venerdì 30 marzo 2018
giovedì 29 marzo 2018
Raccolta tappi di plastica: come fare e a chi rivolgersi - Marta Albè
Raccolta dei tappi di plastica.
Ci troviamo di fonte ad una bufala, alla classica leggenda
metropolitana o ad una vera e propria operazione di
solidarietà? Un amico o un parente potrebbe avervi proposto di tenere da
parte i tappi di plastica delle bottiglie, così da raccoglierli a scopo
benefico, ad esempio per donare una sedia a rotelle o un apparecchio per la
dialisi alle persone in difficoltà. A chi consegnare i tappi di
plastica? Esistono associazioni che si occupano della loro
raccolta?
Secondo un articolo riportato
dal Cicap, 1 tonnellata di tappi rende circa 150 euro e
corrisponde a più di 400 mila tappi di plastica. La raccolta dei tappi di
plastica delle bottiglie può essere condotta dalle associazioni poiché
i tappi non vengono considerati rifiuti urbani, a differenza delle
bottiglie, che invece devono essere ritirate dagli appositi consorzi di
raccolta. Le leggende metropolitane sarebbero nate quando in
Italia la raccolta dei tappi di plastica a fini benefici non esisteva
ancora.
Cosa è successo? All'inizio degli anni
Novanta, qualcuno aveva cominciato a spargere la voce della possibilità di
raccogliere tappi per riuscire a donare una sedia rotelle a un disabile o a una
persona anziana. Era forse forte il desiderio di portare in Italia una realtà
benefica già presente all'estero, ad esempio in Francia,
dove è attiva l'associazione Bouchons d'Amour (Tappi
d'Amore).
Separare i tappi di plastica dalle
bottiglie sarebbe utile anche per facilitare la raccolta differenziata. I
due elementi, infatti, non vengono riciclati nello stesso modo, poiché i
materiali da cui sono composti risultano diversi: PE per i tappi e PET per le
bottiglie. Le associazioni che si occupano della raccolta dei tappi di plastica
devono affrontare alcuni problemi spinosi. Trovare lo spazio
in cui accumularli e pagare i mezzi necessari per il loro trasporto.
Ecco perché, probabilmente, alcune
associazioni decidono di porre fine alla raccolta alimentando così la
diffusione di leggende metropolitane e bufale al riguardo. Ma la raccolta dei
tappi di plastica in Italia e nel mondo a scopi benefici esiste e
avviene davvero. Il ricavato viene utilizzato per opere di
beneficenza, come la costruzione di orfanotrofi. Ciò che dovrete fare, èrivolgervi
ad associazioni serie e davvero attive dal punto di vista della
solidarietà.
1) Centro Mondialità
Sviluppo Reciproco
Il Centro Mondialità Sviluppo
Reciproco si occupa della raccolta di tappi di plastica in Italia. I
punti di raccolta sono sparsi in tutta la penisola e sono presenti in oltre la
metà delle nostre regioni. La raccolta dei tappi di plastica è nata da
un'iniziativa della Caritas Diocesana di Livorno in
collaborazione con Galletti Ecoservice, ditta impegnata nel
trasporto e nel riciclaggio di rifiuti e materiali plastici. Il Centro
Mondialità Sviluppo Reciproco ne ha assunto la gestione nel 2003, con
l'obiettivo di realizzare progetti per l'approvvigionamento idrico in Tanzania.
Clicca qui per
scoprire il punto di raccolta dei tappi di plastica più vicino. Per tutte le
informazioni necessarie adattivare la raccolta in altre zone, è
possibile telefonare allo 0586-887350. Potrete scaricare online il
materiale relativo ai progetti già avviati.
2) Gruppo Ecoimballaggi
Il Gruppo
Ecoimballaggi, che ha sede ad Aprilia, si occupa
della raccolta, dello smaltimento e del trasporto dei rifiuti sul territorio.
Si impegna inoltre nella diffusione della cultura del riciclo e nella
promozione della raccolta di tappi di plastica. I tappi possono essere
consegnati presso la sede di via Spadellata, oppure presso uno dei punti di
raccolta presenti in aziende, scuole e enti pubblici. La maggior parte delle
somme ricavate dalla raccolta dei tappi di plastica vengono destinate da parte
del Gruppo Ecoimballaggi a progetti sociali.
3) Movimento Adulti
Scout
Il Movimento Adulti
Scout di Collegno,
in provincia di Torino, ha organizzato una raccolta di tappi di
plastica a cui tutti i cittadini possono partecipare. Come? Preparando i
sacchetti con i tappi e consegnandoli presso le scuole, il centro
anziani o l'ecocentro presente in città, I tappi verranno inviati in Toscana e verranno gestiti dal
Centro Mondialità Sviluppo Reciproco di cui sopra.
4) Insieme per l'India
L'associazione Insieme
per l'India raccoglie
i tappi di plastica e li vende alla cooperativa sociale La Cometa di
San Lorenzo di Cambiano, in provincia di Torino.
L'iniziativa è promossa dall'associazione stessa e dal Comune di Fossano. I
tappi raccolti vengono riutilizzati per la creazione di vasi per i
fiori, cassette e tubi di scarico. Il ricavato viene destinato ai progetti
dell'associazione. I tappi adatti sono quelli delle bottiglie di plastica, del
latte, dei succhi di frutta e degli ammorbidenti. Grazie ai tappi, sono stati
raccolti fino a questo momento almeno 6000 euro. Tra i progetti
benefici troviamo sostegno a distanza e costruzione di scuole. I
tappi devono essere consegnati a mano presso i punti di raccolta
dell'associazione. Consulta qui la
mappa.
5) Associazione Lombarda
Cooperative di Produzione e Lavoro
L'Associazione
Lombarda Cooperative di Produzione e Lavoro promuove il progetto Va a
ciapà i tapp. La raccolta dei tappi viene condotta a sostegno
dell'associazione Onlus di volontariato La Nostra Comunità che
dal 1981 a Milano promuove attività educative, formative e di
animazione per adolescenti e adulti con disabilità multipla. Per ulteriori
informazioni: legacooplombardiapl.it. Per aderire al progetto scrivere
a: giusy.palumbo@lombardia.legacoop.it.
6) Amico dell'Ambiente
Amico dell'Ambiente è un progetto per
la raccolta dei tappi di plastica attivo dal 2007.
L'iniziativa sta andando molto bene, tanto che solo nel 2014 sono stati
recuperati 300 milioni di tappi. È attivo in Veneto e in altre
sette regioni, con l'obiettivo di estenderlo a tutta Italia per far conoscere
le possibilità di riciclo dei tappi di plastica, che in questo caso vengono
trasformati in cassette di plastica per l'ortofrutta (in
collaborazione con il consorzio Conip). In questo tipo di raccolta sono state coinvolte
più di 400 associazioni, con grande soddisfazione a livello sociale.
L'estensione in tutta Italia dovrebbe avvenire entro i prossimi due anni.
Scuole, associazioni e enti possono collaborare alla raccolta
dei tappi di plastica rivolgendosi a www.amicodellambiente.it.
7) Associazione Elfo
Avventure
L'Associazione Elfo Avventure ha iniziato
diversi anni fa la raccolta tappi collaborando con altre realtà di volontariato
maggiori e già da tempo sul territorio di altre città.
Da tre anni è un punto di riferimento per la raccolta tappi in plastica a Modena e provincia (Nonantola, Carpi, Mirandola).
Svolge un'azione educativa nelle scuole con lezioni gratuite che spiegano l'utilità sociale del riciclaggio e in particolar modo di quello dei tappi in plastica; sensibilizzano tra l'altro i ragazzi sul problema della solidarietà internazionale e della facilità con la quale un gesto semplice come buttare un tappo nel raccoglitore giusto possa cambiare il destino di un loro coetaneo africano.
Fino ad ora i fondi ricavati con la vendita della plastica sono serviti a finanziare lo scavo di pozzi in Africa. Dal 2016 hanno aperto un un nuovo progetto che consiste nel finanziamento di una borsa di studio per una ragazza del Mozambico che intende studiare per diventare infermiera.
Da tre anni è un punto di riferimento per la raccolta tappi in plastica a Modena e provincia (Nonantola, Carpi, Mirandola).
Svolge un'azione educativa nelle scuole con lezioni gratuite che spiegano l'utilità sociale del riciclaggio e in particolar modo di quello dei tappi in plastica; sensibilizzano tra l'altro i ragazzi sul problema della solidarietà internazionale e della facilità con la quale un gesto semplice come buttare un tappo nel raccoglitore giusto possa cambiare il destino di un loro coetaneo africano.
Fino ad ora i fondi ricavati con la vendita della plastica sono serviti a finanziare lo scavo di pozzi in Africa. Dal 2016 hanno aperto un un nuovo progetto che consiste nel finanziamento di una borsa di studio per una ragazza del Mozambico che intende studiare per diventare infermiera.
Conoscete altre associazioni che
si occupano della raccolta di tappi di plastica a fini benefici?
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riciclaggio
mercoledì 28 marzo 2018
L’Eni nell’Artico, i petrolieri texani e l’Europa a tutto gas - Mario Agostinelli
Non è solo Trump a non voler attuare una politica che rallenti il riscaldamento climatico. Il 2018 sarà un anno di svolta per il consumo di petrolio mentre l’Europa punta a diventare un rigassificatore globale e l’Eni inizierà a perforare l’Artico.
Molti di noi mostravano scetticismo sulle
conclusioni della Cop21, di Parigi, il summit internazionale contro
i cambiamenti climatici provocati dalle massicce emissioni in atmosfera
di anidride carbonica. Non solo l’arrivo di Trump,
ma il malcelato appoggio allo scapigliato presidente sparso in giro per il
mondo da tutte le multinazionali e dagli interessi che assecondano il modello
di sviluppo alimentato dai fossili e dal nucleare, ha già fatto dimenticare il
fiato sul collo messo ai governanti dalle convenzioni internazionali sul clima.
Tra una Cop e l’altra vengono vanificati o posposti tutti gli impegni più
cogenti scritti sulla carta e così un testo senza sanzioni certe mostra tutta
la sua debolezza e inefficacia. Così, provo subito ad elencare i punti più
qualificanti dell’accordo di Parigi compromessi o beffati senza che si crei un
minimo di inquietudine nell’opinione pubblica mondiale.
L’articolo 2 dell’accordo fissa l’obiettivo di
restare “ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli
pre-industriali”, con l’impegno a “portare avanti sforzi per limitare l’aumento
di temperatura a 1,5 gradi”. L’articolo 3 prevede che i Paesi “puntino a
raggiungere il picco delle emissioni di gas serra il più
presto possibile”, e proseguano “rapide riduzioni dopo quel momento” per
arrivare a “un equilibrio tra le emissioni da attività umane e
le rimozioni di gas serra già nella seconda metà di questo secolo”. In base
all’articolo 4, tutti i Paesi “dovranno preparare, comunicare e mantenere”
degli impegni definiti a livello nazionale, con
revisioni regolari che “rappresentino un progresso” rispetto agli impegni
precedenti e “riflettano ambizioni più elevate possibile” di decarbonizzazione.
I paragrafi 23 e 24 della decisione intergovernativa sollecitano i Paesi che
hanno presentato impegni al 2025 “a comunicare entro il 2020 un nuovo impegno,
e a farlo poi regolarmente ogni 5 anni”, e chiedono a quelli che già hanno un
impegno al 2030 di “comunicarlo o aggiornarlo entro il 2020”. La prima verifica dell’applicazione degli
impegni è fissata al 2023.
DI fatto, come documentato sotto, si cerca di
aumentare la produzione e di tagliare i costi di un’attività
L’articolo 9 chiede ai Paesi sviluppati di
“fornire risorse finanziarie per assistere” quelli in via di sviluppo. Più
in dettaglio, il paragrafo 115 della decisione “sollecita fortemente” questi
Paesi a stabilire “una roadmap concreta per raggiungere l’obiettivo di fornire
insieme 100 miliardi di dollari l’anno da qui al 2020”. Ma, in realtà, viene
aumentata la produzione e tagliati i costi con sovvenzioni pubbliche per quello
che era il fulcro della vecchia economia: la produzione di petrolio e
di gas; e neanche un dollaro è stato infilato in una bussola per la
carità posta ad un incrocio qualunque!
SI CERCA DI SPOSTARE IN AVANTI IL PICCO DEL
PETROLIO
Nel suo recente ed esauriente report sul
futuro del petrolio e del gas la International Energy Agency (IEA: Oil 2018,
analysis and forecasts to 2023, www.iea.org ) induce a riflessioni tutt’altro che scontate
sull’avvenuto raggiungimento del picco delle fonti fossili. Ormai si perfora e
si spara acqua compressa nei luoghi più inimmaginabili e pericolosi. Anzi,
caparbiamente, le grandi corporation e i gruppi finanziari più esposti
esplorano ogni possibilità di rilancio anche dei combustibili più sporchi.
Accelerando perfino, come proverò qui sotto, i più assurdi tentativi di
estrazione sotto il profilo climatico-ambientale e azzardando le operazioni più
rischiose dal punto di vista finanziario e delle probabili bolle in borsa.
Tutto, pur di contrastare il cambio di modello energetico e di trasferire solo
sul piano contabile di governi e multinazionali gli effetti di una esasperata
combustione dei fossili recuperati ovunque, dopo averla dichiarata incompatibile
con il riscaldamento del pianeta ad ogni superfluo appuntamento Cop (ormai, con
quella dopo Parigi e Bonn, arrivate al numero 23, https://www.lifegate.it/persone/news/cop-23-fiji-bonn-finale ).
Lo stesso direttore esecutivo della IEA, Fatih
Birol, sostiene che dalla Cop 21 ad oggi si deve registrare con sorpresa una
espansione notevole di immissione “sporca”, dovuta soprattutto
all’impressionante ripresa della produzione di petrolio e gas da scisti negli
Stati Uniti. L’impatto globale dell’aumento dello shale oil (LTO) e il
contemporaneo irrobustimento dell’esportazione di shale gas comporta un
cambiamento fondamentale nella natura dei mercati petroliferi globali.
Previsioni di produzione di LTO in USA a
seconda della velocità di esaurimento dei pozzi (http://peakoilbarrel.com/the-future-of-us-light-tight-oil-lto/ )
La spina nel fianco della tecnologia di
fracking consiste nel più rapido esaurimento dei giacimenti (le varie curve in
figura indicano diverse velocità di estrazione – in barili al giorno – e quindi
diverse previsioni più o meno pessimistiche di svuotamento dei pozzi). Si deve
notare che la modalità di fracking delle rocce, estremamente dannosa sul piano
ambientale, andrà comunque ad esaurirsi entro la metà del secolo, ma che tutte
le curve (tranne la più bassa) sono in crescita fino al 2023. Di conseguenza,
quindi, l’inevitabile picco previsto cinque anni fa ancora non è raggiunto,
consentendo agli USA di solidificarsi come il principale produttore di petrolio
al mondo mentre la Cina e l’India li sostituiscono come principali importatori
di oro nero.
Il Fondo Monetario Internazionale vede una
crescita economica globale del 3,9% all’anno fino al 2023 e le economie
forti utilizzeranno più petrolio con una crescita della domanda a un
tasso medio annuo di 1,2 milioni di barili / giorno. Dove sta allora la decarbonizzazione,
parola d’ordine della Cop di Parigi e della SEN di Calenda? Eppure, ci sono
segnali di possibile e vantaggiosa sostituzione del petrolio con altre fonti
energetiche in vari paesi. Ma non è assolutamente pari agli obiettivi
di sostituzione necessari, se si escludono sforzi locali in Asia e
parziali in Germania. Un esempio di riferimento sta diventando la Cina,
che, partendo da una situazione disastrosa in particolare nelle città, ha
introdotto alcune delle più severe normative mondiali in materia di efficienza
dei consumi e di emissioni. La produzione e le vendite di veicoli elettrici
stanno aumentando e c’è una forte aumento nello spiegamento di veicoli a gas
naturale, in particolare nelle flotte di camion e autobus. Un numero crescente
di autobus elettrici e autocarri alimentati a GNL in Cina rallenterà in modo
significativo la crescita della domanda di gasolio. Le flotte di oltre 16.000
bus elettrici di Shenzhen sono un punto di riferimento mondiale.
Spesso si trascura che i prodotti petrolchimici sono
un fattore chiave per la crescita della domanda di petrolio e che la corsa al
riarmo concentra ancora di più il ricorso ad esso. Man mano che le spedizioni
canadesi di shale oil e shale gas verso gli Stati Uniti crescono, questo libera
il greggio statunitense più leggero per l’esportazione, in particolare per
soddisfare la domanda asiatica di materie prime petrolchimiche. Ogni anno il
mondo ha bisogno di rimpiazzare l’offerta persa dai campi maturi e questo è
l’equivalente di sostituire un Mare del Nord ogni anno. Le scoperte di nuove
risorse petrolifere tradizionali sono scese ad un altro minimo storico nel
2017. Messico e Venezuela sono campi ambiti di intervento, ma anche fonte di
enormi tensioni (Il muro di Trump, l’attacco asfissiante al governo di
Caracas), mentre l’instabilità in Iraq, Libia e Nigeria e l’isolamento del
Qatar comporta che ormai i Paesi non OPEC diventino i protagonisti sulla
scena, con in testa gli Stati Uniti, almeno nei prossimi
quattro-cinque anni. Spinta dall’LTO, che non ha ancora raggiunto il suo picco
(v. figura), nel 2023 la produzione degli Stati Uniti sarà cresciuta di 3,7
milioni di barili al giorno, cioè, più della metà della crescita totale della
capacità produttiva globale, di 6.4 mb / d prevista per allora. Gli Stati Uniti
sono pertanto in una posizione favorevole per aumentare il proprio ruolo nei
mercati globali. Per di più, sotto la presidenza Trump viene favorita
nettamente la capacità e il ruolo della logistica e dei grandi impianti. Questo
include importanti progetti canadesi come Trans Mountain e Keystone XL,
osteggiati da Obama e il gasdotto EPIC 550 kb / d di TexStar Logistics, che
sarà operativo nel 2019 in Texas. Dieci impianti di esportazione di petrolio
greggio sono in corso di aggiornamento o di costruzione, facendo di Corpus
Christi il principale hub di esportazione nella costa del Golfo. Anche
l’attale eccesso di capacità di raffinazione globale è destinato ad esaurirsi a
causa del rallentamento della crescita della domanda di prodotti raffinati, in particolare
dall’Asia, che richiede sempre più greggio per la propria industria
petrolchimica.
La domanda petrolifera europea,
nel frattempo, dovrebbe tornare alla sua tendenza al declino a lungo termine.
La maggior parte della crescita verrà dal GPL e dall’etano. Buoni guadagni si
vedranno anche nel consumo di kerosene, dato che i viaggi aerei diventano più
accessibili nei paesi non OCSE. La crescita della domanda di benzina rallenta
nel periodo da qui al 2023 con standard più rigidi in materia di risparmio di
carburante, mentre la crescita del gasolio rallenta in media dello 0,7%
all’anno.
ESTRARRE E IMPIEGARE E PAGARE AD OGNI COSTO
SHALE GAS
Segnalo alcuni temi destinati a essere
considerati decisivi nei prossimi 12-24 mesi per il settore globale del
GNL (gas naturale liquefatto) se si prendono in considerazione
prevalentemente i vantaggi di mercato, lasciando ricadere all’esterno sia i
danni ambientali, che quelli sociali e i rischi finanziari (le fonti sono
elaborate da informazioni della Banca Mondiale http://www.worldbank.org/ ).
L’accumulo nell’approvvigionamento di GNL (Gas
naturale liquefatto) a livello globale è significativamente ritardato
dalla capacità di liquefazione. Negli ultimi due anni, la crescita dell’approvvigionamento
di GNL ha rappresentato meno di due terzi della capacità di crescita di offerta
grezza. Ciò è dovuto a numerosi fattori, tra cui ritardi di messa in servizio e
interruzioni di fornitura non pianificabili, spesso dipendenti da conflitti
locali o dall’onerosità delle infrastrutture di trasporto e trasformazione. Le
imprese e la gran parte dei Governi stanno attuando ogni sforzo per invertire
questa tendenza nel 2018 e nel 2019, con la crescita dell’offerta mondiale più
strettamente in linea con la crescita della capacità di fornitura. Una grande
fetta di questa crescita proviene da progetti avviati nel 2017, sia da quelli
in fase di pieno utilizzo che da quelli che hanno raggiunto la stabilità. I
produttori tutt’ora operano investimenti per un livello relativamente basso di
interruzioni rispetto a quanto osservato negli ultimi anni, in gran parte a
causa dei maggiori volumi in arrivo da Angola, Egitto e Trinidad e Tobago.
Nel 2018 è prevista la maggiore crescita in volume di qualsiasi anno
passato, superando sostanzialmente la crescita della domanda globale.
Tuttavia, dopo il 2019, la ristrutturazione della pipeline dei progetti di
liquefazione si esaurirà e la crescita dell’offerta inizierà nuovamente a
decadere. Ciò inciderà sul prezzo al mercato e sui rischi di investimento in
atto.
La scala di crescita nel 2017 è stata
attribuita in gran parte alla Cina, che ha dominato il mercato,
rappresentando quasi la metà della crescita globale della domanda. Ma il ritmo
di questa crescita si attenuerà. L’aumento del consumo di gas domestico e
l’insufficienza delle forniture locali vedranno continuare a crescere le
importazioni di GNL, ma con un rallentamento, dovuto all’estensione
delle rinnovabili, nonostante il passaggio dal carbone al gas. Più in
generale, i mercati emergenti continueranno a sostenere la crescita globale,
compreso un gran numero di nuovi entranti. Tuttavia, molti dei più attraenti di
essi sono già stati sfruttati e il ritmo dei nuovi entranti inizierà a
rallentare. Ciò non significa riduzione effettiva di investimenti e di
perforazioni nel settore, ma un maggior rischio , dichiaratamente coperto dalla
svolta di Trump rispetto agli impegni di Parigi.
In questo quadro di maggiore tolleranza per lo
shale gas, fino a due anni fà messo al bando dall’UE, L‘Europa punta
ad adottare il ruolo del rigassificatore globale. Ciò vale anche
per il carbone, il petrolio, o le biomasse, ma fa gola specialmente per l’esportazione di gas
americano. La regione è unica nella sua capacità di assorbire l’avanzo globale,
grazie ai suoi mercati del gas ampi, integrati e liberalizzati e ai
significativi volumi di offerta flessibile. L’Europa deve però – secondo i più
grandi produttori di gas e i fornitori interni (ENI, Total e BP) – fare un
ulteriore salto e diventare il maggior consumatore di gas a livello globale: a
questo puntano esplicitamente gli Stati Uniti (con l’esportazione di
shale gas) e la Russia (con la costruzione di gasdotti). Nella competizione
russo-statiuniti- canadese l’UE favorisce le iniziative di
immissione in rete gassosa del GNL da scisto nordamericano ai nodi degli
attracchi europei (dalla Lituania, Estonia e Inghilterra – per limitare il gas
russo – alla Toscana – per favorire la metanizzazione della Sardegna messa sul
piatto dal governo italiano). Nasceranno così nuovi problemi per il mercato del
gas, dato che il fattore determinante dei flussi complessivi in Europa
sarà il prezzo, con i carichi di GNL in competizione sugli hub
dei porti per eliminare le forniture da gasdotti. In questo modo, i prezzi del
mercato europeo del gas emergeranno come un importante fattore trainante dei
prezzi globali del GNL nel medio periodo. E non necessariamente al ribasso, ma
in condizioni di maggiore volatilità.
Mentre l’Europa contribuirà a riequilibrare il
mercato dal lato della domanda, l’offerta è altamente inelastica rispetto ai
prezzi. La maggior parte della capacità di liquefazione è impegnata in
contratti a lungo termine e, dati i bassi costi di produzione, la maggior parte
delle forniture è incentivata a gestire in loco i propri impianti alla massima
capacità e a vendere solo l’eccesso sul mercato spot. Gli Stati Uniti,
nel breve periodo e in funzione del surplus di shale gas, sono probabilmente
l’unica fonte di offerta di GNL a livello globale, nonostante i suoi costi di
produzione-liquefazione-trasporto-rigassificazione relativamente elevati e
l’impatto disastroso sui cicli naturali e l’ambiente. Su base annua media, lo
spread tra il miglior prezzo statunitense e i benchmark europei ed asiatici
sembra favorevole alle esportazioni dall’America per tutto il 2018 e 2019.
Tuttavia, i prezzi del gas sono altamente stagionali e durante i mesi estivi,
la capacità degli Stati Uniti verrà probabilmente sottoutilizzata e compensata
per altra via.
L’espansione del gas è quindi fonte di
incertezze e di gravi disagi ambientali, oltre che di rischi finanziari
notevoli. Ma tant’è: nonostante tutte le Cop organizzate con grande pompa e
risonanza, la decarbonizzazione strombazzata ad ogni lato,
paradossalmente rilancia il gas, con l’attenuante della sostituzione del
carbone con il mantenimento sotto traccia del suo contributo ai gas
climalteranti nella percezione dell’opinione pubblica, abbagliata dalla
narrazione di quote di rinnovabili nei paesi di industrializzazione matura a
integrazione anziché a sostituzione dei consumi fossili.
Negli ultimi due anni, solo due
decisioni di investimento finale sono state prese su progetti di
liquefazione, a livello globale: Tangguh LNG (Indonesia) e Coral FLNG
(Mozambico). Per il 2018 sono invece ben 17 i progetti in lizza, di cui sette
con solide prospettive di realizzazione. Perché mai, visto lo scoraggiamento
che dovrebbe provenire dagli appuntamenti sul clima? La verità è che le
sanzioni finanziarie sui progetti saranno sostenute dall’aumento dei
prezzi delle materie prime, dall’attenuazione dei vincoli
di capitale sulle principali compagnie petrolifere e del gas, nonché da una
forte deflazione dei costi dei servizi a sostegno dell’economia
dei progetti di liquefazione. Ancora una volta, il modello di sviluppo
finisce sulle spalle del pubblico e dei consumatori, con la complicità dei
governanti.
BIG DATA =PIU” EFFICIENZA, PIU’ PROFITTI, MA
MINOR DURATADEI POZZI
I grandi cambiamenti in atto nel settore
petrolifero e del gas, ora che esso sta iniziando a adottare le ultime
innovazioni anche in fatto di informatica, provocano l’illusione di tornare ad
essere competitivi economicamente con le fonti “pulite” a dispetto della
riduzione dei costi di quest’ultime e dell’insostenibilità ambientale provocata
dalla circolazione di gas e petrolio (Il carbone non è affatto marginale, ma
ormai le banche lo sfavoriscono). Alcune tecniche – come l’analisi avanzata dei
dati che vengono commissionate a Google, Facebook, Amazon ed altri sia per
intralciare i contatti diretti con la clientela, sia per “strizzare” al massimo
le fonti sotto le superfici più fragili e contaminabili– ormai sono utilizzate
sempre più spesso dal settore energetico. Molti dirigenti di società
petrolifere credono che i risultati potrebbero essere altrettanto sbalorditivi
e rivoluzionari che per la manifattura. (v. Il sole 24 ore http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2018-02-14/cosi-big-data-salveranno-gas-e-petrolio-nell-era-rinnovabili–150458.shtml?uuid=AEkoZxzD&refresh_ce=1 )
L’aumento della produzione reso possibile
dalle innovazioni digitale dovrebbe esercitare pressioni verso il basso
per i prezzi petroliferi, “creando venti contrari per le tecnologie
concorrenti, comprese quelle applicate alle automobili elettriche”. Entro i
prossimi dieci “Nei giacimenti petroliferi di scisto degli Stati Uniti il nuovo
sistema potrebbe incidere sui costi di produzione nella misura del 40 per
cento” ha osservato il CEO di Chevron, Occorre tener effettivamente conto che
nella classifica Top 500 dei supercomputer più potenti al mondo oggi, i
maggiori proprietari del settore fossile risultano essere Total ed Eni –
le società petrolifere a compartecipazione governativa rispettivamente di
Francia e Italia, e Petroleum Geo Services, un’azienda che effettua
rilevamenti di giacimenti di petrolio e relativa produzione di immagini di resa
e simulazione. “Le operazioni legate alle trivellazioni sono in buona
parte gestite da esseri umani. Crediamo che in futuro saranno sempre più
automatizzate e delegate a un computer”(Chevron). Il basso costo dei
sensori e la disponibilità di servizi nel cloud rendono senz’altro maggiore la
resa, ma petrolio e gas restano produttori di climalteranti alla combustione e
il principio dell’entropia ha un carattere di irreversibilità e una dipendenza
dalla velocità delle trasformazioni in natura che nessuna elaborazione di dati può
sostanzialmente invertire, se i parametri e le intensità termiche inseguite
rimangono invariati.
Come nel caso della manifattura 4.0, la
sostituzione dell’azione umana con Intelligenza Artificiale, nonchè l’estrema
velocità di elaborazione in tempo di dati non sempre correlati giustamente tra
loro distraggono dalla qualità e dalla finalità che si produce a fini di
profitto e dall’intero ciclo di vita dei prodotti. I quali evidentemente non si
esauriscono nel consumo, ma rimangono scarto degradato e, di fatto, nel caso
dei fossili e ancor più per il nucleare, scarto ineliminabile in tempi storici.
La fase di accelerazione dellìimpiego tecnologie digitali, ormai pervasive e
sorrette da notevoli investimenti nelle infrastrutture, sta creando illusorie
aspettative tra gli operatori economici e affanni di competizione tra i sistemi
nazionali. Anche se in complesso viene riconosciuto che l’attuale crisi sia
generale, a carattere epocale e strutturale e pertanto richieda soluzioni in
profonda discontinuità con le ricette che l’hanno provocata, perfino riguardo
alle fonti fossili ci si limita alla pura efficienza, alla maggior velocità
delle connessioni tra siti e spezzoni di ciclo, di elaborazioni e esecuzioni
materiali, che prescindono dall’utilità sociale dei prodotti, lasciano
inalterata la divisione del lavoro, ne incorporano nel macchinario la residua
autonomia, estendono la loro potenza organizzativa all’intero tempo
dell’esistenza umana. Continua cioè a prevalere in ambito economico e politico
la speranza di superare – ostinatamente in un orizzonte rischiarato da una
improbabile crescita – il duro avvitamento di una società in cui degrado di
natura, limiti alla democrazia, perdita di diritti sono ormai emergenze
irrisolvibili, ma, nello stesso tempo, il frutto di scelte maturate nel modo di
produzione e di consumo, che rimane la sostanza da mettere in discussione.
MULTINAZIONALI, ROTTE ARTICHE, PETROLIO E GAS
POLARE
Mentre la domanda globale di combustibili
fossili aumenta e il ghiaccio del mare artico continua a sciogliersi, le
multinazionali e i governi prevedono di espandere le esplorazioni
petrolifere e le rotte commerciali nella regione. Un’altra incredibile
contraddizione rispetto alle decisioni sbandierate ai summit sul clima.
Il 26 gennaio 2018, Pechino ha annunciato
l’apertura di rotte marittime nell’Artico per un tipo di strada della seta
polare. La Cina sta mettendo sotto osservazione le possibilità di estrarre
petrolio, gas, risorse minerarie, nonché di favorire la pesca e il turismo
nella regione. Il gigante asiatico ha una quota importante nel progetto russo
di gas naturale liquefatto (GNL) di Yamal, che dovrebbe fornire alla Cina 4
milioni di tonnellate di GNL all’anno.
Nell’aprile dello scorso anno, il presidente
degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato un ordine
esecutivo che inverte le restrizioni dell’ex presidente Barack Obama sulle
trivellazioni nell’Artico, offrendo all’ENI la concessione di perforazioni
esplorative nell’Artico a partire dal 2018.
Affrontare sversamenti di fossili in questo
tipo di ambiente richiede conoscenze, capacità tecniche e capacità di risposta
che semplicemente non abbiamo: oltre 25 anni dopo Exxon Valdez, non ci sono
ancora tecnologie note per la pulizia di olio in zone ghiacciate.
Nonostante i probabili disastri naturali che
potrebbero introdurre, le nazioni e i Governi interessati (compreso quello
italiano!) stanno predisponendo piani per trarre profitto dalle risorse
dell’Artico e dalle possibili rotte commerciali. Attualmente, due importanti
rotte artiche sono sempre più navigabili in estate. The Northwest
Passage (Canada), che farebbe risparmiare due settimane di viaggio rispetto al
Canale di Panama e la rotta del Mare del Nord (Russia), che è già in uso per
navi commerciali. Sebbene le rotte non siano aperte tutto l’anno, le compagnie
investono già miliardi di dollari in petroliere in grado di rompere e superare
il ghiaccio invernale.
Il Worldwatch Institute di Washington ( http://www.worldwatch.org/node/5664 ) ha riferito che più della metà dell’Oceano Artico
era coperto di ghiaccio tutto l’anno a metà degli anni ’80. Oggi, la calotta
polare è molto più piccola, come ha dimostrato la NASA con le prove
satellitari: la copertura ghiacciata artica, a partire da febbraio, poggia su
meno del 30 percento dell’oceano.
I diritti allo sviluppo nell’Oceano Artico
sono fortemente contestati tra Stati Uniti, Russia, Canada e Norvegia. Tutti e
quattro i paesi stanno discutendo fino a che punto la loro piattaforma
continentale si estende nell’oceano e quindi concede loro diritti di
perforazione. Ma il rapporto 2016 dell’Istituto per l’ambiente di Stoccolma (
v. https://issuu.com/mcarta/docs/stockholm_re-silient_2015 ) avverte che “l’integrità degli ecosistemi artici
è sempre più sfidata, con importanti implicazioni per le comunità artiche e per
il mondo nel suo complesso. I cambiamenti climatici minacciano una vita polare
varia e abbondante che dipende dallo spessore del ghiaccio, dagli orsi polari e
dai trichechi, fono al al minuscolo krill. Lo scioglimento delle calotte
glaciali e dei ghiacciai sta causando l’innalzamento dei livelli del mare. Le
modifiche ai climi polari rappresentano una doppia minaccia: influiscono
direttamente sulla vita polare, ma hanno anche importanti effetti a catena per
i sistemi climatici di tutto il mondo. ”
In conclusione, chi guida il mondo continua a
ritenere reversibile e riparabile l’impronta che in particolare le attuali
generazioni lasciano sulla Terra.
E PER FINIRE….LA BREXIT
Per rappresentare lo stato di involuzione dl
sistema mondiale fondato su grandi centrali e migliaia di miglia di reti di
distribuzione carenti di accumulo, riprendo da ultima una notizia tanto
imbarazzante quanto segno di imprevidenza. Questione senz’altro non messa in
conto dagli Inglesi quando son stati consultati nel referendum popolare per la
Brexit. Il Regno Unito non ha ancora nemeno abbozzato le regole di sostituzione
necessarie Ma il tempo stringe per elaborare nuovi accordi prima di marzo. La
francese EDF impegnata alla costruzione dei reattori nucleari di Hinkley
Point, nel sud-ovest dell’Inghilterra – tre enormi gruppi da 1600 MW l’uno
per un esborso di 19,6 miliardi di sterline (26,2 miliardi di dollari) – ha
sollevato il problema dell’uscita dell’Inghilterra dall’Euratom e dei rapporti
che in particolare i francesi tengono oltre Manica per la standardizzazione
delle centrali da loro progettate e per l’accesso e il ritrattamento del
carburante nucleare. L’adesione all’Euratom ha per tutti questi anni aiutato la
Gran Bretagna a diventare un produttore leader di combustibile per reattori e
un partecipante chiave nei progetti di ricerca nucleare a guida UE. Il governo
del primo ministro Theresa May ha sottovalutato la decisione di lasciare con
l’UE anche l’Euratom. Ma dal momento che l’organizzazione del nucleare europeo
governa tutto, dal trasporto di materiali radioattivi, dal combustibile per
reattori agli isotopi medici e alla tecnologia atomica commerciale, in attesa
di complicati accordi tutti da riscrivere il Regno Unito non avrebbe accesso al
carburante. Se i benefici chiave previsti dal trattato Euratom soprattutto per
la sicurezza non venissero mantenuti, non si sarebbe in grado di spostare il
combustibile nucleare o le merci dentro e fuori il paese. E EDF dovrebbe
sospendere le operazioni, mentre la Gran Bretagna dovrebbe reperire 5.000 posti
di lavoro per costruire la stazione ed essere in grado di accedere a dipendenti
qualificati provenienti da altri paesi europei. Intanto il combustibile nucleare
giacerebbe incustodito e non ritrattato per migliaia di anni o almeno finchè
non si ripristinino gli accordi per una loro conservazione il meno pericolosa
possibile per tempi storici
A valle delle constatazioni qui prese in
considerazione solo per il “rilancio” clandestino dei fossili, considerare
Parigi 2015 una tappa storica è davvero un abbaglio in attesa di una sola
possibile scossa: quella dei cittadini -uomini e donne – che pongono la
rigenerazione, la biosfera, la cura della Terra sopra la ricerca di un profitto
illusoriamente a termine
martedì 27 marzo 2018
Eolico, la rivolta di Bitti - Cosimo Filigheddu
Quando immagino la mia terra picchiettata di pale eoliche penso che forse
ci arriviamo presto a questo punto perché siamo i più coglioni del mazzo
tricolore. Mi consolo un pochino vedendo le navi da crociera che, siccome ai
turisti le cose bisogna fargliele vedere bene, a Venezia sfiorano San Marco a
dimostrare che le navi sono più grandi. E l’ “essere più grande” è un principio
primordiale di affermazione virile che ha come conseguenze il più noto
“avercelo più grande”. Roba da barbari, insomma. O da leghisti. Ma poi penso
che questo dei guai dei veneziani è un contentino. Venezia almeno ha un
illustre passato imperialista: quando i bizantini hanno rotto i coglioni ai
suoi mercanti, ha persino devastato Costantinopoli che era cristiana più di lei.
Popolo in gamba, insomma, quello lagunare. Si saprà difendere, alla fine.
Noi sardi, invece, non so quanto ci sapremo riparare da questa schiera di grattacieli rotanti con i quali vogliono liquidare definitivamente l’ultima nostra vera risorsa: la bellezza.
Sandro Roggio l’altro giorno, in articolo molto efficace sulla Nuova Sardegna, si chiedeva se non abbiamo dato già abbastanza, se il nostro contributo alla industrializzazione del Paese da un paio di secoli a oggi non sia sufficiente. Industrie inquinanti, cascate di cemento nelle coste, servitù militari. A cominciare dal taglio dei boschi che ha mutato per sempre la fisionomia della Sardegna. Roggio cita a questo proposito Fiorenzo Caterini, autore di “Colpi di scure e sensi di colpa”, che credo sia il saggio più approfondito mai scritto sulla tragedia economica e ambientale del disboscamento nell’isola.
Quella legna serviva a produrre il petrolio della rivoluzione industriale, cioè il vapore. Ma quando è stato necessario il petrolio vero e proprio si è scelto di raffinarlo in Sardegna con una complessa bolla economico-occupativa privata ma alimentata da soldi pubblici. Un pasticcio che dopo avere provocato un’illusione industriale, ha in breve tempo prodotto una deindustrializzazione selvaggia, una disoccupazione devastante e un’unica eredità duratura: la desolazione ambientale di zone pregiate ora difficilmente recuperabili.
Adesso dunque il contributo che dovremmo dare si ammanta di un verde politically correct perché parla di energie rinnovabili, energie pulite. E mi chiedo però quanto l’eolico, sul quale solo gli investitori grossi si buttano a pesce, sia davvero pulito e davvero conveniente per tutti. Innanzitutto chissà perché l’eolico domestico non decolla come il fotovoltaico (pur con tutte le incertezze) e sembra funzionare soltanto se tappezziamo il paesaggio di queste pale ciascuna delle quali è alta 150 metri, cioè un grattacielo di cinquanta piani. Perché si abbia un’idea di che cosa parliamo, in tutta Italia di edifici di simile altezza ce ne sono al massimo sei o sette. In Sardegna neppure uno. Il “Grattacielo Nuovo” di piazza Castello a Sassari, che credo sia il palazzo più alto dell’isola, misura ottanta metri.
Mi chiedo quindi perché sia necessario un simile impatto affinché la produzione di energia sia conveniente per chi investe. Un vantaggio economico discutibile,sembra. A meno che non funzioni soltanto perché ci sono i contributi europei che lo rendono un buon affare soltanto su grande e impattante scala. E infatti ogni volta che si ventila la minaccia di ridurre questi contributi, la grande industria urla come un porco scannato. Da ciò il malevolo dubbio che questa faccenda delle pale convenga soltanto alle imprese. Che tra l’altro in questo affare producono occupazione soltanto al momento del montaggio.
Non so l’esatto contributo dell’eolico al fabbisogno nazionale. Mi sembra di capire che superi il dieci per cento, che non è poco. Ma è un buon traguardo se rapportato al riempimento di alcuni dei più bei siti del nostro Paese, al dissesto di montagne, al suolo coperto con strade finalizzate solo a quegli impianti? E’ un guadagno di energia o uno spreco di ambiente?
E ora tocca a Bitti, uno dei paesi e delle zone più belle della Barbagia, felicemente equilibrata nell’antica tradizione dell’allevamento, industria dove convivono la fierezza della cultura tradizionale (nel centro storico c’è tra l’altro un bellissimo Museo dalla Civiltà Contadina e Pastorale) e un’avanzata modernizzazione della maggior parte delle aziende.
Se la spunteranno le pale eoliche, il loro rumore, oltre a uccidere e a fare fuggire gli uccelli e a disturbare gli animali allevati, coprirà simbolicamente la musica antica del Canto a Tenore, di cui Bitti è fiera, a testimoniare di questa nuova aggressione di una certa civiltà industriale agli spazi che ancora se ne erano salvati.
Bitti si rivolta. Lo fa da sola. La Regione è stata scavalcata per questioni di “pubblica utilità” e in generale la classe politica regionale, salvo rare eccezioni, non è accorsa ad aiutarla. All’orizzonte si profilano queste tredici enormi torri, dieci nel territorio di Bitti e tre in quello di Orune, oltre alle strade di accesso e quelle interne al complesso, fondazioni in cemento armato per ciascuna torre di una ventina di metri di diametro e tre di profondità, piazzole fisse, scavi per i cavi. Un’occupazione che coinvolge circa settecentomila metri quadri di terra con un complesso di cose che non hanno a che fare con quel paesaggio che di per sé produce da secoli cultura e reddito, tra allevamento e ricchezze paesaggistiche e storiche, tra le quali numerose domus de janas.
Il ministero dell’Ambiente ha dato a Bitti sessanta giorni di tempo per rispondere. La speranza sempre più tenue è ora che a rispondere non sia Bitti ma la Sardegna.
Noi sardi, invece, non so quanto ci sapremo riparare da questa schiera di grattacieli rotanti con i quali vogliono liquidare definitivamente l’ultima nostra vera risorsa: la bellezza.
Sandro Roggio l’altro giorno, in articolo molto efficace sulla Nuova Sardegna, si chiedeva se non abbiamo dato già abbastanza, se il nostro contributo alla industrializzazione del Paese da un paio di secoli a oggi non sia sufficiente. Industrie inquinanti, cascate di cemento nelle coste, servitù militari. A cominciare dal taglio dei boschi che ha mutato per sempre la fisionomia della Sardegna. Roggio cita a questo proposito Fiorenzo Caterini, autore di “Colpi di scure e sensi di colpa”, che credo sia il saggio più approfondito mai scritto sulla tragedia economica e ambientale del disboscamento nell’isola.
Quella legna serviva a produrre il petrolio della rivoluzione industriale, cioè il vapore. Ma quando è stato necessario il petrolio vero e proprio si è scelto di raffinarlo in Sardegna con una complessa bolla economico-occupativa privata ma alimentata da soldi pubblici. Un pasticcio che dopo avere provocato un’illusione industriale, ha in breve tempo prodotto una deindustrializzazione selvaggia, una disoccupazione devastante e un’unica eredità duratura: la desolazione ambientale di zone pregiate ora difficilmente recuperabili.
Adesso dunque il contributo che dovremmo dare si ammanta di un verde politically correct perché parla di energie rinnovabili, energie pulite. E mi chiedo però quanto l’eolico, sul quale solo gli investitori grossi si buttano a pesce, sia davvero pulito e davvero conveniente per tutti. Innanzitutto chissà perché l’eolico domestico non decolla come il fotovoltaico (pur con tutte le incertezze) e sembra funzionare soltanto se tappezziamo il paesaggio di queste pale ciascuna delle quali è alta 150 metri, cioè un grattacielo di cinquanta piani. Perché si abbia un’idea di che cosa parliamo, in tutta Italia di edifici di simile altezza ce ne sono al massimo sei o sette. In Sardegna neppure uno. Il “Grattacielo Nuovo” di piazza Castello a Sassari, che credo sia il palazzo più alto dell’isola, misura ottanta metri.
Mi chiedo quindi perché sia necessario un simile impatto affinché la produzione di energia sia conveniente per chi investe. Un vantaggio economico discutibile,sembra. A meno che non funzioni soltanto perché ci sono i contributi europei che lo rendono un buon affare soltanto su grande e impattante scala. E infatti ogni volta che si ventila la minaccia di ridurre questi contributi, la grande industria urla come un porco scannato. Da ciò il malevolo dubbio che questa faccenda delle pale convenga soltanto alle imprese. Che tra l’altro in questo affare producono occupazione soltanto al momento del montaggio.
Non so l’esatto contributo dell’eolico al fabbisogno nazionale. Mi sembra di capire che superi il dieci per cento, che non è poco. Ma è un buon traguardo se rapportato al riempimento di alcuni dei più bei siti del nostro Paese, al dissesto di montagne, al suolo coperto con strade finalizzate solo a quegli impianti? E’ un guadagno di energia o uno spreco di ambiente?
E ora tocca a Bitti, uno dei paesi e delle zone più belle della Barbagia, felicemente equilibrata nell’antica tradizione dell’allevamento, industria dove convivono la fierezza della cultura tradizionale (nel centro storico c’è tra l’altro un bellissimo Museo dalla Civiltà Contadina e Pastorale) e un’avanzata modernizzazione della maggior parte delle aziende.
Se la spunteranno le pale eoliche, il loro rumore, oltre a uccidere e a fare fuggire gli uccelli e a disturbare gli animali allevati, coprirà simbolicamente la musica antica del Canto a Tenore, di cui Bitti è fiera, a testimoniare di questa nuova aggressione di una certa civiltà industriale agli spazi che ancora se ne erano salvati.
Bitti si rivolta. Lo fa da sola. La Regione è stata scavalcata per questioni di “pubblica utilità” e in generale la classe politica regionale, salvo rare eccezioni, non è accorsa ad aiutarla. All’orizzonte si profilano queste tredici enormi torri, dieci nel territorio di Bitti e tre in quello di Orune, oltre alle strade di accesso e quelle interne al complesso, fondazioni in cemento armato per ciascuna torre di una ventina di metri di diametro e tre di profondità, piazzole fisse, scavi per i cavi. Un’occupazione che coinvolge circa settecentomila metri quadri di terra con un complesso di cose che non hanno a che fare con quel paesaggio che di per sé produce da secoli cultura e reddito, tra allevamento e ricchezze paesaggistiche e storiche, tra le quali numerose domus de janas.
Il ministero dell’Ambiente ha dato a Bitti sessanta giorni di tempo per rispondere. La speranza sempre più tenue è ora che a rispondere non sia Bitti ma la Sardegna.
lunedì 26 marzo 2018
sardi migranti
La rivoluzione neolitica partì dall’Isola? La risposta in uno studio sul Dna
Gli uomini che anticamente abitavano la Sardegna
potrebbero aver diffuso nel Mediterraneo occidentale la più grande rivoluzione culturale della storia:
secondo uno studio appena pubblicato sulla rivista della National Academy of Science, sarebbero stati i
sardi a portare con sé nei loro viaggi verso la Spagna le tecniche di
agricoltura e pastorizia, trasformando popoli di cacciatori e raccoglitori in
uomini sedentari. La rivoluzione neolitica,
che diede un forte impulso allo sviluppo demografico, alla nascita di villaggi
e insediamenti stabili e all’accumulo di beni e derrate attorno al VII e VI
millennio avanti Cristo, potrebbe aver raggiunto la Spagna proprio dalla
Sardegna.
La scoperta è firmata da un team multidisciplinare e
internazionale composto da venti studiosi che hanno pubblicato i dati una
settimana fa (qui l’articolo in lingua inglese), ed è stata ripresa
dal quotidiano El Pais con il titolo “I migranti che portarono in Spagna la
più grande rivoluzione della storia”.
Sappiamo oggi che l’agricoltura e la pastorizia, da
cui ebbero origine le società neolitiche, furono trasmesse in Europa da
due grandi migrazioni di uomini che hanno trasformato
radicalmente la cultura umana e il suo patrimonio genetico: una partì
dall’Europa centrale, l’altra raggiunse l’estremità occidentale del continente
attraverso la rotta mediterranea. Quest’ultima, che porto con sé anche un tipo
di ceramica ben documentata in Sardegna definita ‘cardiale’ per la
decorazione creata con i margini a zig zag di una conchiglia, forse è partita
proprio dall’Isola. “Lo studio – scrive il giornalista di El Pais –
conferma che la rivoluzione neolitica giunse a questa estremità
dell’Europa da un piccolo gruppo di agricoltori che seguivano le coste del
Mediterraneo e che erano geneticamente diversi da quelli che portavano
l’agricoltura al centro e al nord dell’Europa”.
Il condizionale è d’obbligo: i dati su cui si basa lo
studio arrivano dal dna di 13 individui vissuti in Spagna
tra 7500 e 3500 anni fa, confrontato con altri dati genetici di popolazioni antiche e moderne, ma
considerato che il database del dna nel
Mediterraneo antico è ancora piuttosto povero i raffronti sono pochi.
Abbastanza comunque, secondo gli studiosi, per provare rapporti certi tra gli
individui che popolarono la Spagna 8mila anni fa e i sardi moderni.
Il dna dello studio è stato
estratto da ossa e denti appartenenti a 13 persone, di cui
certamente undici erano uomini e due donne, rinvenuti in sei siti
preistorici nel nord della penisola iberica e nell’Andalusia. Il loro
genoma, analizzato nel Centro di biologia evoluzionistica di Uppsala, in
Svezia, ci dice che vissero tra il Neolitico e l’età del Bronzo. Gli individui
più antichi hanno caratteristiche molto distanti da quelle
delle popolazioni dell’Europa centrale mentre mostrano parecchie affinità con
“la moderna variazione genomica sarda”, diretta discendente di quella degli
agricoltori che popolarono l’Isola nel Neolitico antico. Questi popoli si
sarebbero perfettamente integrati con i preesistenti tanto da lasciare tracce
genetiche in quello che il paleoantropologo Juan Luis Arsuaga,
coautore dello studio, definisce “un periodo entusiasmante di convivenza e
conflitto, un intero mondo fino ad allora sconosciuto”.
È dunque verosimile che agli albori del Neolitico gli
agricoltori sardi portassero con sé le tecniche sulla coltivazione e
l’allevamento, forse insieme ai carichi di ossidiana che dal Monte Arci hanno
raggiunto tutto il Mediterraneo, a bordo di imbarcazioni capaci di affrontare
anche lunghi tratti di mare. Una connessione tra la rivoluzione neolitica in
Spagna e la Sardegna aprirà certamente nuove prospettive sulla storia più
antica, e meno conosciuta, della nostra Isola.
Francesca Mulas
Los inmigrantes que trajeron a
España la mayor revolución de la historia
La península ibérica fue una de las zonas de Europa donde más tarde
llegó la agricultura, hace menos de 8.000 años. El origen de las poblaciones
que trajeron los cultivos y el ganado a España y Portugal —que a su vez ayudó a
la aparición de las primeras ciudades, el Estado, las religiones organizadas,
las clases sociales y la desigualdad— es aún bastante desconocido.
Un estudio ha secuenciado el genoma de 13 cadáveres de hace entre
7.500 y 3.500 años enterrados en el norte y el sur de la Península. Entre ellos
está el genoma completo más antiguo del sur de Europa, un agricultor neolítico
cuyos restos tienen 7.245 años y fueron encontrados en la cueva de los
Murciélagos, en Córdoba. El estudio confirma que la revolución Neolítica llegó
a este extremo de Europa de manos de un grupo reducido de granjeros que iban
siguiendo la costa del Mediterráneo y que eran distintos genéticamente a los
que llevaron la agricultura al centro y el norte de Europa.
Cuando estos pioneros comenzaron a expandirse se encontraron con las
tribus de cazadores y recolectores autóctonos y se cruzaron con ellos. Esa
mezcla amplió el tamaño de las poblaciones y su variedad genética y constituyó
la base principal de las poblaciones actuales de la Península en términos
genéticos. “Aquella gente eran unos perfectos extraterrestres que fueron
absorbiendo a las poblaciones autóctonas”, explica el paleoantropólogo Juan Luis
Arsuaga, coautor del estudio, realizado por un equipo de investigadores de
España, Suecia y Sudáfrica. “En aquel momento tuvo que haber un periodo
apasionante de coexistencia y conflicto, todo un mundo que hasta ahora no se
conocía bien”, añade.
El trabajo coincide con otros anteriores en
que aquellos migrantes mediterráneos tienen una fuerte conexión con los
habitantes actuales de Cerdeña. “Probablemente podemos considerar a los
actuales sardos como descendientes relativamente directos de la gente que difundió
las prácticas agrícolas en toda la región mediterránea”, explica Mattias
Jakobsson, genetista de la Universidad de Uppsala (Suecia) y coautor del
trabajo, publicado esta semana en la revista de la Academia
Nacional de Ciencias de EE UU.
El análisis confirma que las poblaciones ibéricas permanecieron
bastante aisladas de los grandes movimientos de poblaciones que sucedieron en
Europa en la Edad del Bronce, pero contribuyeron de forma decisiva a la cultura
de la época. Hace unos 4.500 años, a orillas del río Tajo a su paso por
Portugal, apareció una creencia basada en enterrar a los personajes poderosos
con armas y objetos de lujo. Lo más característico eran los recipientes de
cerámica usados para contener bebidas alcohólicas y que se conocen como vasos
campaniformes. En poco tiempo, la cultura del vaso campaniforme se expandió por
el resto de la península, cruzó los Pirineos y llegó al resto de Europa.
El análisis del ADN de más de 200 cadáveres enterrados en aquella
época por toda Europa junto a este tipo de cerámica ha demostrado que se
trataba de poblaciones genéticamente muy dispares, pero que habían asumido la
misma forma de enterrar a los muertos. “Fue la primera idea difundida sin necesidad
de que se movieran las poblaciones”, asegura el genetista Carles Lalueza-Fox, coautor del estudio, que
se publicó recientemente en Nature. “Aquellos
objetos eran los Ferraris y los Rolex de hoy, un signo de prestigio que
ostentan desde un sultán
En esa misma época, los yamnaya, un pueblo de pastores que vivía en
las estepas del este de Europa, se lanzó a la conquista del continente. Los estudios genéticos han demostradoque esta migración
debió ser realmente cruenta y realizada casi exclusivamente por hombres,
probablemente miles de jinetes acompañados de carros que siguieron avanzando
durante varias generaciones. Estas invasiones cambiaron radicalmente el paisaje
genético de Europa. En lo que hoy es el Reino Unido, por ejemplo, el 90% de los
genes de los varones autóctonos fueron reemplazados por el de los invasores.
En cambio, el nuevo trabajo centrado en la Península confirma que las
poblaciones locales permanecieron relativamente ajenas a estas invasiones, ya
que muestran una menor contribución genética de los pueblos invasores de la
estepa y una llegada posterior que a otros puntos. Al igual que la genética, la
dieta de los ibéricos —basada en granos y carne— apenas sufrió cambios durante
cuatro milenios, según muestra el análisis de isótopos conservados en los
huesos.
Cristina Rihuete, prehistoriadora de la Universidad Autónoma de
Barcelona, que no ha participado en el estudio, resalta que “es un trabajo muy
interesante”, en parte porque puede ayudar a responder importantes preguntas
sobre la aparición de los primeros estados en la Península. “En la Edad del
Bronce, en lo que hoy es Valencia, comenzaron a surgir los primeros estados
asociados a la cultura del Argar. Eran sociedades de clases muy acentuadas que
acabaron colapsando y desapareciendo hace unos 2.000 años”, explica. “Lo que
aún no sabemos es si esas poblaciones tenían el perfil genético característico
de la Península o ya mostraban la marca de las poblaciones esteparias, es
decir, si llegaron de fuera. El nuevo estudio ha analizado cadáveres
posteriores a la cultura del Argar y comprueban que ya tienen el componente
genético estepario”, resalta.
En cualquier caso, advierte Rihuete, habrá que realizar estudios
genéticos más amplios para obtener una visión más completa. “Hay que resaltar
que la muestra de este estudio es bastante pequeña y desequilibrada, pues de
los 13 individuos analizados, 11 son varones”, explica. La investigadora señala
que otro de los temas que la genética puede ayudar a aclarar son los orígenes
de las diferencias de género en las sociedades prehistóricas, que pueden estar
asociadas a la aparición de sociedades guerreras.
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domenica 25 marzo 2018
Brasile: in memoria di una partigiana della democrazia - David Lifodi
L’omicidio di Marielle Franco, attivista
femminista e consigliera municipale del Psol (Partido Socialismo e Liberdade) a
Rio de Janeiro, uccisa da nove colpi di pistola calibro 9 esplosi da un’auto in
corsa lo scorso 14 marzo, va classificato come un delitto di natura politica e
non derubricabile ad un crimine comune, come stanno cercando di fare i suoi
detrattori.
In tutto il paese il legame tra
narcotrafficanti, polizia corrotta e le mafie che controllano le favelasè stato utilizzato in maniera strumentale
dal presidente Michel Temer per inviare la polizia militare nelle sterminate
baraccopoli di Rio de Janeiro allo scopo di militarizzarle, nonostante il
parere contrario degli stessi abitanti, stufi di essere costretti a subire
continuamente i soprusi di quelle forze in teoria deputate a mantenere
l’ordine. Marielle aveva preso posizione fin dall’inizio contro la
militarizzazione delle favelas, un ambiente che
conosceva bene poiché lei stessa proveniva da quella di Maré, una delle più
grandi e problematiche di Rio de Janeiro. Di recente la giovane consigliera
(nata nel 1979) era stata designata dal suo partito per monitorare gli abusi
della polizia nella favela di Acari, nella zona nord della città.
Poco dopo il suo assassinio è emerso che
i proiettili sparati contro di lei e l’autista Anderson Pedro Gomes, appena
usciti da un incontro con un gruppo di giovani donne nere, sono quelli in
dotazione alla polizia militare. Difficile pensare che si tratti di una
casualità. L’impegno di Marielle per i diritti umani, contro il razzismo e per
la difesa dei giovani delle favelas, di cui non
si stancava mai di denunciarne un vero e proprio genocidio nel silenzio delle
istituzioni, era conosciuto da tutti. Marcelo Freixo, candidato del Psol alle
ultime elezioni comunali e spesso oggetto di minacce di morte, ha sottolineato
che Marielle non aveva mai subito intimidazioni, ma che si è trattato di un
crimine premeditato. In Brasile la tensione politica sta crescendo
pericolosamente. Il prossimo 26 marzo l’ex presidente Lula sarà processato con
grandi probabilità di finire in carcere. Nel frattempo l’odio corre sui social
network e, di fronte all’omicidio di Marielle, che ha comunque scosso
profondamente l’opinione pubblica e ha spinto la gente a scendere in piazza per
protestare contro la sua morte, gli insulti nei suoi confronti si sprecano. “È
stata uccisa da quei banditi delle favelas che ha
sempre difeso”, “propagandava l’odio tra le classi e tra le razze”,
“apparteneva a un partito che difendeva i narcotrafficanti”, “la colpa è dei
partiti di sinistra che hanno governato il Brasile per 14 anni e hanno
trasformato il Paese in una terra di nessuno”: questi sono solo alcuni degli
insulti che ancora di più fanno pensare a una motivazione tutta ideologica dietro
all’assassinio di Marielle Franco.
In rete circola una bella intervista alla
donna pubblicata da Brasil de Fato, “Ser mujer negra es
resistir y sobrevivir todo el tiempo“, che segnalava come fosse
la quinta candidata più votata alla Camera municipale con ben 46mila voti. Nel
corso del colloquio, alla vigilia dello scorso 8 marzo, la consigliera del Psol
parlava delle sfide che avrebbe dovuto affrontare il femminismo, del progetto
di legge per rendere l’aborto legale e rivendicava i diritti delle donne nere,
violentate quotidianamente e costrette a subire sulla propria pelle un odio di
razza e di classe. Solo pochi giorni prima che la sua auto fosse affiancata da
quella degli assassini che le hanno sparato, Marielle aveva denunciato le
violenze della polizia in quella favela di
Acari dove il 41° battaglione aveva terrorizzato i suoi abitanti commettendo
abusi di ogni sorta. “Dobbiamo gridare affinché tutti sappiano cosa sta
accadendo ad Acari in questo momento. Il 41° battaglione della polizia militare
sta terrorizzando la gente di Acari e questa settimana due giovani sono stati
assassinati” aveva scritto Marielle, attribuendo tutto ciò alla
militarizzazione delle favelas imposta
da Temer.
L’omicidio di Marielle Franco, definito
da molti come un vero e proprio attentato alla democrazia, non è servito però a
far tacere i sostenitori dell’intervento della polizia nelle favelas, convinti che si tratti di una misura
assai remunerativa in termini di voti, soprattutto per uno dei candidati al
Planalto più violento, razzista e omofobo nella storia del Brasile, quel Jair
Bolsonaro che inneggia quotidianamente alla repressione. La morte di Marielle è
una delle conseguenze dell’odio politico dilagato nel paese a seguito del colpo
di stato e rappresenta un vero e proprio attacco allo stato di diritto.
Il Psol e tutto il Brasile democratico
hanno perso una partigiana della pace e dell’antirazzismo. Solo pochi giorni
prima di morire, sul proprio account twitter, Marielle aveva scritto: “Di
quanti morti c’è ancora bisogno, prima che questa guerra termini?
(*) articolo tratto da Peacelink – 19 marzo 2018
Sull’omicidio di Marielle Franco
segnaliamo anche l’articolo-racconto di Alessandro Ghebreigziabiher “Perché vinceremo“
da qui
venerdì 23 marzo 2018
Ci siamo messi a vendere sabbia - Mauro Armanino
Assieme al vento è quanto ci rimane, e non è poco a
pensarci bene. Ci siamo messi a vendere sabbia. Pura
sabbia che cresce giusto sulle strade di Niamey e in tutto il Sahel delle carte
geografiche dai colori da aggiornare. Da noi c’è pericolo ed è
sconsigliato visitare, il bollino delle ambasciate è rosso da anni.
Eppure venite a vedere cosa succede della sabbia. Vi accorgerete che gli
alberi rimasti non bastano per fermare il deserto e neppure i barbari.
I terroristi danno un sacco di lavoro ai militari e sono il pretesto per
infinite raccolte di promesse di soldi, armi, eserciti e sistemi di controllo
all’ultimo grido. Si nascondono nella sabbia e lì scavano gallerie per cercare
sabbia ancora più fine da commerciare coi giornalisti, sempre più numerosi, di
passaggio. Il Niger neppure esisteva fino a qualche tempo
fa. Con caparbietà è emerso dal nulla e, proprio grazie alla sabbia, ha trovato
un posto di rilievo nel nuovo mappamondo dei grandi. Non illudetevi, perderete l’unica battaglia che conta, quella che
pensavate di vincere con i droni e le agenzie umanitarie che di voi sono
immagine e somiglianza. Dalla sabbia venite e alla sabbia tornerete, come
tutti.
Una sabbia fine che viaggia col vento che si invita in
ogni stagione dell’anno. I venditori di sabbia hanno incominciato dalle parole
che, assediate di polvere, hanno finito per essere seppellite dalla
dimenticanza.
Parole buttate via, sequestrate, prese in ostaggio,
rivendute e infine rese irriconoscibili dal grembo che le ha generate. La
medesima sabbia che riempie la bocca e gli occhi di chi non ha più nulla da
raccontare. Storie antiche di schiavi che liberano la sabbia che i piedi
carezzano. Da tempo commerciamo sabbia ai pochi turisti
di passaggio e agli uffici che registrano i passeggeri dell’unico volo poi
cancellato. Si nasconde tra le pagine timbrate dei passaporti della
libera circolazione nel Sahel. Passa la dogana, i pedaggi, le barriere, le
frontiere, i reticolati e le striscie pedonali incustodite. Cresce tra le
rotaie dell’unico treno mai partito finora dalla stazione. La sabbia cammina
con le scarpe dei migranti consumate nell’attesa dei clienti in cerca di
emozioni tropicali. I primi a comprare la sabbia sono i politici che hanno
vinto le prossime elezioni.
Esportiamo sabbia per i contrabbandieri
del mercato, gli avventurieri umanitari e le polizie di stato. Ci sarete
riconoscenti per aver trasformato in sacchi di sabbia le vostre frontiere a
pagamento. Le uscite, munite di porte girevoli, saranno come le
rotonde di arena con vista sul mare. Le vostre bandiere sono tenute assieme
dalla sabbia e non parliamo dei vostri eserciti: finiranno con la polvere del
deserto dopo una tempesta. Noi portiamo la sabbia fin dove arriva l’orizzonte
del mare e quando capita anche più in là, nell’isola del tesoro rubato dai
pirati. Tracciamo sentieri di sabbia che durano quanto basta per passare
da un muro all’altro senza fare rumore. Siamo fatti di sabbia e
della nostra identità solo rimarranno alcuni volti che il vento porta lontano.
L’ultimo regime al potere è tutto costruito sulla sabbia. Scriviamo storie di
sabbia che durano un’ eternità e che leggeranno i nostri figli quando
passeranno per tornare nelle case nel frattempo sparite. Persino nei cimiteri
che avete costruito sulla pietra i vostri fiori sono di sabbia.
Costruiamo città di sabbia senza
fondamenta e piano regolatore. Città mobili come dune che si spostano di notte
con la luna piena. Chiese, moschee e giardini pubblici hanno in dotazione
sedili di sabbia numerati.Le preghiere così come il dio a cui
si rivolgono sono mescolate di sabbia. I pochi viaggi di nozze sono del tutto
gratuiti con carrozze di sabbia tirate da dromedari affittati per l’occasione.
Persino le stelle che guidano il cammino di giorno domandano alla sabbia la
direzione da prendere.
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