venerdì 30 novembre 2018

Ricongiungersi ai territori - Paolo Cacciari



L’unica sovranità interessante, quella alimentare
Come noto, la prima possibilità che un individuo ha a disposizione per prendere nelle proprie mani la sua vita è quella di scegliere come cibarsi; di come riappropriarsi dei mezzi della propria auto-riproduzione. Chiamiamola autodeterminazione alimentare o principio della sovranità alimentare che – secondo la dichiarazione di Nyelni, nel Mali del 2007, fatta propria dalla Fao – riguarda “il diritto delle persone a un cibo culturalmente appropriato e sano, prodotto con mezzi sostenibili che rispettano l’ambiente e il diritto a definire i propri sistemi agricoli e alimentari. La sovranità alimentare pone al centro dei sistemi e delle politiche alimentari le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano cibi, anziché le richieste delle aziende e dei mercati”.
Nelle “società opulente” le possibilità di scelta alimentare sono parecchie(e l’apparato industriale agro-alimentare-farmaceutico lo sa benissimo!). Possiamo seguire le suggestioni che vengono dal piacere del palato. Possiamo seguire le pulsioni psico-gastronomiche che compensano le carenze affettive. Possiamo seguire precetti medico-salutisti. Possiamo conformare le nostre abitudini alimentare a principi etici (veganesimo).
I movimenti consumeristici, in generale, mirano a sviluppare la capacità critica delle persone e a creare strumenti per aumentare le loro possibilità di scelta a tutti i livelli: individuale e familiare (informazione, auto e co-produzione, ecc.), amicale e di prossimità (gruppi di acquisto collettivi, orti sociali condivisi, ecc.), comunitario (Comunity Supported Agriculture, Patti città-campagna, menù delle mense, ecc.), pubblico istituzionale (Food Policy).
Tutte le esperienze che tendono alla autodeterminazione alimentare si scontrano inevitabilmente con numerosi ostacoli e condizionamenti esogeni: economici (la necessità di raggiungere una redditività minima degli operatori in un contesto di costi di produzione sempre più elevati e di concorrenza in dumping), limitate possibilità di accesso a terreni fertili e a materie prime di qualità (inquinamenti, consumo di suolo, privatizzazione delle sementi, ecc.),organizzativi (servizi e mezzi di movimentazione, conservazione, trasformazione… in mano a oligopoli), normativi (standard per la commercializzazione, regolamenti di igiene, appalti di fornitura, sistemi fiscali, ecc.), psicologici (mentalità comune plasmata dalla pubblicità, dal discreditamento del biologico contadino a favore degli Ogm o, comunque, del biologico industriale certificato, ecc.). Per evitare tali blocchi esterni, l’unica strada è riuscire a superare la separazione tra le figure del consumatore finale e del produttore. Va ricomposta l’intera filiera dall’approvvigionamento delle materie prime, alla coltivazione, alla raccolta, alla trasformazione, al confezionamento, alla distribuzione … fino alla utilizzazione finale e oltre: riuso delle eccedenze e degli scarti.

Autogoverno territoriale
Ha detto Alberto Magnaghi nell’ultimo convegno della Società dei Territorialisti: “Le interrelazioni fra soggetti e temi differenti costituiscono le condizioni dellautogoverno territoriale e della democrazia di comunità: si tratta di costruire relazioni (funzionali e coprogettuali) fra le comunità di produttori di beni alimentari bioecologici e le comunità urbane di autorigenerazione delle periferie, di cohousing e di auto valorizzazione dei beni comuni urbani; costruire obiettivi comuni per la gestione di patti e di scambi città-campagna, città-collina, entroterra costieri, montagna; fra neoagricoltori, biodistretti rurali e abitanti urbani sulla autoproduzione di cibo e servizi eco sistemici; fra attori dei contratti di fiume (di lago, di paesaggio), per l’autogoverno delle reti ecologiche, gli equilibri idraulici, la fruizione delle riviere fluviali urbane e rurali; fra le comunità eco museali e gli osservatori del paesaggio per la conoscenza attiva dei patrimoni territoriali come imput per i soggetti promotori di sistemi produttivi locali, fondati sulla messa in valore delle peculiarità dei patrimoni stessi, e così via”. (A. Magnaghi, Relazione introduttiva a La democrazia dei luoghi e forme di autogoverno comunitario, Castel del Monte 15/17 Novembre 2018).
Il percorso da seguire potrebbe essere sintetizzato in uno slogan: dai gruppi di acquisto ai gruppi di coproduzione; dai “patti” tra consumatori e produttori all’ “alleanza” tra abitanti, cittadini e rurali (agricittadini). La logica del “patto” presenta qualche antipatia perché è di natura contrattuale/commerciale tra soggetti che rimangono separati se non contrapposti nei rispettivi interessi immediati (attenti a non fregarsi a vicenda!). La logica dell’alleanza, invece, è fusionale, interdipendente, simbiotica, fiduciari, donativa: io mi impegno a magiare ciò che tu produci e tu produci ciò che io mangio; tu mi liberi dalla costrizione di dover andare a comprare ciò di cui ho bisogno al supermercato, io ti libero dal giogo che ti obbliga a conferire la tua produzione a intermediatori “terzi”, al mercato all’ingrosso. Insieme usciamo dalla logica di mercato in cui la domanda e l’offerta vengono inesorabilmente determinate dal prezzo e non dal buono, dall’utile, dall’equo, dal sostenibile. Finalmente, si ricompone la separazione tra produzione e consumo; la scissione alienante tra attività lavorativa etero diretta e riproduzione della vita.
Ma come si può immaginare di realizzare tale alleanza? La risposta sta nel riconoscimento dell’esistenza di un comune interesse, di una cointeressenza nella costruzione di un livello superiore d’azione che solo può farci raggiungere un benessere collettivo, un buon vivere e una buona vita. Ricordiamoci sempre che “nessuno si salva da solo”! Pensiamoci come una comunità scelta, aperta, inclusiva, solidale, propositiva, capace di creare reti orizzontali non gerarchiche (che non “irretiscano” e burocratizzino le relazioni umane spontanee e dirette che solo le associazioni volontarie di cittadini sanno garantire), ma al contrario che connettano quelle esperienze accumunate dagli stessi valori di fondo: imprese che operano secondo modelli cooperativistici e mutualistici, fondazioni di comunità, gruppi di finanza etica, di coworking e open source, cohousing ed ecovillaggi, ecc. ecc. Insomma, tutto il grande e largo mondo dell’economia eco-solidale (SSE, Social end Solidarity Economy, nel linguaggio internazionale adottato dalle agenzie Onu). Comprendendo in questo mondo anche i gruppi, i comitati, le associazioni, i movimenti che si battono per la salute e la salubrità degli habitat naturali, contro le distruzioni ambientali e la giustizia sociale.

Agire localmente
Le vecchie categorie del produttore e del consumatore si ritrovano unite in un progetto integrato e multiattoriale di comunità fondate sulla qualità delle vite e dei lavori. I consumatori critici e i produttori consapevoli alzano il loro punto di vista su un orizzonte allargato che consente una visione d’insieme. Assieme elaborano un progetto complessivo multifattoriale di comunità territoriale. Creano quella “calda e civile coralità produttiva” evocata da Giacomo Becattini. Assieme rivendicano un governo e una gestione del patrimonio territoriale locale fondato sulla cura dei luoghi e sulla rifunzionalizzazione dei sistemi primari che supportano i servizi ecosistemici. Assieme immaginano una “ergonomia del territorio”, un assetto idro-geo-morfologico funzionale alla rigenerazione e al potenziamento dei cicli biologici e della biodiversità.
In tal modo le funzioni urbane e quelle agricole si andranno ad intrecciare, cosicché i loro abitanti saranno chiamati ad una cooperazione multisettoriale. Gli assetti organizzativi del territorio (infrastrutture, piattaforme, servizi, ecc.) verranno via-via ri-funzionalizzati partendo dallo scopo primario di garantire a tutti gli abitanti la autonomia e la autodeterminazione alimentare della comunità. Poiché si sa che le grandi trasformazioni si attuano a piccoli passi, questo processo di trasformazione globale non può che partire restituendo all’azione locale la centralità del processo. Come dice Sergio De La Pierre va riconosciuto “il valore universale del locale”.
Man mano che crescerà la consapevolezza e il desiderio di una tale pianificazione dal basso della domanda alimentare commisurata alle possibilità reali produttive del territorio, si creeranno istituti di autogoverno (cooperative di produzione e consumo, cooperative e fondazioni di comunità, politiche urbane per lo sviluppo agricolo e rurale, Food Policy Council, ecc.), vere “palestre di democrazia”, come le chiama Francesca Forno.

*Testo dell’intervento all’incontro promosso da Aequos e Des-Varese a Saronno il 25 novembre 2018, “Lezioni di futuro. I Gas nell’economia solidale: storia e prospettive”


Alternative reali sul cambio climatico - Silvia Ribeiro



Esistono alternative reali, giuste e salutari per frenare il cambiamento climatico e recenti studi scientifici lo dimostrano, contrariamente a quanti propongono opzioni speculative, teoriche e altamente rischiose come la geo-ingegneria climatica.
Il rapporto Missing Pathways to 1,5 (quanto manca alla soglia di 1,5 gradi), mostra che garantire i diritti degli indigeni e dei contadini, ripristinare i boschi naturali e la transizione verso aree di coltura agro-ecologica, assieme a un passaggio verso diete con meno carne, sono le misure che possono ridurre alla metà le emissioni dei gas a effetto serra entro il 2050. Si stima un potenziale di riduzione di circa 23 giga tonnellate annue di diossido di carbonio o l’equivalente, che elimina la presunta necessità di utilizzare tecniche di geo-ingegneria. Inoltre, sono cambiamenti positivi per la biodiversità, le comunità indigene e contadine e per la salute di tutti.
Il documento si basa su una revisione ampia e dettagliata di recenti documenti scientifici ed è stato pubblicato nell’ottobre 2018 da una coalizione di 38 organizzazioni che lavorano per la giustizia ambientale e sociale, per il diritto alla terra e all’alimentazione e per l’agro-ecologia e la conservazione dei boschi. Gli autori principali sono Kate Dooley e Doreen Stabinsky, con la revisione e la collaborazione dell’alleanza CLARA (Climate Land, Ambition and Rights Alliance).
Lo studio esce nello stesso momento in cui l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC, per le sue iniziali in inglese)  [Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico] pubblica un nuovo rapporto su come limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, un limite che prospettano cruciale per evitare un cambiamento climatico catastrofico. In tre scenari, l’IPCC considera l’uso di tecniche di geo-ingegneria per rimuovere il diossido di carbonio dall’atmosfera, però in un altro segnala che con misure basate sulle funzioni degli ecosistemi -alcune come quelle che lo studio di CLARA individua- , sarebbe altrettanto possibile raggiungere questa meta.
Più della metà delle riduzioni di gas serra prospettate nello studio di CLARA verrebbero dal ripristino e dalla difesa dei boschi naturali e delle torbiere (un tipo di zona umida che trattiene alte quantità di carbonio e di azoto organici). Il resto si può ottenere con cambiamenti nell’agricoltura e zootecnia industriale – che è il principale fattore di deforestazione e distruzione delle zone umide-, con il recupero dei terreni e degli agro-ecosistemi, diminuendo l’uso di fertilizzanti sintetici, appoggiando sistemi agro-ecologici e locali e, da parte dei consumatori, cambiando la dieta.
Il rapporto afferma che “i diritti comunitari sulla terra e i boschi, sono l’azione climatica più efficace, efficiente ed equa che i governi possono esercitare per ridurre la loro impronta di carbonio e proteggere le foreste del mondo” . Sottolinea la necessità di affermare i diritti alla terra e al territorio delle comunità e dei popoli indigeni per raggiungere gli obiettivi fissati. Tutte le foreste del mondo sono abitate da comunità indigene, che sono le principali custodi delle foreste. Su scala globale, il possesso della metà di questi territori è rivendicato dalle comunità, ma solamente il 20 per cento ha un riconoscimento legale.
Missing Pathways to 1,5 mette anche in discussione l’utilizzo del concetto di “emissioni negative”, un termine assurdo che non esiste in alcuna lingua. È stato inventato per giustificare il mantenimento dell’emissione di gas a effetto serra che  verrebbe contrastato, in teoria, con misure tecnologiche per rimuovere il carbonio dall’atmosfera (geo-ingegneria). Un’opzione ad alto rischio che scarica il problema alle generazioni future, facendole dipendere dai padroni delle tecnologie.

Al contrario, questo rapporto presenta modi per evitare le emissioni prima che si generino, e rimuovere l’eccedenza di carbonio già accumulata nell’atmosfera mediante l’espansione dei boschi naturali con specie autoctone e l’aumento dell’agro-forestazione comunitaria, tra le altre misure.
Per quanto riguarda il sistema agroalimentare, che è il fattore di maggiori emissioni di gas a effetto serra, prospetta di ridurre i rifiuti (che la FAO stima fino al 40 per cento di quanto raccolto),  diminuire il trasporto dei prodotti alimentari, aumentare la produzione e il consumo locale, ridurre l’uso dei fertilizzanti sintetici e degli agro-chimici; ridurre e migliorare l’allevamento di bestiame, ponendo fine all’allevamento al chiuso di mucche, suini e volatili e basare la loro alimentazione sui pascoli.  In modo complementare, gli studiosi vedono come essenziale la riduzione del consumo di carne, che è molto diseguale nel mondo e quindi si rivolgono a quelli che ne consumano di più. La grande maggioranza della produzione industriale e del consumo di carne si concentra in solo sei paesi.
Si sottolinea, infine, l’errore di concentrarsi solamente sulla limitazione della temperatura, considerando la crisi climatica come un fenomeno isolato. Abbiamo bisogno di risposte olistiche alle crisi ambientali, sociali, della salute e delle altre e solamente gli approcci molteplici e sinergici forniranno le vere soluzioni, così come dimostra questo studio.
Pubblicato su La Jornada con il titolo Alternativas reales frente al cambio climático
(Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo)

giovedì 29 novembre 2018

La decrescita necessaria - Riccardo Mastini*



A tutt’oggi circa 4,3 miliardi di persone – oltre il 60% della popolazione mondiale – vivono in estrema povertà, lottando per sopravvivere con meno dell’equivalente di 5 dollari al giorno. Inoltre, la metà di queste persone è denutrita. E questi numeri sono cresciuti costantemente negli ultimi decenni. È con questi dati che Jason Hickel, professore di antropologia ed esperto di sociologia dello sviluppo, inizia il suo libro The Divide: Guida per risolvere la disuguaglianza globale che è appena stato tradotto in italiano. Lo scopo del libro è quello di smascherare la narrativa ottimistica propugnata dall’ONU e da personalità pubbliche quali Bill Gates e Steven Pinker per dimostrare come in verità risolvere la disuguaglianza globale richieda un radicale cambio di paradigma economico. Infatti, mentre la propaganda diplomatica e mediatica ci porta a credere che la povertà sia diminuita in tutto il mondo, in realtà gli unici paesi in cui questo è vero sono la Cina e qualche altro paese dell’Asia orientale. E questi sono alcuni degli unici paesi al mondo in cui la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale non sono riusciti ad imporre la dottrina neoliberista, consentendo a questi governi di perseguire politiche di protezionismo e dirigismo statale.
Ma le agenzie di sviluppo, le ONG, e i governi dei paesi ricchi cercano di convincerci che la povertà dei paesi nel Sud del mondo è un problema tecnico, che può essere risolto adottando le giuste istituzioni e le giuste politiche economiche, lavorando sodo e accettando un po’ di aiuto allo sviluppo (una forma di aiuto finanziario fornita da governi ed altre agenzie a sostegno dello sviluppo economico, sociale e politico). Ma Hickel argomenta in maniera convincente che questa retorica confortante è soltanto un inganno poiché l’intero sistema economico globale si fonda proprio sul mantenere il Sud del mondo in povertà.
Lo scambio iniquo nel corso dei secoli
L’argomento principale presentato nel libro è che il discorso sull’aiuto allo sviluppo ci distrae dal vedere il quadro più ampio. Tale narrativa nasconde le dinamiche di sfruttamento che stanno causando attivamente l’impoverimento del Sud del mondo per mano dei paesi ricchi. Il paradigma della beneficenza oscura le vere questioni in gioco: sembra che l’Occidente stia “sviluppando” i paesi poveri, quando in realtà è vero il contrario. Hickel sostiene che i paesi poveri stanno effettivamente sviluppando i paesi ricchi dalla fine del XV secolo.Nel libro è chiaramente dimostrato che il sottosviluppo nel Sud del mondo non è una condizione naturale, ma una conseguenza del modo in cui le potenze occidentali hanno organizzato il sistema economico mondiale dall’epoca del colonialismo in poi.
Ad esempio, nel 2012 (l’ultimo anno per il quale abbiamo dati completi) tutte le risorse finanziarie trasferite dai paesi ricchi a quelli poveri ammontano a poco più di 2 trilioni di dollari. Ma più del doppio di questa somma, circa 5 trilioni di dollari, è fluito in direzione opposta. In altre parole, i paesi in via di sviluppo hanno inviato 3 trilioni in più al resto del mondo di quanto abbiano ricevuto.
Ma in cosa consistono questi grandi transfer di ricchezza dal Sud del mondo? Alcuni di questi sono pagamenti sul debito. Oggi, i paesi poveri pagano ogni anno oltre 200 miliardi di dollari in interessi ai creditori stranieri, in gran parte su vecchi prestiti che sono già stati ampiamente ripagati ma che l’interesse composto ha reso delle vere e proprie sabbie mobili dalle quali è impossibile uscire. Un altro elemento è il reddito che investitori stranieri accumulano e rimpatriano. Ad esempio, basti pensare a tutti i profitti che Shell estrae dalle riserve petrolifere della Nigeria o che Anglo American plc estrae dalle miniere d’oro del Sud Africa. Altra parte considerevole di questo transfer di ricchezza ha a che fare con la fuga di capitali. Gran parte di ciò avviene attraverso “leakages” nella bilancia dei pagamenti tra paesi. Non bisogna poi dimenticare quanto viene sottratto attraverso una pratica illegale nota come “trade misinvoicing”: le multinazionali operanti nel Sud del mondo riportano falsi prezzi sulle loro fatture commerciali allo scopo di trafugare capitali direttamente nei paradisi fiscali.

Ma la perdita più significativa ha a che fare con lo sfruttamento attraverso le regole del commercio internazionale. Hickel spiega che dai tempi del colonialismo fino alla globalizzazione, l’obiettivo principale del Nord del mondo è stato quello di ridurre il costo del lavoro e delle merci acquistate dal Sud. In passato, i poteri coloniali erano in grado di dettare direttamente alle loro colonie i termini dei contratti commerciali. Oggi, poiché il commercio è tecnicamente “libero”, i paesi ricchi sono in grado di estorcere ricchezza attraverso il loro potere contrattuale. Gli accordi di libero scambio impediscono ai paesi poveri di proteggere i loro lavoratori nei modi che fanno i paesi ricchi attraverso politiche protezionistiche. E poiché le multinazionali hanno oggi la possibilità di delocalizzarsi alla ricerca della forza lavoro a più buon mercato, i paesi poveri sono costretti a competere fra di loro per ridurre le tutele per i lavoratori e per l’ambiente. Come risultato di tutto ciò, c’è un divario tra il “valore reale” del lavoro e delle materie prime che i paesi poveri vendono e i prezzi a cui queste sono effettivamente pagate. Questo è ciò che gli economisti chiamano “scambio iniquo“.
Dagli anni ’80 i paesi occidentali hanno usato il loro potere di creditori per dettare politiche economiche e commerciali ai paesi indebitati del Sud, governandoli remotamente, senza -almeno nella maggior parte dei casi- la necessità di interventi militari. Facendo leva sul debito, hanno imposto “aggiustamenti strutturali” per annullare tutte le riforme economiche che i paesi del Sud avevano faticosamente attuato nei due decenni successivi alla decolonizzazione. Nel processo, i paesi occidentali sono arrivati al punto di mettere al bando le politiche protezionistiche e keynesiane che loro stessi avevano adottato per sviluppare le loro neonate industrie nella prima metà del Novecento.
Decrescita in Occidente per un giusto sviluppo nel resto del mondo
Hickel prosegue la sua analisi interrogandosi su quali sarebbero le conseguenze se i paesi poveri fossero effettivamente lasciati liberi di sviluppare le loro economie. A tale fine, fa riferimento a uno studio dell’economista David Woodward in cui si dimostra che, dato il nostro vigente modello economico, l’eradicazione della povertà su scala globale è fisicamente impossibile.
Attualmente la principale strategia per eliminare la povertà è aumentare la crescita del PIL. L’idea è che la crescita economica aiuti a ridurre la povertà. Ma tutti i dati che abbiamo mostrano chiaramente che la crescita del PIL non avvantaggia realmente i poveri. Mentre il PIL pro capite globale è cresciuto del 65% dal 1990, il numero di persone che vivono con meno di 5 dollari al giorno è aumentato di oltre 370 milioni. Perché la crescita non aiuta a ridurre la povertà? Perché i rendimenti della crescita sono distribuiti in modo non uniforme. Il 60% più povero dell’umanità riceve solo il 5% della ricchezza generata dalla crescita economica. Il rimanente 95% del nuovo reddito va a beneficio del più ricco 40% della popolazione mondiale.
Dato questo rapporto di distribuzione, Woodward calcola che ci vorrebbero più di 200 anni per eradicare la povertà assoluta misurata a 5 dollari al giorno.E a tale fine, il PIL globale dovrebbe aumentare fino a 175 volte la sua dimensione attuale. In altre parole, abbiamo bisogno di estrarre, produrre, e consumare 175 volte più risorse naturali di quanto facciamo attualmente. Vale la pena soffermarsi un attimo a riflettere su cosa ciò effettivamente significhi. Tale crescita economica sarebbe disastrosa per la biosfera. Così facendo divoreremmo rapidamente gli ecosistemi del nostro pianeta, distruggendo le foreste, i fiumi, i suoli, e il clima.

Secondo i dati raccolti dai ricercatori del centro di ricerca Global Footprint Network, il nostro pianeta ha una “capacità ecologica” sufficiente per assicurare ad ogni essere umano sulla Terra un massimo di 1,8 ettari globali di impronta ecologica annua. Tale un’unità tiene conto della quantità di suolo necessario per estrarre risorse, assorbire rifiuti, e mitigare emissioni di CO2. Un consumo di risorse individuali in eccedenza di tale soglia implica un percorso di progressivo degrado degli ecosistemi. Un’impronta ecologica individuale di 1,8 ettari globali è approssimativamente quella del cittadino medio del Ghana o del Guatemala. In contrasto, gli europei consumano in media 4,7 ettari globali a persona, mentre negli Stati Uniti e in Canada la persona media consuma 14,4 ettari globali. Per avere un’idea di quanto sia estremo questo eccessivo consumo, basti pensare che se tutto il mondo vivesse come il cittadino medio dei paesi ricchi, avremmo bisogno della capacità ecologica equivalente a 3,4 pianeti Terra.
Gli scienziati ci dicono che anche agli attuali livelli di consumo globale stiamo già superando la capacità ecologica del nostro pianeta di circa il 60% ogni anno. E tutto ciò agli attuali livelli di attività economica aggregata, con i livelli di consumo esistenti nei paesi ricchi e poveri. Se i paesi poveri aumentassero i loro consumi fino al livello di opulenza attuale dei paesi ricchi, ciò assicurerebbe un’apocalisse ecologica. A meno che i paesi ricchi non inizino a consumare meno per liberare spazio ecologico per incrementare i livelli di sussistenza dei 4,3 miliardi di persone che vivono sotto la soglia di povertà.
Se vogliamo avere una possibilità di limitare il riscaldamento globale entro la soglia dei 2°C -che l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici pone come limite assoluto- possiamo ancora emettere un massimo 805 gigatonnellate di CO2 a livello globale. Allo stesso tempo dobbiamo anche accettare che i paesi poveri avranno diritto ad utilizzare usare una parte più cospicua di questo budget di CO2per far crescere le loro economie quanto basta per eliminare la povertà. Tale principio è già sancito negli accordi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici dove si riconosce che tutti i paesi hanno una “responsabilità comune ma differenziata” per ridurre le emissioni. Poiché i paesi poveri hanno contribuito meno alle emissioni storiche, hanno il diritto di utilizzare una fetta più generosa del bilancio di CO2 restante rispetto ai paesi ricchi. Ciò significa che noi cittadini dei paesi ricchi dobbiamo accontentarci di ciò che resta di tale budget.

L’autorevole climatologo Kevin Anderson ha studiato potenziali scenari di riduzione delle emissioni a livello globale alla luce dei principi di giustizia spiegati sopra. Se vogliamo avere una probabilità del 50% di rimanere sotto i 2°C, c’è fondamentalmente solo un modo fattibile per farlo: i paesi poveri possono continuare a far crescere le loro economie al ritmo attuale fino al 2025. Non è un tempo molto lungo, quindi questa strategia per eradicare la povertà funzionerà solo se i proventi della crescita economica vengono redistribuiti in maniera estremamente progressiva. Per quanto riguarda i paesi ricchi, l’unico modo di limitare le proprie emissioni alla quota restante del budget di CO2 è tagliare le emissioni in modo radicale, di circa il 10% all’anno. I miglioramenti nell’efficienza energetica e l’energia rinnovabile contribuiranno a ridurre le emissioni di massimo il 4% all’anno. Ma per colmare il gap restante, i paesi ricchi dovranno ridurre i loro consumi di circa il 6% ogni anno. E i paesi poveri dovranno seguire tale esempio dopo il 2025, ridimensionando l’attività economica di circa il 3% all’anno.
Hickel conclude il libro affermando che affinché una strategia di ridimensionamento dei consumi di tale portata non si trasformi in un collasso socio-economico è necessario che un paese adotti una politica didecrescita. Ciò consiste nel tagliare i consumi dei più ricchi, ridistribuire la ricchezza già accumulata, e liberarci dell’ideologia del consumismo. Alla luce di ciò, non dovremmo più considerare paesi come il Costa Rica “sottosviluppati”, ma piuttosto come “adeguatamente sviluppati”. Dovremmo perciò guardare alle società in cui le persone hanno una lunga aspettativa di vita, livelli di pace sociale e felicità individuale elevati, e al contempo bassi livelli di consumo come esempi da seguire.

* Dottorando in economia ecologica e ecologia politica all’ Institute of Environmental Science and Technology della Universitat Autònoma de Barcelona. Lo potete seguire su Twitter a @r_mastini e leggere i suoi articoli sul suo sito“.



sabato 24 novembre 2018

Bocciate quel trattato - Monica Di Sisto





Bocciare la ratifica del trattato di liberalizzazione commerciale EU-Canada, il CETA, in Parlamento italiano, prima che le Elezioni europee entrino nel vivo. E’ la richiesta fatta al governo Conte dalla nostra Campagna Stop TTIP/CETA Italia, con un intenso TweetStorm, che ha scalato i trend topic nazionali e con un mailbombing che andrà avanti fino a domenica 25 novembre. Una richiesta che si basa sugli impegni pre-elettorali #NoCETA #Nontratto sottoscritti da Lega e M5S, come da molti altri parlamentari d’opposizione, e che virtualmente allinea su questa richiesta circa 4/5 di chi siede oggi sugli scranni di Camera e Senato.Il ministro per lo Sviluppo Economico Luigi Di Maio, interrogato dalla senatrice di Liberi e Uguali Loredana De Petris – membro dell’Integruppo parlamentare #NoCETA – ha ribadito che “il CETA così com’è non è ratificabile”,ma ha aggiunto che “è al lavoro una Task force per approfondire questo tema e resta nostro obiettivo dimostrare tutti i motivi per cui così com’è stato proposto non sia modificabile”. Lasciando, dunque, intendere che la decisione non sia presa. La Task Force istituita presso il Ministero dello Sviluppo economico, che ha discusso la prima volta di CETA martedì 20 novembre, fa una non meglio precisata analisi costi-benefici, tagliando fuori una valutazione politica che dovrebbe essere il cuore della decisione. La Tuft University ha dimostrato inoltre che, calcolandoli con i metodi delle Nazioni Unite e non della Banca Mondiale, le proiezioni sono molto diverse da quelle ottimistiche della Commissione UE. A un tipo di valutazione schiacciata sull’import-export, inoltre, sfugge la valutazione del lavorìo non trasparente di avvicinamento normativo che il CETA ha innescato su sicurezza sanitaria e fitosanitaria del cibo, biotecnologie, chimica e ambiente.In un incontro tra le due parti, al centro di un’interrogazione dei senatori M5S Fattori e Lannutti, il Canada ha chiesto all’Europa di chiarire con prove e dossier perché Paesi come l’Italia vietano alcuni utilizzi dell’erbicida Glifosate, cancerogeno secondo recenti sentenze, nonostante ne sia stata rinnovata l’autorizzazione. Ha chiesto un elenco delle leggi che Commissione e Stati UE intendono introdurre su queste tematiche in base al diritto, sancito dal CETA, di commentarle e pretendere – se del caso – motivazioni e emendamenti. In un incontro sul biotech il Canada si è lamentato che l’Europa fosse troppo lenta nell’autorizzazione degli Ogm e poco attiva nell’apertura del mercato ai nuovi Ogm. Curiosamente, nonostante la Corte europea di Giustizia abbia sancito che, vecchi e muovi Ogm vadano tracciati e etichettati, la Commissione europea preme per emendare questa decisione e “far largo alle evidenze scientifiche”, proprio come richiesto dal Canada, tra i principali produttori di Ogm globali, nella riunione del Comitato.Il Canada, da ultimo, ha rinnovato l’accordo di libero scambio con Stati Uniti e Messico (USMCA, il nuovo Nafta), che ci crea alcuni nuovi problemi: i prodotti contenenti Ogm vecchi e nuovi in entrata in Canada non saranno più identificati con codici doganali specifici, rendendo impossibile distinguerli in uscita senza analisi genetiche, completamente a carico dei sistemi di controllo. Nessun prodotto proveniente dagli Usa potrà essere fermato precauzionalmente prima che si completi un’intera analisi di rischio, e nel frattempo potrà continuare ad essere riesportato dal Canada visto che i prodotti non dovranno recare l’origine in etichetta. Buona notizia per il Canada, è che il USMCA non contiene più la clausola ISDS “il meccanismo di risoluzione delle dispute tra Stato e investitori che nel passato autorizzava le imprese straniere a fare causa al Canada – ha spiegato la ministro canadese ed ex negoziatrice del CETA Christya Freeland, indicandolo come il risultato di cui è più fiera. Questo significa che possiamo fare le nostre leggi, sulla salute pubblica e la sicurezza ad esempio, senza il rischio di essere chiamati a processo dalle corporations straniere. Questa possibilità è costata al contribuente canadese oltre 300 milioni in penali e costi legali”, ha ben spiegato la ministra. Peccato che nel CETA c’è ancora, entrerà in vigore con la ratifica del Trattato, e permetterà alle imprese canadesi di farci causa se le nostre regole dovessero dispiacergli. Argomenti pesanti, che dovrebbero portare un governo responsabile a bocciare il CETA come promesso molti mesi fa.

martedì 20 novembre 2018

CISGIORDANIA. Airbnb cancella le case dei coloni


Il colosso Airbnb ha annunciato che cancellerà dai propri cataloghi circa 200 case e appartamenti dati in affitto dai coloni israeliani insediati nella Cisgiordania occupata palestinese. Risultato? Un colpo duro alla normalizzazione, anche attraverso il turismo, delle colonie israeliane costruite in violazione del diritto internazionale in terra palestinese. “Abbiamo deciso di cancellare le offerte che giungono da insediamenti nella Cisgiordania occupata, che si trova al centro della disputa fra israeliani e palestinesi” ha fatto sapere Airbnb in un comunicato.
La decisione è frutto delle proteste palestinesi che vanno avanti da quasi due anni contro la presenza negli elenchi di Airbnb di case situate in Cisgiordania ma indicate come territorio israeliano dai proprietari. La decisione del portale online che mette in contatto persone in cerca di un alloggio o di una camera per brevi periodi ha scatenato la prevedibile rabbia del governo Netanyahu. Il ministro del turismo Yariv Levin ha minacciato ritorsioni e ha parlato di una scelta “discriminatoria, vergognosa e miserevole”. Per il titolare del dicastero degli affari strategici Gilad Erdan si tratta di una “posizione razzista” nei confronti dei cittadini israeliani.
Di tutt’altro umore sono ovviamente i palestinesi. Per il negoziatore palestinese Saeb Erekat, la decisione di Airbnb è un “primo passo positivo”, ma ha aggiunto che andrebbe anche precisato che le colonie sono “illegali e costituiscono crimini di guerra”. “Ribadiamo il nostro invito al Consiglio dei diritti umani dell’Onu di rilasciare il database delle compagnie che traggono giovamento dall’occupazione coloniale israeliana” ha poi aggiunto.
Walid Assaf, il capo della Commissione dell’Autorità palestinese contro il muro e le colonie, ha invece detto al portale israeliano The Times of Israel che questa presa di posizione di Airbnb farà avanzare la soluzione a due stati che “Israele vorrebbe cancellare attraverso la costruzione delle colonie”.

domenica 18 novembre 2018

Liberia, la dittatura delle multinazionali che acuisce la povertà - Moses Uneh Yahmia




A differenza di altri Paesi della regione subsahariana, la Liberia non è mai stata formalmente colonizzata dall’imperialismo europeo. In altre parole, questa nazione dell’Africa occidentale non è stata né militarmente né politicamente occupata da nessuno degli Stati colonizzatori che hanno dato origine a una penetrazione incontrastata di capitali stranieri destinati a un colossale sfruttamento e all’esportazione di materia prima dal suolo e sottosuolo dopo la partizione dell’Africa svoltasi durante la Conferenza di Berlino (1884-1885).
Tuttavia, il sistema sociale della Liberia ha prodotto la contraddizione della “dittatura delle multinazionali” – un saccheggio generalizzato della ricchezza e del popolo da parte di multinazionali straniere appartenenti alle potenze coloniali. Non voglio rinnegare le contraddizioni in quanto sono aspetti reciprocamente opposti che esistono in tutti i fenomeni, siano essi in natura, nella società o nei pensieri umani. Ovunque esistano contraddizioni, la lotta interna degli opposti in quei fenomeni è ciò che genera una nuova fase di sviluppo umano e una nuova forma di contraddizioni, nonché nuovi metodi per risolverli.
Nel nostro studio sullo Stato liberiano, ci sono due aspetti opposti nella contraddizione della dittatura delle multinazionali.  Da un lato, c’è la classe sfruttatrice, che consiste nei proprietari delle multinazionali e i loro alleati nella burocrazia statale. Dall’altro, ci sono le classi sfruttate, che consistono in operai, agricoltori e masse di poveri. I primi sono i principali elementi della contraddizione mentre gli operai, gli agricoltori e le masse di poveri sono l’elemento secondario. E, naturalmente, l’elemento principale di ogni contraddizione è ciò che determina la natura di tale fenomeno, o processo.
L’elemento principale della particolare contraddizione liberiana sfrutta il lavoro e le risorse del Paese ed esporta il plusvalore, stanziandone poco per cambiare la qualità della società al fine di spianare la strada alla produzione industriale di beni e servizi. È a causa di questa ineguale relazione con i mezzi di produzione che la natura della società liberiana è caratterizzata come sottosviluppata, impoverita e arretrata.
Le multinazionali, con il loro capitale internazionale, posseggono le proprietà produttive della Liberia.Hanno acquisito questi strumenti di produzione attraverso le relazioni asimmetriche tra ceto medio e multinazionali. In tale contesto, la classe media ha sposato il capitale straniero non allo scopo di trasformare la patria, ma per esportare e sfruttare le risorse del nostro Paese nella loro varietà più grezza.
Ora, le multinazionali accumulano un enorme plusvalore e, a loro volta, danno briciole ai lacchè locali, una classe media che non fa parte del processo produttivo, ma occupa posizioni nei vari apparati statali. Questa relazione sociale di produzione fu consolidata dalla cosiddetta politica “della porta aperta” di William Tubman dopo la seconda guerra imperialista. Le leggi dello Stato sono elaborate attorno a questo sistema, che molti studiosi progressisti africani chiamano capitalismo neocoloniale.
Questo sistema sociale facilita l’acquisizione dei mezzi di produzione da parte delle multinazionali. Attualmente, come anche in passato, le multinazionali posseggono il ferro, la gomma, l’oro, il legname, i mega hotel, le telecomunicazioni, ecc... Arcelor Mittal, uno dei giganti mondiali dell’acciaio, è qui in Liberia, non produce acciaio ma sfrutta il minerale di ferro esportandolo nel suo stato grezzo verso economie avanzate. Firestone si trova in Liberia dal 1926, coltivando, raccogliendo ed esportando gomma nella sua forma di lattice. Anche Liberty Gold Mining si trova qui. Così come la MNG Gold MiningGolden VeroleumSime DarbyFarmington HotelRoyal Grand HotelBoulevard PalaceLonestar, MTN, Orange ecc, tutti presenti sul territorio.
Nei vari centri di produzione, i lavoratori producono ricchezza chiamata plusvalore. Ricevono somme miserabili in “cosiddetti” salari che non possono soddisfare i loro bisogni primari di beni e servizi (che però contribuiscono a produrre). Il plusvalore prodotto dalle montagne, dal suolo, dalla foresta, ecc. viene sfruttato dai proprietari dei mezzi di produzione, incluso il lavoro degli operai, per accumulare ricchezza attraverso la massimizzazione del profitto privato. Il plusvalore viene esportato invece di essere reinvestitonell’economia liberiana; portando così alla sottoutilizzazione della produttività del lavoro.
Ad un certo punto, l’incentivo del profitto privato porta all’espansione della produzione, cosa che implica l’uso di tecnologie che inquinano l’ambiente. Quando i lavoratori e gli abitanti delle comunità si oppongono, l’esercito viene inviato per annientare la resistenza. Un caso di riferimento è l’inquinamento delle comunità di Kokoya, della contea di Bong, da parte della miniera d’oro MNG e l’apatia delle persone a ribellarsi per timore di rappresaglie da parte dello Stato.
Quando si crea una situazione economica dove si verifica uno spostamento verso il basso della domanda di beni o servizi, portando così al crollo del reddito totale, i lavoratori, la cui manodopera è l’unica merce che produce ricchezza mentre viene consumata, sono colpiti sia dal taglio dei salari che dei posti di lavoro.Quando si contesta questa situazione attraverso gli scioperi, l’esercito viene inviato a sparare ai lavoratori. La rappresaglia avvenuta quest’anno dell’Unità di risposta di emergenza della Polizia nazionale della Liberia contro gli operai in protesta presso la miniera Liberty Gold a Kinjor, nella contea di Grand Cape Mount, è un caso emblematico. I lavoratori chiedevano incrementi salariali e migliori condizioni di lavoro nei siti minerari. Lo Stato ha risposto con violenza e condanne, anche da parte del Capo del Consiglio tradizionale, Zanzan Kawar.
Quando il Consiglio di Amministrazione, all’oscuro dei lavoratori, decide di chiudere i centri di produzione a causa del calo dei livelli di profitto, gli operai vengono licenziati e lo Stato non fa nulla nell’interesse delle masse lavoratrici, ma giustifica le azioni delle multinazionali. La Putu Iron Mining Company e la China Union, rispettivamente nelle contee di Grand Gedeh e Bong, hanno chiuso le operazioni, causando la perdita di centinaia di posti di lavoro. Fino ad ora, molti lavoratori non hanno ottenuto le loro indennità e lo Stato non sta facendo nulla per rimediare a questa situazione.
Girano voci che la Lonestar Cell MTN e Orange Liberia, gli unici due fornitori di servizi di telecomunicazione nel Paese, abbiano recentemente minacciato di chiudere a causa di un colossale calo dei loro margini di profitto. Per salvare i cosiddetti investimenti, lo Stato, sotto lo sguardo vigile del presidente George Weah, ha reagito aumentando le tariffe sulle chiamate internazionali di 0,05 centesimi di dollari. I cittadini che comunicano con famiglie, amici e persone care all’estero, saranno molto colpiti.
Il coinvolgimento del Capo Zanzan Kawar nella repressione e negli abusi contro il nostro popolo, deve ora portarci alla conclusione che l’aiuto e il favoreggiamento dell’emarginazione di masse di persone da parte di un segmento della popolazione non dovrebbe mai essere considerato dal punto di vista di dominazione della minoranza americo-liberiana contro la maggioranza dei liberiani nativi. Nel corso della storia del nostro Paese, la sottomissione delle masse da parte della classe sfruttatrice è sempre stata orchestrata dalle due formazioni sociali élite “Nativi e Congau”, solo che per molto tempo la setta sociale “Congau” è stata a capo di tale alleanza. La sottrazione della terra dei nativi nel 1822 non fu fatta senza il consenso dei capi dell’élite nativa. Persino la cessione di manovali a basso costo alla Firestone Liberia negli anni venti fu aiutata e favorita dai capi dell’élite nativa.
Durante la presidenza di Ellen Johnson Sirleaf, una donna di origine americana-liberiana, l’Assemblea Nazionale era dominata dalle cosiddette élites di nativi istruiti. Prima del 2012, la Presidente aveva inviato alla legislatura nazionale 68 accordi di concessione tra il Governo e le multinazionali per una rettifica. L’Assemblea, prevalentemente di nativi e senza un’adeguata e necessaria diligenza, ha convertito in legge tutti gli accordi. Un rapporto di ispezione di Moore Stephen del 2012 ha rivelato che 66 dei 68 accordi erano stati firmati in modo fasullo. Quindi, la formazione delle classi nella società umana non è mai basata su razza, tribù, religione, fasce sociali, ecc.,  sebbene i membri di queste formazioni sociali facciano parte della classe sfruttatrice o sfruttata. Il punto cruciale del dibattito è che la formazione della classi è sempre stata formulata sulla base del rapporto con le proprietà della produzione – ossia quelle che producono la ricchezza della società umana.

Durante la schiavitù, la classe sfruttata era composta da schiavi mentre la classe sfruttatrice era composta dai loro padroni. Durante il feudalesimo, la classe sfruttata era costituita dai servi, mentre la classe sfruttatrice era costituita dai signori feudali. Nell’attuale capitalismo, specialmente nei Paesi capitalisti avanzati, la classe sfruttata è quella operaia o ciò che chiamiamo “proletariato” – coloro che producono ricchezza a vari livelli, ma non svolgono alcuna parte democratica nel modo in cui tale ricchezza viene distribuita. La classe sfruttatrice è la classe dominante o la borghesia – i proprietari dei mezzi di produzione che sfruttano il lavoro degli operai per accumulare ricchezza attraverso i valori in eccesso. Ci sono operai neri e ci sono borghesi neri. Ci sono lavoratori bianchi e ci sono proprietari bianchi delle proprietà di produzione.
Questo è il motivo per cui i leader dei diritti civili come George P. Jackson negli Stati Uniti d’America non hanno limitato la loro lotta all’abolizione del razzismo, ma l’hanno estesa anche al modello di proprietà dei mezzi di produzione e quindi alla lotta di classe – la liberazione del lavoro dallo sfruttamento del capitale. Affrontare solo la questione della razza e ignorare il modello della proprietà della ricchezza e dei mezzi di produzione sarebbe stato come occuparsi dell’effetto e tralasciare la causa.
Allo stesso modo, la lotta per la liberazione africana non si limitava solo a liberare il continente dei colonialisti bianchi, ma voleva anche evitare la creazione di colonialisti neri.
In Liberia, come abbiamo già detto, la classe sfruttata consiste di lavoratori, agricoltori e masse povere, mentre la classe sfruttatrice è costituita dai proprietari delle multinazionali, prevalentemente di proprietà di capitali stranieri.
Nel corso della storia, la Liberia non ha mai davvero prodotto una borghesia indigena. La classe borghese liberiana si trova nella burocrazia statale. Questa classe, formata da liberali elitari che occupano posizioni nei tre rami del Governo, crea leggi favorevoli allo sfruttamento senza ostacoli delle risorse e della classe lavoratrice da parte delle multinazionali. Questo è il motivo per cui diciamo che il sistema sociale ha prodotto la contraddizione della “Dittatura delle multinazionali“.
Il potere dello Stato è esercitato nell’interesse delle multinazionali anche se gli apparati (esecutivo, legislativo e giudiziario) sono stati istituiti democraticamente dagli operai, dagli agricoltori e dalle masse povere per agire nel loro interesse. Paradossalmente, quando i lavoratori resistono al loro sfruttamento da parte delle multinazionali, il potere statale invia il corpo armato a schiacciare queste azioni di classe. Quando il popolo ha protestato contro il Golden Veroleum per aver dissacrato i loro santuari tradizionali nella contea di Sinoe, lo Stato ha inviato l’Unità di risposta alle emergenze per frenare violentemente l’azione delle masse rurali.
La realtà è che gli individui che occupano i vari apparati dello Stato, indipendentemente dal fatto che siano “Nativi” o “Congau”, dipendono dalle multinazionali per la loro sopravvivenza economica. Parte del plusvalore sfruttato dalla ricchezza prodotta dai lavoratori è pagata al Governo sotto forma di tasse e affitti. Invece di utilizzare tali fondi per cambiare la qualità della società liberiana (istruzione, sanità, infrastrutture, ecc.), vengono dirottati verso gli enormi stipendi e benefici dei burocrati.
Il budget dell’ufficio del presidente è di 21 milioni di dollari per l’anno fiscale 2018/2019, mentre non vi è una quota per migliorare l’istruzione tecnica e professionale nel Paese. Un ministro dell’Esecutivo prende circa 7.800 dollari, oltre ad altri benefici mensili. Non è un segreto che un legislatore dell’Assemblea guadagna più di 14.000 dollari, oltre ad altri compensi. Lo stesso si può dire della magistratura! In tutto ciò, la Liberia rimane la cittadella dell’analfabetismo, delle malattie e della povertà – condizioni, che riproducono gli altri segmenti della classe sfruttata (agricoltori poveri nelle comunità rurali e masse povere nei centri urbani).
La contraddizione della “dittatura delle multinazionali” è in vigore da quando il Paese è stato inserito nell’ordine capitalista neocoloniale, sebbene ci siano stati cambiamenti minuscoli. Questi cambiamenti sono avvenuti solo relativamente a chi occupa gli apparati del potere statale/burocratico. Ciò ha lasciato irrisolte le contraddizioni sociali. Così, le colpe della crisi sociale in Liberia sono state continuamente fatte ricadere sulla leadership disonesta e corrotta, sulle divisioni tribali e religiose, sull’analfabetismo di massa delle persone, ecc…
Ma queste sono solo alcune contraddizioni nate e sviluppate come risultato della continua esistenza e sviluppo della dittatura delle multinazionali, che è la contraddizione principale, o comunque peculiare, nella società liberiana. Una volta che questa contraddizione viene risolta, la società liberiana potrebbe entrare in una nuova fase di sviluppo socioeconomico.
Come vale per ogni contraddizione, il continuo dominio dell’aspetto principale va di pari passo con la lotta dell’opposto, che è il polo secondario. È questa lotta degli opposti che porta a un salto nel processo di sviluppo. Con questo, il cambiamento quantitativo si trasforma in cambiamento qualitativo. Gli sfruttati diventano sfruttatori mentre gli sfruttatori diventano sfruttati. Questo passaggio dal principale al secondario e dal secondario al principale è una semplice logica dialettica. Nulla è definitivo. Tutto è in costante movimento, sempre in evoluzione, tutto nasce e scompare.
Nel contesto liberiano, la “dittatura delle multinazionali” è sempre stata alimentata da regimi reazionari emersi dalla classe dominante, ma la lotta di tutti i segmenti della classe sfruttata si è sempre rivolta contro queste forze nella classe al potere e in un modo o nell’altro ha portato alla trasformazione della quantità in qualità. Questo “salto” nel processo di sviluppo fu sperimentato il 12 aprile 1980 quando le masse sostennero in modo schiacciante il rovesciamento militare dell’oligarchia decadente del Partito True Whig. Un altro salto è avvenuto il 24 dicembre 1989, quando la gente accolse l’insurrezione di Charles Taylor contro il despota Samuel K. Doe e successivamente l’espulsione di Charles Taylor nel 2003 da parte di due forze ribelli.
Ma queste lotte non hanno portato a una vera e propria nuova fase di sviluppo in cui le persone hanno preso possesso delle proprietà della produzione e sviluppato le forze produttive a vantaggio di tutti. Il cambiamento si è riflesso solo in relazione al cambiamento di coloro che occupano il potere statale, mentre i rapporti di produzione rimangono gli stessi – un monopolio straniero sui mezzi di produzione.
Questa distorsione nel processo di sviluppo è dovuta solo alla mancanza di un partito rivoluzionario che comprenda il cambiamento quantitativo nella posizione delle masse e della classe sfruttatrice, un partito che finora non ha individuato la giusta leadership innovativa e creato programmi per concentrare la lotta contro le diverse forze reazionarie e costruire un ampio fronte unito per guidare una trasformazione sociale.
Alcuni intellettuali riuniti sotto l’etichetta di “Forze progressiste”, sono emersi negli anni ’70 per svolgere un ruolo rivoluzionario di avanguardia, ma sono stati schiacciati prima dalle forze combinate della classe sfruttatrice nel 1980 con l’orchestrazione del colpo di stato militare, poi, nel 1984, quando Samuel K. Doe, con il sostegno di elementi reazionari interni ed esterni, bandì i due partiti progressisti dalla partecipazione alle elezioni generali del 1985.
Infine, l’annientamento delle forze progressiste è culminato nel 1989, quando ogni sforzo per far avanzare la rivoluzione d’avanguardia è stato sabotato da alcune potenze globali che avevano interesse nella Guerra Fredda nonché collegamenti con la maggior parte delle multinazionali in Liberia. Questa mancanza di un’avanguardia rivoluzionaria che faciliti il passaggio dalla quantità alla qualità, ha portato all’emergere di diversi regimi reazionari, incluso il Governo dell’attuale presidente George Manneh Weah. Il nostro dovere ora è di non ripetere i fatali errori della nostra storia!
Lottare o morire – Non c’è una terza via!
*Moses Uneh Yahmia è uno studente di Scienze politiche ed economiche presso l’Università della Liberia.

[Traduzione a cura di Elena Intra dall’articolo originale di Moses Uneh Yahmia pubblicato su Pambazuka]