giovedì 31 maggio 2018
mercoledì 30 maggio 2018
Una città che ha paura dei poveri - Roberto Loddo
La “grande bellezza” di Cagliari non è un sufficiente metro di misura per
valutare il suo sistema di protezione sociale per le persone più deboli ed
emarginate. Basta leggere la cronaca degli ultimi mesi per comprendere come la
vita poveri di Cagliari stia peggiorando, in maniera progressiva e in assenza
di politiche sociali adeguate.
Esperienze positive di accoglienza vengono compromesse come quella
del centro di
solidarietà di viale Sant’Ignazio che subirà una chiusura per
lavori urgenti, producendo l’allontanamento di un centinaio di persone fragili
tra ex detenuti, ex tossicodipendenti e persone con sofferenza mentale che
abitavano il centro da più di dieci anni. Oppure come quella dell’unica comunità
alloggio per minori che forniva il servizio di accoglienza in
emergenza che chiuderà con il conseguente licenziamento degli operatori e il
trasloco di dieci minori privi di famiglia.
Delle dichiarazioni dell’assessore alle politiche sociali della giunta
Zedda mi terrorizza la mostruosa freddezza burocratica con cui vengono
riportate sugli organi di informazione. Si parla solo della difficoltà dei
bandi e di trasferimenti in nuovi luoghi, ma non di cosa fare dei percorsi di
reinserimento sociale che accompagnano la vita di queste persone, come se
fossero solo dei pacchetti numerati da spostare da un luogo ad un altro e non esseri
umani. Una freddezza che svela l’assenza di anticorpi del sistema delle
politiche sociali cagliaritano nei confronti del virus delle vecchie e delle
nuove povertà urbane che avanzano a macchia d’olio e che ricorda quella degli
ultimi anni del governo del PD che ha inseguito la strada del consenso della
peggiore destra populista favorendo una guerra sociale degli ultimi contro i
penultimi.
I dati periodici dell’Eurostat sul numero di persone a rischio di povertà
e di esclusione sociale ci rivelano come le nuove piazzette e i nuovi
giardinetti della nostra città nei prossimi anni non riusciranno a nascondere
più il disastro sociale delle periferie: I poveri aumenteranno insieme a nuove
forme di povertà, talvolta impercettibili. La filosofa spagnola Adela Cortina
ha coniato una nuova ed efficace parola per apostrofare questa tendenza
disumana sempre più presente nei grandi centri urbani: aporofobia,
cioè l’odio e il rifiuto verso i poveri. C’è infatti qualcosa di patologico
quando il pezzo di società delle persone che funzionano disprezza l’altro pezzo
di società delle persone che non funzionano più.
Rispetto a questo quadro poco incoraggiante l’unico modo di garantire il
diritto all’uguaglianza nelle città è quello di mandare meno comunicati stampa
trionfalistici e favorire di più il dinamismo dal basso insieme ai soggetti che
vivono condizioni di povertà e disagio. Solo così si potrà costruire una città
aperta e accogliente. Non basta contrastare l’esclusione sociale con
provvedimenti assistenziali ma è necessario promuovere la crescita di tutte le
dimensioni territoriali della città, comprese le fasce più deboli che abitano
le nostre periferie, rendendole protagoniste dei processi di trasformazione
sociale degli spazi pubblici delle loro comunità. Ma se gli orientamenti delle
politiche sociali della giunta Zedda rimarranno fermi a vecchie modalità verticali
e istituzionalizzanti questa città imploderà presto su se stessa.
Lulù, l’unico “medico” che riesce a curare Carlo - Nicola Pinna
Carlo fa un gesto che a tutti sarebbe passato inosservato. Ma a Lulù, che scodinzola apparentemente con distrazione, quel segno con la mano non potrebbe sfuggire: è un ordine e lo esegue subito. Perché sa che Carlo in quel momento ha bisogno del suo aiuto e lei, un dolcissimo labrador dal pelo chiaro, non si tira mai indietro. Ha capito che dal suo affetto e dalla sua vicinanza dipendono i sorrisi di Carlo, costretto a fare i conti con le sofferenze causate da una malattia genetica. Una patologia rara che gli ha rubato l’udito fin da piccolo e che ora - a soli 12 anni - gli sta anche spegnendo la vista. Quello che a Carlo ha rubato la sindrome di Charge, almeno in parte lo sta restituendo Lulù. A iniziare da un nuovo entusiasmo, dalla voglia di reagire, dagli stimoli e dalle possibilità di comunicare e muoversi.
In attesa che gli scienziati trovino una cura a questa malattia degenerativa, il Premio Nobel per la medicina forse bisognerebbe assegnarlo a Lulù. Un cane che a Pozzomaggiore (in provincia di Sassari) vive in simbiosi col suo migliore amico e che per lui ha adattato tutti i comportamenti. Il labrador che accompagna ogni momento della giornata di Carlo ha imparato la lingua dei segni e così si è creata una forma di comunicazione straordinaria. L’unica possibile, ma la più efficace. «Lulù ha fatto qualcosa davvero di straordinario e questa sua formidabile capacità di comunicare ha cambiato la vita di Carlo, gli offre stimoli continui - dice mamma Sonia - Tutte le mattine Carlo non si alza dal letto se a svegliarlo non è Lulù e lui, ancor prima di occuparsi di tutte le sue cose, si prende cura del cane. Prima prepara la colazione per lei, poi pensa alla sua».
La sindrome di Charge purtroppo progredisce e il cane Lulù stravolge ancora i suoi comportamenti per stare sempre più vicino al suo amichetto tenace. Addestrato dagli esperti dell’Università di Sassari, riesce persino a capire come aiutare un bambino che oltre a non sentire ha anche difficoltà con la vista. Un esempio: quando si avvicina a Carlo si mette al suo fianco e non di fronte, sapendo da quale lato viene percepito l’unico raggio di luce nitida. «Prima di adottare un cane abbiamo rifletto a lungo. Il continuo viavai tra casa e l’ospedale ci sembrava che potesse essere un ostacolo. E invece Lulù ha cambiato la nostra vita: noi siamo tutti più sereni e Carlo vive meglio. È il più grande supporto possibile».
Questa non è semplice pet-terapy, la storia di Carlo e Lulù racconta come il supporto del cane qualche volta possa essere quasi più prezioso delle cure mediche. «Adesso il nostro figlio a quattro zampe ci sta stupendo ancora di più - racconta ancora mamma Sonia - Esegue i comandi restando al lato sinistro e ha imparato a riconoscere gli ostacoli per guidare Carlo: se c’è un ostacolo verticale come può essere una porta si ferma in piedi, se c’è un ostacolo orizzontale, che sia un gradino o una buca sulla strada, lei si siede». E così Carlo potrà andare molto lontano, sempre accanto a Lulù, fino al giorno che arriverà una cura per la sua malattia.
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Sardegna
martedì 29 maggio 2018
Il Prime Day di Amazon lo organizziamo noi
Pubblichiamo, grazie a connessioniprecarie.org
, l’appello rivolto dai lavoratori e dalle lavoratrici di Amazon in Spagna ai
lavoratori e alle lavoratrici di Amazon in tutta Europa per un giorno di
sciopero nella seconda settimana di luglio, durante il Prime Day. Sul
sito Amazon
en lucha si può trovare l’appello tradotto in diverse lingue.
Qui invece l’invito Addio
Amazon.
Cari compagni, care compagne,
si sta diffondendo in tutta Europa
la lotta contro gli abusi della multinazionale Amazon e a favore di una
distribuzione dei suoi profitti. Nonostante la strategia dell’azienda di aprire
nuovi centri in paesi «sindacalmente più tranquilli», la durezza delle condizioni di lavoro
sta portando sempre più lavoratori a ribellarsi.
In Polonia Amazon
approfitta di una rigida legislazione anti-sciopero per imporre salari
miserabili. In Germania continua la lotta per un accordo collettivo che
garantisca i diritti di tutti i lavoratori indipendentemente dal loro
magazzino. In Francia vanno
avanti le misure di controllo del tempo e del rendimento dei lavoratori.
In Spagna, una volta decaduto il
contratto collettivo precedente, nuove condizioni lavorative sono state imposte
unilateralmente dall’azienda nel suo principale centro logistico. In Italia la precarietà è ormai
la norma e migliaia di lavoratori occasionali sono impiegati nei suoi centri
logistici. Nel resto del mondo Amazon sta facendo
la storia, ma solo per la scarsa distribuzione dei suoi profitti milionari.
Nello scorso marzo nel centro Madrid abbiamo iniziato
un’intensa lotta per riconquistare un contratto collettivo che salvaguardi i
nostri diritti e stabilisca le migliori condizioni lavorative che meritiamo. Il
21 e 22 marzo abbiamo proclamato uno sciopero che è stato sostenuto da più del
95 per cento dei lavoratori e delle lavoratrici. Da allora abbiamo continuato
con la nostra mobilitazione per fare pressione sull’azienda.
Tuttavia, sappiamo che Amazon sta
utilizzando la sua rete logistica europea per ridurre gli effetti dei nostri
singoli scioperi. Noi a Madrid crediamo che solo lottando insieme potremo
conquistare ciò che rivendichiamo. Allo stesso modo, solo con un’azione
unitaria europea anche i lavoratori non sindacalizzati potranno organizzarsi.
Per questi
motivi stiamo promuovendo l’idea di uno sciopero generale europeo nella seconda
settimana di luglio, quando si svolge il Prime Day, nel quale Amazon programma
di vendere milioni di prodotti, in uno dei suoi giorni di vendita maggiori. Se
lavoratori e lavoratrici di tutta Europa non otterranno ciò che stanno
rivendicando, quella giornata non avrà luogo.
Nelle prossime settimane
contatteremo tutti i centri per discutere l’idea e concordare la forma di questa
storica mobilitazione.
Salute e lavoro degno per tutti i
lavoratori e le lavoratrici di Amazon! Fino alla vittoria!
da qui
Greenpeace: in Indonesia massiccia deforestazione per favorire l’industria dell’olio di palma
Secondo
una nuova indagine di Greenpeace – che pubblica anche alcune immagini e video scioccanti – a Papua West, occupata e
colonizzata dall’Indonesia, sono stati rasi al suolo 4,000 ettari di
foresta pluviale. «Si tratta di un’area equivalente alla metà della città
di Parigi – dicono gli ambientalisti – distrutti fra il maggio 2015 e l’aprile
2017 per produrre olio di palma. Greenpeace accusa «un’azienda produttrice di
olio di palma dalla quale si riforniscono marchi come Mars, Nestlé, PepsiCo e
Unilever».
L’inchiesta di Greenpeace
evidenzia che «Alcune delle foto e dei video prodotti fra il marzo e l’aprile
2018, testimoniano la massiva deforestazione in corso nella PT Megakarya Jaya
Raya (PT MJR), una concessione di olio di palma controllata dalla Hayel Saeed
Anam Group (HSA). La concessione include alcune aree protette dal governo
indonesiano in risposta ai devastanti incendi che hanno colpito le foreste nel
2015: in queste zone è proibito lo sviluppo commerciale».
Diana Ruiz, palm oil campaigner
di Greenpeace Usa, ricorda che «Solo poche settimane fa abbiamo chiesto a
importanti consumer brand come Pepsi e Nestlé di confermare che stavano facendo
del proprio meglio per smettere di comprare olio di palma da aziende che
distruggono foreste, ma questo filmato rivela quanto siano davvero indietro. I
brand devono garantire che le loro catene di approvvigionamento siano libere
dalla deforestazione e l’unico modo per farlo è monitorare e applicare in modo
proattivo i loro standard di non deforestazione».
Greenpeace Usa rivela che
«Sebbene a PT MJR non stia ancora producendo olio di palma,
secondo le informazioni sulla catena di distribuzione rilasciate dai
brand all’inizio di quest’anno, altre due compagnie controllate da HSA –
Arma Group e Pacific Oils & Fats – hanno fornito olio di palma a Mars,
Nestlé, PepsiCo e Unilever. Ognuna di queste consumer companies ha
pubblicato una politica di “no alla deforestazione, no alla torba, no
sfruttamento” che dovrebbe proibire l’approvvigionamento dai distruttori della
foresta pluviale».
Richard George, forest
campaigner di Greenpeace UK, aggiunge: «I brand parlano di ripulire
il loro olio di palma da oltre un decennio. Compagnie come Unilever e
Nestlé pretendono di essere leader del settore. Allora perché stanno ancora
comprando da distruttori delle foreste come il gruppo HSA? Cosa
dovrebbero pensare i loro clienti? Cosa ci vorrà per convincerli ad
agire?»
Martina Borghi, responsabile
della campagna foreste di Greenpeace Italia, spiega che «Secondi i dati del
ministero dell’ambiente indonesiano, tra il 1990 e il 2015 l’Indonesia ha perso
circa 24 milioni di ettari di foresta tropicale: più di ogni altro Paese al
mondo. Dopo aver distrutto gran parte delle foreste pluviali di Sumatra e
Kalimantan (il Borneo indonesiano, ndr),
l’industria dell’olio di palma sta ora avanzando verso nuove frontiere vergini,
come Papua», la parte occidentale della Nuova Giunea dove è presente un attivo
movimento indipendentista anti-indonesiano che cerca di opporsi all’occupazione
delle terre da parte di multinazionali e imprese indonesiane al loro servizio.
Per Greenpeace Usa, questo caso
solleva anche serie dubbi sulla Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo):
«Molte companies dell’ HSA Group palm oil sono membri della Rspo, sebbene
PT MJR e le altre concessioni del gruppo HSA in questo distretto non lo
siano. Ai membri della Rspo non è permesso avere filiali di olio di palma
non affiliate e i lavori in corso visti a PT MJR violerebbe anche alcuni dei
Principi e Criteri della Rspo«.
La Borghi conclude: «Se il
governo indonesiano ha intenzione di continuare a difendere l’industria
dell’olio di palma, dovrebbe prima assicurare che vengano adottate e rispettate
politiche volte a fermare la deforestazione, il drenaggio delle torbiere e lo
sfruttamento dei lavoratori e delle le comunità locali».
domenica 27 maggio 2018
sabato 26 maggio 2018
giovedì 24 maggio 2018
lunedì 21 maggio 2018
L’università della terra - Claudio Orrù, Irene Ragazzini
In Messico attualmente convivono nello stesso territorio
situazioni sociali estremamente opposte. Da un lato troviamo l’orrore della
guerra civile, una spirale di violenza che ha lasciato più di 80.000 morti
negli ultimi sei anni: la mal chiamata “guerra contro il narcotraffico” del
governo, che in realtà è una guerra contro la popolazione, in cui le fazioni
non sono chiare e dipendono dalle relazioni di potere locale di ogni
territorio. Troviamo un’emigrazione forzata verso gli Stati Uniti che distrugge
il tessuto sociale; una situazione di sfruttamento incontrollato delle risorse
naturali, soprattutto minerarie, che avvelena e impoverisce popolazioni e
territori interi. Troviamo un governo mafioso e dittatoriale che ha comprato
palesemente le elezioni, facendo sì che il Pri (Partido Revolucionario
Institucional) che ha governato per 70 anni fino al 2000, tornasse al potere
per ridare ancora più forza alla struttura essenzialmente corrotta delle
istituzioni messicane.
Tuttavia, e forse anche a causa di tutto questo
orrore, il popolo messicano ha saputo reagire da
molti anni a questa parte, in maniera estremamente radicale. Sul territorio
messicano troviamo le esperienze di costruzione di alternative più avanzate e
consolidate, tra cui non possiamo non menzionare la lotta degli zapatisti, che
da alcuni anni hanno dato vita ai municipi autonomi, costruendo una forma di
buon-governo basato sul servizio e sull’annullamento delle relazioni di potere,
oltre a un sistema di educazione ed un sistema di salute autonomi. Oltre all’esperienza
zapatista, esistono moltissime altre esperienze in molte comunità indigene e
nelle città, di costruzione di autonomia dal basso, difesa del territorio e
auto-organizzazione.
In questo contesto va intesa
l’esperienza della Unitierra, come parte di un movimento amplio, quotidianamente impegnato nella
costruzione di alternative sociali e politiche di vita, attraverso lo sforzo di
“recuperare i verbi”: non più quindi esigere dall’alto che vengano coperte
necessità concepite come scarse: come educazione, sanità, alloggio,
alimentazione etc., ma recuperare la nostra capacità autonoma di imparare,
sanare, abitare, mangiare, etc., ricostruendo il tessuto sociale e comunitario,
ricostruendo il “noi” in grado di decidere e di agire autonomamente per le
nostre vite. La Unitierra, in particolare, si propone di recuperare quindi la
capacità autonoma di apprendere insieme .
Partendo dalla volontà di apprendere insieme, la
Unitierra non vuole essere una scuola popolare né un centro o un modello di
educazione alternativa, vuole piuttosto costituire una alternativa
all’educazione e andare oltre l’educazione.
Questa riflessione trova
molta della sua ispirazione nel pensiero di Ivan Illich, nella sua critica alle istituzioni
educative e nella critica all’idea stessa di educazione. Quello che ci
insegnano, prima di tutto, le istituzioni educative con il curricolo occulto, è
che il sapere acquisisce valore solo se convalidato dalla loro certificazione:
al di fuori da esse ciò che si sa, ciò che si impara, nella società dominante è
privo di valore.
La scuola funziona come
rituale d’iniziazione alla società dello sviluppoproprio quando porta ad assimilare questa logica,
ovvero quando la persona è alienata dalla
propria capacità di imparare, quando la nostra porta principale d’accesso
alla conoscenza, non è più il mondo, ma qualcuno o qualcosa che ci da
informazioni su di esso: quando l’apprendimento, da attività, diventa prodotto,
ecco che una nostra relazione sociale primaria si trasforma in atto di consumo.
Ma per Illich questa trasformazione non soggiace solo alle istituzioni
educative tradizionali, svolgeranno la funzione di rituali d’iniziazione anche
le esperienze più radicali e alternative, sino a che saranno fondate sullo
stesso mito, quello dell’educazione e della sua affermazione implicita: che
l’uomo nasca incompetente per la società, e che solo il passaggio attraverso un
ventre istituzionale lo possa rendere pronto ad essa, che solo attraverso un
processo di naturalizzazione al mondo si possa imparare ciò che è importante
per poter vivere.
Solo attraverso l’educazione, il sapere può essere
concepito come un bene scarso, come un prodotto che deve essere confezionato e
successivamente assegnato, dallo stato o dal mercato, che di conseguenza non
può che essere richiesto. La rottura della dipendenza e della scarsità, si
riflette come già menzionato attraverso la riappropriazione del linguaggio: se
al posto di chiedere educazione, affermiamo di voler apprendere, ciò che
cerchiamo non può esserci fornito da qualcuno o qualcosa, nessuno può imparare
al posto nostro.
Alla Unitierra,
riappropriarsi del sapere significa riconsiderare la sua natura: il sapere non
è un oggetto da ottenere, un prodotto da consumare, un pacchetto di informazioni da
processare, quanto piuttosto una relazione col mondo e con le persone. La vita
reale e la conoscenza non sono due mondi separati e distanti, al contrario,
apprendiamo soprattutto quando stiamo facendo ciò che abbiamo scelto di fare,
quando ci caliamo nell’esperienza e nella riflessione su ciò che ci circonda e
ci coinvolge direttamente, impariamo dal mondo e non acquisendo informazioni su
di esso.
Alla Unitierra, riprendendo
tra le nostre mani la responsabilità di apprendere, imparando dal mondo,
vogliamo esercitare una libertà, invece di esigere il riconoscimento di un
diritto, impariamo insieme, in gruppo attraverso le riflessioni collettive così come in laboratori
pratici, apprendiamo il fare non sui libri, ma nell’esperienza e da coloro che
fanno quotidianamente ciò che ci interessa imparare, approfondiamo le nostre
riflessioni attraverso letture e la discussione collettiva e condivisa, in
seminari, gruppi di studio, circoli. Apprendiamo, mantenendo un determinato
sguardo sulla realtà: la costruzione dell’autonomia, la continua ricerca di quello
che insieme, dal basso, dal nostro territorio e dal suo tessuto sociale,
possiamo fare per costruire alternative allo stato attuale delle cose,
impariamo anche osservando e riflettendo sulle esperienze che altre e altri, a
livello locale, nazionale o internazionale mettono in pratica in maniera
simile, e su ciò che al contrario sta avvenendo nella politica dell’alto, nelle
istituzioni, nel mercato.
Andare oltre l’educazione significa così dar vita
costantemente ad una rete, uno spazio, un’organizzazione, che sia da supporto
alla comunità di apprendisti decisa ad imparare verso questa direzione, in
maniera libera e gozosa1. La metafora che meglio rappresenta questa
flessibilità della Unitierra è quella dell’amaca: la sua forma si adatta al
corpo di chi la usa, a prescindere che si sia alti, bassi, magri o grassi, se
necessario può essere facilmente smontata, ripiegata e spostata da un posto
all’altro.
Se nelle istituzioni e organizzazioni classiche, fatte
di obiettivi, regole e requisiti la persona deve adeguarsi ad una struttura
rigida per potervici fare accesso, l’amaca-Unitierra non vuole avere una forma
predeterminata, ma invece adattarsi alle esigenze della comunità che la
compone: non c’è un programma precostituitoche
definisca ciò che deve essere appreso o il percorso su cui camminare, si tratta
piuttosto di adattare lo spazio e l’organizzazione alle esigenze di coloro che
la vivono, “i suoi studenti” e a quello che decidono di fare e imparare.
Non vi sono requisiti per potervici entrare, non c’è
un costo per le attività a cui si sceglie di partecipare, così come non viene
richiesto alcun tipo di titolo di studio, allo stesso tempo non si assegnano
diplomi, se non in maniera scherzosa, scrivendoli e stampandoli al computer di
fronte alla persona che li richiedesse per ricordo.
Il Seminario “Caminos de la
Autonomía”
La “colonna vertebrale”
dell’Unitierra è il Seminario settimanale “Caminos de la Autonomía” (Cammini dell’Autonomia). Si
tratta di uno spazio d’incontro e di riflessione su quello che sta succedendo
nel mondo, in Messico e a Oaxaca, con una domanda centrale ¿Cosa possiamo fare
qui ora noi? L’idea non è arrivare a soluzioni pratiche ma approfondire la
riflessione e l’analisi. Per fare questo ci chiediamo sempre: cosa sta
succedendo in alto (arriba), ovvero negli ambiti del potere, le istituzioni e
il capitale? Come questo che sta succedendo in alto ha impatti sulla gente (in
basso)? ¿Cosa sta succedendo in basso? Ovvero quali sono le reazioni e le
alternative costruite dalla gente e all’interno dei movimenti sociali? Alla
luce di questo, qual è il ruolo che vogliamo assumere?
Grazie a queste riflessioni, sono molte le iniziative
concrete che sono state prese da diversi gruppi che partecipano al Seminario.
Una delle più rilevanti in questo momento è il processo “Rigenerare le nostre
comunità”.
Rigenerare le nostre
comunità
Questo processo (non ci piace chiamarlo progetto,
perchè non c’è un piano prestabilito che determini dove condurrà), nasce
proprio cercando di dare una risposta concreta alla costante domanda posta nel
seminario “il cosa possiamo fare
noi, qui, ora, dal basso?”, nella ricerca da parte di un gruppo di
comunità (attualmente 20) della regione circostante alla città di Oaxaca,
(Valles centrales), di soluzioni ai sempre più grandi problemi che stanno
affrontando: le condizioni di vita materiale in costante peggioramento, la
devastazione dell’ambiente che le circonda, la crescente preoccupazione per le
prospettive dei giovani (moltissimi abbandonano presto le scuole e non hanno un
lavoro), la violenza dilagante con cui sempre più devono fare i conti.
Con la convinzione che un cambiamento sostanziale a
tali condizioni non possa arrivare dall’alto, si cerca quindi di trovare
insieme risposte che partano dal loro tessuto sociale, imparando come
rigenerare le loro capacità autonome.
Si è cominciato dai problemi
materiali di base, tutt’altro
che marginali, individuati dai gruppi delle comunità: principalmente acqua,
alimentazione, rifiuti. In base all’interesse delle famiglie, spesso nelle loro
stesse case, ci si riunisce in gruppo per imparare, mettendole direttamente in
pratica, alcune tecniche ecologiche realizzabili con costi nulli o per lo più
molto bassi e accessibili (p.es con materiali di scarto o facilmente reperibili
sul territorio locale), per trovare soluzioni alle esigenze quotidiane più
immediate e allo stesso tempo alla devastazione dell’ambiente.
L’acqua è per molte
comunità, un problema costante, i fiumi, che sino a 15 anni fa erano fonte di vita così come di lavoro,
sono stati devastati dall’inquinamento degli scarichi fognari e di tutto quello
che i centri popolati producono, i pozzi hanno sempre meno acqua o quella che
hanno è sempre più spesso inquinata già dalla falda da cui attingono, l’acqua
intubata per uso domestico in alcuni casi non arriva ai centri abitati o arriva
in misure molto scarsa, e non è mai potabile. Nei laboratori si impara quindi a
costruire strumenti come: filtri per potabilizzare l’acqua (fatti con sabbia,
pietre di fiume e carbone), per smettere di comprare la costosa acqua
imbottigliata; bagni secchi, che permettono di far diventare nel giro di 6 mesi
concime ciò che invece si sarebbe scaricato nei fiumi, autonomizzando così
dalla necessità di connessione alla rete fognaria; scaldabagni solari (fatti
con il vecchio copertone di bus, un vetro che lo ricopra e 50 m di pompa per
l’acqua); sistemi di raccolta delle acque piovane dai tetti e cisterne per il
loro immagazzinamento; filtri vegetali per il riutilizzo delle acque saponose.
La questione dei rifiuti è
un emergenza sempre più rilevante: senza contare tutto ciò che è abbandonato nella
natura, smaltire la spazzatura è un pesante costo economico e anche una
costante minaccia per la salute : si paga il camion dei rifiuti, sia esso
privato o pubblico, ogni volta che porta via il proprio sacco di spazzatura, le
discariche sono sempre più piene, vengono costruite vicino a centri abitati, e
portano sempre più costantemente malattie e inquinamento dell’aria, dell’acqua
e della terra. Si impara dunque come affrontare il problema su due livelli: un
primo dando ai materiali di scarto nuovo valore d’uso attraverso il riciclo
diretto, con la costruzione di oggetti e strumenti che possano servire alla
vita quotidiana, un secondo di più vasta portata, basato sulla condivisione
della conoscenza necessaria all’organizzazione a livello comunitario di un
sistema di raccolta e differenziazione dei rifiuti, in modo che siano le stesse
comunità a rivendere ciò che si è differenziato ai centri di riciclo: una
comunità che è stata di ispirazione su questo percorso, è riuscita in questo
modo a far diventare lo smaltimento, da costo privato dei suoi abitanti, un
guadagno diretto da reinvestire in strutture e attività comunitarie.
La terza area di attività
pratiche è relativa al cibo: la preoccupazione sulle malattie derivate dagli alimenti di produzione
industriale, così come le difficoltà derivanti dal loro crescente costo, ha
portato alla costituzione di laboratori di agricoltura ecologica in cui si
apprende a coltivare direttamente le proprie verdure e piante medicinali. Senza
l’uso di prodotti chimici e anche con ridotti spazi a disposizione, ci si
occupa quindi di tutto il relativo processo: dalla ricerca dei semi, all’uso di
pesticidi e concimi naturali, alla raccolta di ciò che si è seminato, si
compiono piccoli passi per il recupero della sovranità alimentare familiare e
comunitaria.
In questo processo, il fine ultimo non è la semplice
realizzazione del laboratorio e della tecnica ecologica, il percorso che si
intraprende vuole arrivare ad una più ampia portata: riunirsi per imparare assieme come
affrontare la situazione attuale, implica prima di tutto la volontà di
rigenerare il tessuto sociale comunitario e rinvigorire, attraverso
la condivisione, le relazioni e i legami che lo compongono: è solo da qui che
può partire la ripresa in mano delle proprie vite, la costruzione
dell’autonomia. Questo significa cercare che le comunità diventino in breve
tempo autonome dalla Unitierra stessa: il principio di gratuità dei laboratori
comporta un impegno morale, quello di condividere la conoscenza appresa con le
altre famiglie della comunità, l’idea è che dopo alcune sessioni dello stesso
laboratorio, le tecniche ecologiche vengano fatte proprie e non abbiano più
bisogno di alcun esterno per continuare ad essere implementate. In alcuni casi
inoltre, sono stati gli stessi partecipanti a diventare “promotori locali” dei
laboratori stessi, ovvero attivi nel condividere la conoscenza delle tecniche
ecologiche nella propria o in altre comunità.
Nella fase attuale è emersa la spinta verso tipi di
attività che vadano oltre l’immediatezza delle tre appena descritte, la
Unitierra sta dando per esempio supporto alla costituzione
di cooperative di giovani delle comunità che gli permettano di
ottenere un’entrata economica dignitosa attraverso la realizzazione di attività
integrate alla rete dei processi di autonomia comunitaria: la costruzione delle
strutture per i bagni secchi, il riciclo di determinati materiali etc.
Le comunità di Oaxaca
È interessante soffermarci un poco su come sono le
comunità in cui mettiamo in pratica queste alternative. Si tratta di comunità
indigene, o di origine indigena, rurali e urbane, ovvero paesi e quartieri
nella regione delle Valli Centrali di Oaxaca. Questi paesi e quartieri
mantengono, alcuni più ed altri meno, forme organizzative comunitarie, ed è per
questo che si concepiscono come comunità e si reggono costituzionalmente per
“usos y costumbres” (usi e costumi). Questo significa che hanno un sistema di
governo comunitario (che molto spesso coincide con il livello di
amministrazione pubblica municipale) diverso da quello rappresentativo ed
elettorale. Le comunità che si reggono sugli usi e costumi, infatti si
governano attraverso un’assemblea di tutta la comunità che prende le decisioni
attraverso il consenso. Le autorità municipali o comunitarie sono nominate in
questo modo e offrono un servizio gratuito da uno a tre anni, oltre alle
autorità (presidente municipale, segretario/a, tesoriere/a, etc.) le comunità si
organizzano attraverso comitati e incarichi. I comitati sono gruppi di persone
che si occupano di temi specifici della comunità, i comitati più comuni sono
quelli della scuola, dell’acqua e i canali d’irrigazione, delle terre comunali,
delle feste del paese etc. In molte comunità anche il servizio di sicurezza e
di giustizia è gestito a livello comunitario, per cui gli abitanti della
comunità fanno dei turni di servizio gratuito come “poliziotti” o meglio
guardiani della comunità. Un pilastro importante delle comunità è il cosiddetto
tequio, ovvero il lavoro collettivo gratuito di tutta la comunità per il
beneficio comune (esempio: costruzione di un’opera pubblica, o pulizia dei
canali d’irrigazione o del cimitero, etc.). Gli ambiti di lavoro in comune sono
quelli che contribuiscono al rafforzamento del tessuto sociale.
È chiaro che questi sistemi comunitari non si trovano
isolati e pertanto non sono quasi da nessuna parte “puri” ma si ibridano con il
sistema statale e dei partiti e con l’economia di mercato, che nella maggior
parte dei casi ha una funzione di disgregazione del tessuto comunitario. Quindi
esiste una tensione costante tra le pratiche comunitarie e le logiche di potere
e di risoluzione individualista della vita. Le pratiche promosse all’interno
dell’Unitierra, in questo contesto, puntano percfiò a rafforzare le pratiche
comunitarie già esistenti e a recuperarle dove si sono perse.
Oltre agli incontri nelle comunità, un’altra delle
iniziative in corso, nata a partire dalle riflessioni del Seminario, è quella
di Radio Unitierra, un progetto che sta nascendo sulla base dell’esperienza
delle radio comunitarie che si sono diffuse molto a Oaxaca e in altre parti del
Messico negli ultimi anni, come mezzi di comunicazione autonomi e alternativi
ai media di massa. A Oaxaca le radio comunitarie e del movimento sociale hanno
svolto una funzione importantissima, specialmente durante il 2006 con il
movimento della Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca (APPO) quando per mesi
interi la popolazione ha occupato le radio e le televisioni commerciali locali
per diffondere la parola della APPO e della gente. Da quel momento si è
riscoperta l’immenso potenziale dei mezzi di comunicazione autonomi e molte
comunità hanno istallato le proprie radio comunitarie dove possono trasmettere
nella propria lingua e parlare delle cose che realmente riguardano la comunità.
In questo senso Radio Unitierra si concepisce come un progetto di radio urbana
che possa diventare un punto d’incontro anche per le radio comunitarie circostanti.
Un altro tema ricorrente nel Seminario Caminos de la
Autonomia è quello del modo di resistere delle comunità zapatiste. Quest’anno dopo alcune
forti aggressioni paramilitari a alcune comunità, alcuni partecipanti del
seminario hanno sentito la necessità di dimostrare più attivamente la loro
solidarietà sulla base dell’idea che difendere lo zapatismo oggi, significa
difendere anche noi stessi, per la speranza e il cammino che rappresentano. Per
cui si è dato vita al Circolo di Informazione e Sostegno “Veredas Autonomas”
(Sentieri Autonomi) che sta iniziando a fare attività di diffusione e
solidarietà con gli zapatisti e con altre lotte sul cammino dell’autonomia come
per esempio “Las Abejas”, organizzazione indigena pacifista del Chiapas.
In generale, si può dire che
la Unitierra è un contenitore che funge da laboratorio per iniziative autonome. Gli esempi sono innumerevoli e si
trovano anche nel passato, tra questi vale la pena citare il Centro Autonomo di
Creazione Interculturale di Tecnolgie Appropiate (CACITA), un’idea nata
all’interno dell’Unitierra e ora con vita propria, grazie alla quale si è dato
vita a uno spazio di generazione di innovazioni tecnologiche a servizio delle
persone o strumenti conviviali (in termini di Illich) come per esempio le bici-macchine.
Altre come la campagna “Sin maíz no hay país ” (Senza mais non c’è paese) o la
cooperativa di produzione interculturale di cioccolata Chocosol anch’esse
generate col supporto di Unitierra e ora autonome: la prima è impegnata a
livello nazionale nella difesa delle innumerevoli varietà di mais nativo
(l’elemento millenario a cui è legata la nascita della vita e delle molteplici
culture mesomericane, nonché tuttora alimento base del paese) dai forti
tentativi di imposizione delle sementi ogm brevettate delle multinazionali,
sempre più sostenute dai governi nazionali e statali; la seconda, mettendo in
relazione luoghi distanti come Oaxaca, Chiapas e Toronto, ha portato alla
produzione di cioccolata attraverso l’utilizzo di strumenti conviviali come forni
solari e bici-macchine, generando un meccanismo di scambio basato sul commercio
orizzontale, permettendo così di creare attività autonome basate su un lavoro
dignitoso e ben remunerato per tutti gli attori coinvolti nel circuito.
Oltre alle iniziative pratiche, la Unitierra ha sempre
favorito l’esistenza di gruppi di studio, ricerca e riflessione su temi
specifici (per esempio qualche anno fa si è portato avanti un seminario sulle
culture orali). In questo momento si sta realizzando un seminario sia presenziale
sia in linea, sul pensiero di Marx e Illich coordinato da Gustavo Esteva e un
gruppo di ricerca sul lavoro non salariato a Oaxaca.
Conclusione
In conclusione, suonerà forse banale dire che non è
semplice poter descrivere a parole quello che sta succedendo e che ogni giorno
si vive, attraverso la Universidad de la Tierra. La
costruzione dell’autonomia, è un cammino, non un piano di
tappe prestabilite, il suo cuore è il noi, fatto di vite e le relazioni,
persone in carne e ossa, è solo questo noi a compiere passi nel mondo reale,
nel qui che ci circonda, nell’ora in cui siamo immersi, riscrivendo la sua
storia ogni giorno. Senza di esso, tutto ciò che abbiamo appena descritto in
questo testo, semplicemente non sarebbe stato possibile. Al contrario vediamo
con sorpresa come, nella sua persistenza, la riaffermazione del noi si stia
giorno per giorno allargando, in maniera radicalmente plurale, senza controllo
e tentativi di indottrinamento: per contagio. Amici vicini e lontani, comunità
così come quartieri urbani, dentro e fuori dal Messico e da Oaxaca, accogliendo
questo messaggio, fanno propria la volontà di riprendere in mano le proprie
vite. Così come la Universidad de la Tierra è sorta in California, in Chiapas e
a Puebla, altri, partendo da ambiti diversi, camminano verso l’autonomia a
volte senza neanche necessità di darsi un nome, in maniera simile però, si
riappropriano del linguaggio quotidiano e del fare come perni dell’inversione
politica.
Per questo si può forse dire che non è solo la critica
di Illich ad ispirare la
Unitierra, non solo si è fatto tesoro della sua cassetta degli attrezzi, grazie
a cui interpretare quello che sta succedendo attorno a noi, nel mondo.
In maniera esplicita o meno, si mantiene vivo e si
rinnova anche il suo invito, tutt’altro che obsoleto: guardare in faccia la
realtà e vivere un reale cambiamento. Con parole semplici e chiare, quasi
cinquant’anni fa, insieme ad alcuni amici, lo definì una chiamata alla
celebrazione.
Veniva descritta così:
“Noi dobbiamo viverli, questi cambiamenti; non
possiamo soltanto pensare al cammino da fare verso una nuova umanità. Ciascuno
di noi e ciascuno gruppo col quale viviamo e lavoriamo deve diventare il
modello della nuova età che vogliamo creare. Tutti questi modelli che si verranno
sviluppando potranno fornire a ciascuno di noi la condizione reale in cui è
possibile celebrare ogni nostra potenzialità e scoprire il cammino verso un
mondo più umano. […]
Noi possiamo uscire da questi sistemi disumanizzanti.
La via per andare avanti sarà trovata da quanti non accettano l’apparente
totale determinismo delle forze e delle strutture dell’epoca industriale. La
nostra libertà e il nostro potere di agire, dipendono dalla volontà di
assumerci la responsabilità del futuro. […]
La celebrazione di questa umanità dell’uomo mediante
l’unione di tutti, mediante la guarigione delle ferite esistenti nelle
relazioni reciproche, dove ciascuno accetta sempre più la natura dell’altro e
sopperisce alle sue necessità, creerà indubbiamente nuove occasioni di confronto
per mettere in discussione i valori ed i sistemi esistenti. Una più ampia
dignità di ogni uomo e delle sue relazione con gli altri uomini, non può che
essere una sfida per il sistema esistente.
Questo è un appello a vivere il futuro. Uniamoci tutti
insieme nella gioia per celebrare la nostra consapevolezza di questo grande
fatto: noi possiamo costruire la nostra vita oggi sull’immagine di quella di
domani.”2
Questo testo presenta e racconta
l’esperienza diretta di Irene Ragazzini e Claudio Orrù nella Unitierra di
Oaxaca. È stato preparato per il convegno su Ivan Illich, tenuto a Lucca nei
primi giorni di dicembre del 2012.
*Gustavo Esteva ama dichiararsi un
intellettuale deprofessionalizzato ed è il fondatore dell’Universidad de la
Tierra, a Oaxaca, Messico. La sua vita è fatta di molte rotture: nei primi anni
’60 è giovane dirigente della Ibm e poi della Banca pubblica del commercio,
mentre comincia il suo impegno in gruppi di ispirazione marxista che poi
abbandona per le loro posizioni sulle lotte contadine. Dal 1970 al 1976 è un
funzionario del governo del presidente Echeverría. Economia e alienazione è il
titolo del suo primo libro, scritto per mettere in discussione lo sviluppo
statalista. Poco dopo comincia il suo lavoro per organizzazioni non profit e
diventa amico e collaboratore di Ivan Illich, ma anche consulente per
l’Esercito zapatista di liberazione nazionale in Chiapas ai negoziati con il
governo.
«Ho il sospetto che la rottura più importante della
mia vita – ha raccontato – si è verificata quando ho cominciato a ricordare le
esperienze con mia nonna da bambino. Non poteva venire a casa nostra a Città
del Messico perché era indigena. Mia madre non le permetteva di parlare con noi
in zapoteco o raccontarci storie della sua comunità. Ma io adoravo mia nonna e
durante le vacanze riuscivo a stare con lei molto tempo…». Dalla fine degli
anni ’80, Esteva vive nello stato di Oaxaca e ha dedicato il suo lavoro di
ricerca alla critica profonda dell’idea di modernità occidentale, partendo dal punto
di vista e dall’idea di cambiamento di alcune comunità indigene.
Esteva è autore di numerosi saggi per riviste e di
diversi libri, tra quelli tradotti in italiano, Elogio dello zapatismo per
Karma edizioni e La comune di Oaxaca per Carta. L’ultimo è Antistasis.
L’insurrezione in corso, edito da Asterios.
Video realizzato nei primi giorni
del 2013 al Cideci Centro Indigena De Capacitación Integral nel seminario sul
pianeta e i movimenti anti-sistemici:
venerdì 18 maggio 2018
Decreto Martina: il pesticida imposto in Salento non è tra quelli vietati dall’UE. E quindi? – Gianluca Ricciato
Nel mio articolo uscito su questo sito lo scorso 4 maggio,
c’è un errore di cui mi scuso: il pesticida neonicotinoide il cui utilizzo è
imposto dal decreto del 13 febbraio 2018 è unicamente l’Acetamiprid,
commercializzato in Italia da Sipcam sotto il nome di Epik, e non rientra nei
tre neonicotinoidi vietati lo scorso 27 aprile dall’Unione Europea
(imidacloprid, clothianidin e thiamethoxam) in quanto riconosciuti come
“apicidi” . La parte del decreto che riguarda questo aspetto si può rinvenire
da pagina 89 a pagina 95 del numero 80 della Gazzetta Ufficiale 2018.
Subiremo quindi un attacco chimico legale, e questo dovrebbe
tranquillizzarci.
Riporto qui di seguito alcune posizioni ufficiali riguardanti
l’Acetamiprid.
> EFSA (European Food Society Authority) nel
dicembre 2013
“Il gruppo di esperti scientifici PPR ha riscontrato
che acetamiprid e imidacloprid possono avere un effetto avverso sullo sviluppo
dei neuroni e delle strutture cerebrali associate a funzioni quali
l’apprendimento e la memoria. Ha concluso che alcuni dei livelli guida attuali
per l’esposizione ammissibile ad acetamiprid e imidacloprid potrebbero non
essere sufficienti a salvaguardare dalla neurotossicità nella fase di sviluppo
e dovrebbero essere ridotti. Questi cosiddetti valori tossicologici di
riferimento forniscono indicazioni chiare sul livello di una sostanza a cui i
consumatori possono essere esposti a breve e a lungo termine senza un rischio
apprezzabile per la salute. Alcuni esempi sono la dose acuta di riferimento
(DAR), la dose giornaliera ammissibile (DGA) e il livello ammissibile di
esposizione dell’operatore (LAEO)” http://www.efsa.europa.eu/it/press/news/131217
Ma dato che anche un organismo come l’EFSA è fatto da essere umani,
suscettibili come me di errore, o peggio ancora di pressioni esterne, non
voglio considerare oro colato quello che dice l’EFSA, anzi giacché sono in
argomento, ricordo quello che successe pochi mesi fa con i cosiddetti “Monsanto
Papers”:
“Le sezioni del rapporto dell’EFSA che riesaminano gli
studi pubblicati sul potenziale impatto del glifosato sulla salute umana sono
stati copiati, quasi parola per parola, dal dossier presentato da Monsanto.
Sono 100 pagine sulle circa 4.300 del rapporto finale, ma si tratta delle
sezioni più controverse e al centro dell’aspro dibattito degli ultimi mesi,
quelle sulla potenziale genotossicità, la cancerogenicità e la tossicità
riproduttiva del glifosato” http://www.lastampa.it/2017/09/15/scienza/glifosato-la-valutazione-dei-rischi-ue-copiata-dai-documenti-monsanto-SpexAUwAx6B23ei8G70xYL/pagina.html
Ovviamente anche il quotidiano torinese La Stampa non va preso per oro
colato (il movimento No Tav la chiama, da circa un ventennio, “la busiarda”).
Ma la diffusione di questa notizia è avvenuta principalmente dall’estero ed è
stata oggetto dell’interesse di tutti i quotidiani internazionali e anche di
interrogazioni parlamentari. Ma qui sembra non ci si possa fidare di nessuno.
Quindi andiamo avanti, sempre più a fondo per quanto possibile, per capire cosa
dicono le fonti ufficiali sull’Acetamiprid. Passiamo alla ricerca
universitaria.
Rispetto agli altri Neonicotinoidi, cioè quelli recentemente vietati
dall’Unione Europea, l’Acetamiprid sembra non avere gli stessi effetti nocivi
sulle api, stando alle ricerche sperimentali degli autori di questo articolo:
“Nel trasporto sistemico di alcuni principi attivi
all’interno della pianta, le molecole originarie vengono metabolizzate dal
sistema di detossificazione e degradate in altri composti. Un fenomeno simile ha
luogo anche all’interno del corpo delle api che vengano in contatto con il
composto madre. In alcuni casi, come per l’acetamiprid, le molecole
prodotte dalla degradazione non sono in grado di esprimere tossicità. Per altri
principi attivi, invece, i metaboliti possono avere proprietà tossiche
paragonabili o superiori a quelle della molecola madre (…) All’interno della
classe dei neonicotinoidi esistono due gruppi con caratteristiche
tossicologiche distinte: i composti nitro-sostituiti e i composti ciano-sostituiti.
I primi (es. imidacloprid, thiamethoxam e clothianidin) hanno una tossicità
fino a 1000 volte superiore rispetto ai secondi (es. acetamiprid e thiacloprid)
(…) Un’altra particolarità dell’esposizione cronica riscontrata nei piretroidi
e in alcuni neonicotinoidi, è la relazione negativa che lega la dose e la
mortalità provocata, per cui a dosi più alte non corrisponde necessariamente
una mortalità finale maggiore. L’imidacloprid, se somministrato cronicamente in
concentrazioni riscontrabili nel polline (1 e 10 ppb) attraverso una soluzione
zuccherina, è in grado di provocare una mortalità del 50% dopo 8 giorni. Nel
medesimo studio è stato dimostrato che, per raggiungere un effetto comparabile,
in modalità acuta, è necessaria una dose fino a 6000 volte superiore della
stessa sostanza. Acetamiprid e thiacloprid, al contrario, non mostrano lo
stesso comportamento. L’acetamiprid, ad esempio, se somministrato in dosi
subletali (0,1 e 1 µg/ape) per 11 giorni, sia per ingestione, che per contatto,
non provoca un aumento della mortalità rispetto ad api non trattate” (pp. 8-10)
Questo non vuol dire tuttavia che la sostanza in questione risulti innocua,
perché ci sono in ballo altri fattori, in particolare quelli “sistemici”, cioè
legati all’interazione tra sostanze, sia immesse dall’uomo sia
naturali:
“Anche il thiamethoxam, per contatto diretto con 0,1 e
1 ng/ape in condizioni di laboratorio, ha provocato un calo della capacità
delle api di apprendere gli odori e di memorizzare le informazioni apprese.
Analogamente l’acetamiprid, a dosi subletali e per ingestione (0,1
µg/ape), ha dimostrato di inibire la memoria a lungo termine legata a stimoli
odorosi [82]. L’interpretazione di questi risultati è interessante anche alla
luce del fatto che, nella maggior parte degli studi, gli odori usati come
stimoli sono sostanze comuni nella vita delle api come il citronellolo o il
linalolo, componenti naturali dell’aroma dei fiori o come la miscela di
molecole emessa dalla ghiandola di Nasonov nelle api operaie. La minore
reattività a questo genere di stimoli in un’ape bottinatrice, ad esempio,
potrebbe andare a danneggiare la capacità di rintracciare le fonti di cibo
migliori. L’effetto deleterio del clothianidin sull’apprendimento e la memoria
delle api, è stato inoltre dimostrato anche nel caso in cui l’odore proposto
era rappresentato dal feromone reale, un altro componente essenziale della vita
e dell’aggregazione della famiglia di api (…) L’azione sinergica tra la
deltametrina ed il fungicida imidazolico prochloraz, è stata verificata sulle
api adulte sia per quanto riguarda la mortalità, sia per gli effetti subletali
come la capacità di termoregolazione. L’aumento di tossicità sarebbe provocato
da un’interazione a livello biochimico, grazie alla quale i fungicidi azolici
sono in grado di ostacolare la detossificazione dei piretroidi, rendendo quindi
le api più suscettibili all’azione di questi comuni insetticidi. In condizioni
di semicampo questi risultati sono stati confermati, presentando però anche
un’altra interpretazione del fenomeno. Secondo questa infatti, il fungicida
prochloraz sarebbe in grado di ridurre l’effetto repellente della deltametrina,
aumentando quindi il rischio di esposizione al piretroide. Nel caso dei
neonicotinoidi, la combinazione con altri principi attivi è prevista in molte
formulazioni commerciali; tra i prodotti spray troviamo infatti associazioni
tra neonicotinoidi e piretroidi (deltametrina e cipermetrina prevalentemente),
mentre tra le formulazioni utilizzate nella concia di sementi, la combinazione
tra insetticida e fungicida è molto diffusa. Allo stesso modo di quanto
dimostrato per i piretroidi, anche l’associazione tra i neonicotinoidi e i
fungicidi azolici presenta un carattere sinergico negativo nei confronti delle
api adulte. Il trattamento combinato, per contatto, con triflumizolo, ad
esempio, ha aumentato la tossicità dell’acetamiprid e del
thiacloprid più di 200 e 1000 volte rispettivamente. Analogamente la DL50 del
thiacloprid è risultata di 500 volte più bassa in corrispondenza del
trattamento combinato con il propiconazolo. Questo tipo di sinergia si verifica
sopratuttutto con i neonicotinoidi di tipo “ciano-sostituito”, che esprimono
una tossicità individuale molto inferiore rispetto agli altri; nel caso
dell’imidacloprid, infatti, l’effetto sinergico con i fungicidi menzionati è
risultato molto limitato (pagg. 12-16)
La conclusione del dossier, in particolare, sembra fungere
da monito in particolare sull’interpretazione riduzionistica e a breve termine
della singola sostanza, a favore di un’assunzione del problema a livello più
generale, di eco-sistema:
“La valutazione degli effetti dei pesticidi a livello
della famiglia, inoltre, deve tenere presente la capacità di resilienza
dell’alveare. La colonia va considerata, infatti, non come la somma degli
individui ma come un superorganismo coordinato da un’intricata rete di
relazioni tra individui e con un’alta capacità di far fronte alle perturbazioni
esterne. Gli eventuali effetti che potrebbero essere osservati sul lungo
periodo possono quindi non essere evidenti nel corso di una sperimentazione.
Tuttavia, anche alla luce della difficoltà di appurare l’azione di un pesticida
in condizioni di campo, le evidenze fornite dalle attività di monitoraggio,
come le numerose segnalazioni di morie e spopolamenti, dovrebbero essere prese
in considerazione nel processo di valutazione del rischio post-registrazione
(agrofarmaco-sorveglianza). In conclusione, la vasta produzione scientifica e
le numerose evidenze che dimostrano la pericolosità di molti pesticidi nei
confronti delle api, richiedono una particolare attenzione nel processo di
registrazione ed utilizzo di questi prodotti, tenendo presente che gli effetti
riscontrati sulle api possono interessare anche altri impollinatori ed insetti
utili, con un notevole impatto sull’agroecosistema.” (pag. 19)
Tutto questo, più che suggerire al comune cittadino, cioè a me, di
utilizzare allegramente questo tipo di prodotti, fa venire in mente invece un
altro testo, del 1992, uno dei testi più vituperati degli ultimi anni e che
invece, quando uscì, sembrava l’approdo di una nuova civiltà.
> DICHIARAZIONE DI RIO (1992)
“Con il termine principio di precauzione,
o principio precauzionale, si intende una politica di condotta
cautelativa per quanto riguarda le decisioni politiche ed economiche sulla
gestione delle questioni scientificamente controverse.
Principio 15. Al fine di proteggere l’ambiente, gli
Stati applicheranno largamente, secondo le loro capacità, il Principio di
precauzione. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di
certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per differire
l’adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette
a prevenire il degrado ambientale.”
Tutto quello che sto facendo insomma, per accordo internazionale tra stati,
non dovrebbe nemmeno esistere: non dovrei essere io a dover dimostrare la
sospetta nocività di una sostanza perché questa non venga iniettata nei miei
polmoni, nel mio apparato digerente, nella terra dove cammino e nell’acqua che
bevo. E non è una questione che riguarda solo le api, per quanto
importanti esse siano. Dovrebbero essere i somministratori di
questa sostanza a dimostrare l’innocuità della stessa o semmai, in caso di
emergenza, la priorità del suo utilizzo in un rapporto costi-benefici, e tale
priorità dovrebbe essere condivisa dalla maggioranza dei cittadini secondo la
democrazia. Ma tutto questo allo stato attuale sembra fantascienza. Allo stato
attuale, da cittadino e – faccio coming out – da ecologista ormai ventennale,
con studi universitari di filosofia e di educazione ambientale, con
partecipazione ormai ventennale a pratiche legate alla sostenibilità, quando
cerco di parlare di principio di precauzione mi viene risposto: “di questo
devono parlare solo i laureati in…”, assumendo che questa questione riguardi
solo i laureati in qualcosa. Per questo motivo ho riportato finora solo fonti
“neutre”, e non perché io creda che esistano fonti veramente “neutre”: siamo
tutti fallibili e abbiamo tutti dei punti di vista, la differenza semmai per me
sta se uno ha o non ha la capacità di fare domande e rispettare le opinioni
altrui.
Ci sono opinioni, per me, rispettabilissime, ma considerate “ideologiche”
da chi ritiene di avere la verità assoluta in tasca. A me sembra infatti che
oggi non siano più i comunisti, ma gli ecologisti, a “mangiare i bambini”. Ne
riporto alcune, di queste opinioni, riguardanti l’Acetamiprid.
> VINCENZO VIZIOLI, PRESIDENTE DI AIAB
(ASSOCIAZIONE ITALIANA AGRICOLTURA BIOLOGICA), INTERVISTATO DAL MAGAZINE
GREENME
“L’acetamiprid non è stato vietato, perché la sua
tossicità risulta più bassa degli altri tre neonicotinoidi ora messi al bando.
Ma per gli ecosistemi potrebbe non cambiare nulla. “Alta o bassa, le api
sono particolarmente sensibili a tossicità anche molto basse”.
Ricordiamo inoltre che se gli agricoltori biologici
useranno queste sostanze, perderanno le certificazioni e servirebbe anche a
poco un’eventuale deroga concessa dalla Regione (ovvero la possibilità di
continuare a mantenerle vista la situazione di emergenza), perchè perderebbero
comunque tutto il mercato a loro legato e faticosamente creato negli anni.”
> ASSOCIAZIONE MEDICI PER L’AMBIENTE – ISDE ITALIA
“L’emivita biologica dei neonicotinoidi può arrivare a
due-tre anni e, quando queste sostanze sono immesse nell’ambiente, possono
rimanere nel suolo e nelle falde acquifere per lungo tempo senza essere
degradate e accumulandosi nelle piante, comprese quelle a destinazione
alimentare. L’acetamiprid, in particolare, è stato riscontrato nell’11,6
% dei punti di monitoraggio delle acque superficiali (nelle aree dove è stato
cercato) e nel 3,2 % di quelli delle acque sotterranee. Questi rilievi sono
particolarmente gravi in considerazione anche degli effetti letali e subletali
sugli anfibi. Secondo evidenze scientifiche elencate dall’agenzia per la
protezione ambientale americana (US EPA), l’acetamiprid è neurotossico e, nei
mammiferi, ha conseguenze biologiche negative su fegato, reni, tiroide,
testicoli e sistema immunitario. Ha inoltre un’alta tossicità per gli uccelli.
Gli effetti biologici dei neonicotinoidi sull’uomo (che può assumerli per
contatto, per inalazione e per ingestione) devono essere ancora compiutamente
chiariti. Sono stati tuttavia pubblicati sino ad ora 4 ampi studi
caso-controllo che descrivono, in tutti i casi e con metodologia adeguata,
associazioni significative tra esposizione cronica a neonicotinoidi e rischio
di alterazioni dello sviluppo come tetralogia di Fallot, anencefalia, disturbi
dello spettro autistico, alterazioni mnesiche e motorie”
CONCLUSIONI, COME SI DICE
Un noto sito “antibufala”, che non nomino non solo per non fargli
guadagnare ulteriori clic, ma anche perché mi sono stancato anche di sentirlo
nominare e utilizzare come “fonte” – è lo stesso sito che si fregia di aver
dipinto la nota scienziata ecofemminista indiana Vandana Shiva come una
“santona” – non ha perso occasione per prendere posizione anche in questo caso
e svelare le “fake news” riguardanti il decreto Martina. Il problema per me non
è che ognuno possa sparare le proprie idee, giuste o sbagliate, sul web: di
questo per me ha paura solo chi è in malafede e ha qualcosa da nascondere.
Il problema è chi, non rispettando le idee altrui, considera sé stesso
“neutro e oggettivo” (quindi “assoluto”) e ridicolizza come ignorante chiunque
sia l’altro-da-sé: questo nel mio linguaggio si chiama dogma, pensiero unico e
se si diffonde diventa pericoloso perché è l’anticamera che giustifica, da
sempre, ogni totalitarismo. Specie quando avviene tra posizioni sociali,
filosofiche, politiche e scientifiche complesse, che avrebbero bisogno del
confronto, non di questo atteggiamento. Avere punti di vista diversi
sull’argomento, nel senso proprio di provenire da “ambiti diversi” rispetto ad
uno stesso argomento, dovrebbe accrescere le conoscenze, invece assistiamo a
una guerra tra specialismi, questa sì, allarmante.
E’ facile girare su Internet e citare i più faciloni e cialtroni per
screditare un argomento, quelli che non sanno scrivere, quelli che ripetono a
pappagallo posizioni sentite, lo possiamo fare tutti: soprattutto di ripetitori
di fake news ufficiali ce ne sono a milioni, in questo paese, da tempo
immemorabile. Da quando Enrico Mattei morì in un “tragico incidente aereo”,
Peppino Impastato mise una “bomba terrorista” su un binario siciliano e Pier
Paolo Pasolini fu ucciso perché un ragazzo “non voleva fare sesso” con lui: i
depistaggi mediatici di Stato e i loro ripetitori, su qualsiasi argomento, sono
all’ordine del giorno, ma non per questo io, personalmente, ritengo un
cialtrone chiunque appoggi delle versioni dei fatti che io non condivido, e non
penso nemmeno che sia uno stupido, penso che si basi su esperienze di vita,
modelli e fonti di conoscenza diverse, magari in parte, dalle mie.
Prima di sentenziare, dalla propria posizione, che “L’Acetamiprid non ha alti livelli di rischio”, il
pluricitato sito antibufale – metonimia del suo autore e fondatore – fa la
seguente riflessione: “Ammetto che sto iniziando a pensare seriamente
che alla fine ci sia sotto qualcosa per cui non si vuole minimamente
intervenire contro la Xylella. Ci deve essere qualcuno a cui tutte queste
polemiche fanno comodo. Non comprendo però chi siano”
Do per buona la sincerità di questa domanda, che in un mondo di “falchi”
quale quello che viviamo è anche giustificata, e condivido con il sito che è
sbagliato non approfondire e non dare informazioni quanto più corrette
possibile. Quello che non condivido è il fatto di non esplicitare che si sta
scrivendo dalla propria posizione, dal proprio vissuto, emotivo, intellettuale,
di esperienza teorica e pratica, dalle proprie conoscenze: dal proprio “sé
situato”, come dice il pensiero femminista, partendo da sé prima di tutto e non
dai pezzi di carta che, lo sappiamo tutti, possono essere segno di conoscenza,
ma non per forza. Del resto, questo sito antibufala sembra avere un pezzo di
carta su tutto, sebbene accusi gli altri di “tuttologia”.
Io non condivido la posizione che hanno avuto alcuni secondo cui “la
xylella non esiste”, li vedo gli ulivi nella mia terra e mi faccio delle
domande a cui non ho avuto finora risposte che mi soddisfano definitivamente.
Non ho nemmeno una posizione netta, in linea generale, nei confronti del fatto
che gli abbattimenti di ulivi potessero o meno essere una soluzione che
funzionava, “un male minore” rispetto soprattutto all’attacco chimico iniziato
da qualche giorno in Salento. Anche se l’entità dei tagli proposti, cioè la
quantità di kilometri quadrati di ulivi da abbattere, mi ha lasciato di stucco
e mi ha fatto sempre chiedere se fosse necessaria una tale quantità di
eradicazioni.
Del resto, c’è una realtà che fa agricoltura
naturale, tra le mille cose che fa, di cui mi sento parte anche se
non vivo lì, i cui 30 ettari di terra ricadono tutti interi all’interno di
quello che fu il primo piano di abbattimenti proposto: i loro uliveti sono ad
oggi, maggio 2018, totalmente sani, nonostante siano vicinissimi ad un famoso
focolaio di cui tanto si è parlato. Non sono ancora stati intaccati, quindi è
questione di tempo, o è grazie alle loro pratiche eco-sistemiche e al modello
ecologico che adottano da più di vent’anni? Perché il punto, rispetto alle
imposizioni, è questo: possono (possiamo) fare disobbedienza civile
all’imposizione di neonicotinoidi, subendo magari multe e subendo l’irrorazione
di chi ci sta intorno, ma non possiamo resistere alle forze dell’ordine di un
paese occidentale che viene letteralmente ad asfaltarti, non si hanno le forze,
a meno di essere davvero in migliaia. Ma è questa la soluzione, asfaltare 30
ettari di realtà virtuosa, eco-sostenibile e, ad oggi, sana, distruggendo oltre
al territorio anche una storia preziosissima? Possibile che non ci si
renda conto che non si possono prendere decisioni di questo tipo, così
impattanti, senza cercare mediazioni con chi vive e lavora sul
territorio? E’ solo un esempio tra i tanti, anche se a me caro, e non posso
certo parlare di questo argomento prescindendone. Anche perché la versione dei fatti che questa realtà ha fornito, puntuale
e documentata, ma orientata e non fintamente neutrale, sarebbe sconcertante
anche se fosse vera solo al 20%.
Perché sono, ad oggi, non solo sconsigliate, ma addirittura vietate
pratiche naturali che cambiano il paradigma usato finora e che molti che le
hanno sperimentate considerano, oggi, potenzialmente efficaci se sviluppate?
Perché non si seguono queste direzioni di
rafforzamento, invece che di ulteriore affaticamento, del “sistema”?
Perché dobbiamo sempre sentire considerati come ovvi, da tutte le fonti istituzionali,
i bombardamenti dei sistemi immunitari? E non si ha diritto di parola nemmeno
se alcune di queste ricerche arrivano non solo da chi pratica agricoltura in
campo da decenni, cosa che a quanto pare non abbia nessun valore per alcuni, ma
anche dalla stessa scienza universitaria?
Tutto questo ho pensato elaborando le idee delle campane, variegate, che ho
ascoltato in questi anni, e non credo di avere un’idea definitiva né sulle
cause generali né sulle possibili soluzioni della questione del disseccamento
degli ulivi in Salento. Ci sono troppi fattori in ballo, non solo “agronomici”.
Ma allo stesso tempo non posso non considerare quella che è stata la
cosiddetta “Rivoluzione verde” degli ultimi 50 anni, ossia la modificazione in
senso industriale e capitalista dell’agricoltura che ha generato
desertificazione globale, aumento dell’agricoltura intensiva, monocolture,
inaridimento dei terreni, perdita di biodiversità, cioè di intere popolazioni
di piante e animali, crisi sociali, crisi eco-sistemiche, crisi sanitarie, e
via dicendo. E questi non sono “gomblotti”, sono i risultati di studi, spesso
pionieristici e osteggiati dal senso comune e da chi detiene il potere
economico, e sono i risultati anche delle lotte di chi ha dato la vita e ancora
la dà per difendere l’ambiente e le popolazioni dalla violenza capitalista, da
Chico Mendes (1988) a Paulo Sergio Almeida Nascimento (2018).
Come non posso non tenere presente l’alternativa filosofica e pratica di
chi propone un superamento della concezione della natura come opposta alla
cultura e alla civiltà, la concezione cioè sviluppata tra ‘600 e ‘800 di una
natura da “dominare, soggiogare, contrastare” perché portatrice di malattie,
virus, morte, invece di rafforzare i suoi “sistemi immunitari”, la sua
biodiversità e quindi la convivenza armoniosa tra esseri viventi: tali
alternative sono la concezione sistemica, le pratiche agroecosistemiche e in
generale un’idea che noi umani siamo parte del sistema e quindi dobbiamo
convivere, non dominare. Molta filosofia del ‘900, quella che al liceo non si
studia mai, ha cercato di mostrare questo in svariate forme, evidenziando i
limiti e i pericoli di un’epistemologia iperspecialistica e riduzionista.
Considerare il pensiero ecologicouna moda, per me,
significa ignorare quanto sia variegata e complessa la proposta di modifica del
paradigma emersa negli ultimi decenni, il cambiamento cioè dei nostri modi di
pensare e di vivere. E non in un futuro “sol dell’avvenire”, ma adesso.
Scrive Gregory Bateson:
“Cominciamo a scorgere alcuni degli errori
epistemologici della civiltà occidentale. In armonia col clima di pensiero che
predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una
teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di
sopravvivenza era o la famiglia o la specie o la sottospecie o qualcosa del
genere. Ma oggi è pacifico che non è questa l’unità di sopravvivenza del mondo
biologico reale: l’unità di sopravvivenza è l’organismo più l’ambiente. Stiamo
imparando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente
distrugge sé stesso.”
(Gregory Bateson, Verso un’ecologia della
mente, Adelphi, 1977)
Queste alternative sono in atto e non vuol dire che si è trovata la
soluzione del mondo, ma che si è iniziata a sperimentarla, da un punto di vista
ecologico-sistemico. Queste alternative esistono in America, in Asia, in
Europa, in Italia e anche in Salento, e sono messe in pericolo da questo
decreto: questo è il motivo dell’emergenza, per me, cioè che la soluzione
agrochimica proposta sia peggiore della causa, nei confronti dell’ecosistema e
dei suoi abitanti.
C’è stato un bellissimo (per me) e coraggioso report di Speciale Tg1,
qualche mese fa, che parla di queste “alternative” in ambito agricolo. Ne ho
parlato in questo articolo, Il dado è tratto. La Natura nel piatto.
Si può ancora vedere sul sito Rai, la puntata è quella del 29 gennaio 2018.
Il sistema Terra, oggi come mai, ha bisogno di confronti, relazioni,
armonia e verità, non di topi in trappola che litigano tra di loro mentre
qualcuno dall’alto li guarda e ride. E questo vale per tutti, a prescindere dai
titoli di studio e dalle idee, e vale soprattutto per me, naturalmente.
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