giovedì 21 aprile 2011

La storia dell'acqua in bottiglia - Annie Leonard




Per il nostro Paese si può parlare di una “rivoluzione culturale” avvenuta negli ultimi trent’anni, visto che “nel 1980 cioè prima della creazione di un reale mercato nazionale di acqua imbottigliata, il consumo medio era di 47 litri annui”, spiegano la chimica Valentina Niccolucci e i colleghi del Gruppo di Ecodinamica dell’Università degli Studi di Siena.
Ma perché approviggionarsi di acqua al supermercato piuttosto che direttamente a casa propria? È un fenomeno che la Niccolucci attribuisce anche ad un fattore economico: “Da noi l’acqua in bottiglia costa poco rispetto ad altri Paesi”. Il prezzo è crollato appunto negli ultimi decenni con l’introduzione delle bottiglie in PET (materiale plastico), ma il mercato italiano rimane uno dei più fiorenti ed aggressivi. Inoltre, spiega ancora la ricercatrice senese, “l’acqua in bottiglia è considerata più ’sicura’, esente da contaminazioni varie, e più buona”.

L’acqua imbottigliata è presente su quasi ogni tavola italiana ma costa da 500 a 1000 volte di più rispetto a quella pubblica del rubinetto, e contribuisce (lavorazioni, imballaggi, trasporti, ecc.) ad inquinare l’atmosfera. Lo affermano Niccolucci e colleghi nello studio appena pubblicato sulla rivista Environmental Science & Policy. Il gruppo senese di studiosi ha elaborato i valori di “impronta di carbonio” delle acque minerali rispetto a quella che scorre negli acquedotti pubblici. L’impronta di carbonio è la misura delle emissioni di gas serra causate direttamente o indirettamente da prodotti industriali dell’intera filiera produttiva, compresi la produzione degli imballaggi e il trasporto.
Prendendo il caso di Siena (55mila abitanti), i ricercatori hanno confrontato sei importanti produttori di acqua minerale rispetto all’acqua pubblica. L’impronta di carbonio della bottiglia supera di 250 volte quella dell’acquedotto. Il 46% delle emissioni si crea per produrre le bottiglie in PET (materiale plastico).
Dissetarsi con l’acqua di casa sarebbe allora una opzione per l’ambiente. Per esempio, “scegliendo l’acqua pubblica gli abitanti di Siena risparmierebbero l’emissione di 9000 tonnellate di CO2 all’anno”, conclude il rapporto. Una cifra che da sola potrebbe dire poco, ma che, fanno notare gli autori, “equivale alle emissioni di 5.000 automobili che coprissero ciascuna 15mila chilometri in un anno.”
Anche il mito della qualità è da sfatare. Infatti un confronto su campioni di “minerale” e “acquedotto pubblico” della Università di Cagliari ha dimostrato che pur con bilanci ridotti all’osso (sia per la costruzione di nuovi acquedotti che per la manutenzione dei vecchi), il servizio pubblico è ancora a basso costo e spesso eccellente. Nello studio, pubblicato sulla rivista Journal of Food Composition and Analysis, si legge che “i risultati sugli acquedotti-campione in Italia mostrano un buon adempimento dei limiti fissati dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per i metalli pesanti nell’acqua potabile”. Viceversa, non tutte le “minerali” analizzate hanno dimostrato la purezza vantata e dichiarata.
“La scelta dei consumatori di bere acqua in bottiglia ha ripercussioni importanti sul bilancio delle emissioni di CO2″, conclude Niccolucci. “Anche per questo occorrerebbe fare in modo che l’acqua pubblica sia un bene comune, perché la differenza di prezzo rispetto all’acqua in bottiglia riflette anche quella in termini di emissioni nocive”.

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