Dopo quasi sei anni di conflitto, in Siria la
produzione di grano è pressoché dimezzata. La notizia può sembrare secondaria,
rispetto ai drammatici sviluppi della battaglia di Aleppo e alla sorte di
centinaia di migliaia di persone sotto assedio. A ben guardare però il grano è
parte della guerra stessa: in fondo stiamo parlando di un paese essenzialmente
agricolo, che fino a qualche anno fa produceva cibo in abbondanza, tanto da
esportarne nei paesi arabi vicini. Ma questo era prima che sulla regione si abbattessero
una disastrosa siccità e poi un conflitto sanguinoso, in cui le parti in causa
sono molte e i fronti sono spesso confusi.
Così anche il raccolto di grano
dice qualcosa su come sopravvive un paese. Il primo dato è che l’agricoltura è
al collasso, e il crollo più drastico è avvenuto proprio nell’ultimo anno. Come
se le risorse che avevano permesso ai siriani di resistere per ben cinque anni
di conflitto fossero ormai esaurite. La superficie coltivata continua a
diminuire (nella stagione 2015-2016 sono stati coltivati a cereali circa
900mila ettari, contro 1 milione e mezzo di ettari prima del conflitto). E i
raccolti sono sempre più magri.
L’estate scorsa il paese ha
prodotto 1,5 milioni di tonnellate di grano, cioè poco più di metà (il 55 per
cento) della media tra il 2007 e il 2010, quando la Siria raccoglieva 3,5
milioni di tonnellate di grano. Ma non è stato un calo graduale. Ancora
nell’estate del 2015 erano stati raccolti 2,4 milioni di tonnellate di grano.
Fonte di questi dati è l’ultimo
rapporto sulla “sicurezza alimentare” in Siria, diffuso dalla Fao e dal Pam
(Programma alimentare mondiale), le agenzie delle Nazioni Unite rispettivamente
per l’agricoltura e per le emergenze (raccogliere dati in una situazione di
conflitto è una sfida: questo rapporto è basato in parte sulle interviste fatte
da una missione internazionale di monitoraggio nel luglio scorso, almeno nelle
zone raggiungibili dal lato governativo; in parte sulle informazioni raccolte
da addetti locali, oltre che su foto satellitari e bollettini meteo).
Senza terra da coltivare
L’agricoltura crolla innanzitutto perché andare nei campi è pericoloso. Le terre restano incolte; a volte sono seminate ma è impossibile andare a mietere. Le interviste parlano di raccolti bruciati dai miliziani, per intimidire o perché non vi si nascondano cecchini. Ci sono zone inaccessibili per le mine. Ma anche dove sarebbe possibile coltivare, i sistemi di irrigazione sono spesso distrutti dalla guerra o sono inservibili per mancanza di manutenzione, carburante, pezzi di ricambio. Inoltre scarseggiano sementi e fertilizzati. Molto va sprecato perché manca il modo di trasportare il raccolto nei magazzini e nei mercati. I magazzini frigorifero per conservare ortaggi e frutta sono ormai pochissimi. Anche l’allevamento è decimato, per mancanza di foraggio e di pascoli (un terzo dei bovini e il 40 per cento di pecore e capre sono svaniti, dicono Fao e Pam).
L’agricoltura crolla innanzitutto perché andare nei campi è pericoloso. Le terre restano incolte; a volte sono seminate ma è impossibile andare a mietere. Le interviste parlano di raccolti bruciati dai miliziani, per intimidire o perché non vi si nascondano cecchini. Ci sono zone inaccessibili per le mine. Ma anche dove sarebbe possibile coltivare, i sistemi di irrigazione sono spesso distrutti dalla guerra o sono inservibili per mancanza di manutenzione, carburante, pezzi di ricambio. Inoltre scarseggiano sementi e fertilizzati. Molto va sprecato perché manca il modo di trasportare il raccolto nei magazzini e nei mercati. I magazzini frigorifero per conservare ortaggi e frutta sono ormai pochissimi. Anche l’allevamento è decimato, per mancanza di foraggio e di pascoli (un terzo dei bovini e il 40 per cento di pecore e capre sono svaniti, dicono Fao e Pam).
Anche le piogge sono
irregolari: sono state buone nella zona nordorientale, ma molto inferiori alla
media nelle province di Aleppo, Idlib e Homs, dove la siccità rende più penosa
la vita per gli abitanti ostaggio del conflitto. Già, quanti abitanti? Nessuno
ha una stima precisa. Prima del conflitto la Siria aveva poco più di 22 milioni
di cittadini, ma il bilancio della guerra è pesante. L’Onu stima che almeno
400mila persone siano morte. L’esodo è massiccio e
continuo; nel settembre del 2016 l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati
registrava 4,8 milioni di siriani all’estero, di cui oltre un milione in Libano
e 2,7 milioni in Turchia, senza contare chi si è arrangiato con mezzi propri.
Tra chi è rimasto, le agenzie umanitarie contano mezzo milione di persone
intrappolate in zone sotto assedio, e oltre sei milioni di sfollati all’interno
del paese. Oggi la Fao e il Pam calcolano le loro stime del fabbisogno
alimentare su una popolazione di 18 milioni e mezzo, ma secondo altre fonti
sarebbe poco più di 16 milioni. Di certo è una popolazione sempre più urbana,
perché è nelle città che gli sfollati cercano rifugio e sostegno.
Come si sopravvive in tempo di
guerra? Il quadro varia molto tra i diversi governatorati (le regioni). Buona
parte del commercio e quel che resta dell’industria si sono spostati nella
parte occidentale del paese, la fascia costiera controllata dal governo, che è
relativamente più sicura. Le zone più fertili della Siria sono però quelle del
nordest, la regione attraversata dal fiume Eufrate e dai suoi affluenti, e in
particolare il governatorato di Al Hasaka, tradizionale “granaio” del paese
(produceva da solo quasi metà del raccolto nazionale). Questa regione però è
teatro di scontri tra fazioni armate, che competono tra l’altro per controllare
il fiume e quindi l’approvvigionamento d’acqua per i centri abitati e per le
coltivazioni.
Ora il paradosso è che il
raccolto qui è relativamente buono, ma non c’è modo di distribuirlo, né nella
provincia né più lontano: mancano camion e carburante, e comunque la strada
verso Damasco è in parte sotto il controllo del gruppo Stato islamico (Is). Nel
capoluogo nordorientale Al Hasaka ci sono ancora scorte dall’anno scorso,
mentre milioni di persone in tutto il paese faticano a procurarsi il pane.
Il sistema pubblico di raccolta dei cereali, dove il governo comprava il grano dagli agricoltori, è saltato. Ma anche il mercato libero funziona in modo irregolare. Così oggi la parte occidentale del paese, sotto controllo governativo, importa farina e altri generi alimentari dall’estero (riso, zucchero, olio, margarina), mentre nel nordest ci sono riserve che non vengono distribuite.
Il sistema pubblico di raccolta dei cereali, dove il governo comprava il grano dagli agricoltori, è saltato. Ma anche il mercato libero funziona in modo irregolare. Così oggi la parte occidentale del paese, sotto controllo governativo, importa farina e altri generi alimentari dall’estero (riso, zucchero, olio, margarina), mentre nel nordest ci sono riserve che non vengono distribuite.
Il risultato è che il prezzo
della farina di grano, cioè l’alimento base, continua a salire sia nelle zone
produttrici nordorientali, come quella di Al Hasaka, sia in città come Deir
Ezzor o Damasco. I dati ufficiali (del governo siriano) dicono che l’inflazione
è al 44 per cento su base annua, e al 57 per i prodotti alimentari. Ma questo
dato non descrive davvero come stanno le cose. Il prezzo della farina dice
molto di più. Un chilo di farina, che costava circa 50 lire siriane nel 2012,
oggi costa più di 250 lire a Damasco, mentre ha toccato le 300 lire a Deir
Ezzor e 250 ad Al Hasaka, dove però il prezzo è sceso un po’ a giugno grazie al
nuovo raccolto. Ha raggiunto 350 lire a Raqqa, dove in primavera i
combattimenti hanno interrotto i rifornimenti ai mercati. Insieme alla farina
tutti gli alimenti di base sono rincarati, dai legumi all’olio. Del resto il
valore della lira siriana è crollato, com’è ovvio: nel 2011 con mille lire si
compravano 20 dollari, oggi se ne comprano meno di due.
Strategia di sopravvivenza
Invece procurarsi un reddito è sempre più aleatorio. Secondo il governo, la disoccupazione è al 50 per cento (contro il 10 per cento di prima del conflitto), anche se è impossibile parlare di vere statistiche. Nelle città molti competono per i pochi lavori retribuiti disponibili e gli unici salari regolari sono quelli dei dipendenti pubblici, ovviamente nelle zone sotto il controllo governativo. Chi può sopravvive con le rimesse dei parenti rifugiati all’estero. Molti altri sono costretti a chiedere prestiti mese per mese, per comprare l’essenziale per vivere: e poiché un meccanismo ufficiale di credito è pressoché scomparso, questo significa indebitarsi con parenti o conoscenti.
Invece procurarsi un reddito è sempre più aleatorio. Secondo il governo, la disoccupazione è al 50 per cento (contro il 10 per cento di prima del conflitto), anche se è impossibile parlare di vere statistiche. Nelle città molti competono per i pochi lavori retribuiti disponibili e gli unici salari regolari sono quelli dei dipendenti pubblici, ovviamente nelle zone sotto il controllo governativo. Chi può sopravvive con le rimesse dei parenti rifugiati all’estero. Molti altri sono costretti a chiedere prestiti mese per mese, per comprare l’essenziale per vivere: e poiché un meccanismo ufficiale di credito è pressoché scomparso, questo significa indebitarsi con parenti o conoscenti.
Le famiglie stanno ormai
adottando “strategie irreversibili” per sopravvivere, dice il rapporto delle
due agenzie, come vendere la terra o altri beni. Questo però renderà molto
difficile risollevarsi quando la guerra sarà finita. D’altra parte le famiglie
si stanno disintegrando, le donne restano sole con i figli mentre gli uomini
scompaiono o fuggono all’estero per evitare di dover combattere. Se le famiglie
sfollate sono le più vulnerabili, quelle a guida femminile lo sono in modo
particolare, avvertono le agenzie dell’Onu. Il conflitto, la penuria di cibo,
l’aumento dei prezzi, il freddo invernale fanno sì che oggi 9,4 milioni di
siriani abbiano urgente bisogno di aiuti alimentari, stimano la Fao e il Pam.
Le interviste raccolte dalle agenzie dell’Onu descrivono varie “strategie di
sopravvivenza”, in particolare nelle zone direttamente toccate dai
combattimenti. Dopo aver ridotto la dieta a pane e legumi, la principale è
ridurre le porzioni o saltare i pasti. È un altro modo per dire che gran parte
dei siriani è alla fame.
(*) Ripreso da
«Internazionale». Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta
in bilico». (db)