venerdì 20 dicembre 2024

Terre collettive, il tesoro ambientale della Sardegna - Stefano Deliperi

 

Circa 5 milioni di ettari di boschi, zone umide, terreni agricoli, coste in tutta Italia.  Sono le terre collettive, una straordinaria cassaforte di risorse naturali di grandissimo rilievo ambientale e socio-economico presente in tutte le regioni.

Dai dati molto risalenti dell’Istituto Nazionale di Economia Agraria emergeva che al 1947 erano stati oggetto di accertamento della presenza di diritti di uso civico 3.085.028 ettari (dei quali 2.596.236 gestiti dai relativi Comuni e 488.792 gestiti da Associazioni agrarie di varia denominazione), circa il 10% del territorio nazionale, mentre accertamenti successivi tuttora non completati fanno propendere per almeno altri due milioni di ettari di terre collettive.

Recentemente, dopo decenni di colpevole trascuratezza, in diversi zone c’è stata una positiva inversione di tendenza, grazie a una maggiore attenzione dovuta a vari fattori, non ultime alcune azioni legali.

E’ il caso, in particolare dei demani civici della Sardegna.

In seguito a istanze di accesso civico e informazioni ambientali inoltrata (13 giugno 2023 e 21 novembre 2024) dal Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG), l’Assessorato dell’Agricoltura e Riforma Agro-Pastorale della Regione autonoma della Sardegna ha comunicato (note prot. n. n. 13558 del 15 giugno 2023 e n. 29028 del 27 novembre 2024) importanti aggiornamenti in merito alle operazioni di trasferimento dei diritti di uso civico da terreni irrimediabilmente compromessi ad aree di elevato valore naturalistico.

Si ricorda, infatti, che la legge n. 168/2017 in materia di usi civici è stata integrata con le disposizioni poste dall’art. 63 bis della legge n. 108 del 29 luglio 2021 di conversione con modificazioni e integrazioni del decreto-legge n. 77/2021, il c.d. decreto governance PNRR) che consente il trasferimento dei diritti di uso civico da terreni ormai irrimediabilmente compromessi (es. perché edificati) ad aree provenienti dal patrimonio comunale o regionale di valore ambientale (es. boschi, coste, zone umide, ecc.).

In seguito, l’Assessorato dell’Agricoltura e Riforma Agro-Pastorale della Regione autonoma della Sardegna aveva comunicato che, dopo l’aggiornamento delle relative procedure, è stata data concreta attuazione alle nuove disposizioni nazionali.

Erano pervenute all’Assessorato regionale dell’Agricoltura e Riforma Agro-Pastorale – Direzione generale Agricoltura “n° 9 richieste di autorizzazione al trasferimento degli usi civici, presentate dai Comuni di Allai, Oristano, Santa Giusta, Siamaggiore, Benetutti, Borore, Monti, Santu Lussurgiu e Abbasanta, per le quali sono stati avviati altrettanti procedimenti amministrativi. Dei 9 procedimenti avviati 5 sono stati conclusi (rigetto per Allai e autorizzazione per Santa Giusta,Siamaggiore, Monti e Abbasanta), e gli altri 4 sono in corso di svolgimento (Oristano, Benetutti, Borore e Santu Lussurgiu)”.

Erano stati autorizzati:

*  Siamaggiore, trasferimento dei diritti di uso civico da 505 metri quadrati di area urbana edificata (Via Eleonora d’Arborea) a 730 metri quadrati di terreno agricolo (determinazione dirigenziale n. 555 del 2 agosto 2022);

* Santa Giusta, trasferimento dei diritti di uso civico di 1.060 metri quadrati da area della Caserma dei Carabinieri a terreni agricoli (determinazione dirigenziale n. 609 del 31 agosto 2022);

* Monti, trasferimento dei diritti di uso civico da 105.836 metri quadrati di area urbana edificata (abitazioni, scuola elementare, cimitero) e viabilità a 131.334 metri quadrati di terreno agricolo, macchia mediterranea, pascolo (determinazione dirigenziale n. 894 del 28 ottobre 2022);

* Abbasanta, trasferimento dei diritti di uso civico da 2.313 metri quadrati di area urbana edificata a 3.155 metri quadrati di area agricola (determinazione dirigenziale n. 419 del 17 maggio 2023).

Non è stato autorizzato il trasferimento dei diritti di uso civico proposto dal Comune di Allai, in quanto fornito di carente documentazione, non formulato con maggioranza dei due terzi del Consiglio comunale e in assenza del previsto regolamento comunale di gestione delle terre civiche (determinazione dirigenziale n. 786 del 10 ottobre 2022).

Successivamente, con determinazione dirigenziale n. 806 del 25 settembre 2023 (+ allegato), è stato autorizzato il piano di trasferimento dei diritti di uso civico proposto dal Comune di Oristano con deliberazione Consiglio comunale n. 38 del 28 luglio 2023 nella località costiera di Torre Grande: i diritti di uso civico sono stati trasferiti dall’area compresa fra la Torre spagnola e il porticciolo, ormai irreversibilmente trasformata da circa 300 edifici (più di 15 ettari), alla vicina pineta litoranea (più di 16 ettari). Così è stato rintemprato il demanio civico oristanese con una pineta di rilevante interesse ambientale ed è stata avviata la soluzione alle problematiche residenziali per centinaia di cittadini incolpevoli.

Sono stati, inoltre, autorizzati:

* Benetutti – Piano di Trasferimento delle terre civiche (da metri quadri 3.627 a metri quadri 8.324) autorizzato con determinazione. n. 933/19523 del 24 luglio 2024;

* Borore – Piano di Trasferimento terre civiche autorizzato (da metri quadri 109,87 a metri quadri 16.896) con determinazione n. 924/19301 del 22 luglio 2024;

* San Vero Milis – Autorizzazione trasferimento usi civici nelle Borgate marine (da circa ettari 12  a ettari 36,77), autorizzato con determinazione n. 8847/18637 del 16 luglio 2024;

* Lanusei – Trasferimento di uso civico su terreni comunali (deliberazione Consiglio comunale n. 21 del 31 luglio 2023), autorizzato con determinazione n. 1196/27587 del 7 dicembre 2023 (da metri quadri 4.072 a metri quadri 14.835);

* Vallermosa – Trasferimento di diritti di uso (da metri quadri 20.501 a metri quadri 43.235), autorizzato con determinazione n. 937/19551 del 25 luglio 2024.

Sono attualmente in corso di esame le seguenti richieste:

* Urzulei – Richiesta autorizzazione al trasferimento dei diritti di uso civico su altri terreni del patrimonio disponibile comunale, aree in loc. Giustizieri e Silana;

* Ardauli – Richiesta autorizzazione trasferimento usi civici (deliberazione Consiglio comunale n. 12 del 27 giugno 2024);

* Sindia – Richiesta autorizzazione trasferimento usi civici (deliberazione Consiglio comunale n. 5 del 24 marzo 2023).

Sono state, invece, respinte le seguenti richieste:

* Santu Lussurgiu – Trasferimento uso civico vari terreni comunali (deliberazione Consiglio comunale n. 48 del 28 dicembre 2022), diniego con determinazione n. 1014/25195 del 13 novembre 2023 per inidoneità dei terreni (acquisizione mediante permuta di area già a uso civico, probabilmente occupata senza titolo) su cui trasferire i diritti di uso civico;

* Ardauli – Richiesta autorizzazione trasferimento usi civici, diniego con determinazione n. 908/23597 del 24 ottobre 2023, per inidoneità dei terreni (area d’interesse archeologico, parco extraurbano) su cui trasferire i diritti di uso civico;

* Pattada – Richiesta autorizzazione al trasferimento dei diritti di uso civico su altri terreni del patrimonio disponibile comunale, diniego con determinazione  n. 327/8144 del 25 marzo 2024 per inidoneità dei terreni (parco urbano) su cui trasferire i diritti di uso civico;

* Abbasanta – Richiesta autorizzazione al trasferimento dei diritti di uso civico su altri terreni del patrimonio disponibile comunale relativamente all’immobile ex ARST, diniego con determinazione  n. 146/4167 del 12 febbraio 2024 per carenza parziale dei terreni su cui trasferire i diritti di uso civico..

L’Assessorato ha, infine, reso noto che “sono in fase di conclusione gli studi propedeutici all’accertamento per gli ultimi sette comuni nei quali gli usi civici sono ancora da accertare (Jerzu, Loceri, Osini, Riola Sardo, San Vito, Silanus e Sorgono) oltre che per tre comuni nei quali l’accertamento si sta riesaminando (Orosei, San Nicolò d’Arcidano e Villacidro)”.

Complessivamente, “al momento, sono 182 i comuni dotati del Regolamento di gestione degli usi civici approvato ai sensi dell’art. 12 della L.R. n. 12/1994, e 58 quelli dotati del Piano di Valorizzazione e recupero delle terre civiche approvato ai sensi dell’art. 10 della stessa L.R. Sia per i Regolamenti sia per i Piani di Valorizzazione molti comuni stanno provvedendo alla loro predisposizione per la successiva approvazione da parte dei Consigli Comunali e conseguente trasmissione alla Direzione Generale dell’Agricoltura per il parere di competenza.”.

Il GrIG non può che esprimere grande soddisfazione per vedere i concreti risultati in Sardegna della propria campagna per la difesa e la buona gestione delle terre collettive che da anni conduce in tutta Italia.

Che cosa sono gli usi civici?

Come noto, i terreni a uso civico e i demani civici (legge n. 1766/1927 e s.m.i.legge n. 168/2017regio decreto n. 332/1928 e s.m.i.) costituiscono un patrimonio di grandissimo rilievo per le Collettività locali, sia sotto il profilo economico-sociale che per gli aspetti di salvaguardia ambientale (valore riconosciuto sistematicamente in giurisprudenza)[1].

I diritti di uso civico sono inalienabili, indivisibili, inusucapibili e imprescrittibili (artt. 3, comma 3°, della legge n. 168/2017 e 2, 9, 12 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.). I demani civici sono tutelati ex lege con il vincolo paesaggistico (art. 142, comma 1°, lettera h, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).  Ogni atto di disposizione che comporti ablazione o che comunque incida su diritti di uso civico può essere adottato dalla pubblica amministrazione competente soltanto a particolari condizioni, previa autorizzazione regionale e verso corrispettivo di un indennizzo da corrispondere alla collettività titolare del diritto medesimo e destinato a opere permanenti di interesse pubblico generale (artt. 12 della legge n. 1766/1927 e s.m.i.).

La nuova norma per una migliore gestione dei demani civici.

Su proposta dell’on. Alberto Manca (M5S), è stato approvato l’art. 63 bis della legge n. 108 del 29 luglio 2021 di conversione con modificazioni e integrazioni del decreto-legge n. 77/2021, il c.d. decreto governance PNRR) consente alle Regioni e Province autonome di legiferare sul trasferimento dei diritti di uso civico (o la permuta) da terreni ormai irrimediabilmente compromessi (es. perché edificati) ad aree provenienti dal patrimonio comunale o regionale di valore ambientale (es. boschi, coste, zone umide, ecc.).

Così verrebbe preservato il capitale ambientale della collettività e, contemporaneamente, verrebbe offerta una soluzione per le tante famiglie incolpevoli che hanno magari realizzato la propria casa su aree a uso civico.

Legge n. 108 del 29 luglio 2021

omissis –

art. 63  bis

Modifiche all’articolo 3 della legge 20 novembre 2017, n. 168, in materia di trasferimenti di diritti di uso civico e permute aventi a oggetto terreni a uso civico

1.All’articolo 3 della legge 20 novembre 2017, n. 168, sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

«8 -bis. Le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono autorizzare trasferimenti di diritti di uso civico e permute aventi a oggetto terreni a uso civico appartenenti al demanio civico in caso di accertata e irreversibile trasformazione, a condizione che i predetti terreni:

a) abbiano irreversibilmente perso la conformazione fisica o la destinazione funzionale di terreni agrari, boschivi o pascolativi per oggettiva trasformazione prima della data di entrata in vigore della legge 8 agosto 1985, n. 431, e le eventuali opere realizzate siano state autorizzate dall’amministrazione comunale;

b) siano stati utilizzati in conformità ai vigenti strumenti di pianificazione urbanistica;

c) non siano stati trasformati in assenza dell’autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa.

8 -ter  I trasferimenti di diritti di uso civico e le permute di cui al comma 8 -bis hanno a oggetto terreni di superficie e valore ambientale equivalenti che appartengono al patrimonio disponibile dei comuni, delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano. I trasferimenti dei diritti e le permute comportano la demanializzazione dei terreni di cui al periodo precedente e a essi si applica l’articolo 142, comma 1, lettera h) , del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

8 -quater. I terreni dai quali sono trasferiti i diritti di uso civico ai sensi di quanto disposto dai commi 8 -bis e 8 -ter sono sdemanializzati e su di essi è mantenuto il vincolo paesaggistico».

2. Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

La Regione autonoma della Sardegna e la Regione Piemonte (art. 77 della legge regionale Piemonte n. 3/2003 e D.P.G.R. Piemonte n. 7/R del 2003F.A.Q.) sono state le prime ad aver predisposto una normativa finalizzata ai trasferimenti dei diritti di uso civico.

La disciplina attuativa in Sardegna.

Con la deliberazione del 10 dicembre 2021, n. 48/15 la Giunta regionale sarda ha approvato lo specifico “Atto di indirizzo interpretativo e applicativo per la gestione dei procedimenti amministrativi relativi agli usi civici di cui alla L.R. n. 12/1994, alla L. n. 1766/1927 e alla L. n. 168/2017” anche in attuazione delle disposizioni nazionali in materia di usi civici, comprese quelle sul trasferimento dei diritti di uso civico.

Successivamente sono stati approvati il decreto assessoriale n. 2539 DecA/50 dell’1 agosto 2022 – Aggiornamento delle direttive operative per lo svolgimento dei procedimenti amministrativi in materia di usi civici con il suo Allegato al decreto assessoriale n. 2539 DecA/50 dell’1 agosto 2022 e il decreto assessoriale n. 125 DecA/1 del 16 gennaio 2023 – Aggiornamento delle direttive operative in materia di mutamento di destinazione funzionale alla stipula di convenzioni tra i Comuni e l’Agenzia Forestas.

I vari procedimenti di competenza regionale in materia sono stati raccolti in un unico atto d’indirizzo, dalle procedure di accertamento all’inventario generale, dal recupero dei terreni illegittimamente occupati ai piani di valorizzazione, dai regolamenti comunali di gestione agli atti di disposizione dei terreni a uso civico, dalle competenze sulla vigilanza alle legittimazioni, ai trasferimenti dei diritti di uso civico, alle permute.

Ora, come i primi provvedimenti regionali di autorizzazione al trasferimento di diritti di uso civico testimoniano, molte vicende di riordino dei demani civici potranno essere finalmente affrontate e risolte concretamente con beneficio per le collettività locali, l’ambiente e i cittadini, a iniziare – se le rispettive amministrazioni comunali avessero un sussulto di buon senso – da Orosei e da Villasimius.

La situazione dei demani civici in Sardegna.

Anche in Sardegna, dopo troppi anni di cattiva gestione, di lassismo e di abusi, il futuro dei diritti di uso civico appare migliore.

Dopo parecchi anni di lavoro e – nel piccolo – tante azioni legali e di sensibilizzazione da parte del GrIGsta giungendo a positiva conclusione l’operazione di accertamento dei demani civici presenti nel territorio isolano da parte dell’Agenzia Argea Sardegna, già delegata in materia dalla Regione autonoma della Sardegna, e poi dalla Direzione generale dell’Agricoltura e Riforma Agro-Pastorale.

E’ stato così finalmente reso nuovamente consultabile l’Inventario regionale delle Terre civiche, il documento fondamentale, di natura ricognitiva, per la conoscibilità dei terreni appartenenti ai demani civici in Sardegna.

Secondo quanto oggetto di provvedimenti di accertamento, risultano terreni a uso civico in 340 Comuni sui 369 su cui sono state condotte le operazioni. I Comuni sardi sono 377: mancano ancora le attività di accertamento su 7 Comuni, nei quali si stima, comunque, la presenza di terre collettive.

In 30 Comuni, al termine delle operazioni, non sono risultati terreni a uso civico.

Complessivamente (considerando anche gli ultimi 7 Comuni dove devono esser svolte le operazioni di accertamento, ma dove se ne stima la presenza), dovrebbero essere 348 su 377 i Comuni dove sono presenti i demani civici, ben il 92% dei Comuni sardi.

Sono stati, inoltre, verificati e aggiornati i dati (estensione, catasto, ecc.) relativi ai 340 demani civici accertati (luglio 2021).

L’estensione complessiva delle terre collettive finora accertate è di circa 303.676 ettari, pari al 12,62% dell’Isola.

L’Istituto Nazionale di Economia Agraria stimava (1947) la presenza di 314.814 ettari di terreni a uso civico in Sardegna.

Tasti dolenti rimangono alcune gravi carenze gestionali, soprattutto in tema di recupero dei terreni a uso civico illegittimamente occupatimigliaia di ettariattendono il recupero alla fruizione collettiva.

Carloforte ben 48 ettari illegittimamente occupati sono stati recuperati in via bonaria al demanio civico nel 2018, ma – a quanto pare – l’esempio virtuoso non è stato seguito.

I rispettivi Comuni e la Regione autonoma della Sardegna (in via sostitutiva) sono competenti per le azioni di recupero (art. 22 della legge regionale Sardegna n. 12/1994 e s.m.i.),  che cosa si aspetta?

[1] vds. sentenze Corte cost. nn. 345/1997, 46/1995, 210/2014, 103/2017, 178/2018 e ordinanze Corte cost. nn. 71/1999, 316/1998, 158/1998, 133/1993.  Vds.. anche Cass. civ., SS.UU., 12 dicembre 1995, n. 12719; Cass. pen., Sez. III, 29 maggio 1992, n. 6537.

Stefano Deliperi è il portavoce del Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

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giovedì 19 dicembre 2024

Un caffè buono per tutti. Davvero. L’impegno ventennale di Tatawelo - Cristina Borio

 

 

Tratto da Altreconomia 258 — Aprile 2023

 

“Dopo otto anni di risparmi i cafetaleros delle comunità indigene del Chiapas sono riusciti a realizzare un sogno: acquistare la maquilla, che permetterà loro di gestire tutta la filiera del caffè: dal campo alla tostatura”, racconta ad Altreconomia Walter Vassallo, referente del progetto Tatawelo che nel novembre 2022 ha festeggiato assieme ai produttori questo importante risultato durante una visita in Messico alla cooperativa Yachil Xojobal Chu’lchan. “Quando ci hanno chiesto di salire sul palco per raccontare il viaggio del loro caffè verso l’Italia ci siamo sentiti piccolissimi -continua Walter-.Perché in questi anni non abbiamo solo acquistato del caffè, ma sostenuto un’economia giusta ed equa. Come dovrebbe essere normale”.

Sono ormai passati vent’anni da quando un piccolo gruppo di persone appartenenti a varie realtà dell’economia solidale e del commercio equo si è chiesto che cosa ci fosse dietro il gesto quotidiano di bere una tazzina di caffè. Così nel 2003 ha preso vita Tatawelo, con l’obiettivo di creare una filiera giusta per commercializzare il prodotto della neonata cooperativa zapatista Ssit Lequil Lum (“I frutti della Madre Terra”, in lingua tzeltal).

Nove anni prima, nel 1994, l’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) era insorto contro il governo messicano per chiedere riforme agrarie, sanitarie e del sistema educativo a favore dei popoli indigeni. Allo stesso modo, nel 1999, i membri di Yachil si erano organizzati per spezzare la dipendenza dai grandi proprietari terrieri e rivendicare l’autonomia dei nativi. Da allora, i sacchi di juta di Café Tatawelo raggiungono l’Italia anche grazie alla compartecipazione della cooperativa LiberoMondo per poi essere tostati a Diano d’Alba (CN) e distribuiti a oltre 200 soci tra 190 Gruppi di acquisto solidale (Gas) e otto botteghe del commercio equo.

I principali produttori sono le cooperative zapatiste Yachil e Yochin, che arrivano a esportare in Europa fino a 300 tonnellate di caffè verde all’anno. La Yachil Xojobal Chu’lchan (“Nuova luce nel cielo” in tzeltal) oggi conta circa 800 membri in otto municipalità e basa la crescita della comunità sulla coltivazione di caffè in agroecologia e certificato biologico Certimex. I suoi prodotti vengono sia esportati all’estero, sia venduti sul mercato locale. La commercializzazione in Italia avviene grazie a Tatawelo che distribuisce il caffè attraverso una rete estremamente ramificata che comprende Gas, cooperative, empori di comunità, food coop e botteghe del mondo.Una filiera trasparente, dalla pianta alla tazzina.

Due pilastri sostengono tutto il progetto. Il primo è il prefinanziamento, che consiste nel pagare in anticipo il caffè ordinato alle cooperative chiapaneche, per fornire loro le risorse finanziarie necessarie all’avvio della produzione. In questo modo i contadini evitano lo strozzinaggio degli intermediari delle grandi imprese, i “coyotes” locali. Il secondo pilastro è la quota progetto, ovvero un contributo solidale fisso di 10 centesimi di euro a pacchetto che viene utilizzato per finanziare iniziative nelle comunità. Grazie alle risorse raccolte negli anni, Yachil ha potuto costruire una torrefazione per vendere i propri prodotti sul mercato locale.

La macchina per la torrefazione acquistata dalla cooperativa Yachil © Tatawelo

“Un’economia solidale promuove soprattutto lo sviluppo delle comunità in loco -spiega Vassallo mostrando le foto dell’ultimo macchinario acquistato dalla cooperativa nel 2022, la maquilla-. Prima di questo investimento i produttori dovevano affidarsi a terzi per far selezionare il caffè. E restavano presso gli impianti per tre o quattro giorni, dormendo sui sacchi, per controllare che non venissero rubati o sostituiti, essendo il loro un prodotto di alta qualità”.

Quest’anno la campagna di prefinanziamento che solitamente si svolge nel mese di maggio, è stata organizzata tra il 30 gennaio e l’8 marzo “poiché il cambiamento climatico ha portato a un anticipo della maturazione delle bacche -spiega Dulce Chan Cab, presidente di Tatawelo-. Parlando con i contadini, a novembre ci hanno manifestato le difficoltà che stavano affrontando. Solo incontrando di persona le comunità puoi comprendere le loro esigenze: è dalla relazione di persona che nasce il confronto sulle problematiche economiche e sociali”.

Dal dialogo nasce la mediazione, anche sul prezzo di vendita: “Frutto di una valutazione complessiva fatta con i contadini in base ai loro costi di produzione, quelli di trasporto e torrefazione”, spiega Vassallo. Quello finale è quindi un prezzo trasparente: per ogni pacchetto di caffè il 42% va al produttore, il 16% copre le spese di trasformazione, il 2% quelle di trasporto e il 24% la distribuzione, oltre che per la quota progetto. Un meccanismo che traduce concretamente il motto di Tatawelo: “Para todos todo”. Chi acquista in prefinanziamento il caffè della cooperativa può scegliere tra diverse miscele: la qualità arabica monorigine delle terre dei cafetaleros del Chiapas e Guatemala e la robusta della Kagera cooperative union dalla Tanzania.

Mentre scriviamo, a metà marzo, nonostante l’anticipo della campagna, la risposta della rete di prefinanziatori sta arrivando. Tra questi c’è anche Fabrizio Cuniberti, fondatore della cooperativa di commercio equo Ponte solidale di Perugia, socia di Tatawelo e di Altreconomia. “Per noi Café Tatawelo non è un prodotto, ma una storia che viene raccontata in ogni pacchetto, una scommessa fatta insieme, un movimento di persone che hanno scoperto il valore politico dietro i loro acquisti”.

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mercoledì 18 dicembre 2024

Ancora consumo di suolo. Meno ma sempre troppo per rimanere nel futuro - Paolo Pileri

       

È appena stato pubblicato l’undicesimo Rapporto sul consumo di suolo. Apriamo dicendo che l’incremento lordo di consumo di suolo dell’ultimo anno è sceso, passando da 8.500 ettari del periodo 2021-2022 a 7.254 del periodo 2022-2023. È innegabilmente una buona notizia.

Però non cantiamo vittoria troppo presto perché gli oltre settemila ettari rimangono un’esagerazione e continuano a tenerci ben al di sopra di ogni limite accettabile di sostenibilità: 19,9 ettari/giorno, ovvero 2,3 metri quadrati al secondo. Sempre troppi, sempre uno sfregio che sfigura il nostro territorio.

Una contrazione per la quale non abbiamo nessun elemento per considerarla l’esito di una folgorazione ecologica delle politiche urbanistiche dell’ultimo anno. Probabilmente parte della riduzione è da attribuirsi al ripristino di aree di cantiere prima conteggiate come suolo consumato e ora ripristinato. Un ripristino che, ricordiamolo, non azzera i danni e i disturbi ecosistemici che il suolo ha comunque subito negli anni di cantierizzazione.

Siamo un Paese che ancora corre a cementificare, condannandosi a rimanere lontanissimo dall’obiettivo del consumo netto di suolo zero.

La classifica regionale del consumo di suolo porta delle novità. La più inaspettata (per alcuni) è quella del primato dell’Emilia-Romagna che è balzata al primo posto per consumo di suolo netto (735 ettari nel 2023) nonché seconda per consumo di suolo lordo (815 ettari) dietro al Veneto (891 ettari).

Per chi ancora non ci credeva, è arrivata ora la dimostrazione che la tanto decantata legge urbanistica emiliano-romagnola (L.R. 24/2017) non è capace di fermare il consumo di suolo nonostante i proclami di quel governo regionale. Emilia-Romagna e Veneto hanno disarcionato l’eterna prima della classe, la Lombardia, che ora si attesta a 728 ettari/anno di consumo di suolo netto.

Pur salutando con interesse la contrazione lombarda, anche qui non possiamo dire che la diminuzione sia l’esito di una legge sul consumo di suolo che, semmai lo fosse, lo sarebbe a scoppio assai ritardato visto che sono passati dieci anni. Sta di fatto che a livello nazionale siamo saliti al 7,16% di superficie consumata pari a 365,7 metri quadrati di asfalto e cemento per ogni cittadino (+1,23 metri quadrati rispetto all’anno precedente).

A fronte di una generale riduzione del consumo di suolo, vi sono Regioni che hanno invece segnato un tasso di variazione positivo: Toscana (+23,5%), Umbria (+39,3%), Campania (+0,8%) e Basilicata (+8,6%). Stupisce e preoccupa il caso della Toscana dove è vigente la legge urbanistica più conservativa per il suolo ma che, probabilmente, le forze del cemento sono riuscite ad aggirare nell’ultimo anno.

Andiamo a vedere la situazione a livello provinciale aiutandoci con il coefficiente di urbanizzazione ovvero il rapporto tra aree urbanizzate e area totale. In molte aree del Paese il coefficiente è molto alto ed è ulteriormente aumentato, generando squilibri e criticità ecologiche e ambientali sempre più gravi: isole di calore, maggior esposizione a danni da alluvioni, etc. Ci sono province con coefficienti che sfiorano il 41% (Monza Brianza), il 32% (Milano), il 35% (Napoli), il 21% (Trieste).

Scendendo al livello comunale, la situazione rimane anche qui assai grave: in Campania si arriva a Comuni con oltre il 90% di superficie impermeabile (Casavatore), in Lombardia Lissone arriva circa al 71,5%, Sesto San Giovani al 70%; in Emilia-Romagna Cattolica è al 62,5%, in Abruzzo Pescara al 52%. E tantissimi sono i Comuni con oltre il 40% di superficie urbanizzata, valore che farebbe preoccupare immensamente uno scienziato come Johan Rockstrom per il quale la situazione è già ampiamente grave quando il peso delle aree urbane sommate a quelle agricole supera il 15% rispetto alla superficie totale.

Valori che sono figli di consumi di suolo più o meno elevati in molti Comuni. Il più elevato consumo di suolo lo ha totalizzato un piccolo Comune alle porte di Cagliari, Uta, con ben 105 ettari dovuti a serre e nuovi impianti fotovoltaici (ribadiamo la preoccupazione per la mancata pianificazione rigorosa della localizzazione delle rinnovabili). Segue Ravenna (il cui sindaco è ora il neopresidente della Regione Emilia-Romagna) con +89 ettari che scavalca Roma (+71,3 ettari) da sempre la top-consumer.

Tra le prime città consumatrici abbiamo anche Alessandria (+61,7 ettari), dove il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è recato il 26 novembre scorso per ricordare la terribile alluvione del 1994 e dove, ne concludo, il buon governo del territorio non è stato per nulla buono con il suolo, impermeabilizzando altre decine di ettari, esponendo la città e il territorio a nuovi rischi alluvionali.

A proposito di buon governo del territorio, non possiamo non ricordare la prestazione sempre scintillante di Milano, Comune recentemente oggetto di pseudo condoni edilizi (“Salva Milano”), che pur professandosi città green, ha cementificato altri 19 ettari circa (330,5 ettari tra il 2006 e il 2021 di cui il 23% solo tra il 2017 e il 2022).

Anche Bologna non ha spento la betoniera: +21,4 ettari nel 2022-23, + 16,8 nel 2021-22. Idem Venezia con +23,3 ettari nel 2022-23 e +40,32 nel 2021-22. E potremmo proseguire quasi all’infinito per arrivare a dire che le città continuano a macinare suolo, a rincorrere la rendita, a conformarsi a un modello di insostenibilità che procurerà grossi problemi nel futuro.

Con la grave crisi ecologica in corso abbiamo bisogno dell’esatto opposto: città che fermano il consumo di suolo, usano solo quel che hanno e liberano spazi. E invece, continuano a spalmarsi di asfalto per poi stendersi al sole della crisi climatica e abbrustolirsi (e noi con loro).

Ma anche gli altri Comuni consumano? Più i piccoli o i grandi? La maggior responsabilità va sulle spalle dei Comuni medi (quelli tra i 5mila e i 50mila abitanti) con il 58,3% del consumo di suolo dell’ultimo anno. Seguono i piccoli (sotto i 5mila abitanti) con il 23,6%. Si affaccia di nuovo il tema della frammentazione amministrativa come fattore che spinge il consumo di suolo. Oppure il fatto che i piccoli Comuni si trovano a subire le grandi trasformazioni funzionali ai capoluoghi ma che sarebbe troppo caro localizzare là. Ad esempio, la logistica o i data center o le grandi aree parcheggio o gli impianti energetici per le rinnovabili.

E poi ci sono gli effetti ambientali negativi che il consumo di suolo produce e scarica sulle spalle dell’ambiente e degli abitanti. Sono tanti e nel Rapporto sono documentati. Ricordiamo l’effetto isola di calore urbana. L’aumento del cemento significa aumento delle superfici che si scaldano di giorno e che scaldano le notti, rilasciando il calore accumulato, abbassando la qualità della vita urbana sia di giorno che di notte. Il differenziale di temperatura tra aree urbane e rurali è di oltre 10° C in molte città al punto da condannare intere Regioni alla graticola. Così nelle città di Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Liguria.

E poi, da non crederci, continuano i consumi di suolo in aree a pericolosità idraulica (+1.108 ettari in media pericolosità) come se non fossimo stati mai travolti da tragedie come quelle subite da poco nelle Marche, in Romagna e in Toscana. E continuano anche le cementificazioni in aree a pericolosità di frana: +37,7 ettari in aree a pericolosità di frana molto elevata; +79,2 in aree a elevata pericolosità; +146,5 in aree a media pericolosità.

Come vedete il consumo di suolo non si è fermato e mai si fermerà da solo. Siamo noi a doverlo fermare. È la responsabilità di politici, tecnici e urbanisti in primis. Ognuno dando voce a questa emorragia per come può fare. Importante è non distrarsi. La distrazione è assolutamente vietata soprattutto per chi ha responsabilità politiche di governo del territorio. Occorre accelerare sulla approvazione di una legge che fermi il consumo di suolo. Vedo invece che il Parlamento e tanta politica spendono energia a profusione per proroghe, condoni e interpretazioni autentiche. Autentiche non certo per il suolo e per il clima. Autentiche ancora una volta per il cemento, i soldi, il consumismo avido e le speculazioni.

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domenica 15 dicembre 2024

Chiara Valerio, l’amichettismo e il teatrino morale (crollato) su Leonardo Caffo: ora dimissioni - Fulvio Abbate

Dopo la condanna del filosofo Caffo per maltrattamenti e violenza sulla compagna, crolla il teatrino morale che la scrittrice e la sua corte hanno allestito in nome del puro amichettismo


E ora, dopo la condanna al filosofo Leonardo Caffo, accusato di maltrattamenti e violenza ai danni della sua ex compagna, siano attese, pretese, le dimissioni di Chiara Valerio, direttrice della rassegna romana destinata alla piccola e media editoria, “Plpl”. Sia non meno chiaro chi ha mistificato per interesse e interessata ipocrisia. Il silenzio protervo di un clan che in nome della complicità piccina mostra un silenzio destinato in modo mistificatorio a colpevolizzare chi abbia invece da subito detto quanto fosse inopportuno l’invito all’“amico” Caffo. Imbarazzante non meno la difesa d’ufficio di Roberto Saviano: “Da Chiara Valerio c’è solo da imparare” (sic).

Resta però, fatto salvo ogni principio garantistico, che il nodo dell’intera questione va oltre il caso giudiziario, la presunzione d’innocenza, utilizzata da Valerio e dalla sua corte silente, complice, per tacitare le opinioni dissonanti, facendo ricorso al ricatto del presunto “linciaggio”, della “gogna”, di una non meno presunta “piazzale Loreto”. “Sepolcri imbiancati”, interessati a che il sistema della cooptazione non subisse scosse e il controllo del territorio della produzione e dello scambio letterario ed editoriale, fieristico e spettacolare continuasse a esistere, a lavorare, intatto, senza scosse tra emoticon e video risibili dalla Nuvola di Fuksas all’Eur, dove si è svolta la rassegna “Più libri più liberi”, destinata, solo sulla carta, alla “piccola e media editoria”. Il video di “scatolino” apparso sulla pagina Instagram di Plpl risibilmente vergognoso, ipocritamente, adolescenzialmente edificante.

Presunzione di autorità morale, quasi che Chiara Valerio, per dogma amichettistico, potesse garantire per il filosofo afferente al suo mondo di relazioni – i curricula di entrambi speculari, sovrapponibili: Radiotre, Scuola Holden e ogni altro luogo non meno da essi controllato con la protervia propria di una setta edificante – che, si è detto, adesso tace, nonostante, da subito, molte voci del femminismo avessero denunciato quanto fosse irricevibile la protervia di Valerio, supportata dall’amico Diego Bianchi che a Propaganda live le aveva concesso l’ennesimo spazio autoassolutorio. Il comunicato diramato da Plpl parla di risultati in linea con lo scorso anno. Falso. Sono i costi del biglietto e gli studenti che avrebbero gonfiato la partecipazione.

Dimenticavo: la direttrice artistica aveva invitato Caffo a parlare dei suoi libri nonostante il processo per maltrattamenti nei suoi confronti e la dedica della kermesse a Giulia Cecchettin. Inaccettabile che, nonostante l’evidenza del fallimento anche etico, Valerio sia stata confermata alla direzione dell’edizione 2025. I piccoli editori? Intanto, relegati nel sotterraneo della Nuvola, nero su bianco, lamentano una contrazione tra il 25 e il 40% delle vendite. Che avrebbe risparmiato – leggiamo – le più grandi case come Sellerio e Adelphi. Per oggettivi limiti e errori organizzativi.

Luca Briasco, editor di Minimum Fax, ha pubblicato su Facebook un lungo atto d’accusa: “So bene da cosa dipende il numero di presenze invariato: mai viste tante scuole in Fiera, dal mercoledì al venerdì. E però la facilità con la quale, il sabato e la domenica, si girava per Più libri più liberi mi è sembrata altrettanto (tristemente) senza precedenti”. Aggiungendo che “i dati sono semplicemente falsi (…). Infine, molti eventi sold out sono stati legati alla partecipazione di autori o personaggi pubblici che nulla hanno in comune con la maggioranza schiacciante degli editori presenti in Fiera”. La conferma dell’amichettismo sarà la tomba di una presunta egemonia letteraria “di sinistra”. Si sappia pure che le doverose, se mai arriveranno, dimissioni di Chiara Valerio non cancelleranno il vulnus in atto. Il silenzio del clan non meno irricevibile.

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lunedì 9 dicembre 2024

Langhe. Barolo e caporalato - Alberto Gaino

 

L’ipocrisia di tanti imprenditori è il miglior alleato del caporalato. Il maggiore è invece l’inerzia con la quale una parte delle Procure della Repubblica applica la norma del codice penale che, dal 2016, definisce il perimetro per perseguire gli sfruttatori di chi è in stato di “necessità”.

L’ipocrisia riguarda l’atteggiamento diffuso fra i datori di lavoro che si rivolgono a imprese individuali e a finte cooperative – spesso costituite da ex lavoratori – per ottenere manodopera a bassissimo costo e con la quale non hanno rapporti formali. Il caso estivo delle Langhe è tuttora tra i più significativi: mostra che la norma introdotta otto anni fa è inefficace contro l’ipocrisia di certi imprenditori di Barolo e Barbaresco che vendono le loro bottiglie a 50 euro l’una, e realizzano «margini di guadagno scandalosi – come dichiara don Mario Melotta, direttore della Caritas di Alba – grazie a paghe in nero di soli 3 euro l’ora per 10-12 ore consecutive di lavoro». Anche i margini di guadagno dei caporali sono scandalosi, perché quegli uomini e donne (un’indagine astigiana ha individuato una “caporala” che girava in Bmw per le colline del Moscato) speculano pure sui bisogni primari (sete, fame) di quanti sfruttano, imponendo loro di pagare anche acqua e panini, oltre al trasporto nelle vigne. I 30-40 euro al giorno sulla carta “calano”, così, drasticamente a fine giornata. Dice ancora don Melotta: «La vita dei migranti sotto questa gente è da sopravvivenza, dopo grandi fatiche quotidiane. Prova ne sono i piedi piagati al termine di giornate di lavoro trascorse con le infradito adattate a calzari da lavoro. Parliamo davvero di persone disperate. Se no, chi si ridurrebbe ad accettare compensi così bassi?».

Come riuscire ad applicare la legge 199/2016 per il contrasto al caporalato? Controlli mirati sulle estensioni dei vigneti di ogni impresa, numero di dipendenti regolari, inclusi quelli a tempo determinato (i filari vanno curati per gran parte dell’anno, specialmente se si offre poi vino biologico) e ore ufficialmente lavorate per la vendemmia. Incrociando i dati si chiarisce chi impiega manodopera irregolare. Ma ciò avviene in maniera ampiamente insufficiente. Il bilancio post-vendemmia dell’Ispettorato del lavoro di Cuneo e dei carabinieri è stato riportato dalla Gazzetta d’Alba, il 24 ottobre scorso: 88 ditte controllate, 7 casi riscontrati di illiceità dell’appalto da parte di “contoterzisti”, irregolarità in materia di sicurezza sul lavoro contestate a 54, cioè il 62 per cento del totale. E infine a 20 è stata comminata la sospensione dell’attività. Il dato che colpisce di più è che siano stati individuati solo 48 braccianti (di cui 10 stranieri) a lavorare in nero quando, durante la vendemmia, vengono impiegati dai 4 ai 5 mila lavoratori. La stessa Gazzetta d’Alba riferisce, in altro servizio, che il caporalato controlla il 40 per cento della manodopera impiegata durante la vendemmia nelle Langhe. Qualcosa si è mosso, incluso l’annuncio del Consorzio di tutela, di costituirsi parte civile nei processi. Ma è ancora poco.

Il fronte variegato della magistratura nella lotta al caporalato è un secondo fattore di peso. Lo sottolinea Claudio Riccabone, responsabile della Caritas di Canelli: «Le indagini della Procura di Asti hanno portato a numerosi arresti e spinto parte delle coop sospette a trasferire la propria attività, a cominciare dalla sede legale, nel Saluzzese e nell’Albese». Chi si mette a posto e chi si sposta dove spera di rischiare meno. Non c’è solo la vendemmia in ballo. Il caporalato si è diffuso prima ancora che sulle colline in pianura dove si coltivano ortaggi e si curano le piante da frutta per buona parte dell’anno. Quest’anno, semmai, l’attenzione dell’opinione pubblica su questo fenomeno criminale si è accesa, prima, sul caso di Latina del migrante mandato a casa dal datore di lavoro con il braccio staccato e riposto in una cassetta, e poi sulla scoperta mediatica delle Langhe, simbolo dell’uva più pregiata in Italia, anche come terra in cui sguazza il caporalato grazie all’interesse di tanti imprenditori di ricavare ad ogni costo dal proprio vino margini di profitto altissimi.

Un dato importante è che alla chiesa albese questa ipocrisia (della serie «la cosa non mi riguarda perché io pago un certo signore che porta nelle mie vigne i suoi lavoratori»), spesa per giustificare la compromissione con il caporalato è andata di traverso. Lo documenta un recente coraggioso servizio di Famiglia Cristiana in cui compaiono le interviste al vescovo della diocesi albese, monsignor Marco Brunetti, e all’ex presidente del Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, Matteo Ascheri. Il vescovo ha pure indirizzato una lettera alle comunità parrocchiali: «Chi sfrutta i lavoratori più fragili come i migranti incorre in un gravissimo peccato che lo esclude dalla comunione eucaristica». Semmai c’è da chiedersi se vi sia stato qualche don Abbondio.

Anche Ascheri si è speso per la sua parte: da presidente del Consorzio di tutela, nel marzo scorso, ha firmato con istituzioni e parti sociali il protocollo di contrasto al caporalato a seguito del quale le 550 aziende socie del Consorzio avrebbero dovuto rinunciare a lavorare con certi soggetti che, a dirla tutta, sono ben conosciuti da gran parte degli imprenditori. Ascheri è un produttore vinicolo stimato: dirige l’azienda di famiglia, 12 dipendenti fissi, 20 ettari di vigneto, 240 mila bottiglie l’anno («metà di Barolo e l’altra metà di Barbera e Nebbiolo»). Per questo era stato scelto come presidente del Consorzio. Firmando il protocollo si è esposto: «Dal 2020 – ha raccontato a Famiglia Cristiana – mi sono pronunciato apertamente contro il caporalato. Ma sono stato lasciato solo». E a inizio estate non si è ricandidato: «Mi sono vergognato di rappresentare alcune aziende e con la mia ho deciso di uscire dal Consorzio». Scelta clamorosa e preveggente: in occasione di quest’ultima vendemmia il protocollo è stato largamente disatteso. Ascheri ne aveva fatto e continua a farne una questione di etica del lavoro, ma anche di immagine per lo stesso consorzio che presiedeva: le Langhe sono diventate un simbolo di terra che dà ricchezza, tanto da attirare investitori da tutto il mondo e turisti stranieri interessati all’enogastronomia. Diventare anche la terra di un vergognoso sfruttamento di lavoratori fra i più vulnerabili rischia di trasformarne l’immagine.

Su molti imprenditori – che non avrebbero alcun motivo di sottopagare i propri lavoratori e di lasciarli vivere in casolari diroccati lungo il Tanaro – agisce forse, paradossalmente, il Dna di immigrati ereditato dalle famiglie: le Langhe sono state in passato terre molto povere da cui partivano i bambini per andare a lavorare in Francia, i maschi nelle industrie del vetro, le femmine a raccogliere lavanda e altri fiori in Provenza o per essere impiegate come servette nelle famiglie. Succedeva nell’Ottocento, e questa particolare migrazione ha continuato a verificarsi sino agli anni ‘50 del Novecento. Tali radici, anziché agire da anticorpo contro lo sfruttamento dei migranti, potrebbero aver incoraggiato qualcuno a pensare storto: «Tocca a tutti, quindi ci sta che ce ne laviamo le mani».

Il sistema è apparentemente perfetto, avvolto nella carta argentata dell’ipocrita Grande Convenienza. Chi va ad Alba in questi giorni post-vendemmia può respirare un’atmosfera da liberi tutti: la vendemmia è finita, tanti migranti si sono spostati a lavorare altrove, ne restano, ma ancora più invisibili. E la “questione caporalato” pare assopirsi. Ma è veramente come sembra a chi arriva da fuori? Monsignor Pierpaolo Fellicolo, direttore della Fondazione Migrantes, sostiene la pratica della legalità come ricetta per sconfiggere il caporalato e racconta come sia decisivo per cambiare le cose riuscire a rendere visibili i lavoratori stranieri vittime di un fenomeno che impedisce loro di progettare un futuro dignitoso: casa, famiglia, scuola per i figli, integrazione sociale. Dice: «La denuncia è fondamentale. Ma lo è anche la politica del fare. Faccio un esempio. In Campania, come Fondazione Migrantes, abbiamo acquistato due pulmini e li abbiamo messi a disposizione di un primo gruppo di lavoratori migranti. Con i pulmini a disposizione è stato assai meno complicato riuscire, da parte loro, ad organizzarsi in cooperativa. Il passo successivo, con più denaro in tasca, è diventato cercare casa nei paesi, e noi li abbiamo aiutati a superare i pregiudizi. Cominciare a vivere nei paesi li ha resi improvvisamente visibili e ciò ha messo in moto un meccanismo di relazioni: ci si incontra per strada, nei negozi, nei bar. Le prime volte si sconta una certa diffidenza, poi si passa a un cenno di saluto e si finisce per prendere un caffè insieme, a volte. È una politica di relazione di piccoli passi, ma decisivi, uno dopo l’altro, per creare una rete di integrazione nelle comunità».

In Campania tanti paesi sono vivi, nelle Langhe molto meno. Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, racconta dell’avvicendarsi di ristoranti stellati alle vecchie osterie, della scomparsa dei negozietti e pure dei preti, delle abitazioni private trasformate in B&B, dell’esaurirsi del tessuto sociale che rendeva solide le antiche comunità. Ci può stare che in quel vuoto trovi spazio, convenienza e persino vitalità un fenomeno orrendo come la tratta delle persone nei campi più ricchi di futuro per chi li sfrutta. Non certo per i migranti, il cui ultimo luogo di reclutamento quotidiano, ad Alba, per la stagione della vendemmia, era non a caso il cimitero locale.

https://volerelaluna.it/territori/2024/12/09/langhe-barolo-e-caporalato/

domenica 8 dicembre 2024

Morto Marco Magrin, lavoratore povero sfrattato: la sua storia ci parla di salari da fame e crisi abitativa - Giuliano Granato

 

L’ho cercato sui giornali nazionali. Niente. L’ho cercato sui giornali più vicini al territorio. Ma niente. Il nome di Marco Magrin non c’è.

Non c’è, quindi, la sua storia. Quella di un uomo di 53 anni trovato morto in un box auto che da qualche tempo era la sua “casa”. Occupata abusivamente. Marco Magrin è stato ritrovato col cappello calato sulla testa e un giubbotto stretto addosso per difendersi dal freddo. Nel garage, infatti, non c’era riscaldamento.

Marco Magrin è morto di infarto, probabilmente proprio per il gelo.

Marco Magrin non era un senzatetto e nemmeno un disoccupato. Originario di Padova, aveva un lavoro stabile: operaio di un’impresa di sfilettatura del pesce a Treviso. Solo che, pur con un lavoro regolare, lo stipendio non bastava a pagare l’affitto. Così, dopo qualche mensilità non pagata, era arrivato lo sfratto. Che, stando ai dati del Ministero dell’Interno, nel 2023 è stato il destino comune a ben 21.345 nuclei familiari (almeno 50mila persone). Più di 21mila nuclei familiari sfrattati. Significa 60 sfratti ogni giorno, tutti i giorni, 365 giorni all’anno, domeniche e festivi compresi.

La prima ragione per cui si viene sfrattati è la morosità (78% degli sfratti), cioè il mancato pagamento di qualche mensilità. Esisteva un fondo statale per morosità incolpevole per aiutare quegli inquilini che non riuscivano più a pagare perché si erano visti ridurre o azzerare lo stipendio (licenziamenti, cassa integrazione, riduzione ore lavorate, ecc.), ma il governo Meloni l’ha abolito da due anni.

La storia di Marco Magrin, al di là della fine tragica, è la storia di tantissimi. Perché ci parla di almeno due enormi questioni: i salari da fame e la crisi abitativa.

L’Italia, seconda potenza manifatturiera del continente europeo, è un Paese in cui ben 12 lavoratori su 100 sono “working poor”. Se un tempo la povertà era associata alla disoccupazione, oggi sempre più spesso sei povero pur lavorando: 12 lavoratori su 100 sono poveri anche se hanno un impiego. La percentuale balza al 17% tra gli operai. Operai come Marco Magrin. Con stipendi bassi e fermi, mentre i profitti delle imprese aumentano.

Nonostante ciò, quando si osa porre la necessità di un salario minimo orario di almeno 10 € l’ora, il governo Meloni si gira dall’altra parte, diventa sordo. Come se i salari da fame non fossero questione di vita o di morte per la maggioranza di chi lavora in questo Paese.

Se sei un lavoratore povero avrai enorme difficoltà a poterti permettere finanche un tetto. Gli affitti sono esplosi: +10,2% in media tra 2022 e 2023 (studio del Cresme). A Treviso tra novembre 2023 e novembre 2024 si è registrato un ulteriore boom: +7,08%.

Salari fermi e affitti alle stelle. E chi parla di tornare a porre un tetto agli affitti è considerato un pericoloso bolscevico. Chissà cosa deve pensare Giulio Andreotti, cui è associata la norma che dal 1978 aveva introdotto un calmiere denominato “equo canone”.

Accanto a case dai costi sempre più improponibili per lavoratori e lavoratrici, c’è un enorme patrimonio immobiliare vuoto. Nella sola provincia di Treviso si stima ci siano circa 68mila appartamenti sfitti; ben 6mila nella sola città di Treviso, un Comune abitato da 85mila persone. Le istituzioni anziché acquisire una parte di questi immobili, così da poterla mettere a disposizione della gente comune, vendono quel poco di patrimonio pubblico che è ancora nelle loro mani. Nel novembre 2023, la Regione Veneto, governata dal leghista Zaia, approvava un piano di cessione di 384 alloggi dell’Ater di Treviso, di cui 150 all’epoca sfitti. Meglio venderli per fare cassa che assegnarli alle famiglie bisognose di un tetto. “Un affitto, dieci famiglie in fila: caccia alla casa a costo calmierato a Treviso. Con le locazioni introvabili c’è la coda per i bandi Ater. E l’hinterland segue: 2 appartamenti, 17 candidati”, scriveva La Tribuna di Treviso il 24 novembre 2024, pochi giorni prima della morte di Marco Magrin.

O, anche, meglio tenerle vuote: a maggio di quest’anno, a Treviso il totale delle case popolari sfitte assommava a 364: 121 alloggi sfitti del Comune, 243 dell’Ater.

Affrontare il tema dei salari da fame e della crisi abitativa, però, sembra non interessare. Però di casa ultimamente si è tornati a parlare. Ma non degli affitti alle stelle, degli sfratti e della politica di dismissione del già scarso patrimonio immobiliare pubblico. Solo delle occupazioni abitative per dipingere gli occupanti come criminali, come feccia.

Per questo oggi non parlano di Marco Magrin. Perché la sua vita e, purtroppo, la sua morte, rompono la narrazione di potere politico e mediatico. Marco Magrin era infatti un occupante. Un abusivo. Era entrato in quel box auto illegalmente. Eppure Marco Magrin lavorava. Era italiano. Era bianco. Non è l’immagine del criminale che l’ultradestra brama per poter spargere la paura.

Per questo difficilmente leggerete titoloni sulla sua storia. Su Marco Magrin, lavoratore povero morto di gelo nell’Italia del 2024 perché è meglio tenere le case vuote per speculare sul mercato che assicurare un tetto sulla testa dei nostri fratelli e delle nostre sorelle.

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