Le corporations hanno diritti. Perché non
dovrebbero averne i fiumi? Con questo titolo, il 26 settembre 2017,
il New York Times ha commentato la notizia che, il
giorno precedente, il fiume Colorado aveva citato in giudizio l’omonimo stato,
chiedendo di essere giuridicamente riconosciuto come “persona”, al fine
di poter “difendere la propria vita e integrità”.
L’istanza, firmata da alcuni abitanti di
Denver autonominatisi tutori del fiume, con il sostegno di Deep Green
Resistance, un’organizzazione per la protezione degli ecosistemi vulnerabili, il cui
obiettivo dichiarato è “togliere ai ricchi il diritto di rubare ai
poveri, e ai potenti il diritto di distruggere il pianeta”, è stata respinta.
La vertenza, però, ha suscitato
attenzione per il suo carattere potenzialmente rivoluzionario rispetto
all’attuale legislazione ambientale. Non a caso, i rappresentanti delle
istituzioni hanno opposto un totale rifiuto a discutere nel merito la memoria
preparata dall’avvocato Jason Flores- Williams, con l’aiuto del Community
Environmental Legal Defence Fund, un gruppo di legali che offre
consulenza gratuita alle comunità che vogliono proteggere l’ambiente.
Il 17 ottobre, l’avvocato dello stato ha
chiesto l’archiviazione del procedimento, sostenendo che, “in assenza di danni
documentati” l’azione non era ammissibile e che, in ogni caso, non esiste nessuna
giustificazione alla pretesa di definire “persone” gli oggetti inanimati come
“il suolo, l’acqua e le piante”.
Quindi, il 6 novembre, l’avvocato
Flores-Williams ha presentato una nuova istanza ed elaborato in dettaglio
le motivazioni a sostegno della richiesta di considerare il fiume
una “persona”, in analogia a quanto avviene “con una nave, una congregazione
ecclesiastica, una corporation commerciale”. In particolare, nel ricorso
si sottolinea che il Colorado, durante i suoi circa 70 milioni di anni di
vita, ha reso possibile la vita nella parte occidentale degli Stati Uniti da
quando gli uomini vi si sono insediati, ma ciononostante, essendo considerato
inanimato, non può
nominare un avvocato, difendersi e assicurarsi il diritto di “esistere, fiorire,
rigenerarsi ed evolvere naturalmente”. Al contrario, una corporation, che può
essere istituita in pochi minuti con una carta di credito, può “essere
proprietaria di ampie porzioni di natura, emettere azioni, aprire un
conto in banca, stipulare contratti, chiedere risarcimenti per mancati
profitti, investire quantità di denaro senza limiti a favore dei suoi candidati
politici favoriti e godere della libertà di parola per fare propaganda,
ancorché ingannevole”.
Il 16 novembre, l’avvocato dello stato
ha inviato una lettera intimidatoria a Flores-Williams minacciandolo di
censura, cancellazione dall'albo professionale, oltre che di una enorme
sanzione pecuniaria per aver fatto “perdere tempo al tribunale con obiettivi
impropri e frivole argomentazioni” e per aver messo in discussione “il
ruolo e l’autorità dello stato nell'amministrare le risorse naturali per uso
pubblico”. Il 28 novembre, Flores-Williams ha risposto che non si sarebbe fatto
intimorire, ma di fronte alla gravità delle minacce ha dovuto cedere. Il 3
dicembre ha ritirato l’istanza, ed il giorno dopo il tribunale
ha dichiarato decaduta la causa.
Al di là del risultato concreto,
la vicenda ha contribuito ad alimentare il dibattitosull’iniquità del
criterio dominante, secondo il quale solo chi dimostra di aver subito “un danno
significativo” può citare in giudizio chi distrugge l’ambiente.
I mezzi di informazione hanno anche dato
conto di precedenti casi verificatisi in altri paesi, ad esempio la Nuova
Zelanda, dove, nel marzo 2017, un tribunale ha riconosciuto al fiume Whanganui lo
status di persona e quindi gli stessi diritti di un essere umano. E hanno anche
ricordato che negli stessi Stati Uniti, quasi mezzo secolo fa, un giudice aveva
posto la questione della “inaccettabile disparità di diritti tra il fiume e le
corporations”.
Il riferimento è al parere di minoranza,
scritto nel 1972 dal giudice William Douglas nella causa promossa dal gruppo
Sierra Club contro la Walt Disney Entreprise che voleva costruire una stazione sciistica
nella Foresta nazionale delle sequoie. Anche allora l’istanza era stata
respinta, perché il gruppo ambientalista non era “direttamente toccato
dall'iniziativa e nessun danno irreparabile poteva essere provato”. Ma il
giudice Douglas aveva obiettato che “se la corporation ha diritti.. allora
anche le valli, i prati alpini, i fiumi, i laghi, gli estuari, i crinali, i
boschetti di alberi, le paludi, e perfino l’aria che sente la pressione
distruttiva della moderna tecnologia, devono avere il diritto di difendersi
legalmente”.
Tale parere viene ripetutamente citato
nella letteratura giuridica, ma non viene mai applicato. Anzi, dicono i
firmatari dell’istanza a nome del fiume Colorado, la legislazione
ambientale legalizza l’insostenibilità e, accettando la nozione che la
natura e gli ecosistemi sono proprietà di qualcuno, nel migliore dei casi si
limita a regolare la velocità alla quale l’ambiente è depredato e distrutto. Il risultato è che
il fiume Colorado “non ha abbastanza acqua per soddisfare tutti i
diritti di sfruttamento che individui o gruppi di uomini rivendicano” e la sua
acqua non riesce nemmeno più a raggiungere l’oceano. La vera questione, quindi,
è se la terra ha il diritto intrinseco di vivere o se la sua
esistenza è subordinata agli interessi degli uomini e delle loro corporation.
(*Scrittrice, già docente di urbanistica
allo Iuav di Venezia)