fertile non si affidano al fucile, ma a valigette piene di soldi. Il territorio di conquista preferito è, ancora una volta, il Continente africano, con i suoi Stati immensi e i governi logorati dalla corruzione. Ma non disdegnano neppure America Latina, Malesia, Indonesia e perfino gli ex Stati comunisti dell'Europa orientale, Ucraina in testa. Pensare che prima del 2008, l'anno della crisi alimentare globale, l'agricoltura non interessava quasi più a nessuno. A occuparsi dell'utilizzo delle terre dei paesi in via di sviluppo erano rimaste le solite ong e poi la Cina, che ben prima degli altri ha fatto dell'Africa il suo forziere di risorse naturali. Ma la vertiginosa ascesa dei prezzi di materie prime, agricole incluse, ha convinto molti Stati e altrettanti investitori ad aggiudicarsi abbondanti quantità di terreno in casa altrui. Secondo le stime dell'Ifad, oltre 20 milioni di ettari di terra sono stati acquistati negli ultimi due anni da entità straniere, per la maggior parte in Africa e Sud America. In totale oltre 50 milioni di ettari sono stati vittima dell'"accaparramento".
Si tratta di terre utilizzate da secoli dalle popolazioni locali a cui manca però una prova formale di proprietà, elemento che lascia mano libera a chi ne vuole trarre un vantaggio personale. In casi tristemente famosi come quelli dell'Etiopia, del Mali e del Sudan i governi non si sono fatti scrupolo alcuno di vendere quello che considerano suolo pubblico al miglior offerente, incassando personalmente gli introiti. Il risultato è l'ulteriore depauperamento della popolazione di un continente dove tre abitanti poveri su quattro abitano nelle campagne da cui dipendono totalmente per la sussistenza. "L'acquisto delle terre da parte di investitori stranieri distrugge l'agricoltura familiare e costruisce un sistema di proprietà che escluderà per sempre gli abitanti", spiega Antonio Onorati, presidente del Centro internazionale crocevia, che del tema parlerà nell'incontro di quest'anno delle comunità di Terra Madre: "Non a caso del miliardo di affamati che esistono al mondo, 800 milioni sono piccoli produttori di cui 600 milioni sono contadini".
A diventare ricchi sulle loro spalle sono innanzitutto gli accoliti di dittatori come l'etiope Meles Zenawi e il sudanese Omar al-Bashir, poi governi di Stati come il Mozambico e il Mali, dove in vendita è stata messa perfino una zona con tre cimiteri (sistematicamente smantellati, con buona pace delle anime che vi riposavano). Infine, ci sono gli acquirenti che Onorati divide in tre categorie: i governi e le loro istituzioni, gli investitori speculativi privati o semi-privati e gli investitori nazionali, una realtà in rapida crescita.
Tra i governi più attivi vi erano India e Cina, ma quest'ultima, sotto la pressione occidentale, ha annunciato in occasione del G8 dell'Aquila di avere cessato la campagna pubblica di acquisti. Diversa è la posizione di Arabia Saudita e Libia che, consci di avere sì enormi riserve petrolifere, ma di estendersi su territori desertici, si sono prepotentemente gettati nella mischia degli acquisti territoriali. Oggi la Libia di Gheddafi possiede oltre 400 mila ettari di terra in Mali attraverso un braccio del suo fondo d'investimento sovrano, il Libia Africa Investment Portfolio, mentre il King Abdullah Initiative for Saudi Agricultural Investment Abroad aiuta le società saudite in paesi con un grande potenziale agricolo…

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2 commenti:

  1. mamma mia, un problema mondiale di cui poco si parla, bene fai a farlo. è la nuova frontiera della conquista.

    da una parte dovrebbe far capire a tutti che alla fine, ogni economia di decida di seguire, la terra e l'acqua sono i beni primari per chiunque. dall'altra bisogna fare attenzione, ché le prossime guerre saranno per quei beni, non più per il petrolio.

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  2. stanno ridisegnando il mondo, e noi fra escort, calcio e canzoni;
    come quando si è passati dallo schiavismo al lavoro salariato(meglio avere salariati, che non devi curare dopo l'orario di lavoro, che schiavi, che devi curare 24 ore al giorno!), qui dal colonialismo all'affitto e alla monocoltura (neocolonialismo)

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