venerdì 31 dicembre 2021
giovedì 30 dicembre 2021
L’enigmatica scomparsa di Liangzhu, la ‘Venezia cinese’ - Felicia Bruscino
Liangzhu, la ‘Venezia cinese dell’età della pietra’ – così definita per il suo complesso sistema di gestione delle acque – scomparve improvvisamente. Secondo gli esperti, le enormi inondazioni innescate da piogge monsoniche, anormalmente intense, hanno portato al crollo della città di Liangzh.
Cinque
millenni fa, una cultura altamente avanzata emerse nel delta del fiume Yangtze,
a circa 100 miglia a sud-ovest di quella che oggi è Shanghai, che, durante il
suo periodo di massimo splendore, già manipolava i corsi d’acqua a
piacimento. Oggi conosciuta come ‘ la Venezia cinese dell’età
della pietra ‘. I resti dell’arcaica città sono la più antica
testimonianza di grandi strutture di ingegneria idraulica in Cina.
La città
murata aveva un complesso sistema di canali navigabili, dighe e bacini
idrici. Questo straordinario sistema ha permesso di coltivare vaste aree
agricole durante tutto l’anno. A lungo sconosciuto e sottovalutato nel suo
significato storico, il sito archeologico è considerato una testimonianza ben
conservata della civiltà cinese. Che risale a più di 5000 anni fa.
Liangzhu,
dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO nel 2019, abitata per quasi 1000
anni, è improvvisamente scomparsa dall’area del lago Taihu. Fino ad oggi,
rimane ancora controverso cosa ne abbia causato la distruzione. Un nuovo
studio, condotto da un gruppo di esperti dell’Università di Innsbruck,
sembra avere la risposta.
Perché l’antica civiltà cinese di Liangzhu è
crollata? Gli scienziati puntano al cambiamento climatico
Secondo un
approfondito studio, è stato dimostrato che la fine di Liangzhu fu causata dai
cambiamenti climatici. A quanto pare, un acuto processo di cambiamento
climatico ha generato condizioni di estrema umidità , che
sarebbero durate anche fino a 300 anni dopo l’abbandono, da parte dei suoi
abitanti, di Liangzhu.
I risultati
suggeriscono che le forti piogge nel delta del fiume Yangtze potrebbero aver
causato l’inondazione del fiume, devastando le infrastrutture. Le massicce
piogge monsoniche hanno probabilmente portato a inondazioni così gravi dello
Yangtze che persino le sofisticate dighe e canali non potevano più sostenere
questi corpi idrici. Distruggendo così la città di Liangzhu e costringendo gli
abitanti ad abbandonarla.
Le
condizioni meteorologiche molto umide sarebbero durate fino a 300 anni dopo,
come mostrano i geologi dai dati della grotta. Finora non esisteva un record
idro-climatico preciso per il basso fiume Yangtze, ed era difficile trovare
tracce di siccità e inondazioni da 4.400 a 4.000 anni fa. Come spiega Christoph Spötl, del Dipartimento di Geologia dell’Università di Innsbruck (Lussemburgo). Principale autore
dello studio.
Le rovine
conservate sono ricoperte da un sottile strato di argilla, che indica, appunto,
una possibile connessione tra il crollo di questa civiltà avanzata e le
inondazioni causate dal fiume Yangtze o dal vicino Mar Cinese. Tuttavia, alcuni
dati ottenuti dai sedimenti lacustri e di torba suggeriscono anche una mega
siccità circa 4.300 anni fa. Difficile da conciliare con i dati archeologici.
Stalattiti e stalagmiti: la cronaca dei cambiamenti
climatici. Forniscono una visione precisa del tempo.
Per
confermare che un evento climatico ha causato la fine di questa società, i
ricercatori hanno scavato negli archivi contenenti dati sulle grotte della
zona. Nello specifico, sono state esaminate stalattiti e stalagmiti,
formatesi in migliaia di anni di precipitazioni. Queste strutture hanno
consentito di scrutare nel passato e ricostruire le condizioni climatiche fino
a più di 100.000 anni prima.
Sono stati
raccolti campioni di stalattiti e stalagmiti da due grotte, Shennong e Jiulong,
situate a sud-est di Liangzhou. La loro analisi presso l’Università
di Innsbruck ha mostrato chiaramente che tra 4.345 e 4.324 anni fa la
regione ha subito un periodo di precipitazioni estremamente intense. Le
registrazioni degli isotopi del carbonio lo hanno confermato. Mentre la
datazione precisa è stata effettuata attraverso l’analisi
dell’uranio-torio. Con queste informazioni, gli specialisti si sono
concentrati sull’ipotesi ambientale: la totale assenza di prove di cause umane,
come i conflitti di guerra, ha reso questa idea ancora più potente.
Le piogge
monsoniche estremamente forti hanno probabilmente portato alle inondazioni
dello Yangtze. Che nemmeno gli estesi canali sono riusciti a fermare. Ciò
avrebbe causato la distruzione di Liangzhu. Gli esperti sostengono, inoltre,
che anni così eccezionalmente umidi siano durati tre secoli.
I dati delle
stalagmiti analizzati mostrano chiaramente che tra 4.345 e 4.324 anni
fa la regione ha subito un periodo di precipitazioni estremamente
intense. Le registrazioni degli isotopi del carbonio lo hanno confermato.
Mentre la datazione precisa è stata effettuata attraverso l’analisi
dell’uranio-torio. Con queste informazioni, gli specialisti si sono
concentrati sull’ipotesi ambientale: la totale assenza di prove di cause umane,
come conflitti di guerra, ha reso questa idea ancora più potente.
mercoledì 29 dicembre 2021
No alla privatizzazione del vento - Maria Teresa Messidoro
“E così da giorni abbiamo solo calci nel
sedere,
non sappiamo dove siamo, senza pane e senza bere
e questo pazzo scatenato che è il più ingenuo dei bambini
proprio ieri si è stroncato fra le pale dei mulini…”
da «Don Chisciotte», canzone di Francesco Guccini
L’infanzia non aveva abbandonato del tutto Bettina Cruz, quando decise di
unirsi ad altri giovani per ribellarsi ad una ingiustizia: a soli 13 anni
divenne una delle lideresas (1) dello sciopero che si
organizzò nella sua città per far abbassare il costo del biglietto dei bus per
gli studenti provenienti dai villaggi e paesini circostanti. Dopo un anno di
lotte, gli alunni raggiunsero il proprio obiettivo.
Quando Bettina termina gli studi secondari, la dirigenza della scuola
decide che non le venga consegnato il certificato di buona condotta. Forse
pensa di far cessare i suoi impeti di lotta. Ma la stessa madre di Bettina,
Rosa, una donna dal carattere forte, solidaria da sempre, esprime chiaramente a
sua figlia come sarebbe stata la sua vita futura. “No te dejes!. Participa!”
(Non mollare! Partecipa!) le dice, rincuorandola.
Lucila Bettina Cruz Vélasquez ha nel sangue questo spirito di lotta contro
le ingiustizie, è una eredità che si porta dentro, come altre donne juchiteche.
Costretta ad emigrare in capitale per continuare gli studi, dopo essersi
laureata in ingegneria agraria, aver frequentato un corso di perfezionamento in
sviluppo rurale regionale e un dottorato a Barcellona, decide di tornare
a casa. Non può fare altrimenti.
Si sente binnizá (2).
Si sente parte del suo territorio, è il suo territorio.
Ma quando torna, nel 2005, il paesaggio dell’istmo di Tehuantepec è
profondamente cambiato: nel 1994, la Comisión Federal de Eletricidad (CFE) ha
installato la prima centrale eolica del paese messicano proprio a La Venta,
Juchitán. È il cavallo di troia, per l’intromissione aggressiva delle compagnie
private interessate all’energia eolica.
In un territorio dove il vento può arrivare fino a 110 chilometri orari, le
imprese eoliche sono arrivate promettendo impiego e prosperità.
Promesse che se ne sono andate proprio con il vento.
Oggi nell’Istmo ci sono 29 parchi eolici, 27 sono privati, in maggioranza
di proprietà europea: con duemila aerogeneratori che occupano più di 50 mila
ettari di terre comuni, senza produrre energia per le comunità locali, ma per
grandi compagnie, comprese le miniere.
Contro il tentativo di mercantilizzare l’energia e privatizzare il
vento, nasce nel 2007 la Asamblea en Defensa de la Tierra y el
Territorio de Juchitán, che poi si trasformerà nella Asamblea
de Pueblos Indigenas del Istmo en Defensa de la Tierra y el Territorio,
APIIDTT, di cui Bettina è cofondatrice.
Quanto sia importante il suo lavoro, lo capisce quando sia lei che suo
marito ed altri membri dell’organizzazione ricevono le prime minacce. Le
intimidazioni si intensificano quando l’APIIDTT incomincia a lottare contro la
costruzione di un nuovo progetto eolico che l’impresa Mareña Renovables tentò
di installare a San Dionisio del Mar, progetto che è stato bloccato grazie alla
mobilitazione popolare.
Per poter installare i parchi eolici le imprese coinvolte, con l’appoggio
di funzionari federali e statali dello stato di Oaxaca, realizzano contratti
con le comunità locali, affinché affittino i terreni e ne cedano l’uso per
anche 30 anni.
In questo modo, ciò che perdono le comunità indigene è il diritto all’uso
della terra. Inoltre, in alcuni casi, le compagnie hanno posto come condizione
per il pagamento dell’affitto della terra la garanzia da parte dei contadini
che nessuno perturbi od ostacoli la realizzazione dei loro progetti. Diventa
quindi poi facile legalmente chiedere l’allontanamento forzato di chi protesta,
in base alle clausole dei contratti firmati.
La stessa Bettina Cruz, tra il 2012 e il 2013, ha dovuto allontanarsi dalla
sua comunità dopo aver ricevuto minacce di morte; per poter fuggire
inosservata, è stata costretta ad abbandonare i suoi colorati huipiles, scelta
non facile dato che il huipil rappresenta la forza e
l’identità di una donna indigena.
Fortunatamente, giungono anche alcuni risultati positivi: il 20 settembre
2021, i membri dell’APIIDTT hanno annunciato un recente trionfo legale, il
blocco della costruzione in terre comunitarie del progetto eolico Gunaa Sicarú,
dell’impresa francese EDF.
In questa lotta contro l’energia eolica, l’APIIDTT non è sola, può contare
anche sull’appoggio e sostegno del Congreso Nacional Indigena, CNI, uno spazio
di articolazione delle popolazioni indigene, molto legato al Ejército Zapatista
de Liberación Indigena, EZLN.
Bettina nel 2017 è stata eletta nel Consejo Indigena de Gobierno del CNI.
In questo modo, può lottare ancora di più e meglio contro gli impatti
ambientali delle centrali eoliche, come il forzato ridimensionamento delle
tradizionali attività agricole, la privatizzazione della terra, i conflitti
intercomunitari, l’aumento della violenza nella regione, dovuta alla crescente
presenza del crimine organizzato (interconnesso con le stesse imprese), la
militarizzazione e mascolinizzazione del territorio. Senza contare che
l’energia eolica non favorisce di certo l’impegno contro il cambiamento
climatico, anzi.
Bettina, come tutti gli integranti dell’APIIDTT, sa bene che la difesa del
territorio è ogni giorno più difficile, però non ha nessuna intenzione di
abbassare la guardia. La loro forza, afferma, è nell’essere comunità e tessere
rete.
Sono dei novelli Chisciotte, che lottano non contro dei giganti immaginari,
ma contro coloro che vorrebbero privatizzare il vento, l’acqua e il territorio.
Il “potere” è l’immondizia della storia degli umani
e, anche se siamo soltanto due romantici rottami,
sputeremo il cuore in faccia all’ingiustizia giorno e notte.
NOTE
1 Molto più efficace il termine in spagnolo
2 come si autodefinisce il popolo zapoteco, letteralmente “gente che
proviene dalle nubi”
Maria Teresa Messidoro è vicepresidente dell’Associazione Lisangà culture
in movimento
martedì 28 dicembre 2021
Il mito della crescita verde
di Movimento per la Decrescita Felice (MDF)
Tratto da:
Il Tempo
della Decrescita Felice
Movimento per la Decrescita Felice (MDF)
Novembre 2021 - 46 pp.
Negli ultimi
vent’anni è stata sdoganata la retorica secondo cui si sarebbe potuto aumentare
il PIL riducendo al contempo le emissioni e in generale gli impatti ambientali.
Non è successo, e non è probabile che succeda in futuro. I concetti improbabili
di “sviluppo sostenibile” e “crescita verde” hanno contribuito in maniera
determinante a far sì che l’allarme sulla salute del pianeta venisse
ignorato. Oggi ne paghiamo le conseguenze. Il rapporto dell’European
Environmental Bureau, pubblicato nel luglio 2019, pone una questione non più
rinviabile: le politiche dei governi devono andare oltre la crescita.
Che la crescita infinita in una biosfera che ha dei limiti fisici fosse un
mito, si sa dal 1972. Quell’anno un gruppo di giovani scienziati del
Massachussets Institute of Technology, con il loro rapporto I limiti dello
sviluppo che ha cambiato il dibattito mondiale sull’ambiente, hanno messo in
guardia l’umanità da due pericoli: l’incoscienza e la cupidigia
che guidavano l’idea di una crescita senza freni. Tuttavia, la nascita dei
concetti di “sviluppo sostenibile” e “crescita verde” ha frenato la carica
trasformativa di quell’allarme.
Le istituzioni hanno riconosciuto i rischi ambientali della crescita a tutti i
costi, consentendo però al sistema economico e produttivo non cambiare le sue
logiche. Si è pensato per decenni che con qualche investimento nell’efficienza
il PIL potesse continuare a salire, mentre l’impatto climatico e ambientale
della produzione sarebbe sceso.
Tuttavia un
importante studio 1, tradotto in italiano dal Movimento
per la Decrescita Felice 2, dimostra che non c’è mai stato un
disaccoppiamento e chiede un radicale cambio di paradigma. Il report si
intitola Decoupling debunked e lo ha pubblicato l’European Environmental Bureau
(EEB), una piattaforma che riunisce oltre 143 organizzazioni con sede in più di
30 paesi. Il team internazionale di ricercatori che lo ha scritto ritiene
prioritario ridurre la produzione di beni e servizi, soprattutto nei paesi
ricchi. In un pianeta che si sta riscaldando a velocità forse troppo alte per
evitare gli effetti peggiori dei cambiamenti climatici, secondo gli esperti non
si dovrà più parlare di efficienza, ma di sufficienza. Simili prese di
posizione dovrebbero far discutere, anche se finora i media hanno pressoché
ignorato i risultati della ricerca, perché il dibattito fra le due scuole di
pensiero della “crescita verde” e della decrescita ha visto prevalere
nettamente la prima.
I sostenitori della “crescita verde” ritengono che il progresso tecnologico
consentirà un disaccoppiamento fra la crescita economica ed emissioni
climalteranti. Tradotto: investendo molto nell’efficienza delle produzioni,
sarà possibile continuare ad aumentare la produzione di beni e servizi
inquinando di meno, consumando meno risorse e lasciando il tempo al pianeta di
rigenerarle. I promotori della decrescita o della “post-crescita”, al
contrario, sono convinti che un’espansione infinita dell’economia all’interno
di una biosfera finita sia impossibile. La risposta, a questo punto, starebbe
nella riduzione della produzione e del consumo nei paesi più ricchi, con
conseguente abbassamento del PIL.
Ad oggi, la narrativa sulla “crescita verde” è dominante in tutte le
istituzioni politiche ed economiche internazionali. Tutto è cominciato nel
2001, quando l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OCSE) ha sposato l’obiettivo del disaccoppiamento, poi divenuto un perno della
sua strategia verso la “crescita sostenibile”.
A ruota è seguita la Commissione Europea, che nel suo sesto Programma d’azione
per l’ambiente, ha annunciato il suo obiettivo di "rompere il vecchio
legame tra crescita economica e danno ambientale". Nel 2011 la strategia
dell’UNEP – il Programma ambientale delle Nazioni Unite – ha scommesso sulle
capacità della “crescita verde” di "ridurre significativamente i rischi
ambientali e la miseria ecologica".
Il 2012 ha visto scendere in campo anche la Banca Mondiale, in un coro unanime
coronato dall’inclusione del disaccoppiamento fra i target specifici degli
Obiettivi di sviluppo sostenibile, la “Bibbia” delle Nazioni Unite per il
futuro dell’umanità sul pianeta. Di qui in poi, è stato un proliferare di
ricerche e studi che confermavano come l’economia in alcuni settori e in alcuni
paesi stesse progressivamente liberandosi dello stigma delle emissioni.
Il castello di carte è crollato l’8 luglio 2019, quando l’EEB, con Decoupling
Debunked, ha pubblicato la prima analisi di tutta la letteratura empirica e
teorica sul tema. I ricercatori hanno verificato se davvero stiamo assistendo a
una “crescita verde”, arrivando alla conclusione che "non solo non ci sono
prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un disaccoppiamento della crescita
economica dalle pressioni ambientali in misura anche solo vicina a ciò che
servirebbe per affrontare il collasso ambientale, ma, e forse è ancora più
importante, sembra improbabile che tale disaccoppiamento si verifichi in
futuro".
Questa doccia di acqua ghiacciata pone i decisori politici (soprattutto quelli
dei paesi ricchi) davanti ad un bivio: ignorare le conclusioni dell’EEB e
continuare business as usual, o riconoscere che forse occorre elaborare
politiche più prudenti verso la ricerca di un continuo aumento del PIL. Il
rapporto traccia una strada possibile: le strategie produttive basate
sull’efficienza dovrebbero essere integrate dalla ricerca della sufficienza,
ovvero da un «ridimensionamento della produzione economica in molti settori e
una riduzione parallela del consumo, che insieme consentiranno un buon vivere
entro i limiti ecologici del pianeta».
La validità del discorso sulla “crescita verde” presume un disaccoppiamento
globale, assoluto e permanente, ampio e abbastanza rapido della crescita
economica da tutti gli impatti negativi sull’ambiente. Secondo il team di
Decoupling Debunked tutto questo non sta succedendo. In tutti i casi
considerati – materie prime, energia, acqua, gas serra, terra, inquinanti
idrici e perdita di biodiversità – il disaccoppiamento è solo relativo,
temporaneo o localizzato. È successo nel 2007-2008 per la crisi economica e nel
2015-2016, come si legge da entusiastici rapporti dell’Agenzia internazionale
dell’energia (IEA) poi rivelatisi fuochi di paglia. La Cina stava spostando una
parte significativa della produzione energetica dal carbone all’oil&gas,
mentre gli Stati Uniti accrescevano la quota di gas nel mix energetico. Ben
presto, però, completata la transizione, economia ed emissioni sono tornate ad
accoppiarsi (+1.6% nel 2017 e +2.7% nel 2018). Prendendo altri casi settoriali
in cui il disaccoppiamento dovrebbe verificarsi, il rapporto rivela che non si
è mai vista una forbice, anzi. Per quanto riguarda i flussi di risorse minerali
e organiche estratte dall’ambiente, ad esempio, nei paesi OCSE l’accoppiamento
stabile fra loro uso e crescita è evidente. La cosiddetta material footprint è
aumentata del 50% fra il 1990 e il 2008 registrando un +6% di utilizzo ogni
+10% di PIL. A dirci che siamo già in forte debito con l’ecosistema sono anche
i numeri assoluti: per essere ecologicamente sostenibili, dovremmo limitare il
consumo di risorse a circa 50 miliardi di tonnellate l’anno. Già nel 2009,
però, questo numero era a 67,6. Il rapporto dimostra come l’entusiasmo dei
sostenitori della “crescita verde” sia frutto di "una sostanziale finzione
statistica", e indica almeno sette ragioni per essere scettici riguardo al
verificarsi di un disaccoppiamento assoluto e sufficiente nel futuro.
Aumento
della spesa energetica. L’estrazione risorse di solito diventa più costosa man
mano che le scorte si esauriscono: quando le opzioni più economiche non bastano
più, si passa a sistemi caratterizzati da una maggiore intensità energetica,
con conseguente aumento della pressione sull’ambiente. È il caso del gas di
scisto o del petrolio da sabbie bituminose, che richiedono processi di
estrazione molto impattanti perché si tratta di materie prime non facili da
recuperare.
Effetti
rimbalzo. I miglioramenti nell’efficienza sono spesso compensati, del tutto o
in parte, da un utilizzo dei risparmi per aumentare i consumi nello stesso
settore o in altri. Non è raro che un’auto a basso consumo venga utilizzata più
spesso, o che il denaro risparmiato venga speso in un biglietto aereo per
vacanze che altrimenti non ci si poteva permettere. Inoltre, la promozione di
automobili più efficienti può rafforzare una mobilità basata sull’auto privata,
invece di spostare il sistema di trasporto verso i mezzi pubblici e la
bicicletta.
chi di paglia. La Cina stava spostando una parte significativa della produzione
energetica dal carbone all’oil&gas, mentre gli Stati Uniti accrescevano la
quota di gas nel mix energetico. Ben presto, però, completata la transizione,
economia ed emissioni sono tornate ad accoppiarsi (+1.6% nel 2017 e +2.7% nel
2018). Prendendo altri casi settoriali in cui il disaccoppiamento dovrebbe
verificarsi, il rapporto rivela che non si è mai vista una forbice, anzi. Per
quanto riguarda i flussi di risorse minerali e organiche estratte
dall’ambiente, ad esempio, nei paesi OCSE l’accoppiamento stabile fra loro uso
e crescita è evidente. La cosiddetta material footprint è aumentata del 50% fra
il 1990 e il 2008 registrando un +6% di utilizzo ogni +10% di PIL. A dirci che
siamo già in forte debito con l’ecosistema sono anche i numeri assoluti: per
essere ecologicamente sostenibili, dovremmo limitare il consumo di risorse a
circa 50 miliardi di tonnellate l’anno. Già nel 2009, però, questo numero era a
67,6. Il rapporto dimostra come l’entusiasmo dei sostenitori della “crescita
verde” sia frutto di "una sostanziale finzione statistica", e indica
almeno sette ragioni per essere scettici riguardo al verificarsi di un
disaccoppiamento assoluto e sufficiente nel futuro.
Spostamento
dei problemi. Le soluzioni tecnologiche a un problema ambientale possono
crearne di nuovi o esacerbarne altri. Ad esempio, la produzione di energia
elettrica per la mobilità privata causa pressioni sulle riserve di litio, rame
e cobalto, mentre i biocarburanti sottraggono suolo alla produzione di cibo.
Impatto sottovalutato dei servizi. L’economia dei servizi può esistere solo se
basata sull’economia materiale. I servizi hanno un’impronta significativa che
spesso si aggiunge a quella dei beni invece di sostituirla.
Potenziale limitato del riciclo. I tassi di riciclo sono attualmente bassi e
crescono lentamente. Un loro aumento richiederà una quantità significativa
di energia e materie prime. Inoltre, ad oggi il riciclo ha una capacità
limitata di supportare un’economia materiale in crescita.
Cambiamenti tecnologici insufficienti e inappropriati. Il progresso tecnologico
non sta prendendo di mira i fattori di produzione che contano per la
sostenibilità ecologica e non porta al tipo di innovazioni che riducono le
pressioni ambientali. Non è abbastanza dirompente perché non riesce a
sostituire altre tecnologie indesiderabili e non è abbastanza veloce da
consentire un disaccoppiamento sufficiente.
Trasferimento dei costi. In alcuni casi il disaccoppiamento calcolato su base
locale non è altro che l’effetto di un’esternalizzazione dell’impatto
ambientale in altri paesi, favorita dalle regole del commercio internazionale.
Di fronte a questi risultati, e con una decina d’anni appena per invertire i
trend di riscaldamento globale globale, il rapporto dell’European Environmental
Bureau pone una questione non più rinviabile: andare oltre la crescita nella
scrittura delle politiche. Vent’anni di strategie improntate alla “crescita
verde” da parte di tutte le più importanti istituzioni internazionali non hanno
portato ai risultati previsti: "Il disaccoppiamento – scrivono i
ricercatori nelle loro conclusioni – ha fallito nel raggiungere la
sostenibilità ecologica che aveva promesso. Non è che gli aumenti
dell’efficienza non siano necessari, ma è irrealistico aspettarsi che possano
scollegare in modo assoluto, globale e permanente dalla sua base biofisica un
metabolismo economico in costante crescita". Basarsi soltanto su questo
per risolvere i problemi ambientali "sembra essere estremamente rischioso
e irresponsabile", scrivono. E cercare di risolvere questioni di giustizia
sociale ed ecologica con il disaccoppiamento "è come provare a tagliare un
albero con il cucchiaio: un’operazione probabilmente lunga, e ancora più
probabilmente destinata a fallire".
NOTE:
1) https://eeb.org/library/decoupling-debunked/
2) https://luce-edizioni.it/prodotto/il-mito-della-crescita-verde/
lunedì 27 dicembre 2021
domenica 26 dicembre 2021
Siamo l’ultima generazione - Extinction Rebellion Italia
Immaginate di essere seduti a terra in tangenziale, con di fronte file di automobilisti bloccati in una lunga colonna soltanto dal vostro corpo; a difendervi nulla, fra voi e le auto solo un enorme striscione fucsia con la scritta “Emergenza climatica ed ecologica” e il simbolo di Extinction Rebellion.
Accanto a voi, altre cinque persone a voi care, con i gilet fluorescenti
simili al vostro, reggono uno striscione giallo con la scritta “Assemblee
Cittadine Ora”. Il rumore dei clacson è assordante, le urla degli automobilisti
accigliati che hanno iniziato a scendere dalle auto vi rimbombano nelle
orecchie.
Questa è la scena che alcune attiviste e attivisti di Extinction Rebellion
stanno vivendo ogni giorno da più di una settimana ormai: stanno prendendo
parte a una campagna di disobbedienza civile nonviolenta che è stata
intitolata “Ultima Generazione- Assemblee Cittadine Ora”.
La prima parte del nome della campagna allude alla drammatica
consapevolezza che le persone che sono al mondo ora, indipendentemente dalla
loro età, sono le ultime che hanno la possibilità di cambiare il corso degli
eventi riguardo alla crisi ecologica e climatica.
Tutte le persone che sono in strada hanno letto la prima parte del sesto
rapporto dell’IPCC, uscito in agosto, scritta e revisionata da scienziati di tutto
il mondo, che con parole forti e inequivocabili e dati ormai misurabili (non
più solamente basati su modelli) ha certificato che siamo di fronte al collasso
climatico.
Un mondo a + 1,5°C rispetto all’era pre-industriale è ormai inevitabile; di
più, se non si agisce subito, azzerando le emissioni climalteranti, entro il
prossimo decennio supereremo i +2°C. Gli scienziati dichiarano che
un mondo a +2°C equivale a una catastrofe.
Un mondo di morte, di estinzione di massa delle specie animali e vegetali, dove
anche le vittime umane si conteranno prima a milioni e poi, esponenzialmente, a
centinaia di milioni, a miliardi. A novembre, dopo il fallimentare G20 di Roma, si è conclusa l’ennesima farsa della COP 26, con le
lacrime di chi la presiedeva, con l’abbandono anticipato del Segretario
Generale dell’ONU, col drammatico messaggio del Papa, che è arrivato ad
invocare il giudizio divino per l’incapacità di chi è chiamato ad amministrare
il mondo che ci è stato affidato.
Sulla spinta della paura e dell’indignazione, questo gruppo di persone ha
deciso di portare alle estreme conseguenze l’uso della disobbedienza civile
nonviolenta per fare pressione alle istituzioni, perché considerino le loro
richieste.
Stanno bloccando il traffico sulle strade principali della Capitale, a
partire dal G.R.A. che è stato bloccato per due lunedì di fila, fino ad
arrivare alle tangenziali, usando solamente i loro corpi, perché non hanno
trovato altro modo per farsi ascoltare. Sono persone di tutte le età e tutte le
appartenenze sociali, che hanno perso fiducia nella possibilità di cambiare le
cose con manifestazioni, marce, petizioni, campagne di sensibilizzazione…
La disobbedienza civile nonviolenta, fatta di azioni che infrangono una
legge per mettere in luce l’ingiustizia sistemica, è apparsa a questo gruppo di
persone come l’unica via per portare un cambiamento radicale e veloce.
Gli attivisti e le attiviste sapevano a cosa andavano incontro, ne avevano
parlato alle loro famiglie e si erano preparati/e ad affrontare gravi
conseguenze per le loro azioni: in effetti fin dai primi giorni la questura sta
comminando due denunce ciascuno al giorno, sanzioni amministrative molto salate
ed ha emesso nei confronti di chiunque si sia seduto in strada, già dal primo
giorno, un foglio di via dalla capitale, che loro hanno violato.
Tuttavia il morale degli attivisti e delle attiviste rimane alto, hanno
deciso di continuare ad oltranza fino a quando almeno una delle due richieste
della campagna saranno soddisfatte. Infatti la seconda parte del nome della
campagna si concentra concretamente sullo strumento che potrebbe permettere un
reale cambiamento, tenendo conto della giustizia sociale: le Assemblee dei
Cittadini. Si tratta di uno strumento di Democrazia partecipativa e deliberativa, già in uso in altri paesi, dove cittadini
estratti a sorte vengono chiamati a deliberare su temi precisi.
La richiesta di attiviste e attivisti che stanno scendendo in strada
è che queste Assemblee vengano istituite, anche in Italia, entro la
fine del 2022, sul tema di quali soluzioni prendere per affrontare la crisi
ecologica e climatica senza lasciare indietro gli ultimi, senza far pagare loro
il carissimo prezzo delle decisioni che non si stanno prendendo.
L’altra richiesta della campagna, che è cruciale perché gli attivisti e le
attiviste smettano di mandare in tilt il traffico della capitale, è rivolta a
rappresentanti del governo, affinché Mario Draghi , Roberto Cingolani, Stefano
Patuanelli, Giancarlo Giorgetti, Andrea Orlando e Maria Rosaria Carfagna
accettino un incontro pubblico con le persone scese in strada sul tema
“Siamo l’Ultima Generazione di cittadini e cittadine?”. Verrà chiesto loro
di dibattere apertamente sul futuro dell’Italia e sulla necessità della
partecipazione diretta della cittadinanza per fermare l’ecocidio in
corso.
Le azioni di disobbedienza civile nonviolenta, che hanno obiettivi
ambiziosi, vogliono innescare una spinta alla partecipazione popolare e
necessitano del supporto di tutti e tutte; gli attivisti e le attiviste di
Extinction Rebellion chiedono il sostegno da parte di coloro che credono nella
partecipazione popolare, di coloro che credono che è necessario fare azioni
radicali per attivare un cambiamento radicale.
Per conoscere meglio la strategia e la campagna tutti i venerdì e le
domeniche di dicembre e gennaio alle 21 il gruppo propone una presentazione su
zoom alla quale ci si può iscrivere tramite questo link.
Sir David Anthony King, chimico, accademico e capo del Climate Crisis
Advisory Group ha dichiarato: “Dobbiamo muoverci rapidamente. Io credo che i
prossimi 3-4 anni determineranno il destino dell’umanità”. Scendere in strada a
fare disobbedienza civile nonviolenta è un modo per rispondere a questo
appello.
Video di lancio della campagna
sabato 25 dicembre 2021
Vaccini in Africa: i pericoli del nuovo colonialismo medico - Chiara Cogliati
La pandemia da Covid-19 continua a non lasciare tregua e protagonista della nuova ondata è il continente africano che, senza troppe sorprese, si trova in difficoltà per incremento di contagi, mancanza di vaccini e risorse.
Il neocolonialismo medico
La
distribuzione dei vaccini in Africa ha riportato alla luce dinamiche
neocoloniali dove i Paesi in via di sviluppo sono esclusi dal tavolo dei
“grandi” che nel distribuire i vaccini lasciano loro soltanto le briciole.
E parlare di colonialismo non è un’esagerazione: si pensi allo
svantaggio economico dei Paesi africani, costretti a soccombere sotto
l’influenza dei potenti che dominano la scena globale.
Ma il
colonialismo medico dei giorni nostri è visibile anche dalla qualità
dei vaccini ricevuti in Africa: se Pfizer e Moderna faticano a
rispettare le consegne, a colmare il vuoto ci pensano Johnson & Johnson e
AstraZeneca che, tuttavia, in termini di sicurezza e copertura, non si possono
definire alternative ambivalenti.
E
dietro alle stime della rivista scientifica BMJ Global Health – che riportano
l’’1,6% di popolazione completamente vaccinata nel continente africano – si
nasconde una riluttanza – comprensibile – della popolazione nel
somministrarsi tali vaccini, che anche nei Paesi più sviluppati hanno causato
scetticismo e preoccupazione.
Una questione (anche) geopolitica
Un
attore fondamentale nella distribuzione dei vaccini in Africa è la Cina,
il cui presidente Xi Jinping ha annunciato lo scorso novembre la donazione di
un miliardo di vaccini Sinopharm e Sinovac. La mossa cinese deriva da una
strategia geopolitica: portare aiuto dove i giganti occidentali non
arrivano e, di conseguenza, espandere contatti e creare alleanze. Ma
il problema resta. I vaccini cinesi hanno una protezione di circa il 50% dal
contagio e recenti studi mostrano che potrebbero non essere abbastanza efficaci
contro la variante Omicron.
Gli
Stati africani durante la pandemia sono stati trattati più da asset
geopolitico che attore bisognoso di risorse, infrastrutture e finanziamenti.
La pandemia non ha fatto altro che peggiorare un trend già esistente e che vede
l’abolizione della povertà come obiettivo dell’Agenda
2030 ancora più irraggiungibile.
Se
dunque la Cina ha mostrato un fervido interesse per le vaccinazioni nel
continente africano, d’altra parte gli Stati occidentali hanno agito su un
fronte pressoché opposto. Fa scalpore infatti il “no” di Germania e Stati Uniti – che
ospitano le sedi delle case farmaceutiche – alla richiesta dell’OMS e di
circa ottanta paesi guidati da Sudafrica e India di liberalizzazione dei
brevetti sui vaccini, il che consisterebbe di istituire sedi di produzione
locale e dunque incrementare la quantità dei vaccini disponibili
per i Paesi in via di sviluppo.
Vaccini o varianti
Il
respingimento di tale richiesta non va che a confermare la tesi secondo cui la
pandemia non abbia che contribuito al rafforzamento di politiche
neocoloniali.
I
“Grandi”, però, starebbero commettendo un passo falso, soprattutto ora che
quello che molti epidemiologici avevano preannunciato: una mancata copertura
globale rende la comparsa di altre varianti del virus molto più probabile.
Ed è così che ci troviamo ora alle prese con la variante Omicron.
Il
continente africano necessita dunque di aiuti ingenti per poter continuare la
campagna vaccinale con successo. C’è bisogno di una strategia solida di
distribuzione, identificando le categorie a cui dare priorità. Ma in
primis c’è bisogno di vaccini. Le disuguaglianze nell’arena globale
sono ancor più evidenti quando in Occidente c’è chi si prepara alla terza dose,
mentre in Africa somministrarne una seconda ad almeno il 10% della
popolazione è considerato un obiettivo notevole – raggiunto al momento solo da
14 Paesi.
Rispondere
all’esigenze dei Paesi africani non dev’essere in conseguenza a strategie
geopolitiche, ma dovrebbe trattarsi di un obbligo morale che giovi non solo ai
diretti interessati, ma all’intera arena globale che da quasi due anni
convive con la pandemia e i suoi disastrosi effetti.
venerdì 24 dicembre 2021
Più grande, migliore, più veloce. Il paradosso ecologico delle economie digitali - Paz Peña
Il potere di avanzamento della tecnologia e la riduzione dei suoi costi di produzione hanno creato un ecosistema di tecnologie digitali interdipendenti che sostengono la trasformazione digitale.
Secondo l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE)i, questo ecosistema si evolverà e, in
futuro, continuerà a guidare il cambiamento economico e sociale. Attualmente
l'ecosistema è sostenuto dall'internet delle cose (IoT nell'acronimo inglese),
dalle reti wireless di prossima generazione (5G), dal cloud computing,
dall'analisi dei big data, dall'intelligenza artificiale, dalla blockchain (o
catene di blocchi) e dal calcolo ad alte prestazioni, anche se le tecnologie
che modellano l'evoluzione dell'ecosistema sono destinate a cambiare nel tempo.
Si dice che
davanti a noi abbiamo una rivoluzione. Tuttavia, è altrettanto facile sostenere
che sembra una nuova evoluzione della stessa cosa: il capitalismo ha
trovato una nuova vita con le tecnologie digitali. In una continuazione delle
pratiche estrattive e colonialiste, questa volta le tecnologie digitali
rivendicano l'esperienza umana come materia prima gratuita da tradurre in dati
comportamentali. La nuova “rivoluzione” si chiama Quarta Rivoluzione
Industriale e, per le aziende che ne beneficiano, suona come una rivolta
felice.
Le aziende possono ora sfruttare ogni nostro passo quotidiano senza nemmeno
fare affidamento sul fatto che accendiamo o meno i nostri dispositivi: le
“città intelligenti” e tutti i nostri comportamenti mediati da “dispositivi
intelligenti” (IoT) possono essere trasformati in dati, elaborati da più
aziende e venduti nei mercati dei futuri comportamenti che, al di là degli
annunci online mirati, si estendono a molti altri settori.
Ma le
rivoluzioni richiedono velocità. Un senso di urgenza sta contagiando gli Stati
dormienti che mancano di idee a favore del benessere sociale di massa.
L'iniziativa nelle politiche pubbliche è ora dettata dal settore privato che,
con un respiro di sollievo, chiede ai governi di facilitare la “trasformazione
digitale”.
È una situazione vantaggiosa per entrambi: le aziende private avranno infinite
miniere di dati (di ognuno e ognuna di noi) e gli stati potranno avere una
maggiore produzione e quindi migliori quote di crescita.
Il
cambiamento climatico come opportunità di fare affari
La
trasformazione digitale ha ricevuto una spinta inaspettata e drammatica poco
più di cinque anni fa. Il 12 dicembre 2015, nella Conferenza delle Nazioni
Unite sui Cambiamenti Climatici di Parigi (COP21), le parti della Convenzione
Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) hanno raggiunto
un accordo storico per combattere l'emergenza climatica e per accelerare e
intensificare le azioni e gli investimenti necessari per un futuro sostenibile
e a basse emissioni di carbonio. Mitigare il cambiamento climatico significa
ridurre il consumo di energia, principalmente attraverso la creazione di un
sistema di energia rinnovabile.
L'Accordo di
Parigi si riferisce esplicitamente all'innovazione nell'articolo 10, paragrafo
5.
Inoltre, per sfruttare appieno il potenziale delle tecnologie per il clima,
l'UNFCCC afferma che è cruciale innovare e usare “tecnologie rivoluzionarie” in
altri ambiti per migliorare le nostre vite “come la nanotecnologia, le catene
di blocchi (o blockchain), l'internet delle cose e altre tecnologie di
comunicazione e informazione.” ii
L'UNFCCC
(Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici) ci ricorda
anche che l'innovazione tecnologica deve essere inclusiva ed equa per ottenere
il massimo impatto.
Secondo
Riegeriii, ci sono teoricamente tre modi in
cui le tecnologie dell'informazione e della comunicazione (ICT) conducono alla
dematerializzazione (intesa come diminuzione dell'uso delle risorse). Da un
lato le ICT porterebbero alla dematerializzazione sostituendo i beni materiali
con quelli virtuali, per esempio sostituendo le copie fisiche degli album
musicali con copie digitali.
D'altra parte, il settore delle ICT ha un impatto ambientale minore rispetto a
molti altri ambiti. A seconda dei settori economici che sostituisce, la sua
crescita potrebbe ridurre le emissioni totali dell'economia nel suo insieme.
Infatti, la sostenibilità è stata identificata come uno dei principali benefici
dell'economia digitale, specialmente nei processi di produzione, dove
l'allocazione delle risorse (prodotti, materiali, energia e acqua) può essere
resa più efficiente attraverso una gestione intelligente che utilizza varie
tecnologie. Infine, l'uso diffuso di queste tecnologie aumenterebbe
l'efficienza energetica e delle risorse.
Secondo un
rapporto commissionato alla società privata Accenture dalla Global
e-Sustainability Initiative (GeSi), le ICT possono permettere una riduzione del
20% delle emissioni globali di CO2 entro il 2030, mantenendole ai livelli del
2015: “Questo significa che possiamo potenzialmente evitare il dilemma tra
prosperità economica e protezione ambientale”.iv
Il paradosso
ecologico dell'economia digitale
È tuttavia
essenziale capire che gli effetti benefici delle ICT - ridurre il consumo di
energia e facilitare il passaggio alle energie rinnovabili - devono essere
valutati rispetto agli effetti dannosi diretti del nostro passaggio a
un'economia digitale. Tra questi ci sono le emissioni dovute all'aumento della
produzione, dell'uso e dell'eliminazione delle ICT. In altre parole, dobbiamo
considerare il costo materiale dell'immaginario etereo della digitalizzazione.
Si riconosce
che l'evoluzione dell'ecosistema tecnologico che sostiene l'economia digitale
va accompagnata da un insolito aumento del consumo di energia. Tuttavia, questa
relazione positiva tra digitalizzazione e consumo di energia non esiste in
tutti i paesi e in tutti i settori energetici. Per affrontare queste criticità
fondamentali nei sistemi e nei dispositivi di telecomunicazione, è stata
sviluppata una visione olistica chiamata “comunicazione verde”, che mira ad
aumentare l'efficienza energetica su tutta la scala delle reti di comunicazione
e informatica.v
Per esempio, tra le altre tecnologie, ci sono sforzi per diminuire il consumo
di energia nella diffusione del 5G e nei data center. Anche se l'efficienza
energetica è in aumento da decenni nel settore delle ICT, le promesse di
ridurre il consumo di energia attraverso la digitalizzazione non sono ancora
state comprovate. Secondo un recente studio di Lange et al., “la
digitalizzazione demolisce il suo stesso potenziale” per ridurre la domanda
di energia.
Inoltre,
come mostrano recenti risultati sulla dematerializzazione e le ICT in Europa:
"Sebbene
la dematerializzazione si sia probabilmente verificata in specifici
settori dell'economia - ne sono esempi la digitalizzazione di musica, libri e
film, così come l'aumento del telelavoro, delle teleconferenze e la diffusione
del commercio online - si tratta ancora di un cambiamento limitato e non ha
avuto un impatto sul consumo nel suo complesso".vi
Questo
paradosso prodotto dall'aumento della produzione, dell'uso e dello smaltimento
delle ITC ha anche un impatto diretto sulla gestione dei rifiuti di
apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), o rifiuti elettronici.
La miniaturizzazione, l'obsolescenza dei dispositivi e la maggiore versatilità
dei dispositivi (ad esempio con la nuova generazione di dispositivi compatibili
5G) hanno contribuito alla ridondanza dei dispositivi più vecchi. Secondo Forti
et al.vii , il peso totale del consumo
globale di apparecchiature elettriche ed elettroniche aumenta in media di 2,5
milioni di tonnellate ogni anno, anche escludendo i pannelli fotovoltaici.
Inoltre, nel 2019, il mondo ha generato una quantità impressionante - 53,6
milioni di tonnellate - di rifiuti elettronici, una media di 7,3 kg pro capite.
Si stima che
57 miliardi di dollari di materie prime secondarie fossero presenti nei RAEE
generati nel 2019. L'estrattivismo urbano cerca di recuperare materiali
secondari e di ridurre l'esaurimento delle materie prime primarie. Tuttavia
questo non è sempre fattibile, soprattutto perché produce inquinamento
dell'aria, dell'acqua e del suolo a causa degli effluenti provenienti da
attività di riciclaggio spesso informali. Inoltre, la progettazione dei
dispositivi per facilitare il loro successivo riciclaggio rimane una scommessa.
C'è anche da
tenere in considerazione i costi ecologici dell'estrazione di materie prime per
fabbricare la nuova generazione di dispositivi tecnologici, tecnologie verdi
comprese. I conflitti politici, ambientali e culturali creati dall'
“estrattivismo verde”, che non fa che approfondire il divario economico tra
paesi sviluppati e non sviluppati, dovrebbero essere un serio indicatore dei
costi reali dell'innovazione e, soprattutto, di chi finisce per pagarne il
prezzo.
Anche
l'essere umano fa parte del paradosso ecologico in questa catena estrattiva.
Più le tecnologie diventano efficienti più gli esseri umani saranno sfruttati
come materia prima, poiché siamo le fonti del surplus del capitalismo di
sorveglianza. I costi materiali della digitalizzazione vanno oltre l'uso delle
risorse naturali, includendo anche l'estrattivismo umano. Tuttavia, le
conseguenze di ciò sull'ambiente devono ancora essere esaminate. Per ora si può
sostenere che, come parte del ciclo del capitalismo, lo sfruttamento dei nostri
dati è in parte motivato dalla promozione del consumo infinito nelle economie
digitali.
Tecnologia per una trasformazione socioecologica egualitaria
In linea con
i concetti egemonici dell'economia digitale, l'emergenza climatica è, piuttosto
che una crisi senza precedenti prodotta dal Capitalocene, un'opportunità di
business. Questo ha portato a una visione neoliberale depoliticizzata che
domina le attuali tecnologie. Il loro progetto e il loro impiego cercano di
risolvere problemi strutturali di sostenibilità con la mera efficienza e
produttività, allineandole con politiche di austerità. La logica
dell'estrattivismo puro applicata alle tecnologie è contraria a qualsiasi norma
etica post-umana e apre la strada a orrori come l'“apartheid climatica”.
In tempi
urgenti del Capitalocene è imperativo creare tecnologie alternative; ma invece
di concepire gli hackerspaces o le imprese open source come tentativi degni ma
individuali che galleggiano in assenza di un orizzonte politico, la sfida è che
le tecnologie digitali siano impiegate in una configurazione socio-economica e
socio-ambientale qualitativamente diversa, che non sia solo “meno delle stesse
cose”. In questo contesto è forse il momento di esplorare criticamente il
progetto di decrescita.
La
decrescita è un progetto di trasformazione socio-ecologica radicale ed
egualitaria che mira a decolonizzare l'immaginario sociale della ricerca della
crescita senza fine.
Come affermano Mastini et al., la decrescita cerca una riduzione equa della
produzione con una conseguente garanzia di benessere.viii
La loro
ipotesi è che il PIL possa diminuire e che, tuttavia, la qualità della vita
possa migliorare. Da questo punto di vista, il capitalismo e il suo paradigma
di crescita economica ci hanno portato a un limite planetario in cui non è
possibile ridurre le emissioni di carbonio alla velocità necessaria. Inoltre,
basandosi sulla storia, la decrescita rifiuta l'idea che il solo dispiegamento
di energie rinnovabili sia sufficiente a sostituire i combustibili fossili
nella produzione di energia dato che, per esempio, la scoperta del petrolio
come fonte di energia non ha sostituito il carbone.
Il paradigma
della decrescita è ancora agli inizi e molto resta da fare, compreso il ruolo
fondamentale che le tecnologie devono avere in esso. Inoltre, la transizione
alla decrescita deve essere pianificata come uno sforzo planetario e
partecipativo per evitare disuguaglianze strutturali. Con tutte le sue infinite
sfide, la decrescita può essere uno stimolo per i tecnologi, la società civile,
il mondo accademico, i governi e le imprese ad allontanarsi dalla logica
estrattivista e dare forma a un'economia digitale sostenibile.
L'umanità
non ha tempo da perdere. Se vogliamo sopravvivere come specie, abbiamo bisogno
di una innovazione strutturale. Abbiamo bisogno di situarci su una soglia
diversa dove umani e non umani, comprese le macchine intelligenti, possano
coesistere in modo solidale di fronte alle sfide di un pianeta che, ci piaccia
o no, è già irrimediabilmente diverso.
* Paz Peña è una consulente indipendente e un'attivista
nell'intersezione tra tecnologia, femminismo e giustizia sociale.
** Traduzione in italiano di Marina Zenobio per Ecor.Network
Articolo tratto
dalla rivista America Latina en Movimiento, n. 554, novembre 2021, pp. 2/6.
Il numero è intitolato "Tecnologia e Medio Ambiente. Respuestas desde el
Sur".
giovedì 23 dicembre 2021
scrive Silvia Pareschi
La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto è stata convincere il mondo che abbandonare i combustibili fossili ci porterà tutti alla rovina.
mercoledì 22 dicembre 2021
Il debito per il clima - Antonio De Lellis
Esiste un rapporto tra sindemia, debito e cambiamenti climatici? Il rapporto e le interconnessioni sono dovute, ad esempio, al fatto che l’aumento del debito pubblico e in generale il peggioramento dei conti pubblici è stato necessario per sostenere i lockdown e la ripresa delle attività. Ma lo stesso sarà necessario per attivare politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. Cosa accadrà ai nostri conti pubblici peggiorati in balia della finanza speculativa? Quali scenari geopolitici avremo di fronte? È possibile neutralizzare gli effetti della finanza ed è possibile non dipendere da essa?
Quanto è costato a ciascun italiano la sindemia? Calo
del Pil nominale pro-capite: 2.371 euro. Aumento del debito pro-capite 3.049
euro. È costato dunque ad ogni italiano in media 5.420 euro. Gli aiuti statali
sono stati 1.858 euro, inferiore di 513 euro alla perdita del Pil pro-capite.
In Germania abbiamo avuto una differenza positiva tra aiuti statali e perdita
del Pil pari a +1.841 euro, in Francia -120 euro.
Al 31
dicembre del 2020 il debito delle amministrazioni pubbliche era pari a 2.569,3
miliardi (155,6 per cento del Pil); a fine 2019 il debito ammontava a 2.409,9
miliardi (134,7 per cento del Pil). Il debito elevato sembrerebbe non
necessariamente un problema o un limite (il costo del debito si annulla per
effetto delle politiche delle banche centrali), ma non c’è nessuna garanzia sul fatto che non
torneremo all’austerità. Il sistema pensa di evitarla sperando nella
crescita, ma la crescita oltre a essere nemica della sostenibilità dipende da
troppe variabili anche di tipo internazionale e non c’è nessuna certezza al
riguardo. La prospettiva meno affascinante è che l’Italia continua a muoversi
con richieste di scostamento confermando il piano di rientro decennale basato
su Austerity e sull’efficacia del PNRR che però si basa su un saldo netto
minimo e su stime sempre fragili.
Ampliando lo
sguardo, come valutare ciò che
accade in Africa? Lì si vorrebbe far ricorso a modelli come
quello dei debt-for-climate-swaps:
il condono del debito in cambio di impegni finanziari sulla transizione
ecologica. Per uscirne, stima la Banca mondiale, avrebbe bisogno di 30-50
miliardi di dollari all’anno fino al 2030. Lo stesso meccanismo dei debt-for-climate swaps resta una
soluzione minoritaria e di difficile esecuzione, come testimonia il naufragio
di una proposta in loro favore che avrebbe dovuto essere pubblicata da Fondo
monetario internazionale e Banca mondiale. Il
rischio è che la via principale resti quella dei prestiti, gonfiando ancora di
più l’esposizione debitoria. Se fai tutto questo ricorso al debito,
devi avere una buona affidabilità creditizia. Ma
le economie africane sono state affossate dal Covid.
Se
attraverso il debito la finanza speculativa incide profondamente, determinando
prima caos climatico (banche fossili), conflitti armati (finanziamento
nucleare) e migrazioni forzate epocali, come possiamo neutralizzare l’effetto
dei padroni del clima? Se la finanza entra nel grande mercato dei prestiti per
il contrasto al cambiamento climatico, non otterremo l’effetto opposto? Ovvero
i Padroni del Clima non diventeranno sempre di più i padroni del mondo? Per
questo gli indigeni in Sudafrica sono in rivolta contro gli accordi della Cop26 di Glasgow: «È ingiusta e
causerà un ulteriore sfruttamento delle risorse naturali», «Nella sua forma
attuale l’accordo è subdolo e non etico. Da un lato il mondo sviluppato si
rifiuta di raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissioni di carbonio di 1,5
gradi, dall’altro finanzia progetti di innovazione verde in Sudafrica». «Questo
approccio sosterrà lo sfruttamento delle nostre risorse naturali e minerarie
per il loro guadagno a lungo termine a scapito dei diritti delle popolazioni
indigene, escluse dall’accordo. La Cop26 non può violare i diritti sanciti
dalla dichiarazione delle Nazioni Unite».
martedì 21 dicembre 2021
La decrescita necessaria - Jason Hickel
Introduzione e definizione alla decrescita
La civiltà umana attualmente sta superando una serie di limiti planetari
critici e affronta una crisi multidimensionale di disgregazione ecologica, che
comprende pericolosi cambiamenti climatici, acidificazione degli oceani,
deforestazione e collasso della biodiversità (Lenton et al., 2020; Rockström et
al., 2009; Steffen et al., 2015; Steffen et al., 2018). Contrariamente alla
narrazione generale sull’Antropocene, questa crisi non è causata dagli esseri
umani in quanto tali, ma da un particolare sistema economico: un
sistema che è predestinato all’espansione perpetua, sproporzionatamente a
beneficio di una piccola minoranza di ricchi (Moore, 2015).
La relazione tra crescita economica e disgregazione ecologica è ormai ben
dimostrata dalla ricerca empirica. Nell’economia mainstream, l’affermazione
dominante è che dobbiamo continuare a perseguire la crescita perpetua (vedi
Hickel, 2018a), e quindi dobbiamo cercare di disaccoppiare il PIL dagli impatti
ecologici e rendere la crescita “verde”. Sfortunatamente, le speranze
di una crescita verde hanno poco fondamento. Non ci sono prove
storiche di disaccoppiamento a lungo termine del PIL dall’uso delle risorse
(come misurato dall’impronta materiale), e tutti i modelli esistenti prevedono
che ciò non possa essere raggiunto nemmeno in condizioni ottimistiche (Hickel
& Kallis, 2020; Vadén, Lähde, Majava, Järvensivu, Toivanen, & Eronen
2020; Vadén et al. 2020b). Il disaccoppiamento assoluto del PIL dalle emissioni
può essere raggiunto semplicemente sostituendo i combustibili fossili con
l’energia rinnovabile; ma questo non può essere fatto abbastanza velocemente
per rispettare i bilanci del carbonio per 1,5°C e 2°C se l’economia continua a
crescere ai tassi abituali. Più crescita significa più domanda di energia, e
più domanda di energia rende ancora più difficile coprirla con le rinnovabili
nel breve tempo che ci rimane (Hickel & Kallis, 2020; Raftery et al., 2017;
Schroder & Storm, 2020).
Alla luce di queste prove, gli scienziati e gli economisti ecologici
chiedono sempre più un passaggio a strategie di “post-crescita” e
“decrescita”. Il rapporto speciale del 2018 dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate
Change) indica che, in assenza di tecnologie speculative a emissioni negative,
l’unico modo fattibile per rimanere entro il budget di carbonio sicuri è che le
nazioni ad alto reddito rallentino attivamente il ritmo della produzione e del
consumo di materiali (Grubler et al., 2018; IPCC, 2018). La riduzione del
flusso di materiali riduce la domanda di energia, il che rende più facile realizzare
una rapida transizione alle rinnovabili. Questo approccio è anche
ecologicamente coerente: ridurre il flusso di materiale non solo ci aiuta ad
affrontare il cambiamento climatico, ma rimuove anche la pressione su altri
limiti planetari.
Questo è noto come “decrescita”. La decrescita è una riduzione
pianificata della produzione di energia e risorse progettata per riportare
l’economia in equilibrio con il mondo vivente in un modo che riduca la
disuguaglianza e migliori il benessere umano (Kallis, 2018; Latouche,
2009). È importante chiarire che la decrescita non riguarda la riduzione del
PIL, ma piuttosto la riduzione della quantità di risorse. Da una prospettiva
ecologica, questo è ciò che conta. Naturalmente, è importante accettare il
fatto che questa riduzione porterà probabilmente a una diminuzione del tasso di
crescita del PIL, o addirittura a un declino del PIL stesso, e dobbiamo essere
pronti a gestire questo risultato in modo sicuro e giusto. Questo è ciò che la
decrescita si propone di fare.
Mentre la teoria della decrescita sta attirando una crescente attenzione
tra gli accademici e i movimenti sociali, per le persone che si avvicinano per
la prima volta all’idea, ciò solleva una serie di domande. Qui mi propongo di
affrontare diverse questioni riguardanti la terminologia, la recessione
economica e l’economia politica internazionale, nonché il divario Nord-Sud.
Il linguaggio della decrescita
Molte delle obiezioni alla decrescita hanno a che fare con il termine
stesso. Alcune persone si preoccupano che la decrescita introduca confusione
perché non è, di fatto, l’opposto della crescita. Quando la gente dice
“crescita” normalmente intende la crescita del PIL, quindi si potrebbe
ragionevolmente supporre che la decrescita sia allo stesso modo focalizzata sulla
riduzione del PIL. I sostenitori della decrescita sono quindi condannati a
chiarire perennemente che la decrescita non riguarda la riduzione del PIL, ma
piuttosto la riduzione del flusso di materiale ed energia. Sembrerebbe che
questo crei problemi inutili.
Ma, in realtà, il problema qui nasce dalla parola crescita, non dalla
decrescita. In realtà, le persone perseguono la crescita non per aumentare un
numero astratto (il PIL), ma perché vogliono consumare o fare di più, il che
ovviamente richiede l’uso di più materiali ed energia. Così, quando gli
economisti e i politici parlano di crescita, in realtà intendono un aumento dei
materiali e dell’energia (e in particolare un aumento dei materiali e
dell’energia mercificati), anche se questo non è dichiarato
apertamente. La preoccupazione per il PIL è un feticcio che oscura questo
fatto; fa sembrare che la crescita sia immateriale quando in realtà non lo è.
Se la crescita del PIL non fosse accompagnata da un aumento dei consumi
materiali, la gente non la perseguirebbe (che senso ha avere un reddito più
alto se non ti permette di espandere le spese militari, comprare case più
grandi e macchine più veloci, o pagare persone che facciano cose per te?). In
questo senso la decrescita, con la sua attenzione alla riduzione dell’uso di
materiali ed energia (e alla riduzione dei modelli di mercificazione), è in
effetti un opposto appropriato alla crescita, e chiarisce infatti ciò che la
crescita stessa è in realtà.
Ora, ci si potrebbe chiedere, perché usare il termine decrescita, quando si
potrebbe semplicemente dire “vogliamo ridurre il consumo di energia e
materiali” ed evitare la confusione? Ci sono alcune ragioni per questo. In primo luogo,
la maggior parte degli economisti sarebbero d’accordo sul fatto che ridurre il
consumo di energia e di materiali è importante, ma presumono che questo possa
essere realizzato continuando a perseguire la crescita economica allo stesso
tempo (anzi, potrebbero anche credere che una maggiore crescita alla fine
porterà a una riduzione del consumo). Abbiamo bisogno di un modo per
distinguere la posizione della decrescita da questa ipotesi standard di
“crescita verde”. Se accettiamo l’evidenza empirica che la crescita verde è
improbabile da raggiungere, allora dobbiamo accettare che la riduzione della
produzione avrà un impatto sul PIL stesso e dobbiamo concentrarci su come
ristrutturare l’economia in modo che questo possa essere gestito in modo sicuro
e giusto. Per questo, “decrescita” è un termine semplice e comodo che ci
permette di chiarire cosa è in gioco, e concentra la mente su ciò che è
necessario.
I sostenitori della decrescita spesso sostengono che la parola decrescita è
utile come parola ‘missile’. Per un numero crescente di persone è ovvio che la
crescita perpetua è un problema; per loro, la decrescita sembra intuitivamente
corretta come risposta alla crisi ecologica, e possono salire a bordo
immediatamente. Altre persone hanno una reazione iniziale negativa alla parola,
ma è comunque utile in questi casi nella misura in cui sfida e sconvolge i
presupposti delle persone su come l’economia dovrebbe funzionare, mettendo in
discussione qualcosa che è generalmente dato per scontato come naturale e
buono. In molti casi, le reazioni iniziali negative lasciano il posto alla
contemplazione (i paesi ad alto reddito hanno davvero bisogno di più
crescita?), poi alla curiosità (forse possiamo davvero prosperare con meno
produzione, e anche meno output?) e poi all’indagine (quali sono le prove
empiriche rilevanti?) che alla fine porta le persone a cambiare le loro
opinioni. Questo tipo di trasformazione intellettuale è permesso, non inibito,
dall’uso di un termine provocatorio. Cercare di evitare la
provocazione, o cercare di essere agnostici sulla crescita, crea un ambiente in
cui gli assunti problematici rimangono non identificati e non esaminati in
favore di una conversazione educata e dell’accordo. Questo non è un
modo efficace per far progredire la conoscenza, specialmente quando la posta in
gioco è così alta.
Alcune persone si preoccupano di usare la decrescita perché è un termine
“negativo”, piuttosto che positivo. Ma è negativo solo se partiamo dal
presupposto che più crescita è buona e desiderabile. Se vogliamo sfidare
questo presupposto, e sostenere il contrario (che più crescita è inutile e
dannosa, e che sarebbe meglio se rallentassimo), allora decrescita è un termine
positivo. Prendiamo le parole colonizzazione e decolonizzazione, per esempio.
Sappiamo che coloro che si impegnarono nella colonizzazione pensavano che fosse
una buona cosa. Dalla loro prospettiva – che è stata la prospettiva dominante
in Europa per la maggior parte degli ultimi 500 anni – la decolonizzazione
sembrerebbe quindi negativa. Ma il punto è proprio quello di sfidare la
prospettiva dominante, perché la prospettiva dominante è sbagliata. Infatti,
oggi possiamo essere d’accordo che questa posizione – una posizione contro la
colonizzazione – è corretta e preziosa: siamo contro la colonizzazione, e
crediamo che il mondo sarebbe migliore senza di essa. Questa non è una visione
negativa, ma positiva; una visione intorno alla quale vale la pena riunirsi.
Allo stesso modo, possiamo e dobbiamo aspirare a un’economia senza crescita
così come aspiriamo a un mondo senza colonizzazione.
Possiamo portare questa osservazione un passo avanti. È importante
riconoscere che la parola ‘crescita’ è diventata una specie di termine
propagandistico. In realtà, ciò che sta accadendo è un processo di
accumulazione da parte delle élite, la mercificazione dei beni comuni e
l’appropriazione del lavoro umano e delle risorse naturali – un processo che è
molto spesso di carattere coloniale. Questo processo, che è generalmente
distruttivo per le comunità umane e per l’ecologia, viene presentato come
crescita. La crescita suona naturale e positiva (chi potrebbe mai essere contro
la crescita?) così le persone sono facilmente persuase a comprarla e a
sostenere politiche che ne genereranno di più, quando altrimenti non
potrebbero. La crescita è l’ideologia del capitalismo, nel senso gramsciano del
termine. È il principio fondamentale dell’egemonia culturale del capitalismo.
La parola decrescita è potente ed efficace perché identifica questo trucco e lo
rifiuta. La decrescita chiede l’inversione dei processi che stanno
dietro la crescita: chiede la disaccumulazione, la decommodificazione e la
decolonizzazione.
Decrescita vs. Recessione
Un’altra domanda comune sulla decrescita ha a che fare con le recessioni.
Infatti, quando la recessione COVID-19 ha colpito, alcuni detrattori della
decrescita l’hanno indicata come un esempio del perché la decrescita sarebbe un
disastro. Per la maggior parte, questo non è un argomento in buona fede, ma
piuttosto un tentativo intenzionale di fuorviare, perché è impossibile fare
questo errore con una lettura anche sommaria della letteratura reale sulla
decrescita. Infatti, la decrescita è in tutto e per tutto l’opposto di
una recessione. Abbiamo parole diverse per loro perché sono cose diverse.
Ecco sei differenze chiave che vale la pena notare:
§
La decrescita è una politica pianificata e coerente
per ridurre l’impatto ecologico, ridurre la disuguaglianza e migliorare il
benessere. Le recessioni non sono pianificate e non mirano a nessuno di questi
risultati. Non sono destinate a ridurre l’impatto ecologico (anche se questo potrebbe
in alcuni casi essere un risultato non voluto), e certamente non sono destinate
a ridurre la disuguaglianza e a migliorare il benessere – anzi, fanno il
contrario.
§
La decrescita ha un approccio discriminante alla
riduzione dell’attività economica. Cerca di ridimensionare la
produzione ecologicamente distruttiva e socialmente meno necessaria (cioè la
produzione di SUV, armi, carne di manzo, trasporto privato, pubblicità e
obsolescenza pianificata), mentre espande settori socialmente importanti come
la sanità, l’istruzione, l’assistenza e la convivialità. Le recessioni, al
contrario, non discriminano così saggiamente. Infatti, molto spesso distruggono
settori socialmente importanti mentre potenziano settori socialmente meno
necessari. Nell’attuale crisi della COVID, per esempio, le scuole, le strutture
ricreative e i trasporti pubblici sono colpiti negativamente, mentre Amazon si
espande e le azioni si riprendono.
§
La decrescita introduce politiche per prevenire la
disoccupazione, e in effetti anche per migliorare l’occupazione, ad esempio tramite
la riduzione della settimana lavorativa, l’introduzione di garanzie di lavoro
con un salario di sussistenza e la promozione di programmi di riqualificazione
per spostare le persone dai settori in declino. La decrescita è esplicitamente
focalizzata sul mantenimento e sul miglioramento dei mezzi di sussistenza delle
persone nonostante la riduzione dell’attività economica aggregata. Le
recessioni, al contrario, si traducono in disoccupazione di massa e la gente
comune soffre la perdita dei mezzi di sussistenza.
§
La decrescita cerca di ridurre l’ineguaglianza e di
condividere il reddito nazionale e globale in modo più equo, ad esempio con una
tassazione progressiva e politiche di salari minimi. Le recessioni, al
contrario, tendono a peggiorare la disuguaglianza. Di nuovo, la crisi COVID
presenta un esempio di questo, dove i pacchetti di risposta (QE, salvataggi
aziendali, ecc.) hanno reso i ricchi più ricchi (specificamente i proprietari
di beni) e i miliardari hanno aggiunto miliardi alla loro ricchezza, a
differenza di tutti gli altri: il 50% più povero dell’umanità ha perso 4,4
miliardi di dollari al giorno (Sumner et al., 2020).
§
La decrescita cerca di espandere i beni e i servizi
pubblici universali, come la salute, l’istruzione, i trasporti e gli alloggi, al fine di
decommodificare i beni fondamentali di cui le persone hanno bisogno per
condurre una vita dignitosa. Le recessioni, al contrario, generalmente
comportano misure di austerità che tagliano la spesa per i servizi pubblici.
§
La decrescita è parte di un piano per realizzare una
rapida transizione alle energie rinnovabili, ripristinare i suoli e la
biodiversità, e invertire il declino ecologico. Durante le
recessioni, al contrario, i governi tipicamente abbandonano questi obiettivi
per concentrarsi invece su come far ripartire la crescita, qualunque sia il
costo ecologico.
Abbiamo parole diverse per recessione e decrescita perché sono cose
diverse. Le recessioni avvengono quando le economie dipendenti dalla crescita smettono
di crescere: è un disastro che rovina la vita delle persone ed esacerba le
ingiustizie. La decrescita richiede un diverso tipo di economia: un’economia
che non richiede la crescita come priorità, e che può fornire giustizia e
benessere anche mentre la produzione diminuisce.
La decrescita e il Sud globale
Alcune persone si preoccupano che i sostenitori della decrescita vogliano
vedere la decrescita applicata universalmente, in tutti i paesi. Questo sarebbe
problematico, perché chiaramente molti paesi poveri hanno di fatto bisogno di
aumentare l’uso di risorse ed energia per soddisfare i bisogni umani. In
realtà, i sostenitori della decrescita sono chiari sul fatto che sono
specificamente i paesi ad alto reddito che hanno bisogno di decrescere (o, più
specificamente, i paesi che superano con un margine significativo la quota equa
pro capite dei confini del pianeta; vedi Hickel, 2019), non il resto del mondo.
Di nuovo, poiché la decrescita si concentra sulla riduzione dell’uso di
risorse ed energia in eccesso, non si applica alle economie che non sono
caratterizzate da un uso eccessivo di risorse ed energia.
Questo ci porta a un’importante implicazione della politica di decrescita.
La stragrande maggioranza dei problemi ecologici è guidata da un eccesso di
consumo nel Nord globale, e tuttavia ha conseguenze che danneggiano in modo
sproporzionato il Sud. Possiamo vedere questo sia in termini di emissioni che di estrazione di
materiale: (1) Il Nord è responsabile del 92% delle emissioni globali di CO2 in
eccesso rispetto al limite planetario di sicurezza (Hickel, 2020a), eppure il
Sud soffre la maggior parte dei danni legati al cambiamento climatico (sia in
termini di costi monetari che di perdita di vite umane); (2) I paesi ad alto
reddito dipendono da una grande appropriazione netta di risorse dal resto del
mondo (equivalente al 50% del loro consumo totale). In altre parole, il consumo
di risorse nel Nord ha un impatto ecologico che si registra in gran parte nel
Sud (Dorninger et al., 2020).
In termini sia di emissioni che di uso delle risorse, quindi, l’eccesso di
consumo nel Nord si basa su modelli di colonizzazione: l’appropriazione della
giusta quota di beni comuni atmosferici del Sud, e il saccheggio degli
ecosistemi del Sud. Da questa prospettiva, la decrescita nel Nord rappresenta
un processo di decolonizzazione nel Sud, nella misura in cui libera le comunità
del Sud dalle pressioni della colonizzazione atmosferica e dell’estrattivismo
materiale.
Eppure, alcuni si preoccupano che la decrescita nel Nord possa avere un
impatto negativo sulle economie del Sud. Dopo tutto, molte economie del Sud
globale dipendono pesantemente dalle esportazioni di materie prime e manufatti
leggeri verso il Nord. Se la domanda del Nord diminuisce, dove prenderanno le
loro entrate? Questa potrebbe sembrare una domanda ragionevole a prima vista,
ma poggia su una logica problematica, vale a dire, che l’eccesso di consumo nel
Nord deve continuare a crescere, anche se causa una rottura ecologica che
danneggia in modo sproporzionato il Sud, perché è necessario per lo sviluppo
del Sud ed è in definitiva per il bene del Sud stesso. Questo argomento
riecheggia la logica del colonialismo, vale a dire che l’operato che il
colonizzatore fa a suo beneficio, come l’estrazione e lo sfruttamento delle
risorse in loco, è in definitiva un bene per il colonizzato. Per esempio,
Nicholas Kristof, in una colonna del New York Times intitolata “Tre urrà per le
fabbriche del sudore” ha sostenuto che le fabbriche del sudore sono il modo
migliore per far uscire la gente dalla povertà, quindi ne abbiamo bisogno di
più: se ci preoccupiamo dei poveri, non dovremmo boicottare i prodotti delle
fabbriche del sudore ma piuttosto consumarne di più.
La fallacia di questo argomento non dovrebbe aver bisogno di essere
sottolineata. Ovviamente, il modo migliore per ridurre la povertà non è
più sfruttamento, ma più giustizia economica: il Sud dovrebbe ricevere prezzi
equi per il lavoro e le risorse che rende all’economia globale. Nessuno
suggerirebbe mai che un’azienda americana che paga i lavoratori americani 2
dollari al giorno sia un buon modo per ridurre la povertà in America;
insisteremmo sul fatto che per ridurre la povertà è necessario pagare un
salario adeguato. Ma per qualche ragione questa logica non viene applicata ai
lavoratori del Sud, probabilmente perché ridurrebbe il tasso di accumulazione
del surplus tra le aziende del Nord e i paesi che dipendono dal lavoro e dalle
risorse del Sud. In altre parole, la giustizia per il Sud (salari equi per il
lavoro e prezzi equi per le risorse) comporterebbe la decrescita nel Nord.
Dovremmo abbracciare questo risultato. Infatti, abbandonare il perseguimento
della crescita nel Nord sarebbe vantaggioso nella misura in cui eliminerebbe la
pressione costante applicata dai governi e dalle imprese del Nord per deprimere
i costi del lavoro e delle risorse nel Sud.
Questo ci porta a un altro punto correlato. La decrescita nel Nord
crea spazio per le economie del Sud per allontanarsi dal loro ruolo forzato di
esportatori di manodopera a basso costo e di materie prime, e per concentrarsi
invece sulle riforme sociali: costruire economie incentrate sulla sovranità,
l’autosufficienza e il benessere umano. Questo è stato l’approccio
perseguito dalla maggior parte dei governi del Sud globale nei decenni
immediatamente post-coloniali, durante gli anni ’60 e ’70, prima
dell’imposizione dell’aggiustamento strutturale neoliberale dagli anni ’80 in
poi (Hickel, 2018b). L’aggiustamento strutturale ha cercato di smantellare le
riforme sociali in tutto il Sud per creare nuove frontiere per l’accumulazione
del Nord. In uno scenario di decrescita la pressione per questo “aggiustamento”
sarebbe attenuata, e i governi del Sud si troverebbero più liberi di perseguire
un’economia più incentrata sull’uomo (Hickel, 2020b; Nirmal & Rocheleau,
2019). Anche qui, diventa chiaro che la decrescita nel Nord rappresenta la
decolonizzazione nel Sud.
Naturalmente, il Sud globale non ha bisogno e non dovrebbe aspettare la
decolonizzazione; può liberarsi delle catene da solo. Qui ho in mente la
nozione di “delinking” di Samir Amin: il rifiuto di sottomettere la politica di
sviluppo nazionale agli imperativi del capitale del Nord. Per esempio, i
governi del Sud globale potrebbero organizzarsi collettivamente per aumentare i
prezzi del loro lavoro e delle loro risorse, e potrebbero mobilitarsi per
chiedere termini di commercio e finanza più equi, e una rappresentanza più
democratica nella governance globale (come hanno fatto con il Nuovo Ordine
Economico Internazionale nei primi anni ’70). Queste idee sono oggi
rappresentate nel discorso del post-sviluppo. Oltre a rifiutare i principi
della globalizzazione neoliberale, il pensiero del post-sviluppo rifiuta anche
la nozione (introdotta dai colonizzatori e dalle istituzioni finanziarie
internazionali) che la crescita del PIL debba essere perseguita per se stessa,
preferendo invece un focus sul benessere umano (Escobar, 2015; Kothari et al.,
2019).
In entrambi i casi, la decolonizzazione nel Sud secondo queste linee
causerebbe probabilmente la decrescita nel Nord. Questo è vero in un senso
molto concreto. In questo momento, le nazioni ad alto reddito mantengono alti
livelli di reddito e di consumo attraverso un continuo processo di
appropriazione netta (di terra, lavoro, risorse ed energia) dal Sud, attraverso
uno scambio ineguale: in altre parole, cercano di deprimere i prezzi del lavoro
e delle risorse al di sotto del prezzo medio globale (Dorninger et al., 2020).
Questa è una continuazione dei principi di base del rapporto coloniale, anche
se (nella maggior parte dei casi) senza l’occupazione. Porre fine a questa
relazione di sfruttamento significherebbe porre fine al modello di
appropriazione netta o porre fine allo scambio ineguale, entrambi i quali
risulterebbero probabilmente in una riduzione del tasso di accumulazione del
surplus da parte delle élite economiche, e in una riduzione della crescita
guidata da questa accumulazione nel Nord, ma a beneficio delle comunità e delle
ecologie nel Sud globale.
*****
Testo originale: Jason Hickel (2020): What does
degrowth mean? A few points of clarification, Globalizations, DOI: 10.1080/14747731.2020.1812222. Traduzione di Mario
Sassi e Olga Abbiani.