L’unica sovranità interessante, quella alimentare
Come
noto, la prima possibilità che un individuo ha a disposizione per
prendere nelle proprie mani la sua vita è quella di scegliere come cibarsi; di
come riappropriarsi dei mezzi della propria auto-riproduzione. Chiamiamola
autodeterminazione alimentare o principio della sovranità alimentare che
– secondo la dichiarazione di Nyelni, nel Mali del 2007, fatta propria dalla
Fao – riguarda “il diritto delle persone a un cibo culturalmente appropriato e
sano, prodotto con mezzi sostenibili che rispettano l’ambiente e il diritto a
definire i propri sistemi agricoli e alimentari. La sovranità alimentare pone
al centro dei sistemi e delle politiche alimentari le aspirazioni e i bisogni
di coloro che producono, distribuiscono e consumano cibi, anziché le richieste
delle aziende e dei mercati”.
Nelle “società opulente” le possibilità di scelta
alimentare sono parecchie(e l’apparato industriale agro-alimentare-farmaceutico lo sa benissimo!).
Possiamo seguire le suggestioni che vengono dal piacere del palato. Possiamo
seguire le pulsioni psico-gastronomiche che compensano le carenze affettive.
Possiamo seguire precetti medico-salutisti. Possiamo conformare le nostre
abitudini alimentare a principi etici (veganesimo).
I movimenti consumeristici, in generale, mirano a
sviluppare la capacità critica delle persone e a creare strumenti per aumentare
le loro possibilità di scelta a tutti i livelli: individuale e familiare
(informazione, auto e co-produzione, ecc.), amicale e di prossimità (gruppi di
acquisto collettivi, orti sociali condivisi, ecc.), comunitario (Comunity
Supported Agriculture, Patti città-campagna, menù delle mense, ecc.), pubblico
istituzionale (Food Policy).
Tutte le esperienze che tendono alla autodeterminazione
alimentare si scontrano inevitabilmente con numerosi ostacoli e condizionamenti
esogeni: economici (la
necessità di raggiungere una redditività minima degli operatori in un contesto
di costi di produzione sempre più elevati e di concorrenza in dumping), limitate possibilità di accesso a terreni
fertili e a materie prime di qualità (inquinamenti, consumo di suolo,
privatizzazione delle sementi, ecc.),organizzativi (servizi e mezzi di movimentazione, conservazione,
trasformazione… in mano a oligopoli), normativi (standard per la commercializzazione, regolamenti di
igiene, appalti di fornitura, sistemi fiscali, ecc.), psicologici (mentalità comune plasmata dalla
pubblicità, dal discreditamento del biologico contadino a favore degli Ogm o,
comunque, del biologico industriale certificato, ecc.). Per evitare tali blocchi esterni, l’unica strada è riuscire a
superare la separazione tra le figure del consumatore finale e del produttore.
Va ricomposta l’intera filiera dall’approvvigionamento
delle materie prime, alla coltivazione, alla raccolta, alla trasformazione, al
confezionamento, alla distribuzione … fino alla utilizzazione finale e oltre:
riuso delle eccedenze e degli scarti.
Autogoverno territoriale
Ha detto
Alberto Magnaghi nell’ultimo convegno della Società dei Territorialisti:
“Le interrelazioni fra soggetti e temi differenti costituiscono le condizioni
dell’autogoverno territoriale e della
democrazia di comunità: si tratta di costruire
relazioni (funzionali e coprogettuali) fra
le comunità di produttori di beni alimentari bioecologici e le comunità urbane
di autorigenerazione delle periferie, di cohousing e di auto valorizzazione dei
beni comuni urbani; costruire obiettivi comuni per la gestione di patti e di
scambi città-campagna, città-collina, entroterra costieri, montagna; fra
neoagricoltori, biodistretti rurali e abitanti urbani sulla autoproduzione di
cibo e servizi eco sistemici; fra attori dei contratti di fiume (di lago, di
paesaggio), per l’autogoverno delle reti ecologiche, gli equilibri idraulici,
la fruizione delle riviere fluviali urbane e rurali; fra le comunità eco
museali e gli osservatori del paesaggio per la conoscenza attiva dei patrimoni
territoriali come imput per i soggetti promotori di sistemi produttivi locali,
fondati sulla messa in valore delle peculiarità dei patrimoni stessi, e così
via”. (A. Magnaghi, Relazione introduttiva a La democrazia dei luoghi e forme
di autogoverno comunitario, Castel del Monte 15/17 Novembre 2018).
Il percorso da seguire potrebbe essere sintetizzato in
uno slogan: dai gruppi di acquisto ai gruppi di coproduzione; dai “patti” tra consumatori e
produttori all’ “alleanza” tra abitanti, cittadini e rurali (agricittadini). La
logica del “patto” presenta qualche antipatia perché è di natura
contrattuale/commerciale tra soggetti che rimangono separati se non
contrapposti nei rispettivi interessi immediati (attenti a non fregarsi a
vicenda!). La logica dell’alleanza, invece, è fusionale, interdipendente,
simbiotica, fiduciari, donativa: io mi impegno a magiare ciò che tu produci e
tu produci ciò che io mangio; tu mi liberi dalla costrizione di dover andare a
comprare ciò di cui ho bisogno al supermercato, io ti libero dal giogo che ti
obbliga a conferire la tua produzione a intermediatori “terzi”, al mercato
all’ingrosso. Insieme usciamo dalla logica di mercato in
cui la domanda e l’offerta vengono inesorabilmente determinate dal prezzo e non
dal buono, dall’utile, dall’equo, dal sostenibile. Finalmente, si ricompone la
separazione tra produzione e consumo; la scissione alienante tra attività
lavorativa etero diretta e riproduzione della vita.
Ma come si
può immaginare di realizzare tale alleanza? La risposta sta nel riconoscimento
dell’esistenza di un comune interesse, di una cointeressenza nella costruzione
di un livello superiore d’azione che solo può farci raggiungere un benessere
collettivo, un buon vivere e una buona vita. Ricordiamoci sempre che “nessuno
si salva da solo”! Pensiamoci come una comunità
scelta, aperta, inclusiva, solidale, propositiva, capace di creare reti
orizzontali non gerarchiche (che non “irretiscano” e
burocratizzino le relazioni umane spontanee e dirette che solo le associazioni
volontarie di cittadini sanno garantire), ma al contrario che connettano quelle
esperienze accumunate dagli stessi valori di fondo: imprese che operano secondo
modelli cooperativistici e mutualistici, fondazioni di comunità, gruppi di
finanza etica, di coworking e open source, cohousing ed ecovillaggi, ecc. ecc.
Insomma, tutto il grande e largo mondo dell’economia eco-solidale (SSE, Social
end Solidarity Economy, nel linguaggio internazionale adottato dalle agenzie
Onu). Comprendendo in questo mondo anche i gruppi, i comitati, le associazioni,
i movimenti che si battono per la salute e la salubrità degli habitat naturali,
contro le distruzioni ambientali e la giustizia sociale.
Agire localmente
Le vecchie
categorie del produttore e del consumatore si ritrovano unite in un progetto
integrato e multiattoriale di comunità fondate sulla qualità delle vite e dei
lavori. I consumatori critici e i produttori consapevoli alzano il loro punto
di vista su un orizzonte allargato che consente una
visione d’insieme. Assieme elaborano un progetto complessivo
multifattoriale di comunità territoriale. Creano quella “calda e civile
coralità produttiva” evocata da Giacomo Becattini. Assieme rivendicano un
governo e una gestione del patrimonio territoriale locale fondato sulla cura
dei luoghi e sulla rifunzionalizzazione dei sistemi primari che supportano i
servizi ecosistemici. Assieme immaginano una “ergonomia del territorio”, un
assetto idro-geo-morfologico funzionale alla rigenerazione e al potenziamento
dei cicli biologici e della biodiversità.
In tal modo
le funzioni urbane e quelle agricole si andranno ad intrecciare, cosicché i
loro abitanti saranno chiamati ad una cooperazione multisettoriale. Gli assetti
organizzativi del territorio (infrastrutture, piattaforme, servizi, ecc.)
verranno via-via ri-funzionalizzati partendo dallo scopo primario di garantire
a tutti gli abitanti la autonomia e la autodeterminazione alimentare della
comunità. Poiché si sa che le grandi trasformazioni si
attuano a piccoli passi, questo processo di trasformazione globale non può che
partire restituendo all’azione locale la centralità del processo.
Come dice Sergio De La Pierre va riconosciuto “il valore universale del
locale”.
Man mano che
crescerà la consapevolezza e il desiderio di una tale pianificazione dal basso
della domanda alimentare commisurata alle possibilità reali produttive del
territorio, si creeranno istituti di autogoverno (cooperative di produzione e
consumo, cooperative e fondazioni di comunità, politiche urbane per lo sviluppo
agricolo e rurale, Food Policy Council, ecc.), vere “palestre di democrazia”,
come le chiama Francesca Forno.
*Testo
dell’intervento all’incontro promosso da Aequos e Des-Varese a Saronno il 25
novembre 2018, “Lezioni di futuro. I Gas nell’economia solidale: storia e
prospettive”