La grande diplomazia non segue le stagioni della terra. Neanche quando si tratta di Medio Oriente. Il Quartetto ha deciso che bisogna battere il ferro del cosiddetto processo di pace tra israeliani e palestinesi, e allora sta per arrivare per far partire contatti indiretti tra i due contendenti. Non diretti, come auspicherebbe Benjamin Netanyahu. Perché, ha detto ieri anche Salam Fayyad, non ci sono “le condizioni giuste per i negoziati”.
Condizioni giuste? Sembra una definizione astratta, quella di Fayyad. A vivere da queste parti, però, si capisce subito che le “condizioni giuste” non riguardano tanto e solo i grandi eventi, il discorso di Abu Mazen all’Onu, la richiesta del riconoscimento dello Stato di Palestina, la liberazione della prima tranche di palestinesi nello scambio mille a uno tra i detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e Gilad Shalit. Riguardano la vita quotidiana. Olive comprese.
L’autunno, qui, è una stagione delicata. Forse ancor più delicata delle altre. C’è la raccolta delle olive, che comincia un po’ prima di quanto succede in Italia. Causa clima. E proprio a ridosso della stagione della raccolta, ci si trova a dover raccontare – ancora una volta – di olivi sradicati dai coloni, di scontri tra contadini palestinesi e coloni israeliani, di lacrimogeni e arresti. Il tutto, in Cisgiordania. E la raccolta delle olive, per l’economia palestinese, non è per nulla un settore residuale. Al contrario. Al netto del milione di ulivi che sono stati sradicati per costruire il Muro di Separazione, di piante ce ne sono 12 milioni, attualmente...
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