Abitudini e novità dal
Sahel
Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ci ricorda il libro del Qoelet. Afferma senza timore
che c’è un momento per tutto e un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Il saggio
del libro conclude che tutto è vanità, soffio che svanisce in fretta, come
bruma mattutina. L’autore coglie l’aspetto abitudinario dell’esistenza, la
ripetizione di gesti, pensieri, parole e azioni.
La cronaca quotidiana è una litania di cose già vissute, risapute,
commentate e più volte interpretate. La storia come ciclo che si ripete oppure
come segmento che si apre verso l’inedito. Concezioni della vita che si
completano e non smentiscono affatto la vanità che accompagna la maggior parte
delle umane azioni. Mettiamo, ad esempio, i naufragi e le morti dei
migranti e rifugiati nel Mar Mediterraneo, un dramma di questi ultimi
giorni. Appaiono per molti come un’abitudine, una tra le tante, in fretta
accantonata per passare in fretta ad altre cose. Le diseguaglianze ogni
volta più consistenti tra Paesi e all’interno dei Paesi, tra una minima
classe capitalista transnazionale e il resto del mondo considerato accidentale
periferia o zavorra di cui disfarsi se necessario. Sono un’abitudine le
cifre dei morti per il più pericoloso e marginalizzato dei virus, quello della
fame che, secondo Jean Ziegler, ogni cinque secondi uccide un bimbo sotto
i dieci anni. Secondo lo stesso autore sono più di sei milioni, solamente nel
2017. Ci si abitua al dolore, all’oppressione, allo scandalo dell’esclusione,
alla violenza operata su donne, bambini, poveri e non ancora nati. Ci sia
abitua alla vita come fosse un mestiere come un altro. Solo vanità.
Nel Sahel ciò a cui non si riesce ad abituarsi è la pioggia. Le riunioni più
importanti possono essere annullate e, nel caso foste arrivati, ingenuamente,
nel luogo dell’incontro, attenderete invano l’arrivo dei partecipanti. Sarete
compianti con un sorriso, come neofiti, ingenui che ancora non sanno cogliere
gli usi e costumi di una civiltà. Farete la figura dei barbari che non
sanno apprezzare le cose della vita. Quando piove tutto si ferma e basta. Le
pioggie raramente durano più di un paio d’ore. Vale la pena lasciare liberi gli
occhi di guardare la pioggia cadere. Piove, governo ladro, si diceva una volta
altrove. Nel Sahel la pioggia è un avvenimento, uno spettacolo da contemplare,
un fenomeno sempre unico, un evento irripetibile al quale assistere come in
prima visione. Molti dei temporali, per pudore, accadono di notte, quasi a
rendere il mistero ancora più indecifrabile, oppure quando meno lo si
aspetta. A poco valgono le previsioni del tempo, introdotte pure qui con
sufficiente professionalità, la pioggia sorprende e destabilizza. Tant’è vero
che anche quest’anno i morti per inondazioni si contano a decine e i sinistrati
a migliaia senza contare campi e animali e infrastrutture
danneggiate. Persino il simbolo del Niger, una giraffa di 25 anni, ha
perso la rispettabile vita recentemente nelle stesse circostanze. La pioggia è
nel Sahel una delle novità permanenti.
Abitudine deriva dal termine latino ‘habitus’, modo di essere e, nel
modo comune di pensare, diventa spesso assuefazione, consuetudine, routine,
vizio. Già, un vizio che orienta e ritorna per ‘banalizzare’ in fondo la
realtà. Martedì della scorsa settimana, per esempio, abbiamo assistito
all’ennesimo colpo di stato militare nel vicino Mali. Dall’arrivo nel
Sahel di chi scrive è il secondo effettuato nello stesso Paese. Il precedente
si perpetrò nel 2012 da una parte dei militari che crearono un ‘Comitato
Nazionale per la Restaurazione della Democrazia e dello Stato’ (CNRDS).
Probabilmente gli otto anni passati non sono bastati e per questo si è reso
necessario un nuovo colpo di stato militare con a capo il colonnello Assimi
Goita. Un altro comitato è stato creato, chiamato più concisamente ‘Comitato
Nazionale per la salvezza del Popolo’ (CNSP). La democrazia
‘tropicalizzata’, con elezioni irregolari e che hanno la trasparenza del denaro
con le quali sono organizzate, i cambiamenti di Costituzione per rendere
indefiniti i mandati presidenziali, le operazioni Covid-19 per organizzarne e
distribuirne i fondi internazionali. Si, nulla di nuovo sotto il sole del
Sahel, come scriveva il saggio del libro a suo tempo, dove c’era un momento per
tutto e un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Il Qoelet non poteva
immaginare che, nel Sahel, la pioggia e la sabbia, sono le uniche novità che
impediscono di abituarsi alla vita.
Mauro
Armanino, Niamey, agosto 2020
Il sacrificio e i
sacrificati
La festa della ‘Tabaski’, comunemente chiamata così nell’Africa Occidentale francese, è terminata lunedì. Questa importante festa del calendario musulmano ricorda, con allusioni al racconto biblico, la fede obbediente di Abramo che non avrebbe esitato a sacrificare il figlio (Isacco o Ismaele, secondo il racconto). Fermato in tempo prima del gesto fatale, il figlio fu sostituito da un capro e la festa in questione fa memoria di questo avvenimento, sacrificando un capro o più per famiglia. Malgrado la crisi conseguente alla pandemia, che ha finora relativamente risparmiato il Niger, la cerimonia si è svolta come di consueto. Lungo le strade di Niamey e nei cortili, i capri uccisi sono messi ad arrostire, consumati in famiglia il giorno seguente e parti dell’animale condivise con parenti, vicini e poveri. Il sacrificio è stato preceduto dalla rituale preghiera alla ‘grande moschea’ di Niamey e nelle altre sparse nei quartieri della città. La tradizione, sempre molto sentita dalla popolazione, si è rinnovata. L’acquisto dei capri per la circostanza, ha permesso a molti allevatori dei villaggi e in città, di tornarsene a casa con il necessario per far sopravvivere la famiglia.
In effetti, nel Niger come
altrove nel Sahel, ad essere sacrificato non è solo il capro. Secondo i
risultati dellla prima edizione ‘Dell’inchiesta armonizzata sulle condizioni di
vita delle famiglie’ nello spazio
economico dell’Africa Occidentale, il Niger è il paese che conta il più grande
numero di poveri. Tre abitanti su quattro, secondo questo rapporto, vivono
sotto la soglia di povertà. L’inchiesta si basa sulla soglia
internazionale di povertà monetaria moderata, per la quale si considera
povera la persona che spende meno di 3,2 dollari al giorno. Da ciò risulta
che il 75,5 % della popolazione
del Paese si trova in questa particolare categoria di persone. Nello
stesso rapporto si evidenzia che la Costa d’Avorio e il Senegal sono i Paesi
dell’Unione Monetaria con la più debole concentrazione di poveri mentre, a
parte il Mali e il Benin, la maggior parte degli altri Paesi si trova sotto la
soglia di povertà. Questi sono tra
i ‘sacrificati’ del sistema che, almeno fino all’imprevista visita del
Coronavirus, vantava di cifre record nella macroeconomia, in barba alle crisi
di crescita registrate altrove. Sacrificati invisibili ma reali che appaiono
nelle statistiche per poi scomparire.
Naturalmente non sono gli
unici a perpetuare il sacrificio rituale. Dovremmo parlare di alcuni attivisti
sui diritti umani e un giornalista del Paese che hanno passato e reso attuale
la festa del sacrificio in carcere. Anche altrove le cose non vanno
meglio. Ricordava un rapporto di Global Witness di appena qualche giorno fa,
che oltre 200 militanti per l’ambiente e i diritti umani, sono stati
sacrificati, la maggior parte di loro in Asia. Dovremmo sommare le centinaia di migliaia di sfollati nel vicino Burkina
Faso, Mali e lo stesso Niger. Rifugiati provocati dal banditismo armato
verniciato di djiadismo, tutti quanti poveri contadini e già ‘invisibili’ prima
ancora di essere stati strappati dalle loro case e terre. Le
migliaia di bambini che non avranno mai l’opportunità di mangiare e bere quanto
basta per garantire una sana e decente crescita umana. Lo ricordava
recentemente un articolo pubblicato su ‘Le Monde’ che il ‘virus della
fame’ minaccia, nel già fragilizzato Sahel, milioni di persone.
“Tutte le conseguenze delle misure
anti-Covid-19, messe in atto dagli Stati saheliani, sono state sottostimate”,
afferma Alexandra Lamarche della ONG Refugees International, “il Programma
Alimentare Mondiale stimava che 3,9 milioni di persone nel Sahel centrale
avrebbero sofferto di insicurezza alimentare in questa stagione. Oggi siamo a 5
milioni“. La chiusura di mercati e frontiere, il coprifuoco, il divieto
dell’uso delle moto e altre restrizioni negli spostamenti, hanno avuto come
conseguenza quella di complicare la vita dei contadini e più in generale del
sistema agro-pastorale che dà lavoro a circa 25 milioni di saheliani. Dalla memoria del sacrificio di Abramo, della
sua obbediente sottomissione all’appello di Dio fino ai numerosi ‘sacrificati’
di oggi, esiste una tragica continuità. Saperli riconoscere e assumerne
la ferita è solo il primo passo. In questo ambito la ‘sottomissione obbediente’
di Abramo si chiamerebbe ‘complicità’.
Niamey, 1 agosto 2020
Il camaleonte e i colori del
Sahel
Proprio come lui, il camaleonte, anche la cartina del Niger appena
presentata dalle autorità francesi, ha assunto un altro colore, il rosso.
Rimane, a dire il vero, un irrilevante circolino arancione che circonda la
capitale del Paese, Niamey. Si tratta di un colore, il rosso, generalizzato al
territorio nazionale, che l’ha reso formalmente sconsigliato per i
cittadini francesi. Quanto all’arancione, di cui Niamey si ammanta secondo
le stesse autorità, implica lo stesso invito ‘salvo forza maggiore’. Tradotto
in termini operativi, questo significa che gli occidentali, principali bersagli
presunti degli attacchi terroristi, non possono uscire dalla capitale senza
scorta armata. I colori dei Paesi del Sahel cambiano e si adattano secondo
quanto le potenze coloniali decidono, unilateralmente, a seconda dell’impatto
sui propri cittadini. Sono in questo assai simili all’animale citato, il
camaleonte, il cui cambio di colore è dovuto ad un meccanismo di comunicazione
sociale. I colori scuri indicherebbero collera e agressività e quelli più
chiari sarebbero invece in funzione della seduzione delle femmine. Si tratta
dunque di un sistema di comunicazione che potremmo definire ‘politico’.
Il cambiamento di colore permette di creare le condizioni della socialità o, tramite
espliciti avvertimenti, di renderle problematiche o impossibili, intimorendo
l’avversario. Non si esclude che la colorazione sia pure un sistema di
adattamento all’ambiente, e dunque una strategia difensiva.
L’analogia potrebbe essere condotta ancora più lontano fino a insinuare che,
quella del camaleonte, è una forma adattabile delle potenze neocoloniali
dell’Occidente, alle circostanze mutevoli della realtà sul
terreno. Risulta infatti oltremodo difficile intendere, per i comuni
cittadini di questa porzione dell’Africa Occidentale chiamata Sahel, quanto sta
loro accadendo da anni. Migliaia di soldati e tecnici, sistemi di controllo con
droni, sofisticate strategie di intervento, implicazioni delle più imponenti
potenze militari del momento e constatare che le cose peggiorino. Più
militari e armi implicano nel contempo più banditi, terroristi, insorti e
comuni contrabbandieri di armi, cocaina, migranti e mercenari. Anche perché, di
fatto, a sparire, morire e scappare sono soprattutto loro, i comuni cittadini
del Sahel, in maggioranza contadini e allevatori. I colori cambiano a seconda
delle circostanze e degli interessi dell’Occidente e ciò che non cambia,
invece, è la politica che sul posto e dall’esterno, che fa di tutto perché
accada ciò a cui stiamo assistendo. La dimenticanza dei poveri, la
dipendenza da modelli di sviluppo funzionali agli interessi di pochi e
soprattutto uno stile di governo di ‘predazione’ delle risorse, sono
altrettante cospirazioni che rendono possibile quanto accade nel Sahel. Dovremmo
avere il diritto, fossimo in un Paese normale, di decidere il tipo di colore da
dare al nostro territorio e soprattutto al nostro popolo. Basta coi
camaleonti della politica.
Le migliaia di migranti e rifugiati morti, oltre 40 mila dal 1990, non
hanno fatto cambiare di colore né al mare né al deserto, eppure sono in questi
luoghi che si stanno perpetrando crimini e furti di futuro ai giovani. Che
dire poi dei campi di detenzione, tortura e eliminazione silenziosa di migliaia
di persone in Libia il cui ‘crimine’ è quello di cercare di salvarsi dalla
cancellazione della loro storia. Oppure delle decine di migliaia di migranti e
rifugiati derubati e poi espulsi (e in molti casi violentati)
dall’Algeria. Non cambiano il colore dell’Europa che invece è diventato,
strada facendo, il continente ‘impossibile’ per chi avrebbe l’ardire di
raggiungerlo. Migreurop, osservatorio delle frontiere, nei suoi rapporti
parla di Arcipelago composto da centinaia di centri di detenzione
‘amministrativa’ sparsi in Europa. L’ONG ricorda che la detenzione dei
migranti ‘irregolari’ non è solo un problema umanitario ma anzitutto politico.
Si riferisce infatti a valori, scelte, orientamenti e strategie di esclusione e
di controllo di coloro che sono stati designati e poi classificati come
‘indesiderabili’ perché vulnerabili. Rivendichiamo il diritto di dipingere
di rosso l’Europa, le coste, i porti di approdo e soprattutto le politiche di
sfruttamento globale che si continuano a perpetrare sulla povera gente.
Esigiamo di decidere il tipo di colore che vorremmo attribuire al nostro Paese
e mettere al bando i ‘camaleonti’ della politica. Unico colore ammesso
sarebbe quello dell’arcobaleno.
Mauro
Armanino, Niamey, 16 agosto 2020
La banalizzazione della violenza. Uno sguardo dal Sud del
mondo
Dalla banalità del male, termine coniato da Hannah Arendt in seguito alla
complicità della ‘gente normale’ nello stermino nazista del popolo ebreo, alla
banalità della violenza il passo è breve. Lo ha ricordato persino Emmanuel
Macron venerdì scorso in occasione dell’incontro con l’Associazione
presidenziale della stampa. Dopo il tempo di ‘confinamento’ dovuto alla
pandemia, si assiste ad una intensificazione e ‘banalizzazione’ della violenza
quotidiana, ha affermato Macron. Una non sta senza l’altra perchè male e
violenza sono come il frutto da cui si riconosce l’albero. Sono in fondo interscambiabili
malgrado i patetici tentativi di redimere la violenza come necessaria o quanto
meno tappa transitoria per un futuro differente. Tra un paio di settimane
saranno due anni da quando Pierluigi Maccalli, missionario nel cuore della
savana nigerina, è stato portato via, rapito, tolto alla sua gente, creando una
ferita che non arriva a rimarginarsi. Come lui altre centinaia di persone del
Paese, rapite, scomparse, e alcune tornate dopo aver pagato il riscatto,
obbligate ad integrare i gruppi armati terroristi, violentate e ridotte in
oggetti di scambio. La banalità della violenza è talmente pervasiva da
trasformare la percezione della realtà e dunque facendo apparire come
ineluttabile la quotidiana dose di violenza che si assume come una parte costitutiva.
L’amica Zeyna, a cui è stato asportato un seno, oltre ad essersi pagata
l’operazione, il soggiorno in ospedale (ridotto se la camera è a due), sborsa
anche il necessario per la medicazione diaria della ferita. I guanti, le
siringhe, i prodotti da utilizzare e quanto occorre per sapere l’esito
dell’esame della parte asportata. Una violenza che precede, accompagna e
affossa ogni velleità di cura e guarigione quando non ci sono i mezzi per
sostenere le spese.
La violenza è da tempo banalizzata alle frontiere, dove abusi di ogni tipo
nei confronti di chi viaggia, sono parte del rischio legato al commercio di
beni e al transito dei migranti. Malgrado la chiusura, ancora in vigore, si
transita a proprio rischio e pericolo e per la maggior gloria di doganieri e
altri simili faccendieri di frontiera. Nell’ambito educativo la violenza si è
istituzionalizzata da quando, negli anni ’80, coi programmi di aggiustamento
strutturale della Banca Mondiale, si sono smantellate le scuole statali di ogni
grado aprendo la via a quelle private che fioriscono sull’abbandono delle
prime. Le strade di Niame, la capitale, sono ogni giorno percorse,
trivellate da centinaia di bambini che, in nome di un’educazione ‘coranica’ e
in barba alle leggi in vigore, sono obbligati alla mendicanza sotto pena di
digiuno e percosse. Questa violenza, banalizzata perché assunta come parte del
paesaggio cittadino, diventa gradualmente invisibile salvo apparire sotto altre
spoglie ai nuovi semafori della città. Appena installati e godendo di una relativa
accalmia studentesca legata al Covid, contano i secondi di attesa e dunque
creano code di macchine prima inesistenti. Venditori di fazzoletti, giocattoli,
piscine e anatre di plastica, guinzagli per cani, prodotti per smacchiare le
zanzare, detersivi per l‘auto e miriadi di pulitori di parabrezza, si
moltiplicano in proporzione con la crisi economica che rende il settore ogni
volta più informale. La violenza scompare quando il semaforo passa al verde e
torna la normalità fino al semaforo successivo (se funziona).
La banalità della violenza si avvale della collaborazione del sacro campo
umanitario. Numeri, tabelle, cifre, centri, case, transiti, questionari,
progetti, rafforzamento di capacità e occasionali rivolte di migranti e
rifugiati. Il Paese non ha affatto bisogno di ‘eroi’ umanitari. Il drammaturgo
Bertold Brecth definiva… ‘sfortunata la terra che ha bisogno di eroi’. Ciò è
conseguente alla dichiarazione costituzionale del Niger che, all’articolo 4,
ricorda che la sovranità appartiene al popolo. La prima e fontale violenza
‘banalizzata’ è proprio quella di derubarlo di questa esclusiva e sovrana
dignità. Ciò a cui abbiamo assistito, impotenti per la maggior parte del tempo
e inconsapevoli spettatori per il resto, è stata la graduale e sistematica
confisca della sovranità popolare. Cancellati i giovani, i contadini, le donne
e, in generale i poveri, con la complicità esteriore di chi finanzia una classe
politica predatrice, non rimane che prendere atto della miseria nella quale il
Paese è ormai da anni prigioniero. L’attualizzazione della ‘Pedagogia degli
oppressi’, opera di Paulo Freire, potrebbe ridare il coraggio della
dignità. Qui come altrove questo porta il nome di Resistenza.
Mauro Armanino, Niamey, agosto 2020