La Cañada Real è il più grande insediamento informale d’Europa (con più di 8mila abitanti, secondo dati del 2011) e anche la più antica: è nata con la migrazione rurale degli anni ‘50. Ha perdurato così a lungo perché la sua localizzazione su un vecchio percorso di transumanza ne ha impedito la regolarizzazione (era la strada presa da un grande numero di ex bidonville in Spagna).
Diverse generazioni di abitanti vi sono nate, e delle ondate migratorie dall’Europa dell’Est e dal Nord Africa vi sono arrivate a partire dagli anni ‘90. I suoi abitanti lavoravano in particolare per miseri stipendi nell’edilizia di Madrid, che ha conosciuto un boom dall’inizio del secolo. Sono stigmatizzati per la loro appartenenza di classe ed etnica (i gitani, marocchini e rumeni sono oltremodo rappresentati).
L’espansione immobiliare intorno a questo quartiere-bidonville ha condotto a diverseevizioni (2005-2012) da parte del Comune di Madrid. Sono state fermate grazie a una sentenza del tribunale di Strasburgo che esigeva una ricollocazione degli abitanti espulsi. I governi ultra-neoliberali di Madrid avevano privatizzato quasi tutte le case popolari. Alla fine, c’è stato un principio di accordo tra le autorità e gli abitanti: il Patto per la Cañada (2017). Questo Patto prevedeva la regolarizzazione di tutte le case in buono stato di abitabilità se i proprietari potevano pagare la loro parcella. Soltanto il settore 6 della Cañada, sito vicino alla stazione d’epurazione della capitale, doveva essere smantellato. Il Patto includeva la ricollocazione degli abitanti del settore 6 qualora avessero soddisfatto i requisiti di anzianità (cioè essere in loco dal 2011) e certe condizioni sociali.
Nel resto della Cañada (settori 1-5), gli abitanti che avevano i requisiti giusti dovevano, anche loro, essere ricollocati se non riuscivano ad acquistare la loro parcella. Tuttavia, l’applicazione del Patto per la Cañada ha accumulato dei ritardi fin dall’inizio. Solo qualche decina di famiglie del settore 6 sono state ricollocate nel 2018 e nel 2019 dal Comune e dalla Regione di Madrid. L’arrivo del governo di destra (Partito popolare) al Comune di Madrid, nel maggio del 2019, ha contribuito a paralizzare ancora di più il processo di ricollocamento.
Durante questi mesi di stallo, ci si è chiesto perché l’amministrazione madrilena prendeva così tanto tempo nel far applicare il Patto del 2017. Oggi è evidente che i grandi interessi immobiliari privati facevano pressione per arrivare a una soluzione diversa. È durante la seconda ondata del coronavirus che è saltato fuori tutto. Sotto la pressione degli interessi immobiliari e approfittando della criminalizzazione degli abitanti, l’impresa elettrica Naturgy ha tagliato l’elettricità a 4 500 abitanti dei settori 5 e 6 della Cañada Real.
Gli abitanti allora si sono mobilitati, reclamando il ripristino di un servizio per il quale erano disposti a pagare, come anche il resto degli abitanti di Madrid. La polizia ha attribuito il taglio di elettricità a delle piantagioni illegali di marijuana e la presidente della regione Isabel Díaz Ayuso ha colto l’occasione per fantasticare sui “proprietari di automobili di lusso che non vogliono pagare l’elettricità”, quando gli abitanti della Cañada non hanno mai avuto la possibilità di farlo. L’amministrazione regionale e quella locale hanno rifiutato di rimettere la corrente. Quando il freddo è arrivato, Ayuso ha aggiunto che non intendeva “democratizzare la delinquenza”.
“Non vogliamo l’albergo, abbiamo i nostri alloggi. Vogliamo pagare la luce! Soluzione, adesso !!!”
A fine dicembre, 4 500 abitanti della Cañada sono senza corrente da tre mesi. Con stipendi bassissimi, o disoccupati, cercano di comprare la benzina per potersi scaldare con dei gruppi elettrogeni. Si riuniscono ogni giorno, i loro figli scrivono manifesti e anche le Nazioni Unite si pronunciano, ma la loro situazione rimane decisamente nascosta dall’impatto mediatico provocato dal coronavirus o dagli USA. La situazione diventa drammatica per i bambini: a scuola, i loro compagni li prendono in giro perché non si sono lavati. A casa, fanno i compiti a lume di candela e hanno costantemente freddo. L’amministrazione madrilena rifiuta un qualunque incontro con questi abitanti “illegali”.
A inizi gennaio, una terribile ondata di freddo, la peggiore degli ultimi 50 anni, si abbatte su Madrid. Alla Cañada si arriva a -10ºC e gli abitanti senza elettricità rischiano la vita. La sinistra di Unidas Podemos comincia a pronunciarsi timidamente a livello nazionale. Il comune di Madrid propone a un centinaio di abitanti di essere ricollocati in una fabbrica abbandonata, dove il gruppo elettrogeno smette rapidamente di funzionare per mancanza di benzina. Ma gli abitanti non vogliono lasciare le loro case; secondo loro, è l’ennesima scusa per espellerli da casa loro senza compenso né ricollocamento.
Dall’inizio di gennaio molti neonati sono all’ospedale per polmonite, una bambina di tre anni è ricoverata per ipotermia e un uomo di 74 anni in buona salute muore all’improvviso. La società Naturgy comincia a temere una pubblicità negativa e si propone di ristabilire la corrente se l’amministrazione regionale e quella locale le danno il via. Ma non è stato fatto ancora niente di concreto. La Cañada continua a gelare sotto la neve e senza elettricità. Bisognerebbe forse parlarne al di fuori della Spagna.
Dopo la limitazione dei consumi, recupero e riciclo sono i comportamenti
chiave per ridurre la nostra impronta sull’ambiente, sotto il profilo sia delle
risorse sia dei rifiuti.
Ma nel caso degli indumenti usati il recupero è anche un importante canale
di solidarietà, perché in molti casi le aziende addette alla gestione dei
cassonetti sono cooperative sociali costituite per dare lavoro a persone
svantaggiate.
Spesso sono anche espressione di realtà caritative che utilizzano i
proventi ottenuti dal riutilizzo per finanziare progetti di solidarietà in
Italia come nel Sud del mondo.
Alcune vicende giudiziarie, però, hanno messo in evidenza che la
filiera degli indumenti usati è anche affollata da mafiosi e camorristi che
utilizzano la facile manovrabilità dei dati per arricchirsi illegalmente tramite
la falsificazione dei volumi trattati, l’emissione di fatture contraffatte, la
mancata selezione e lo smaltimento clandestino delle frazioni di vestiario non
recuperabile.
In effetti già nel 2014 la Direzione nazionale antimafia certificava che
«buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per
solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi
e sodali di camorristi traggono enormi profitti».
I primi ad essere danneggiati da questa situazione di illegalità sono
proprio i soggetti solidali che, vedendo il loro nome associato a quello dei
malavitosi, rischiano di subire un enorme danno di reputazione e persino una
rottura nel rapporto di fiducia con l’opinione pubblica.
Sentendo addosso la responsabilità di queste terribili conseguenze, da vari
anni alcuni soggetti dediti alla raccolta di indumenti usati si sono fatti
promotori presso gli altri attori sani della filiera di un’iniziativa per
difendersi dall’illegalità, mentre ai Comuni, o a chiunque sia demandato a
gestire i rifiuti a livello territoriale, è stato chiesto di adottare regole
più stringenti per la scelta dei soggetti a cui assegnare il servizio di
raccolta.
È iniziato così un confronto, durato un paio di anni, che alla fine ha
consentito a Utilitalia, l’associazione di categoria che rappresenta le imprese
fornitrici di servizi essenziali, di elaborare delle linee guida per la
selezione dei candidati che chiedono di svolgere il servizio di raccolta degli
indumenti.
Fra i criteri è stato inserito anche l’obbligo di trasparenza: «La stazione
appaltante (Comune o chi per lui) deve poter acquisire le necessarie garanzie
che i flussi di rifiuti (abiti usati) raccolti nel proprio territorio siano
trattati in impianti idonei dal punto di vista tecnologico e autorizzativo, e
completamente tracciati lungo le varie fasi della filiera.
Da tale tracciabilità deve poter emergere con assoluta certezza che detti
flussi abbiano trovato adeguata destinazione e valorizzazione nel rispetto dei
princìpi della gerarchia europea».
E continua: «A tal fine è importante prevedere nel contratto l’impegno
dell’appaltatore a predisporre con cadenza almeno annuale un report che, sulla
base dei rifiuti raccolti, informi sulle percentuali delle diverse
destinazioni: 1) preparazione per il riutilizzo e cessione (distinti in
‘solidale’ o ‘profit’); 2) riciclo; 3) recupero di altro tipo; 4) smaltimento».
Specificando sempre quanto avvenuto in Italia e quanto all’estero. Sembra
perfino banale dirlo, ma la segretezza è il terreno fertile della criminalità.
Quando i fatti avvengono nelle tenebre, senza obbligo di rendicontazione,
al riparo di qualsiasi verifica, è allora che possono formarsi atteggiamenti deviati: truffe, abusi,
prepotenze, corruzione, violazioni.
Quando, al contrario, si è tenuti a dimostrare, documenti alla mano, come
ci si comporta, con chi si hanno rapporti, la provenienza dei soldi, il loro
utilizzo, le probabilità di violazione della legge si fanno più scarse.
Si può dire che il sotterfugio è inversamente proporzionale al grado di
trasparenza. Paradossalmente se ogni capo di vestiario buttato in un cassonetto
potesse essere tracciato, potremmo sapere come è stato smaltito e se ha seguito
l’iter igienico previsto dalla legge o se è stato messo in vendita senza alcun
trattamento.
Se è stato sottoposto a cernita in uno stabilimento legale o clandestino,
sia esso italiano o straniero, che rispetta i diritti dei lavoratori o li
viola, che paga le tasse o le evade. Potremmo sapere se è stato messo
in vendita in modo legale oppure è finito nei circuiti capestro d’Africa, Asia
o dell’Italia stessa.
Ovviamente la tracciabilità di ogni singolo capo è impossibile, ma
l’obbligo, per chi raccoglie, di rendicontare le tappe principali seguite dal
materiale che ha raccolto, sarà un contributo importante contro la criminalità
a difesa della legalità, dei diritti e dell’ambiente.
(Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire)
Nell’agosto
2010, il segretario generale della Convenzione ONU sulla Diversità Biologica,
Ahmed Djoghlaf, ammoniva che «Stiamo perdendo biodiversità a un tasso senza
precedenti», stiamo cioè andando verso la distruzione di biodiversità della
Terra.
Secondo il
Programma Ambientale ONU ‘la Terra è nel bel mezzo di un’estinzione massiccia
di esseri viventi’ con gli scienziati che stimano che ‘ogni 24 ore si
estinguano 150-200 specie di piante, insetti, uccelli e mammiferi’ il che è
quasi 1.000 volte il tasso ‘naturale’ o ‘di fondo’. Inoltre è maggiore di
qualunque fenomeno del genere subìto al mondo dalla sparizione dei dinosauri
quasi 650.000 secoli fa’. (Si veda ‘Protect nature for world economic
security, warns UN biodiversity chief’).
Due mesi
dopo, al decimo incontro della Conferenza delle Parti della Convenzione sulla
Diversità Biologica tenutasi dal 18 al 29 ottobre 2010 a Nagoya, Prefettura
di Aichi in Giappone, fu adottato un Piano Strategico per la
Biodiversità riveduto e aggiornato, ivi compresi gli Obiettivi Aichi per
la Biodiversità pr il periodo 2011-2020. (Si veda ‘Strategic Plan for Biodiversity 2011-2020, including Aichi Biodiversity
Targets’).
I 20 Obiettivi Aichi per la Biodiversità si possono leggere sul sito
web della Convenzione. Erano ambiziosi ma rappresentavano una valutazione
realistica di quel che bisognava conseguire entro il 2020 se i governi
nazionali dovevano arrivare all’obiettivo a più lungo termine di ‘Vivere in
Armonia con la Natura’ entro il 2050, che comportava una significativa
deviazione dal “solito andazzo” in una vasta gamma di attività umane’. (Si
veda ‘Global Biodiversity Outlook 5’).
Com’è dunque andata nei dieci anni scorsi?
Nel 2015,
gli illustri conservazionisti professor Gerardo Ceballos, Anne H. Ehrlich e
professor Paul R. Ehrlich pubblicarno il loro libro intitolato The Annihilation of Nature: Human
Extinction of Birds and Mammals [L’annientamento della natura: estinzione di
uccelli e mammiferi ad opera umana] che racconta la storia della ‘aggressione
massiccia e incalzante dell’umanità a tutti gli esseri viventi su questo pianeta’,
che sta producendo quella che è ora la sesta grande estinzione di massa della
Terra: ‘un tempo buio per gli uccelli e i mammiferi del nostro pianeta’.
Facendo
rilevare che le radici di questa distruzione ‘sprofondano lontano nel tempo’
con la caccia e altre attività umane responsabili di spingere all’estinzione
intere popolazioni di animali ancora ben prima della rivoluzione agricola
(iniziata circa 100 secoli fa), essi osservano che l’attuale attacco collettivo
ad animali, piante e microbi ha raggiunto un livello così orrendo che
‘qualunque nostro eventuale allarme sarebbe troppo inconsistente rispetto alla
tragedia che si sta consumando’. Ma mentre la decimazione della vita ora in
corso è causata dall’Homo sapiens, le sue conseguenze avranno un impatto anche
sull’umanità stessa perché le forme di vita in annientamento fanno ‘parte
operativa dei sistemi di sostegno biologico da cui dipende la civiltà’.
Pur con le
impressionanti statistiche che registrano la sconfitta della vita sulla Terra e
la minaccia fondamentale costituita da questa crisi d’estinzione, Cebellos e
gli Ehrlich sono ben consci che il pubblico e i politici in generale non stiano
reagendo emotivamente a questa crisi come a quelle ‘ben note con
l’impoverimento della natura’. Ma sperano che ci si possa riferire al destino
dell’ultimo macaco di Spix, un maschio che ha cercato invano una compagna fino
a scomparire dalla savana del nord-est brasiliano nel 2000.
E sapevate
che addirittura l’iconico leone africano può dover affrontare l’estinzione
nell’ambiente selvatico? Nel 2015, come risultato di decenni di caccia,
malattie e perdita di habitat, nelle vaste savane d’Africa restavano solo
23.000 leoni: neppure il 10% di quelli che vi si aggiravano nel 1950. E oggi ce
ne sono meno ancora.
Ma a parte
le estinzioni di specie, la Terra continua a subire ‘un immenso episodio di
declino ed estirpazione di popolazioni [animali], che avranno conseguenze
negative a cascata sul funzionamento degli e dei servizi vitali al
sostentamento della civiltà’. In un rapporto del 2017 il prof. Ceballos e
coautori descrivono ciò che chiamano ‘un “annientamento biologico” per
evidenziare l’attuale dimensione della sesta grande estinzione di massa in
corso sulla Terra’. Per di più, estinzioni locali di popolazioni ‘sono più
frequenti per vari ordini di grandezza che quelle di specie, ma ne sono
comunque un preludio, sicché la sesta estinzione di massa ha proceduto oltre
quel che i più presumono’. (Si veda ‘Biological annihilation via the
ongoing sixth mass extinction signaled by vertebrate population losses and
declines’).
Aldilà di
tutto questo molte specie aggiuntive sono ormai intrappolate in una spirale di
reazioni che affretterà inevitabilmente anche la loro estinzione per come
agiscono le ‘co-estinzioni’, ‘le estinzioni localizzate’ e le ‘cascate (a
domino) di estinzioni‘ una volta innescate e come già peraltro accaduto in
quasi tutti i contesti ecosistemici. (Si veda la serie in finora 6 puntate ‘Our Vanishing World’.
Avete visto
uno stormo d’uccelli di qualunque dimensione recentemente? Una farfalla?
Che cosa provoca la sesta estinzione di massa?
L’homo sapiens.
E il suo attrezzo chiave è sempre la distruzione degli habitat, sia in terra
che nell’oceano. Ovviamente, hanno un enorme impatto comportamenti umani
particolari. Combattere guerre (o anche solo sprecare risorse per fabbricare
armi e altre infrastrutture militari) ne è uno (particolarmente data la guerra
perpetua in cui sono impegnati gli USA per assicurarsi risorse e mercati), un
altro è la distruzione del clima e attuare il 5G un altro ancora. Ma ci sono
molti altri comportamenti umani anch’essi distruttivi.
Consideriamo
le foreste. Sol l’anno scorso, 6,5 milioni di ettari di foresta vergine sono
stati tagliati o bruciati via per scopi come lo sgombero di terre per
stabilirvi allevamenti bovini cosicché molti possano mangiare economici
hamburger, attività minerarie (di cui molte illegali) per una varietà di
minerali (come oro, argento, rame, coltan, cassiterite e diamanti) e
sfruttamento del legname, [perlopiù] trucioli cosicché si possa comprare a
basso prezzo carta (anche igienica). Si veda ‘Our Vanishing World: Rainforests’.
Un risultato
di tale distruzione è che 40.000 specie d’alberi tropicali sono ora minacciate
d’estinzione. Inoltre, la distruzione foresta pluviale è anche causa primaria
di specie a livello globale dato il numero di specie che vivono in tale
habitat. Si veda ‘Global Assessment Report on Biodiversity
and Ecosystem Services’.
E a
proposito di un altro importante habitat in via di distruzione, consideriamo
gli oceani del vasto mondo. Riassumendo, gli oceani stanno riscaldandosi,
acidificandosi e deossigenandpsi; contaminandosi con radiazioni nucleari, con
petrolio estratto dai fondali e di perdite e sversamenti e con le perforazioni
per il gas naturale; e intanto danneggiati dalle attività minerarie a gran
profondità, inquinati da scarti chimici industriali e agricoli e danneggiati in
una miriade di modi; e intanto soggetti a un rapinoso eccesso di pesca.
In breve:
gli oceani sono sotto assedio su un’ampia serie di fronti e stanno realmente
‘morendo’. Si veda il compendio esauriente in 18 punti in ‘Our Vanishing World: Oceans’.
In un
rapporto pubblicato dalla Piattaforma Scientifica-e-d’Indirizzo su Biodiversità
e Servizi Eco-sistemici (IPBES) nel maggio 2020, gli autori rilevano che ‘la
Natura sta declinando a livello globale a ritmi senza precedenti nella storia
umana – e il tasso di estinzioni di specie sta accelerando, con gravi impatti
ormai probabili sulle genti del mondo’. Con un totalestimato
di 8 milioni di specie animali e vegetali sulla Terra (di cui 5,5 milioni di
specie di insetti), un tasso quotidiano stimato d’estinzione, in accelerazione,
combinato con un cronico declino della salute degli ecosistemi – conclude
il rapporto – ben 1 milione di specie sono minacciate d’estinzione. Si
veda ‘Nature’s Dangerous Decline
“Unprecedented”; Species Extinction Rates “Accelerating”’ e ‘A million threatened
species? Thirteen questions and answers’.
E l’ultima
edizione della pubblicazione ammiraglia della Convenzione sulla Diversità
Biologica ‘Global Biodiversity Outlook 5’, uscita il 18 agosto 2020, riferisce che
‘L’umanità è a un crocevia in quanto all’eredità che lascia alle future
generazioni. La biodiversità sta declinando a un tasso senza precedenti, e le
pressioni che l’inducono stanno intensificandosi. Nessuno fra gli Obiettivi di
Aichi sulla Biodiversità sarà raggiunto appieno’. Un garbato understatement, questo.
Nel loro
commento del novembre 2020 a questa situazione problematica, gli studiosi Ruchi
Shroff e Carla Ramos Cortés fanno notare che ‘Nonostante diffuse appelli
internazionali per contenere la sesta estinzione di massa, nel secondo decennio
consecutivo non è stato raggiunto nessuno degli Obiettivi di Aichi della
Convenzione sulla Biodiversità. In qualche caso la perdita di biodiversità è
stata peggiorata dall’inerzia nel contenimento dell’uso di pesticidi,
combustibili fossili e plastica, e dell’inquinamento’. Si veda ‘The Biodiversity Paradigm:
Building Resilience for Human and Environmental Health’.
Ma la distruzione
è ben peggiore di quanto ciò lasci intendere. Perché, come già osservato sopra,
la distruzione in corso di foreste pluviali e oceani, per non parlare di altri
habitat – dalle zone umide ai deserti, l’annientamento della vita sulla Terra
continua ad accelerare senza indicazioni di rallentamento di sorta di tale
distruzione. Perciò la distruzione della biodiversità resta uno dei quattro
percorsi primari verso l’estinzione umana (insieme alla guerra nucleare,
all’attuazione del 5G e alla catastrofe climatica).
È troppo tardi per far qualcosa?
Può darsi.
Come già detto: Poiché molte specie sono ormai intrappolate in un circolo di
retroazioni che affretterà inevitabilmente la loro estinzione a causa del modo
in cui funzionano ‘co-estinzioni’, ‘estinzioni localizzate’ e ‘cascate a catena
di estinzioni’, sono ormai inevitabili molte ulteriori estinzioni.
Possiamo
tuttavia intraprendere azioni per salvare individui e specie non ancora
intrappolati in un circuito di retroazioni e che potrebbero quindi essere
ancora salvati. Ma se si aspetta che governi o grosse aziende agiscano
responsabilmente, si aspetta invano, come dimostrato dagli ultimi vent’anni.
Si hanno
dunque alcune potenti opzioni da considerare. La prima e più importante è
considerare i modi per poter ridurre il proprio consumo. L’ambiente planetario
viene distrutto in modo tale che i governi e le grosse aziende coinvolti
possano rispondere alla richiesta dei consumatori. Tutto, dalla spesa militare
e la guerra all’estrazione e combustione dei combustibili fossili, è
fondamentalmente trainato da ciò che si compra. E ogni singolo articolo che si
compri ha un impatto ambientale negativo; senza eccezioni.
Se si riduce
il proprio consumo e si aumenta la propria autosufficienza, si riduce l’onere
imposto all’ambiente naturale dall’estrazione, trasporto, fabbricazione e
distribuzione delle risorse, causa della distruzione degli habitat e
dell’annientamento della biodiversità.
Se
propendete a partecipare a una campagna per difendere la biodiversità in un
contest o un altro, che sia per por fine alla guerra, fermare la catastrofe
climatica, interrompere l’installazione del 5G o farla finita con il traffico
di animali selvatici, per esempio, considerate di farlo strategicamente. Si
veda ‘Nonviolent Campaign Strategy’. E potreste anche prendere in
considerazione la firma di un solenne impegno online sulla base di ‘The People’s Charter to Create a
Nonviolent World’.
O, se quelle
opzioni vi sembrano troppo complicate, considerate di impegnarvi ne: L’impegno
per la Terra
Per amore della Terra e di tutte le sue creature … da
questo giorno in poi m’impegno a:
Non mangiare carne e pesce [e
derivati di origine animale, ndr];
Mangiare solo cibo biologico / biodinamico;
Ridurre al minimo la quantità
di acqua dolce che utilizzo, anche riducendo al minimo la mia proprietà e
l’utilizzo di dispositivi elettronici;
Non possedere né utilizzare un
telefono cellulare;
Non comprare legname della
foresta pluviale;
Non comprare né usare plastica
monouso, come borse, bottiglie, contenitori, bicchieri e cannucce;
Non usare banche, fondi
pensione o compagnie di assicurazioni che forniscano servizi a società che
investano in combustibili fossili, energia nucleare e/o armi;
Non accettare impieghi da o
investire in organizzazioni che supportino o partecipino allo sfruttamento
di altri esseri umani o traggano profitto dall’uccisione e / o dalla
distruzione della biosfera;
Non ricevere notizie dai media
aziendali (giornali tradizionali, televisione, radio, Google, Facebook,
Twitter…);
Fare lo sforzo di apprendere
un’abilità, come il giardinaggio o il cucito, che mi renda più
autosufficiente;
Incoraggiare gentilmente la
mia famiglia e i miei amici a considerare di firmare questo impegno.
Conclusione
Una specie –
Homo sapiens – sta annientando la vita sulla Terra, spingendo almeno 200 specie
all’estinzione ogni giorno. Nel tempo che vi ci è voluto per leggere
quest’articolo, un’altra specie di vita sulla Terra è finita nel registro dei
fossili.
Questo
annientamento di vita è indotto dal nostro sovraconsumo. Il Mahatma
Gandhi, con indosso già il suo indumento auto-filato, faceva notare oltre 100
anni fa: «La Terra provvede abbastanza per i bisogni ma non per l’avidità di
ognuno».
Ovviamente,
al mondo molti non sono responsabili di sovraconsumo. Campano ai margini della
vita, con giusto quanto basta per mangiare, altro che prosperare. E questo
riflette le inequità insite in un sistema economico globale
che privilegia il profitto per i pochi, anziché le risorse per vivere per
tutti. Allora ciò vuol dire che l’onere per ridurre i consumi deve ricadere su
chi nelle società industrializzate beneficia della maldistribuzione delle
risorse planetarie.
Ralph Waldo
Emerson una volta predisse che «La fine della razza umana sarà che finirà per
morire di civiltà». Se dobbiamo dimostrare che aveva torto, non ci resta molto
tempo.
Questo
perché Homo Sapiens è una parte del tessuto della vita. E noi
lo stiamo scelleratamente distruggendo quel tessuto.
Dove si cerca di dire che in fondo siamo meno egoisti di quanto pensiamo e
che in fondo doniamo più di quanto crediamo, perché è solo così che creiamo
relazioni.
Se quella che oggi chiamiamo “economia” in principio era solo un’attività
di sussistenza, con il trascorrere del tempo ha assunto un ruolo sempre più
centrale, al punto da prendere, in molti casi, il posto della politica. La
progressiva “occidentalizzazione” del mondo sta provocando una diffusa
colonizzazione dell’immaginario economico, che ci porta a vedere tutto in
un’ottica mercantile in cui ciascuno cerca di ottenere il massimo guadagno con
il minimo costo. Estesa questa visione all’intero genere umano, si ottiene il
cosiddetto homo oeconomicus, un essere razionale che agisce
perseguendo fini utilitaristici e, pertanto, profondamente egoista.
Eppure non è sempre stato così, come ha dimostrato Karl Polanyi. In molte
società l’economia era – e in certi casi è ancora – inserita all’interno di un
sistema di valori in cui non sempre gli individui perseguono il massimo
guadagno, ma a volte rispondono a principi che possono portare in direzione
diversa.
L’economia è quindi moralmente vincolata ad altre forme di espressione
culturale come la religione, la parentela, le gerarchie sociali, le alleanze,
le amicizie. È dunque “incastonata” (embedded) nella società e non
esterna a essa e alle sue regole morali, come invece accade nelle società
mercantili, dove l’economia è stata espulsa dalla sfera della moralità.
L’economia non occupa lo stesso ruolo nelle diverse società umane. Secondo
Polanyi sono tre i modi in cui l’economia si integra nella società:
reciprocità, redistribuzione e scambio.
La reciprocità implica una situazione di egualitarismo e viene praticata in
società dove non esistono leggi che regolano vendita e acquisto, per cui lo
scambio avviene sulla base della simmetria e spesso le transazioni si
verificano nell’ambito della parentela o del vicinato.
La redistribuzione, invece, necessita di una struttura di potere
centralizzata: un capo, un sovrano, uno Stato ricevono beni e denaro da parte
di tutti i componenti del gruppo, sia esso una piccola tribù o il governo di
uno Stato-nazione, e devono poi provvedere a redistribuirli secondo le
modalità, più o meno eque, previste dalla loro società.
La terza modalità, quella dello scambio mercantile o commercio calcolato,
nasce dall’avvento della rivoluzione industriale e dal conseguente sorgere
dell’economia di mercato. Questa trasformazione segna lo spartiacque tra i
diversi tipi di economie e civiltà. Il capitalismo, infatti, muta la sostanza
dei rapporti economici precedenti, che si fondavano soprattutto sulle relazioni
sociali. Nel sistema capitalistico, al contrario, sono i rapporti sociali a
essere definiti tramite i rapporti economici.
Anche in società dove tutto sembra vivere all’ombra del profitto, però, ci
sono oasi in cui di tanto in tanto si cessa di essere utilitaristi.
Il dono, per esempio, è un’eccezione alla regola che suggerisce di tenere
le proprie cose per sé e ottenerne altre tramite l’acquisto o lo scambio
esplicito. Eppure donare è essenziale, fondamentale, ma qual è l’importanza del
gesto? Perché si dona? Per instaurare relazioni.
A intuirlo in maniera determinante fu l’etnologo francese Marcel Mauss,
quando nel 1924 scrisse il celebre Saggio sul dono. Forma e
motivo dello scambio nelle società arcaiche.
L’antropologia ci offre molti esempi di società presso le quali il dono
costituisce uno degli elementi fondanti. In alcuni casi però gli antropologi
hanno peccato di “caritatevolezza”, attribuendo talvolta a popolazioni non
occidentali un’immagine da buon selvaggio alieno a ogni forma di utilitarismo,
che vive in modo assolutamente solidale. L’opposto rispetto a noi dove, dopo
Adam Smith, tutti concordano nell’affermare che affinché la società funzioni
bene ciascuno deve perseguire il proprio interesse. Se c’è qualcuno che dona
per creare le basi di una convivenza, dunque, non siamo certo noi occidentali,
razionali e utilitaristi. Abbiamo così relegato il dono in un dominio
etnografico, congelandolo in ambiti esotici e impedendo quindi una sua
ricontestualizzazione nel mondo occidentale e la sua riattualizzazione in epoca
moderna.
Ma è davvero così?
Prendiamo il caso del Nordest italiano, da tempo celebrato quale esempio
del boom della piccola industria, della cultura del lavoro, dell’ideologia
capitalista convertita a livello familiare. In questa terra, che vanta i
redditi medi più alti d’Italia, ci si attenderebbe di incontrare gente
ossessionata dal lavoro e dal guadagno che passa il tempo a parlare di schei.
In parte è così, ma proprio qui si riscontra la più elevata presenza di
attività di volontariato.
In una società che sembra avere posto l’ideale del guadagno e
dell’ottimizzazione dei profitti in cima alla propria scala dei valori,
ritroviamo numerose testimonianze di un impegno che non contempla nulla di
remunerativo, se analizzato in chiave puramente utilitaristica. Che cos’è
l’azione di volontariato se non un dono offerto sotto forma di servizi? E che
dire dei moltissimi “donatori” di sangue e di organi che consentono di salvare
numerose vite, senza alcun guadagno materiale?
Anche noi occidentali doniamo. Il problema è che spesso non ce ne rendiamo
conto. Il nostro immaginario è così condizionato dall’ideologia di mercato che
ci sembra impossibile uscire dagli schemi dominanti. Il dono si nasconde nelle
pieghe delle nostre azioni e non ci accorgiamo che molte di queste non sono
affatto mosse da logiche utilitaristiche, il che non significa gratuite. Il
dono non è mai gratuito: chi dona si attende un controdono, ma la differenza
tra donare (e contraccambiare) e scambiare sta nell’assenza di contratto.
Il dono, infatti, implica una forte dose di libertà. Non c’è l’obbligo di
restituire, inoltre modi e tempi non sono rigidi. Il valore del dono sta
nell’assenza di garanzie da parte del donatore. Un’assenza che presuppone una
grande fiducia negli altri. Il valore del controdono sta nella libertà: più
l’altro è libero, più avrà valore ciò che ci donerà a sua volta. Il dono
diventa in questo caso promotore di relazioni. Quello che apre la strada al
dono è la volontà degli uomini di creare rapporti sociali, perché l’uomo non si
accontenta di vivere nella società e di riprodurla come gli altri animali
sociali, ma deve produrre la società per vivere.
Quando regaliamo qualcosa a qualcuno, scegliamo qualcosa che ci fa piacere
regalare, ma tenendo presenti i gusti e la personalità del destinatario.
Pertanto, in quel dono ci sarà qualcosa di noi e qualcosa di chi lo riceverà,
perché in fondo gli oggetti sono ricettacoli di identità.
Ricevere un regalo provoca spesso una duplice sensazione: da un lato
l’emozione che spinge alla gratitudine verso il donatore; dall’altro un lieve
senso di imbarazzo, dovuto al fatto che in quel momento, mentre stringiamo tra
le mani quel dono, sentiamo di essere passati nella condizione di “debitori”
nei confronti di chi ha voluto farci un regalo. Il pensiero, infatti, si
rivolge subito al modo in cui cercheremo di “sdebitarci”.
Debito è una parola che non amiamo, ci fa sentire in colpa se gli
indebitati siamo noi, in ansia se siamo creditori... In uno scambio mercantile,
al termine della transazione i partner si ritrovano proprietari di quanto hanno
acquistato o barattato. Mentre prima dello scambio uno doveva dipendere dall’altro
per soddisfare i propri bisogni, a scambio avvenuto, entrambi risultano
reciprocamente indipendenti e senza obblighi. Nel caso del dono, il ricevente
non “paga” sul momento, come in una normale transazione commerciale. Chiunque
di noi si sentirebbe offeso se, facendo un regalo, ci vedessimo contraccambiare
su due piedi con un altro regalo (tranne che nelle occasioni stabilite, come il
Natale). La restituzione avviene nel tempo ed è grazie a questa dimensione
prolungata che il debito si protrae e mantiene attivo il legame tra le due
parti.
Tutto nasce dal fatto che nella nostra percezione tendiamo ad associare il
debito alla sfera economica, mentre facciamo rientrare il dono in quella
affettiva. Forse è per questo che siamo un po’ restii a chiamare con un freddo
termine contabile quello che ci sembra essere invece un sentimento tra i più
genuini, che riserviamo a parenti, amici e persone care. Infatti, nell’ambito
familiare lo stato di debito è considerato normale, ma non viene percepito come
tale. I genitori spesso donano ai figli molto più di quanto ricevano, ma non
per questo si sentono creditori, né necessariamente i giovani si sentono in
dovere di sdebitarsi. Anche in una coppia o tra amici si contraggono debiti
(scambi di favori, di oggetti, d’affetto). Si dona perché ci fa piacere l’atto
del donare. Donando si genera debito e quindi si crea squilibrio. Se osserviamo
i rapporti di coppia o di amicizia è proprio nella situazione contraria, cioè
in uno stato di equilibrio dare/avere che si determina la rottura di un
rapporto. Il celebre gesto della restituzione dei regali al partner per sancire
la fine di una storia ristabilisce la parità e annulla il debito. Allo stesso
modo, l’inizio di un rapporto è spesso segnato da un regalo o da uno scambio di
regali, che altera la situazione di parità originale, creando asimmetria.
Sembrerebbe una contraddizione: dono e controdono dovrebbero portare a un
equilibrio, ma allo stesso tempo generano una sorta di conflitto permanente.
L’antropologia ci ha però insegnato come l’equilibrio di un gruppo non nasce
per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni
controllati.
Si dona per soddisfare il proprio piacere di vedere felice un’altra
persona, ma non è affatto un atto gratuito. Tale gesto rientra in una “economia
della gratitudine”, uno stato di debito reciproco, nutrito da surplus, da
sorprese e che fa sì che ciascuno possa dire dell’altro: «Gli devo molto».
Non tutti i doni creano relazione, in alcuni casi possono, al contrario, spezzarla.
Pensiamo, per esempio, alla carità: certo è un dono, ma non ci si attende certo
di essere ricambiati dal mendicante. Si fa quindi la carità per aiutare chi è
più sfortunato di noi, ma la carità ferisce chi la riceve, è umiliante, perché
chi riceve non può restituire. Il circolo virtuoso identificato da Mauss si
spezza.
Al triangolo donare-ricevere-contraccambiare viene a mancare un lato,
l’ultimo.
Questa assenza dà vita a gerarchie sociali ed economiche che si trasformano
inevitabilmente in rapporti di forza e trasforma il ricevente in debitore
impotente.
Sono molte le occasioni che ci si presentano di donare in modo
spersonalizzato o generalizzato: pensiamo alle donazioni in caso di catastrofi
o alle iniziative di raccolta fondi per aiutare i Paesi più poveri o per
finanziare la ricerca per la cura di malattie rare. La carità,
istituzionalizzata tramite enti organizzati, non è più un dono al prossimo,
ossia al vicino, a qualcuno che conosciamo, ma diventa un dono finalizzato a
lenire sofferenze e disagi più grandi, meno definiti. Al singolo destinatario
si sostituisce una categoria (poveri, affamati, affetti da determinate
malattie, colpiti da catastrofi) più o meno vasta e quanto mai anonima. Questo
tipo di dono diventa un atto che lega soggetti astratti: un donatore che ama
l’umanità e un destinatario che incarna la miseria del mondo.
Si tratta di una tipica forma di dono generalizzato che non prevede un
controdono in beni materiali. Se c’è un beneficio per il donatore, sarà semmai
di tipo interiore. Si tratta di una sorta di riconversione. Il donatore non
offre qualcosa di davvero suo, non sceglie un oggetto che rappresenti in
qualche modo il rapporto tra lui e il destinatario. Il donatore offre del
denaro, suo come appartenenza materiale ed economica, ma non “suo” in quanto
segnato da un rapporto affettivo unico (se affetto o attaccamento c’è, è per il
denaro in genere, non per “quel” denaro).
L’uomo è soprattutto un essere relazionale e crea relazioni attraverso il
dono. Se proviamo a spogliare il dono dai suoi abiti “esotici” e “primitivi” e
a ripensarlo come un riferimento per contrastare quell’anonimato che tanto ci
spaventa, scopriamo la grande attualità della lezione di Marcel Mauss.
Un circuito di scambio
L’arcipelago delle Trobriand si trova al largo della costa nord-orientale
della Nuova Guinea. Fu qui, nel secondo decennio del Novecento, che nacque la
moderna antropologia, fondata sulla ricerca sul campo, grazie alle ricerche di
Bronislaw Malinowski. La sua celebre opera Gli argonauti del Pacifico
occidentale non è fondamentale solo per il suo ruolo storico e
pionieristico, ma anche per l’accuratezza etnografica e l’acume delle
intuizioni contenute.
Tra le tante classificazioni possibili per questo testo, rientra anche
quello di primo studio di antropologia economica. Malinowski voleva dimostrare
che alcune usanze locali, bollate come insensate e primitive, avevano in realtà
una loro logica e che le idee degli economisti sulla razionalità peccavano,
invece, di etnocentrismo. Per lui erano addirittura inefficaci anche applicate
al capitalismo occidentale, da lui considerato non meno intriso di magia e di
simbolismo di quanto non lo fossero i sistemi di pensiero chiamati “primitivi”.
Gli argonauti malinowskiani delle Trobriand non viaggiavano alla ricerca di
un vello d’oro, ma navigavano da un’isola all’altra dell’arcipelago, percorrendo
migliaia di chilometri.
Affacciato dalla sua veranda sull’isola di Kiriwina, Malinowski vedeva
arrivare ogni giorno piroghe da direzioni opposte. […]
Quando ci fu il terremoto ogni sera
stavamo in televisione, e questo ci sembrava strano. C’era quasi un senso di
contentezza: finalmente si occupano di noi. In Italia i paesi esistono come
luogo della sciagura, il paese è semplicemente lo sfondo. La loro vita
quotidiana non interessa a nessuno, a cominciare da chi li abita. Questo volevo
dire quando ho scritto: qui se ne sono andati tutti, specialmente chi è
rimasto.
In questi giorni ho ascoltato in
Parlamento i discorsi fatti dai parlamentari che dovevano decidere se dare o
meno la fiducia al Governo Conte. Sono state due giornate dedicate
all’aritmetica, non potevo aspettarmi attenzione per l’orografia. E infatti
nessuno ha parlato di montagne. A un certo punto qualcuno ha citato Taranto.
Non mi pare di aver sentito altri nomi di luoghi, sicuramente non ho sentito
nomi di paesi o di zone geografiche: mi sarebbe piaciuto che qualcuno citasse
la Barbagia o l’Aspromonte, le valli bresciane o le colline marchigiane. Niente,
le persone che parlano in Parlamento sembrano venire tutte dallo stesso luogo,
una città senza nome e senza lingua: la città della politica. Il futuro della
politica è coniugare la cura del mondo e la cura dei luoghi. Il pianeta e il
piccolo paese. Vorrei capire dove sono nate e dove vivono le persone che ho
ascoltato in Parlamento nel gennaio 2021, nei giorni in cui le persone non si
possono baciare, non si possono stringere la mano. Se qualcuno di loro è nato o
vive in un paese se lo è sicuramente scordato. Se la politica deve
rappresentare le persone e i loro problemi perché nessuno rappresenta le
persone i problemi dei paesi? Andare in Parlamento significa occultare la
propria paesanità? Ma se è così è un atteggiamento provinciale. Se uno pensa che
citare l’America sia più importante che citare le valli di Comacchio non ha
capito niente del futuro che ci aspetta. La modernità non sarà mai più la fuga
dall’arcaico, ma un sapiente intreccio di quello che siamo stati e di quello
che vorremo diventare. E questo intreccio in ogni luogo assume un colore
diverso. Ai politici di governo e di opposizione bisogna ricordare che i soldi
da spendere per fronteggiare la crisi pandemica non si spenderanno in astratto,
nella città astratta della politica, ma in posti che hanno storie diverse e che
sono abitati da persone e da piante e da animali. Sono terre dove non sappiamo
se può piovere a oltranza per tre giorni o per trenta giorni, sono luoghi dove
bisogna valutare lo stato delle acque e della terra. La terra è un’altra cosa
di cui si parla poco in Parlamento, come se fossimo tutti avvocati e
architetti. Il formaggio, la farina, l’insalata, le uova: nessuno le ha sentite
queste parole nei giorni della fiducia al governo. Forse l’oggetto della
fiducia dovrebbe essere la realtà, ci vorrebbe un patto per la realtà, un bene
in cui siamo immersi e che sta velocemente evaporando, come se tutti stessimo
traslocando nell’irreale. Perfino la pandemia, con le dolorose conseguenze che
produce, rischia di diventare uno sfondo a cui ormai ci siamo abituati e
qualcuno potrebbe avere la tentazione di non rimuoverlo più questo sfondo,
magari ne viene qualche guadagno alla propria carriera. L’irrealtà è il grande
cancro dello spirito con cui ci troviamo tutti a combattere. Nominare i luoghi
è un esercizio fondamentale non solo per i politici. Come è bello dire Luca,
Carmela, Antonio, Patrizia, così è importante dire Roghudi, Senerchia, Perugia,
Biella. Solo qui sappiamo nominare le cose, non su Marte, non sul pianeta
parlamentare.
Scrivo da anni sulla questione dei
paesi. Ogni volta che lo faccio, cerco sempre di partire dalla visione di un
luogo. Per questo motivo, sono andato a Santomenna. Non arriva a 400 abitanti,
sta in un punto della provincia di Salerno che sembra allontanarsi da tutti gli
altri e va a posarsi al confine con l’Irpinia e la Basilicata. Ai tempi del
terremoto del 1980, Santomenna faceva parte di una trilogia di paesi totalmente
distrutti perché assai vicini all’epicentro. Gli altri due sono Castelnuovo di
Conza e Laviano. Santomenna ora potrebbe essere l’emblema dello spopolamento
dell’Italia interna. Non solo perché ha perso tanti abitanti. È uno
spopolamento radicale: non ci sono vacche e non ci sono pecore, non si fa il
formaggio come ancora avviene a Laviano. C’è solo un tabacchi, un piccolo
negozio di alimentari e un bar. Il paese è stato tutto ricostruito, le case
sono esposte al sole, l’aria è pulita, potrebbe essere un bel luogo per
riposarsi. Invece, qui non ci sono “azioni in corso”. Le persone che vogliono
parlare con qualcuno scendono in basso dove passa la strada e dove ci sono la
chiesa, il Comune e qualche panchina. Piccoli gruppi di persone. Una volta ne
trovi tre, un’altra cinque. Gli altri sono in casa, sono quasi tutti anziani.
Santomenna ha tutte le carte in regola per essere definito un paese della
bandiera bianca, cioè un posto che sembra arreso. Ovviamente, il sindaco non
gradirà questa descrizione, ma per me il paese è interessante proprio per il
fatto di essere così spoglio, essenziale. L’errore da non fare è considerare
Santomenna un posto arretrato. Si può parlare piuttosto di un ritmo, di
un’atmosfera che varia da luogo a luogo, ma senza pensare che un luogo sia più
avanti di un altro. Il primo lavoro da fare per dare valore ai paesi è
guardarli bene, guardarli uno per uno, sentirli, ascoltarli. Per fare buone
strategie di sviluppo, bisogna partire dall’idea che la prima infrastruttura su
cui lavorare è la fiducia. In questi anni, ai paesi la fiducia nessuno è
riuscita a darla. Per questo sono cresciuti gli scoraggiatori militanti. La
loro egemonia culturale è diventata così grande che spesso arrivano a eleggere
anche i sindaci, votati per i sogni che non fanno. Lo scoraggiatore è
diventato, in molti paesi, l’unica figura di successo, l’unica che vede
confermate le sue visioni. La sua frase bandiera “qui non c’è niente” viene
confermata ogni volta che un negozio chiude, che un ragazzo parte. Le politiche
fatte per contrastare lo spopolamento dell’Italia interna sono state piuttosto
fallimentari. Lo strumento attualmente in esercizio, la Strategia Nazionale
delle Aree Interne, somiglia molto a una sceneggiatura a cui si lavora
alacremente, ma il film fatica a cominciare. Eppure è sicuramente un’azione ben
concepita e abbiamo anche la fortuna di avere un ministro di riferimento per
quelle aree, che è competente e volenteroso. Allora perché non accade niente
che ci dia entusiasmo? Perché anche nel tempo del Covid-19 non si riesce a dare
quella spinta ai paesi che servirebbe molto all’Italia intera? Il motivo
principale è una sorta di miopia geografica. L’Italia, nazione di paesi e di
montagne, ha dato le spalle ai paesi e alle montagne. Si fanno politiche
focalizzate sui centri urbani e sulle pianure. C’è di mezzo ovviamente
l’opportunismo degli esponenti politici che tendono a occuparsi di luoghi che
hanno più peso elettorale. C’è, ancora di più, un retaggio culturale che non va
via: paesi significa mondo rurale, mondo rurale significa miseria, dunque il
paese è il luogo della sfiducia più che il luogo dell’opportunità. Lo stiamo
vedendo benissimo in questi mesi in cui il distanziamento fisico, che nei paesi
è facile da mantenere, non si è tramutato nell’avvio di politiche per
ridistribuire gli italiani sul territorio. Usando un linguaggio medico, in un
momento in cui il mondo è diventato un gigantesco ospedale, si può dire che
abbiamo una malattia circolatoria: nel caso dei paesi una malattia anginosa, si
soffre perché arriva poco sangue; nel caso delle aree urbane si è prodotta una
malattia emorragica, come se si fosse rotto un aneurisma. Davanti a problemi di
questo tipo, è evidente che bisogna intervenire subito e bisogna chiedere conto
alla politica della sua miopia: come si fa a non vedere problemi come questi?
La risposta sta nel fatto che non se ne curano più di tanto anche le persone
che abitano nei luoghi malati. Nessuno ha mai chiesto un blocco totale di certe
aree quando si toccano determinati livelli di inquinamento. Nei paesi accade
una cosa che si può riassumere così: qui se ne sono andati tutti, specialmente
chi è rimasto. Paesani e cittadini sono accomunati dalla scarsa attenzione ai
luoghi in cui abitano. In questi decenni, i legami sociali si sono allentati, è
venuta fuori una malattia che io chiamo autismo corale. Nella prima stagione
del Covid, l’autismo corale si era un poco allentato: eravamo distanziati ma in
un certo senso più vicini. Ora il distanziamento fisico e quello spirituale
procedono appaiati. La gravità dell’epidemia, ovviamente, oscura la vicenda dei
paesi, la fa apparire come trascurabile. Tra l’altro, nessuno si ribella. La
leva fondamentale del cambiamento dovrebbero essere i ragazzi, ma l’età più
fertile è stata bonificata dalle passioni collettive. Anche le politiche per le
aree interne non sembrano molto attente alle esigenze giovanili. La strategia
delle aree interne dovrebbe diventare la strategia per i ragazzi e le ragazze
dei paesi, la strategia della fiducia. Un paese dove qualcosa si muove deve
essere connesso con quello dove non si muove niente: bisogna far migrare la
fiducia, finanziare gli spostamenti di chi innova, la voglia di far conoscere
il buono che c’è, di portarlo dove l’insuccesso è diventato una vocazione. Si
tratta di aprire da subito un grande cantiere per passare dalla
comunità-pozzanghera alla comunità-ruscello. I paesi come luogo di incubazione
di un nuovo umanesimo, l’umanesimo delle montagne.
Per le aree
interne della Sardegna il Next Generation – Recovery Fund recentemente
approvato dal Governo può rappresentare una straordinaria occasione di
progresso.
Occorre
organizzare alcune questioni di metodo che si proverà a riassumere brevemente:
a) le aree interne non corrispondo né geograficamente né economicamente alle
sole zone centrali della Sardegna; b) le politiche di sviluppo o sono
territoriali o, semplicemente, non sono: tutte le azioni isolazioniste dei
singoli sono destinate al fallimento; c) dal Piano di Rinascita ad oggi si sono
dimostrate – fra le tante – almeno due cose: lo sviluppo per poli non funziona;
lo sviluppo esogeno – quello attratto “da fuori” dal “contributo” – ha fallito e
ha disabituato le comunità a investire sulle proprie capacità; d) sul Recovery
Fund la Sardegna deve invocare l’articolo 13 dello Statuto ovvero la
possibilità istituzionale di contrattare con lo Stato l’intensità dei
finanziamenti e gli interventi da attuare per un “Nuovo Piano di Rinascita” che
abbia caratteristiche differenti rispetto agli interventi degli anni ‘60 e ‘70
su cui occorre una profonda riflessione storica su errori e virtù: per farne
tesoro; e) bisogna evitare come la peste la “sommatoria di progetti” che
giacevano da tempo immemore nei cassetti degli assessorati, ma privilegiare i
Piani di Sviluppo Territoriali. Le aree interne della Sardegna – con le
legittime differenziazioni territoriali – si devono pensare come una cosa sola:
la frammentazione della rivendicazione rischierebbe di far fallire l’esigenza
indifferibile di attrarre interventi che le facciano uscire da una condizione
di sostanziale sottosviluppo.
Che fare,
allora?
Provare ad
organizzare una proposta che abbia alcuni denominatori comuni che andrebbero
progettati esaltando le straordinarie diversità territoriali: rivendicazione
unitaria, azioni diversificate.
La prima
cosa da rivendicare con forza, rispolverando la parola “resistenza” in luogo
dell’abusata “resilienza” (presente anche nel Generation Next), è la garanzia
alle cittadine e ai cittadini delle aree interne i diritti costituzionali fondamentali:
alla democrazia, al lavoro, all’istruzione, alla salute e alla mobilità e alle
reti.
“Una scuola
in ogni paese” non è uno slogan, ma un tassello imprescindibile di un piano di
sviluppo locale.
“Un medico
di famiglia in ogni paese” non è uno slogan, ma la condizione imprescindibile
che garantisce ai cittadini di Esterzili di avere gli stessi diritti alle cure
degli abitanti di Cagliari: rafforzando le “comunità della salute” sui livelli
territoriali e migliorando la qualità nei piccoli ospedali e dell’emergenza-urgenza.
E poi le
politiche di sviluppo garantendo ulteriori diritti: alla casa, alla terra, alla
rete e al digitale, al benessere familiare, a una defiscalizzazione che renda
conveniente vivere e investire nei paesi della aree interne.
Nei paesi
delle aree interne esiste uno straordinario patrimonio ambientale,
architettonico, storico-culturale e di beni comuni che andrebbe non
“valorizzato” o “sfruttato” – per restare al sillabario del passato – ma
vissuto davvero dalle comunità per farne uno strumento di identità e di
economia pulita.
Per
combattere lo spopolamento e la desertificazione umana, però, non basta vantare
diritti, ma anche praticare doveri: rendere davvero accoglienti le comunità,
predisporsi al confronto e al cambiamento, uscire dal “paese-pozzanghera” e
trasformarlo in “paese-ruscello” dove il ricambio di acqua e di umanità
permette una vita migliore per sé e per gli altri.
A ancora:
imparare a lavorare con gli altri, con chi ti sta vicino, con le comunità
confinanti, con un territorio più ampio dove ognuno non basta a se stesso, ma
si afferma dentro un quadro collettivo. Solo se si ricomincia a ragionare come
“città di paesi” le politiche di progresso possono avere una possibilità di
successo, segnare una via di futuro possibile sostituendo l’estetica della
competizione con l’etica della collaborazione.
La scrittura
di un buon piano di azione locale ha bisogno di tutti questi elementi.
Ed è
interesse della Sardegna tutta, a partire dalle città, avere zone interne vive
e vitali, culturalmente dinamiche, produttivamente innovative a partire da un
ritorno acculturato alla terra e alle produzioni, paesi abitati e collegati con
le aree urbane, capaci di produrre beni e servizi essenziali per tutta la
collettività sarda: dove ogni comunità sia una stella di una costellazione, un
tassello determinante di un mosaico la cui organizzazione si disvela nello
scambio e non nella privazione.
Chi avrebbe mai detto che una protesta di agricoltori avrebbe creato un
problema politico capace di mettere in imbarazzo il governo di Narendra Modi,
in India. Eppure è proprio così. Da due mesi la capitale indiana Delhi è
assediata da una moltitudine di coltivatori e lavoratori agricoli. Sono
centinaia di migliaia di persone venute soprattutto dai grandi stati della
pianura indogangetica ma in parte anche dal resto dell’India. Dalla fine di
novembre sono accampati intorno alla Grande Delhi; chiedono l’abrogazione di
tre nuove leggi che liberalizzano il mercato agricolo, approvate lo scorso
settembre dal parlamento nazionale in gran fretta e senza dibattito. Sono
determinati: hanno resistito prima alle cariche di polizia e poi al freddo
invernale.
Una prova di forza
Ora, dopo undici round di incontri inconclusivi con rappresentanti del
governo, le trattative sono rotte. Il governo offre di sospendere
l’applicazione delle leggi contestate per 12 o 18 mesi, ma non tratterà altro.
I coltivatori ripetono che non se ne andranno finché quelle leggi non saranno
abrogate.
Si prepara una prova di forza. I rappresentanti degli agricoltori
confermano una “marcia dei trattori” il 26 gennaio, giorno della festa delle
Repubblica, quando a Delhi si svolge un’imponente parata militare. Il governo
sperava di evitarlo: ma la Corte Suprema, interpellata, ha rifiutato di
emettere un divieto. La dimostrazione di potenza dell’India “emergente”
oscurata da un’armata rurale.
Vivere della terra
Un movimento popolare così ampio ha spiazzato il governo. La protesta dei
coltivatori è stata descritta dai grandi media indiani come la rivolta di un
gruppo sociale che vive di sovvenzioni di stato e teme di perdere i propri
privilegi: rappresentanti di un vecchio mondo assistito che frenano le riforme
necessarie a modernizzare un settore agricolo inefficiente e insostenibile.
Come ha ripetuto il primo ministro Modi, le nuove leggi «liberano gli
agricoltori indiani», che potranno finalmente competere sul mercato. Molti
hanno sottolineato che in fondo l’agricoltura fa solo il 16 per cento del
Prodotto interno lordo indiano, una fetta marginale rispetto all’industria e
soprattutto i servizi cresciuti negli ultimi vent’anni. Dimenticano però di
aggiungere che il 55 per cento della forza lavoro è occupata in agricoltura, e
anche neppure questo dato riflette la realtà: 800 milioni di persone, su un
miliardo e 300 milioni di indiani, vivono direttamente o indirettamente della
terra. La protesta dell’India rurale mette in imbarazzo il governo perché ogni dirigente
indiano sa che la terra e i coltivatori restano la base della società e della
legittimità politica della nazione.
Sette campi di protesta, sette città
temporaneee
Chi ha visitato i sette campi di protesta che circondano la Grande Delhi
infatti ha raccolto una storia ben diversa da quella raccontata dai media
mainstream.
La scena. Le prime colonne di trattori e camion sono arrivate dagli stati del
Punjab e dell’Haryana a nord-ovest della capitale federale. Bloccati dalla
polizia al confine del territorio di Delhi (è un Territorio dell’Unione, come
un ministato), si sono accampati là, in località Singhu. Altre colonne di
protesta sono arrivate dall’Uttar Pradesh e dal Bihar a est, e in parte dal
Rajasthan a ovest; delegazioni sono giunte dal Maharashtra (lo stato con
capitale Mumbai) e dal Kerala a sud. Poco a poco sono sorti ben sette siti di
protesta: il più grande, a Singhu, si estende per oltre dieci chilometri. Come
città temporanee popolate da uomini e donne, vecchi e giovani. Ci sono caste rurali
e anche Dalit (i fuoricasta, lo scalino più basso della gerarchia sociale
indiana).
La solidarietà palpabile
Secondo un’inviata di “The Wire”, «l’ossatura della protesta sono contadini
senza terra e coltivatori marginali», parola che indica una misura precisa: le
proprietà agricole “marginali” sono quelle sotto un ettaro, “piccole” quelle
sotto i due ettari. Secondo il censimento agricolo, in India l’86 per cento
degli agricoltori sono appunto marginali e piccoli, vivono su meno di due
ettari di terra; nel Punjab, da cui vengono molti dei manifestanti, un terzo
delle proprietà sono sotto due ettari e un altro terzo sotto 4 ettari. l’India
rurale è fatta di una miriade di piccolissimi produttori. Gli accampamenti sono
organizzati per resistere. I rimorchi dei camion sono diventati alloggi di
fortuna. Altri hanno montato tende. Centinaia di cucine da campo servono cibo a
tutti, di ogni religione o casta. «In ogni sito di protesta il livello di
organizzazione e il senso di solidarietà, è palpabile», riferisce un inviato
del magazine “Frontline”. Intorno agli agricoltori si è costituita una rete di
solidarietà; attivisti sociali hanno organizzato dispensari medici e dormitori
in edifici pubblici; sono state allestite lavanderie, perfino biblioteche.
L’atmosfera oscilla tra la resistenza e la festa popolare, con decine di
assemblee pubbliche, eventi culturali, lezioni, musica. Le notti d’inverno però
sono gelide nell’India settentrionale. C’è notizia di numerose persone morte di
ipotermia, o infarto o altro.
Protesta diffusa: le comunità sono unite
Ma nonostante tutto la protesta continua, e questo è possibile perché ha un
retroterra. In Punjab, secondo numerose testimonianze, da ciascuno dei 13.000
villaggi sono partite delegazioni di decine di persone, coltivatori e anche
maestri di scuola, camionisti, rappresentanti dei municipi rurali.
«In Punjab c’è un’insurrezione», scrive un’inviata del giornale online “The
Wire”, che in una sola provincia di questo grande stato ha contato 68 sit-in
permanenti, grandi e piccoli. Descrive comizi e raduni pubblici, e raccolte di
viveri, coperte, tende da mandare a quelli che sono andati a Delhi. I
manifestanti si alternano; c’è chi torna a casa per occuparsi del raccolto
mentre altri danno il cambio. «Tutte le comunità sono unite», spiegano alcuni
manifestanti.
Al movimento partecipano circa 500 organizzazioni di agricoltori e sindacati
rurali, raggruppati n 40 organizzazioni ora raggruppate in un coordinamento.
«Il governo pensa che i coltivatori oggi siano la massa impotente e ingenua
descritta dalla letteratura preindipendenza. Ma i coltivatori oggi hanno
assorbito l’eredità del movimento per la libertà [il movimento anticoloniale
nella prima metà del Novecento], i giovani hanno ereditato quello spirito»,
spiega a “Frontline” un agricoltore ed ex soldato nel sito di Ghazipur, a est
di Delhi. Non per nulla tra cartelli e volantini riemerge il volto di Bhagat Singh, leggendario leader socialista rivoluzionario
novecentesco.
Il contrasto alla propaganda governativa
«Abbiamo capito che bisognava contrastare la propaganda che rimbalza sulla
tv e sui social media», spiega (sempre a “Frontline”) un giovane ingegnere
informatico impegnato nella protesta: con un piccolo gruppo di volontari ha
creato una piattaforma elettronica che mette online conferenze stampa
quotidiane, interviste, testimonianze: si chiama Kisan
Ekta Morcha, è divenuta la grancassa del movimento.
Ai primi di dicembre il governo aveva offerto qualche emendamento alle leggi
contestate, se i manifestanti avessero sgomberato le strade. Ma quando questi
hanno rifiutato di tornare a casa prima di ottenere la revoca di quelle leggi,
il governo li ha accusati di essere facinorosi, estremisti, “khalistani” –
riferimento al movimento separatista armato che negli anni Ottanta si batteva
per uno stato indipendente in Punjab, il Khalistan. Per questo tra i cartelli
comparsi nei siti di protesta molti dicono «siamo coltivatori, non terroristi».
Il movimento dunque continua. È rimasto unito, e pacifico. La prima vittoria
l’ha avuta quando, il 20 dicembre, la Corte Suprema ha chiesto al governo di
sospendere l’applicazione delle leggi contestate e aprire il dialogo. Le foto dei
primi incontri ritraggono i rappresentanti delle 40 organizzazioni rurali
intorno a un lunghissimo tavolo, con i rappresentanti di tre ministeri del
governo centrale (agricoltura, commercio, ferrovie). Da parte governativa però
si sono presentati solo junior ministers,
l’equivalente di sottosegretari, figure senza potere decisionale: non i
ministri titolari e tantomeno il primo ministro. Benché incalzato da un nuovo
intervento della Corte Suprema nella prima settimana di gennaio, il governo
Modi continua a prendere tempo.
I “mercati regolamentati”: la posta in
gioco
Cosa è in gioco? In estrema sintesi, il sistema di regolamentazioni statali
che dagli anni Sessanta del secolo scorso offre qualche protezione ai
coltivatori indiani.
La prima delle tre leggi contestate infatti permetterà di commercializzare la
produzione agricola al di fuori dei mercati all’ingrosso statali (mandi), attualmente regolamentati dagli Agricultural
Produce Market Committees, Apcm. Secondo il governo è una riforma che «aprirà
nuove opportunità per tutti i coltivatori», perché moltiplica i possibili
compratori per i loro raccolti e li “libera” dalla burocrazia e dagli
intermediari. Ma non ha convinto gli agricoltori: i quali temono che sul
“libero mercato” non saranno loro a fissare i prezzi, bensì i grandi
acquirenti. Temono anche di perdere altri servizi essenziali oggi offerti dai
mercati di stato, tra cui i silos e gli anticipi per le sementi.
Le altre leggi contestate aboliscono i limiti allo stoccaggio di derrate
agricole, salvo casi di emergenza (era una norma antiaccaparramento): ma così,
secondo i critici, i grandi traders potranno
comprare derrate quando la produzione è abbondante e immagazzinarle per
metterle sul mercato quando più conviene. La terza legge infine promuove la “coltivazione
a contratto”, cioè la possibilità di stipulare contratti tra l’agricoltore e il
futuro compratore. Il governo sostiene che questo darà sicurezza ai
coltivatori, perché sapranno che il futuro raccolto è piazzato a un prezzo
pattuito in anticipo. Molti agricoltori conoscono già questo sistema, e sono
scettici.
Il punto è che i “mercati regolamentati” fanno parte del sistema che include il
prezzo minimo di supporto (Msp), a sua volta funzionale al Sistema pubblico di
distribuzione (Pds), con cui lo stato fornisce alimenti di base a prezzi
calmierati a tutti gli indiani, in particolare ai più poveri. È un intero
sistema creato negli anni Sessanta per garantire un prezzo equo ai produttori e
allo stesso tempo assicurare l’accesso al cibo a tutti i cittadini. È questo
che oggi è in gioco.
La crisi ecologica
La Rivoluzione verde è finita. Il Prezzo minimo è sorto con la rivoluzione
agraria basata sulle varietà ibride “ad alto rendimento” di grano e poi di riso
arrivate negli anni Sessanta e Settanta. In India la “rivoluzione verde” ha
avuto successo grazie alla fertilità della pianura indogangetica e alle sue
abbondanti riserve idriche sotterranee. Convinti dalle rese abbondanti, e dalla
garanzia che lo stato avrebbe comprato i raccolti a un prezzo stabilito, gli
agricoltori sono passati alle nuove sementi. In Punjab e Haryana grano e riso
hanno rapidamente sostituito ogni altra coltura: da poco meno di metà della
superficie coltivata nel 1970, a oltre l’80 per cento nel 2010. Già negli anni
Novanta l’India era passata da importare cibo a esportarne.
Ormai però il suolo fertile e l’acqua abbondante sono esauriti. In Punjab la
falda freatica cala in media di 33 centimetri l’anno, tanto che va cercata con
pozzi sempre più profondi, ed è spesso inquinata da residui di fitofarmaci e
concimi azotati. I suoli sono sempre meno produttivi. Eppure Punjab e Haryana
restano il “granaio” dell’India, grazie alle pompe che estraggono l’acqua
rimasta e un grande uso di concimi: nei quarant’anni trascorsi tra il 1978 e il
2019 la produzione di grano e riso in Punjab è aumentata del 134 per cento (da
126 a 285 milioni di tonnellate), ma il consumo di fertilizzanti è aumentato
oltre il 600 per cento (da 4,2 a 27,2 milioni di tonnellate: riprendo i dati
dall’economista Prem Shankar Jha).
La conseguenza è duplice. Da un lato, l’India produce grandi surplus alimentari
che ha cominciato a esportare. Dall’altro però la monocoltura intensiva ha
innescato una spaventosa crisi ecologica. E questo ha anche fatto calare la
produttività e salire le spese di produzione.
Liberalizzazione vs insostenibilità?
I sostenitori della liberalizzazione argomentano che il prezzo minimo e i
numerosi sussidi di stato ormai perpetuano un’agricoltura insostenibile, ha
creato una classe di coltivatori dipendenti dalle sovvenzioni, disincentiva a
diversificare le colture. Altri, tra cui Jha, fanno notare che molti
coltivatori hanno già diversificato, anche in quelle regioni “granaio”, e
coltivano ortaggi per il mercato urbano, o altre derrate: ma proprio per questo
sanno già cosa significa essere in balia del “libero mercato”. Mentre nessun
governo ha mai tenuto la promessa di investire in infrastrutture, magazzini
refrigerati o altro a sostegno del mercato agricolo, e devono affidarsi a
intermediari che hanno un potere spropositato.
Il sistema è insostenibile? Molti in India, anche tra gli oppositori alle leggi
oggi contestate, concordano che il meccanismo dei mercati regolamentati va
rivisto. Che quei Comitati di gestione (i succitati Agricoltural Produce Market
Committees) in cui sono rappresentati enti locali e organizzazioni di
agricoltori riflettono molti dei vizi della società più generale, dalle
divisioni di casta e di classe, alle azioni di lobby di vari interessi, alla
burocrazia. E però «non c’è dubbio che continuano a mitigare l’arbitrarietà dei
prezzi e limitare le malversazioni ai danni dei coltivatori», osserva un
editoriale di “Frontline”.
Il surplus di produzione tra
esportazione e interessi privati
È anche vero che i silos della Food Corporation of India (ente di stato)
straboccano di derrate: quasi 28 milioni di tonnellate di riso e 55 milioni di
tonnellate di grano alla fine di giugno 2020, ben 42 milioni di tonnellate più
di quelle che sono considerate riserve strategiche. Così l’India ha cominciato
a esportare riso (12 milioni di tonnellate l’anno scorso) e grano (circa 6
milioni di tonnellate destinate a mangimi animali). Prem Shankar Jha osserva
che, dai dati ufficiali, quel riso è stato venduto sul mercato internazionale a
poco più di 7 miliardi di dollari, con un profitto di 4,18 miliardi di dollari
rispetto al “prezzo mimino di supporto” che lo stato aveva pagato ai
coltivatori. Fin troppo facile la conclusione: «Gli immediati beneficiari
[della liberalizzazione] saranno i grandi esportatori a cui la Food Corporation
venderà i suoi surplus» a poco più del prezzo minimo, conclude Jha. Tra i
manifestanti è convinzione diffusa che tra questi i beneficiari abbiano un
nome: le imprese di Mukesh Ambani e di Gautam Adani, due multimiliardari molto
legati al primo ministro Modi (i quali smentiscono di avere interessi nel
mercato agricolo). Non a caso in tutto il Punjab le proteste hanno preso di
mira stazioni di benzina e ripetitori dei telefonini del gruppo Reliance (di
Ambani), o i silos refrigerati del gruppo Adani.
La protesta attuale è solo una parte del
problema
Forse è vero, la protesta di queste settimane rappresenta solo una parte
del complesso mondo rurale indiano. Il sistema dei mercati regolamentati e del
prezzo minimo in effetti riguarda solo riso e grano (il progetto di estenderlo
ad altre derrate non è mai decollato), e non copre le zone più periferiche.
Mentre la gran parte dei coltivatori – di cereali, cotone, ortaggi o altro – è
già in balia del libero mercato: di intermediari che stabiliscono le regole; di
grossisti che fissano prezzi e standard. Degli usurai a cui devono chiedere
anticipi per comprare sementi e concimi. Delle oscillazioni dei mercati e del
clima.
Senza contare che gran parte dell’India rurale, quella più marginale, coltiva
per la sussistenza, non rientra nel computo economico, e dipende dall’uso delle
terre comuni. È la parte più penalizzata dall’inarrestabile accaparramento di
terre avvenuto negli ultimi trent’anni per permettere l’espansione di miniere,
fabbriche e grandi imprese agro-industriali.
Gli agricoltori che assediano Delhi non hanno l’aspetto di “privilegiati”. Sono
convinti che le tre leggi contestate siano il preludio ad abolire anche il
Prezzo minimo e smantellare quel che resta del sistema di redistribuzione
costruito negli anni postindipendenza: e allora sarà peggio non solo per loro
ma per tutta l’India rurale. La posta in gioco è proprio questa.