Nel mio lavoro con i bambini, soprattutto i più piccoli, prima o poi
affiora il tema della paura. Qualunque storia, percorso, esperienza avventurosa
io decida di condividere con loro nei laboratori, è come se presto o tardi i
bambini mi chiedessero di essere messi nelle condizioni di superarsi in quello
che certo essi vivono come un loro limite, qualcosa che li sopraffà e talora li
paralizza, qualcosa che non si sentono pronti ad affrontare, ma che al contempo
desiderano profondamente affrontare. Che valore ha quest’incontro con la paura
nel processo educativo? Come può l’adulto accompagnare e custodire
quest’esperienza, che è spesso nella vita un’esperienza solitaria?
Nora Giacobini, un’insegnante del Movimento di Cooperazione Educativa con
cui ho avuto la fortuna di vivere a lungo a Cenci, molti anni fa arrivò
trafelata a un nostro laboratorio esclamando: “Ho capito l’origine della
catastrofe nella scuola!”. Poi, di fronte a noi che la guardavamo stupiti, ha
cominciato a srotolare alcune carte che aveva con sé e ci ha mostrato la
riproduzione di un documento che proveniva dall’antica Mesopotamia, in cui a
ogni errore dell’allievo corrispondeva una punizione corporale. “Così è la
scuola. Così è sempre stata la scuola – aggiunse desolata – l’unica possibilità
sta nel tornare all’iniziazione”.
Mi è tornata in mente questa sua intuizione perché ciò che tu racconti
riguardo alla relazione dei bambini con la paura ha il sapore dell’iniziazione,
che è esperienza che dovremmo tornare a prendere molto sul serio. Credo che
nuoccia assai e bambine e bambini, infatti, non avere la possibilità di
affrontare prove in cui siano, al tempo stesso, soli e protetti. Potere
sperimentare la concretezza delle proprie paure con il corpo, mettendosi in
gioco tutti interi, apre a una relazione profonda con se stessi, oggi sempre
più rara e negata all’infanzia. Quando l’estate nelle settimane del “villaggio
educativo” proponiamo a Cenci, anche a bambini piccoli, di vegliare per
un’ora il fuoco da soli nel cuore della notte, cerchiamo di offrire una
possibilità di incontro con i propri limiti e le proprie paure non
stando chiusi della propria stanza o persi nella propria immaginazione, ma
avendo la possibilità si sentire il proprio corpo immerso
nella vastità del cosmo, in contatto con alberi e stelle, fuoco e umidità della
notte. Qualcuno riesce a stare quell’ora da solo, qualcuno ha bisogno di
condividere l’esperienza con una compagna o compagno, qualcuno sceglie il tempo
dell’alba, sentendosi più sicuro nelle ore in cui si scioglie l’oscurità della
notte. Nel bosco e in certe pratiche teatrali accade lo stesso. Lo spazio in
continuo movimento, abitato da alberi o dai corpi dei compagni, ci mette alla
prova silenziosamente domandandoci con forza: “Ci sei? Dove sei?”.
Quella domanda di attenzione e presenza non sei tu adulto che proponi a
sollecitarla, ma viene dal contesto. E questo è importante perché nell’azione
educativa credo che chi guida debba provare a stare il meno possibile davanti e
piuttosto porsi a fianco, o ancor meglio dietro a chi compie l’esperienza,
per dargli la possibilità di scegliere lui la strada.
Ci sono temi molto duri, immagini profondamente adulte che spesso è
necessario proporre ai bambini. Hanno a che fare con la complessità del nostro
mondo, con il passato e con il presente e talvolta con il futuro. Col loro
giovane e incuriosito sentimento della Storia. Un giorno una bambina parlando
mi ha detto che per lei la Storia era “qualcuno o qualcosa di difficile da
capire, qualcosa che si legge nel pensiero”. Come affronti coi bambini e coi
ragazzi i temi più difficili, quelli che riguardano da vicino le nostre vite,
come le migrazioni dei popoli, l’ecosistema che tracolla, temi che anche per
noi adulti sono complessi e spesso spaventosi?
Credo che noi adulti dobbiamo assumerci la responsabilità di
parlare di tutto con i bambini, a partire dalle immagini di guerre, stragi
e naufragi, che attraverso televisione e computer sono continuamente alla
portata dei loro sguardi ed entrano a far parte del loro immaginario. Ma per arrivare
a incontrare la storia dobbiamo compiere lunghe manovre di
avvicinamento che mettano in grado bambine e bambini, ragazze e
ragazzi di confrontarsi con questioni grandi e domande legittime, a cui spesso
non corrispondono risposte univoche.
Il grande nemico della conoscenza e dell’intelligenza oggi è la
semplificazione, sono i tweet che erodono il pensiero lento, l’approfondimento, la capacità di
dialogare e di sostare attorno a domande aperte.
Qualche anno fa, in quinta elementare, nel corso di una lunga ricerca
attorno a “La scuola di Atene”, i bambini si sono chiesti come faceva Raffaello
a immaginare i volti di filosofi e scienziati, visto che al tempo non c’erano
fotografie. Quando ho raccontato loro che Raffaello aveva dato a Platone le
sembianze di Leonardo, perché per lui quello era il volto del più grande
maestro avesse incontrato, sono nate interessanti discussioni riguardo al fatto
che noi non possiamo immaginare il passato se non partendo dal presente.
Lo scorso anno, leggendo e rileggendo in classe le cinque folgoranti righe
con cui Erodoto dà avvio alle sue “Storie”, i bambini sono stati molto colpiti
dalla sua scelta di voler dare dignità e memoria sia ai greci che ai barbari e
dal suo domandarsi “la ragione per cui essi vennero in guerra tra loro”. Il
giorno dopo Emilia è arrivata in classe trafelata e ci ha rivelato di aver
capito il perché. Aveva infatti scoperto su wikipedia che Erodoto era figlio di
una greca e di un persiano. Siamo stati così tutti felici di scoprire che la
storia è nata dalla curiosità e dall’immaginazione di un sangue misto, dalla
sensibilità di uno che è nato meticcio come Emilia, che è figlia di un
uruguaiano e di una belga.
A Erodoto, alla fine dell’anno Maia ha scritto una lettera: «Secondo me hai
fatto una delle invenzioni più utili di tutte: la Storia! Senza la storia come
avrebbe fatto Martin Luther King a sapere di Gandhi e della nonviolenza e
quindi fare come lui? E noi? Noi come avremmo fatto a sapere di tutti voi?
Ipazia, nessuno saprebbe chi era…».
Ecco, quando la storia diventa luogo di connessioni inaspettate
apre la mente e non può non appassionare ragazze e ragazzi.
Nel tuo I bambini ci guardano leggo: «Chi educa, infatti,
penso che debba evitare il più possibile di percorrere vie troppo dritte,
veloci e già tracciate. Debba stare alla larga dalle scorciatoie e in
particolare dalla più pericolosa, che sta nel pensare che le nostre conoscenze
ed idee possano essere trasmesse e magari inculcate così come sono nelle menti
di bambine e bambini».
Spesso coi bambini, ma anche con gli adulti, rifletto sull’idea di
trasmissione, senza mai sentirmi portata a condurre qualcuno in questo tipo di
processo. Fatico a pensarmi capace di insegnare le mie tecniche d’attore o di
scrittura ad esempio, e ancor più le piccole strategie personali che ho trovato
negli anni per scatenare e poi mettere a freno la mia immaginazione. Mi pare
sempre di potere solo appoggiare una o più piccole chiavi nelle mani di chi
incontro, forse apriranno qualche porta del loro cammino futuro, forse no. Cosa
è davvero trasmissibile in un processo educativo? Cosa si può condividere
davvero?
Credo che dobbiamo tenere sempre presente che il nostro corpo, i nostri
atteggiamenti e comportamenti, i nostri sguardi e il nostro modo di porci
arrivino ai nostri allievi prima e molto di più delle parole. Essere
consapevoli di quanto conti l’esempio è molto importante anche se,
naturalmente, tutto ciò pone questioni assai complesse, perché è assi difficile
essere davvero coerenti e molto spesso vorremmo essere come non siamo. O,
almeno, a me capita assai di frequente di misurare incoerenze e limiti nel mio
operare. La mia idea è che la cultura è relazione, sempre. Solo
relazione. Non credo sia dunque possibile alcuna condivisione di
conoscenze se non ci mettiamo in gioco. Anni fa Marianna, dopo una lunga
ricerca attorno a “La scuola di Atene”, durata diversi mesi in quinta
elementare, ha detto: “Raffaello ha fatto veri i filosofi per metà, noi per
l’altra metà”. Questa frase per me è stata illuminante, perché indicava con
chiarezza l’ostacolo che incontra ogni tentativo di “trasmissione” delle
conoscenze. Se chi entra in contatto con una pittura, un racconto o un teorema
non sente il diritto e la possibilità di “farlo vero per metà”, cioè di
interpretarlo a modo suo, traducendolo nel modo unico e irriducibile con cui
lei o lui può far proprio quella conoscenza, quella questione o elemento
culturale resterà distante, inerte, morto. L’oggetto, che può essere una
musica, una poesia o un gesto teatrale, io lo posso incorporare e fare mio solo
se si innesta nel mio corpo e trova il modo di intrecciarsi con la mia
sensibilità. Per questo i processi e i percorsi di apprendimento devono
essere lenti. Per dare a ciascuno il tempo di compiere questo complesso
processo alchemico di trasformazione che permetta un incontro autentico. Se
questo processo la viviamo nella scuola, c’è un altro elemento fondamentale da
considerare. Quell’incontro, infatti, può e deve essere sostenuto dagli altri e
condiviso nel gruppo classe. Se osserviamo ed entriamo in relazione con
compagne e compagni che stanno compiendo il medesimo sforzo, ecco che si
realizza una sorta di triangolazione in cui a un polo c’è l’oggetto di
conoscenza, a un altro polo chi insegna, e a un altro polo ancora tutti coloro
che partecipano all’impegnativo e faticoso processo di apprendimento,
moltiplicando la possibilità di ciascuno di entrare in una relazione più ricca
con la conoscenza. Se io leggo un racconto di Anton Čechov con te e ne
parliamo, ne discutiamo, ascoltiamo reciprocamente ciò che quel racconto ha
suscitato a me e a te, alla fine io conosco un po’ di più Čechov, perché l’ho
incontrato anche attraverso la tua sensibilità e la tua cultura, e conosco
qualcosa di più di te, perché Čechov mi ha permesso di incontrare qualcosa di
te che non conoscevo. Se tutto ciò accade in gruppo, ancora maggiore è la possibilità
di intendere un testo, un autore o una questione controversa, perché la posso
esaminare giovandomi dei nostri punti di vista differenti. È in una
rete viva di relazioni che si possono dunque moltiplicare le
curiosità culturali e reciproche, che vanno sempre suscitate e
alimentate.
Il teatro, da questo punto di vista, è terreno di sperimentazione
privilegiato, perché richiede in ogni momento del processo creativo, una ricerca
necessariamente collettiva.
Lavorando coi bambini piccolissimi, di due o tre anni incontro il loro
linguaggio nella fase in cui inizia ad agglomerarsi in parole, piccoli
sintagmi, a volte solo grappoli sonori tutti da decifrare. Mi misuro col
silenzio e con le esplosioni di questo loro linguaggio in divenire sempre con
grande ammirazione e stupore. Lo stupore per il linguaggio continua poi anche
nell’incontro con i bambini più grandi, con gli adolescenti. I vocabolari
aprono in me sempre domande molto precise sui loro mondi, ma anche sui
procedimenti del loro pensiero e delle loro emozioni che a volte procedono per
salti repentini e apparentemente irrazionali, ma che quasi sempre sottendono
una logica molto sottile. Come lavori tu con il linguaggio coi tuoi
bambini/ragazzi?
Sinceramente non lo so. Ho un approccio pratico alle cose che faccio e
spesso capisco solo dopo ciò che è accaduto, se è accaduto qualcosa, sempre che
io sia riuscito a capire qualcosa… Diciamo che, mettendo al centro di ogni
azione educativa il dialogo e un continuo discutere su tutto, noi siamo in
qualche modo sempre immersi nel linguaggio. Ciò che mi sforzo di fare, e non
sempre ci riesco, sta nel dare dignità ai pensieri di tutti, anche di
coloro che fanno più fatica ad esprimersi, i cui pensieri emergono poco a
poco, talvolta a stento, rischiando di essere sopraffatti dai ragionamenti dei
più forti. In questa immersione cerco di dare grande valore alle parole,
invitando a soffermandoci sulle espressioni più felici o quelle più
complesse. Un modo di moltiplicare le domande parte proprio da
un’attenzione al linguaggio, dal peso che possiamo dare a certe immagini e
metafore che sorgono spontanee nei ragionamenti di bambine e bambini. È un modo
di operare che sperimento da quarant’anni, perché l’ho appreso nei laboratori
del Movimento di Cooperazione Educativa, che ho avuto la fortuna di frequentare
dal 1977, l’anno prima che cominciassi a insegnare. Registrare e
restituire ogni volta a bambine e bambini le trascrizioni dei dialoghi è il
modo più tangibile ed evidente per dire: “ti ho ascoltato, ciò che hai detto è importante
per me e può esserlo per tutti noi”. La trascrizione dei dialoghi, oltre a
restituirli ai bambini perché possano tornarci su, è un materiale prezioso per
noi che educhiamo.
Spesso coi bambini rifletto sulle regole del nostro gioco teatrale. Chiedo:
chi le ha decise queste regole? Possiamo cambiarle? La risposta alla prima
domanda può essere: “tu”, oppure “erano già così da prima”, oppure “non lo so”.
Alla seconda solitamente resistono e se acconsentono a modificare la regola,
sempre sacra, è solo a patto che “poi ci si diverta di più e che tutti siamo
d’accordo”. Mi colpisce sempre questa resistenza all’innovazione della regola e
anche la condizione comunitaria che essi pongono, ma se ci penso bene questo è
anche il metodo che da quando ho iniziato, da ragazzina, a far teatro applico a
tutti i miei spettacoli. Che rapporto esiste tra regole e libertà nel tuo
percorso coi bambini?
Sono profondamente convinto che in molti momenti si debba rispettare
il più possibile la gioiosa e irriverente anarchia dell’infanzia, che si
esprime in tanti giochi spontanei che partono dal corpo in movimento ed è fonte
di molteplici conoscenze. L’irrefrenabile energia cantata da Elsa Morante
ne Il mondo salvato dai ragazzini, per intendersi. Eppure, perché
questa esplosione di vitalità non diventi luogo di prepotenza e
prevaricazione, perché non vinca la legge del più forte, c’è bisogno di
un contesto in cui valgano regole capaci di contrastare ogni forma di
discriminazione, proteggano i più fragili, e siano in grado di delineare i
contorni di un mondo – magari provvisorio – in cui ci sia spazio per la libera
espressione di tutti. Il nodo di ogni regola democratica credo stia nella
parola “tutti”, che Aldo Capitini, il più grande educatore nonviolento del
nostro paese, considerava una parola sacra. Nel nostro ruolo di educatrici ed
educatori in ogni campo, credo che ci dobbiamo fare carico dell’inevitabile
tensione tra il diritto alla massima libertà d’espressione e la possibilità che
tutti, proprio tutti, ciascuno con il proprio carattere e temperamento, possano
sperimentarla.
Per questo ci devono essere principi rigorosi, che è bene avere chiari e a
cui dobbiamo sempre ritornare, mentre le regole credo che vadano stabilite il
più possibile insieme mediando, contrattando, perché tutti se ne sentano
responsabili. E riguardo alle regole credo che dobbiamo avere sempre
l’attenzione, la duttilità e la capacità di mutarle in mutate condizioni.
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Questa conversazione di Chiara Lagani, drammaturga e attrice, con Franco
Lorenzoni è stata pubblicata in La stagione dei teatri di
Ravenna teatro.