giovedì 30 novembre 2017
lunedì 27 novembre 2017
Vaccini sì, quando necessari - Guido Viale
Un tema di grande attualità
Questa relazione (presentata al convegno di Torino “Costituzione, comunità, diritti”, promosso il 19
novembre 2017) riguarda un tema di grande attualità: il rapporto tra vaccini,
integrità e diritti della persona visto da un sociologo. Non sono né medico, né
biologo, né giurista. Quindi mi asterrò nella misura del possibile dall’entrata
in argomenti tecnici su cui non ho competenze.
Ricerche fasulle
È nota la vicenda dei
motori diesel della Volkswagen, truccati con un software
che ne riduceva drasticamente le emissioni inquinanti nei test di prova, per
poi spararle “a tutto gas” sulle strade in fase di esercizio. Il trucco è stato
“scoperto” quando il governo degli Stati uniti ha mobilitato l’Epa, la sua
agenzia per l’ambiente, per mettere un freno alla concorrenza delle vetture
tedesche; ma probabilmente era noto da tempo a tutti gli addetti al settore. I
dirigenti della Volkswagen, il governo tedesco e gli organismi di controllo
preposti ad autorizzare la circolazione delle nuove vetture hanno fatto finta
di “cadere dal pero”; ma per molti anni avevano mandato avanti questo
fondamentale meccanismo di inquinamento delle strade, dell’aria che respiriamo,
dei nostri polmoni, del nostro sangue e dei nostri tessuti sempre più spesso
aggrediti da tumori di ogni tipo.
È attuale la vicenda
del glifosato, l’erbicida più diffuso nel mondo. Lo Iarc
di Lione, istituto che si occupa di ricerche sul cancro, che è una succursale
dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità (agenzia delle Nazioni Unite,
che viene però finanziata per l’80 per cento da privati: Big Pharma e
fondazioni come quella di Bill Gates) aveva commissionato a un gruppo di
studiosi una ricerca sugli effetti di questo erbicida. Ma al momento di
renderlo pubblico, il draft sui
risultati della ricerca è stato cambiato da una mano ignota, trasformando
l’erbicida da cancerogeno a innocuo. Un risultato rafforzato da un giudizio
dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza degli alimenti) che ha espresso
il suo giudizio sulla base di una documentazione fornita dalla Monsanto, cioè
dal produttore. Questo ha permesso al Parlamento europeo di autorizzare per
altri cinque anni, e forse più, l’avvelenamento dei campi con questo prodotto.
Non si tratta ovviamente dei due unici pareri in proposito: la pericolosità del
glifosato è documentata da molti altri studi, ma soprattutto dal peggioramento
crescente della salute di chi lavora in agricoltura, anche se per gli addetti
al settore è difficile separare effetti dei tanti veleni che usano nei loro
campi: un processo che ha fatto delle campagne un ambiente più nocivo e letale
di quello delle città, invertendo un rapporto – “campagna uguale salute”,
“città uguale malattie” – che risale agli albori della civiltà urbana.
I casi di occultamento
o travisamento dei risultati della ricerca, ovvero di ricerche fasulle, fatte e
commissionate per contraddire evidenze della vita quotidiana sono centinaia:
in parte sono dovuti a veri e propri meccanismi di compravendita di tecnici,
esperti, scienziati e ricercatori: cioè corruzione.
In parte, invece a semplice conformismo:
per fare carriera nella scienza e nella ricerca conviene non contraddire teorie
e posizioni dominanti. Ma in parte dipendono dal meccanismo
di finanziamento dell’Università e della ricerca. Lo
Stato vi provvede sempre meno e per mandarle avanti occorre ricorrere ai finanziamenti dei privati; al punto che la
vera professionalità di uno scienziato o di un ricercatore non si manifesta
tanto nella qualità dei risultati, quanto nell’abilità nel procacciare
finanziamenti: l’intendence suivra;
cioè il risultato scientifico dipende dai soldi che si mettono insieme.
Sliding doors
Succede un po’ in
tutti i campi; ma in quello sanitario, dominato da poche multinazionali
straricche e potenti, il condizionamento è certo maggiore.
Il meccanismo è poi ancora più perverso perché ad esso vanno ad aggiungersi
altri due fattori. Il primo è il fatto che nella manipolazione di elementi e
sostanze di origine organica, come è in gran parte il lavoro di ricerca in
campo medico e farmacologico, la
replicabilità di un esperimento – paradigma della
scienza in tutte le sue espressioni – è
per lo più scarsa, in quanto difficilmente le sostanze
utilizzate nei laboratori possono essere rigorosamente uguali; per cui occorre
affidarsi, molto di più che in altri campi, alla buona fede di chi pubblica le
sue ricerche. Il secondo è il fatto che la
ricerca farmacologica è di fatto finanziata dallo Stato: ma non in maniera
diretta, bensì caricandone il costo sul prezzo dei farmaci coperto dal servizio
nazionale (che così finanzia anche il costo, non
dichiarato, del marketing, che spesso è pura e semplice corruzione dei medici:
regali, crociere e finti convegni in cambio di prescrizioni, ecc.). Così le
case farmaceutiche dispongono a modo loro dei margini realizzati. Questo
meccanismo però non funzionerebbe se alla fine del circuito finanziario non ci
fosse una sanzione pubblica da parte degli organismi preposti alla validazione
dei prodotti. Nel caso dei farmaci, in Italia, questo organismo è l’Aifa,
l’Agenzia del farmaco; balzato all’onore delle cronache per innumerevoli esempi
di corruzione (solo una piccola parte dei tanti che verosimilmente non sono
stati scoperti) e, attualmente, per lo stretto intreccio tra dirigenti del
Ministero, che è l’organo di controllo, l’Agenzia e le aziende farmaceutiche o
le loro fondazioni private: un sistema che in Italia si chiama “conflitto di
interessi” (e dovrebbe chiamarsi invece coincidenza di interessi), ma che in
tutto il mondo è noto invece come sistema
delle porte girevoli (sliding doors): personaggi che
vengono premiati con incarichi in azienda dopo aver servito con funzioni di
controllo in ruoli pubblici. O vice versa.
Sono meccanismi da tener d’occhio quando si parla di vaccini: l’unico “atto medico” al mondo praticato senza alcuna
forma di diagnosi. Un atto particolarmente invasivo, più
del particolato nei nostri polmoni e nel nostro sangue e più del glifosato in
quello che mangiamo.
A cosa servono? Sono pericolosi? Alcune risposte
La legge Lorenzin ne
ha resi obbligatori dieci (all’inizio erano 12 + 4
“fortemente consigliati”, da quattro che lo erano prima) per tutti i minori di
sedici anni. È una legge varata in
ottemperanza a un impegno preso dalla ministra in un incontro della Global Health Security Agenda
promossa dal G7 di tre anni fa, che ha fatto dell’Italia il paese capofila per
le strategie vaccinali; in questo impegno, la
ministra è stata sospinta da un dirigente del Ministero della Salute poi
pescato con le mani nel sacco di interessi farmaceutici illeciti. Quest’obbligo ha spinto molti a chiedersi il perché di tutti quei
vaccini. A che cosa servono? Non sono pericolosi? Domande che molti, come anche il sottoscritto,
non si erano mai posti prima. Così sono diventate chiare, o possono diventare
chiare a tutti, alcune cose:
1) si
tratta di un esperimento in cui ai minori italiani è stato assegnato il ruolo
di cavie, in vista dell’estensione di misure analoghe a
tutti i paesi del mondo: dove ci sono mezzi, con il finanziamento dei
rispettivi Stati; dove non ci sono, con l’aiuto, temporaneo e sempre revocabile
delle fondazioni che finanziano le campagne vaccinali sia attraverso l’OMS che
direttamente.
2) i
vaccini da rendere obbligatori non sono solo 10, ma, in prospettiva, molti di
più; perché le malattie infettive note sono più di
cinquanta e le varianti di queste malattie sono forse dieci volte tanto. Un po’
per volta bisognerà arrivare a vaccinarci contro tutte: ovviamente con
confezioni pluridosi, come lo sono già oggi il quadrivalente e l’esavalente
inflitti anche a chi ne richiederebbe uno solo, perché dalle altre malattie è
già stato dichiarato immune.
3) un
po’ per volta la misura riguarderà tutta la popolazione e non solo i minori di
sedici anni, come già oggi sta succedendo a chi lavora nella scuola o negli
ospedali. Se infatti vale il dogma, mai dimostrato, a
detta di molti operatori del settore e di numerose evidenze statistiche, della
cosiddetta ”immunità di gregge”, tutti si dovranno vaccinare per non mettere a
rischio, non solo a scuola o in ospedale, ma sui tram, ai giardinetti, sulle
spiagge, al cinema, allo stadio, ecc. la salute di coloro che non possono
essere immunizzati. I quali dovranno comunque continuare a vivere tra mille
attenzioni, perché i pericoli che li minacciano sono infiniti e non provengono
solo dalle persone non vaccinate.
4) queste
vaccinazioni, poi, dovranno essere ripetute periodicamente,
a distanze comprese tra i quattro e i dieci anni o poco più, perché l’immunità
che conferiscono (se la conferiscono; il che non avviene sempre) non è permanente;
a differenza dell’immunità naturale ricevuta da chi ha contratto e superato la
malattia, che, per quello che riguarda le malattie esantematiche, non solo è
permanente, ma, a quanto affermano molti medici sulla base della loro
esperienza, si trasmette di madre in figlio per tutti i primi anni di età: fino
a che non arriva l’età in cui è opportuno che le si contragga per acquisire a
propria volta l’immunizzazione naturale. Mentre chi quell’immunità non l’ha
ricevuta attraverso il cordone ombelicale o il latte materno, la deve sì
acquisire con il vaccino, ma con una durata limitata; il che espone chi non ha
né l’una né l’altra, o ha un’immunizzazione “scaduta”, al rischio di contrarre
la malattia nell’età più pericolosa: tra i sedici e i venticinque anni.
5) i
vaccini sono pericolosi, sia per gli effetti collaterali che possono avere –
spesso assai più pesanti di quelli di una malattia esantematica contratta
all’età giusta – sia perché un numero consistente di pediatri e di medici
sostiene, sulla base della propria pratica professionale, che dura anche da
trenta-quaranta anni, che le persone vaccinate sono più fragili ed esposte alle
malattie di quelle non vaccinate. È una tesi che viene
contestata dai sostenitori dei vaccini a tutti i costi, perché non è suffragata
da analisi statistiche. Il che è vero; ma quelle ricognizioni statistiche non
si fanno, nonostante che non siano molto impegnative per chi ha accesso ai dati
raccolti dalle Unità sanitarie e, soprattutto, si nega l’accesso anche ai pochi
dati disponibili. Per costringere l’Aifa a pubblicare i dati sulle reazioni
avverse ai vaccini negli ultimi anni in Italia è dovuto intervenire il
Tribunale di Torino. Perché nasconderli? Ma anche così non si riesce a sapere
di che tipo e di che gravità siano state le reazioni avverse registrate; che
sono comunque solo una piccola parte di quelle intervenute, perché medici e
pediatri non sono tenuti a prenderne nota e a registrarle; e molti non hanno
nemmeno le cognizioni che potrebbero permettere la connessione, spesso non
immediata, tra vaccino e reazione.
6) la
IV commissione di inchiesta sull’uranio impoverito, nata per indagare sulle
connessione tra carcinomi, per lo più mortali, riconducibili all’esposizione
dei militari coinvolti nelle missioni in Bosnia durante la guerra nell’ex
Jugoslavia, è arrivata alla conclusione che la somministrazione di un numero di
vaccini superiore a cinque (ben al di sotto, quindi, dei dieci prescritti dalla
legge Lorenzin) è stata indubitabilmente una delle cause del diffondersi di
quelle patologie, anche più dell’esposizione alle
radiazioni dell’uranio impoverito, che sicuramente ha giocato la sua parte. Ma
su questa inchiesta è calato un silenzio tombale.
7) il
punto più controverso è la connessione tra vaccini e autismo.
È indubbio che autismo e altri disturbi mentali irreversibili, soprattutto
quelli regressivi, che intervengono non alla nascita, ma dopo alcuni mesi o
anni di vita, sono in fortissimo aumento; ma chi intende dissociare questo
fenomeno dai vaccini sostiene che le cause potrebbero o dovrebbero essere
cercate altrove: soprattutto nel crescente inquinamento dell’ambiente e dei
cibi. Tutti i sostenitori dei vaccini a tutti i costi citano, anche perché non
ne hanno altri a disposizione, il caso Wakefield: il primo medico che ha
ipotizzato una connessione tra questi due eventi e che è stato radiato
dall’ordine con un’accusa di corruzione per la quale non è mai stato processato
e perché i dati su cui basava le sue affermazioni erano stati raccolti in modo
irregolare. Nessuno vi dirà però che uno dei coautori della stessa ricerca,
colpito dalla stessa sanzione, è stato poi reintegrato (mentre Wakefield non lo
è stato perché non ne ha fatto richiesta, avendo trasferito altrove la sua
attività); soprattutto perché quella radiazione era stata più il frutto di una
campagna orchestrata da alcuni media legati a Big Pharma che la conseguenza di
una intenzionale alterazione dei dati. Nessun comunque vi dirà che il CDC (il
Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, un’agenzia del governo
degli Stati uniti) è stato denunciato al Congresso per aver nascosto e
falsificato dati che quella connessione invece la provavano. È l’oggetto del
film Vaxed, la cui proiezione è stata impedita al parlamento Europeo, al Senato
italiano, nelle sale di Londra e in molti altri posti. Di ricerche su questo
tema che portano a conclusioni opposte ce ne sono parecchie e su di esse non mi
pronuncio perché non ho le competenze per farlo. Ma è accertato che due additivi presenti in quasi tutti i vaccini per
garantire efficacia ai virus depotenziati – il mercurio, ora eliminato, e
l’alluminio, ancora largamente utilizzato – possono avere pesanti effetti sul
cervello. Anche qui, in mancanza di ricognizioni
condotte in modo rigoroso su campioni rappresentativi della popolazione, ci
soccorre, oltre alla denuncia di centinaia di genitori che hanno visto i loro
figli rovinati, non alla nascita, ma dopo il vaccino, la conferma di molti
medici. Questi elementi evidentemente non bastano a “far testo”; ma il rischio
di vedere la vita dei propri figli rovinata per sempre è talmente intollerabile
che dovrebbe spingere, ma non lo fa, le autorità sanitarie a metter in cantiere
una ricerca seria sul tema. E soprattutto un dibattito
pubblico e aperto a tutte le voci.
8) ad aprire questo confronto e a rendere edotta
tutta la popolazione delle contrapposte posizioni e delle rispettive ragioni
miravano le decine e decine di
manifestazioni a favore della libera scelta, di cui tre
a carattere nazionale, che si sono svolte in Italia a cavallo dell’approvazione
della legge Lorenzin; animate da posizioni diverse, che vanno dal rifiuto
totale alla richiesta di subordinare la somministrazione dei vaccini al
rilascio di un consenso informato, o alla rivendicazione di poter scegliere
quali e quanti vaccini accettare sulla base di una esaustiva diagnosi del
soggetto e della situazione epidemiologica nella regione interessata.
9) invece ci hanno propinato fino allo sfinimento il
prof Roberto Burioni, per assicurarci che lui le cose le sa, che non stanno
come dicono coloro che contestano la legge Lorenzin, che lui non ne può
discutere con chi non ha studiato, perché “la scienza non è democratica”, e che
chi lo contraddice è un “asino ragliante”, espressioni poi riprese nel titolo
del suo insulso libro, La congiura dei somari.
Burioni evidentemente non sa che gli
asini, oltre che dolcissimi, sono animali molto intelligenti e che se “l’asino raglia” è perché,
giustamente, “vuol fieno e non vuol paglia”. Lascio a voi l’interpretazione di
che cosa sia fieno e che cosa paglia. Nessun
confronto diretto con un medico o un biologo che abbia maturato sui vaccini
delle posizioni differenti. La“Scienza” di Burioni è la
stessa di coloro che si facevano beffe e perseguitavano il dottor Semmelweis
quando mostrava loro che lavandosi le mani il numero delle donne che morivano
di parto calava drasticamente. Loro erano “La Scienza” e Semmelweis un praticante.
Così per Burioni l’esperienza e le osservazioni di centinaia di medici e
pediatri che segnalano rischi e danni anche gravi a seguito di vaccini non
hanno alcun valore; contano solo gli studi statistici; quelli che non ci sono
perché l’Aifa non li fa. Quindi non resta che lui, Burioni, che le cose le ha
studiate…
10) si sostiene che i vaccini costano poco e che le
case farmaceutiche guadagnerebbero molto di più con i farmaci per curare le
malattie contratte per non essersi vaccinati. Intanto è da dimostrare che senza
vaccini ci si ammalerebbe comunque, mentre con i vaccini si resta sani; il che
è contestato. Ma va ricordato che in Italia si sta sperimentando un sistema
destinato a venir esteso a tutto il mondo, cosa che moltiplica tendenzialmente
i relativi guadagni di molte volte. Ma soprattutto che si
sta introducendo un meccanismo irreversibile, grazie al quale si avrà sempre
più bisogno di vaccini e sempre più di nuovi vaccini. E
l’economia insegna che quando si innesta un meccanismo irreversibile poi chi
controlla il mercato può fare il bello e il cattivo tempo, soprattutto sui
prezzi.
11) a riprova di ciò basti dire che contestualmente
al varo della legge Lorenzin sono stati introdotti nel mercato dei vax-bond:
prodotti finanziari presentati come “sicuri” perché legati alla diffusione e
alla moltiplicazione dei vaccini resi obbligatori, che costituiscono il loro
cosiddetto “sottostante”. Così, senza
neanche accorgercene, contraiamo, con i nostri corpi, un debito verso le case
farmaceutiche che hanno già venduto sul mercato
finanziario i proventi che si attendono dalla nostra soggezione.
12) come
leva per imporre i vaccini decisi dalla ministra è stata introdotta la minaccia
di esclusione dei non vaccinati dalla scuola dell’infanzia; minaccia che non ha
potuto essere replicata per la scuola dell’obbligo in quanto in aperta
contraddizione con il diritto universale e costituzionale all’istruzione. Così
i genitori inadempienti verranno soltanto multati. Ma
contestualmente si prospetta la creazione di classi differenziali per gli
alunni non vaccinati e contro di essi si è lanciata una vera e propria caccia agli untori. Caccia promossa e sostenuta
anche dal prof. Burioni, voce parlante del ministero, che così si è espresso:
“In un asilo romano una mamma No Vax che voleva far entrare a tutti i costi il
figlio tenuto fuori dalla legge è stata allontanata non tanto dai carabinieri
ma dalle altre mamme; questo secondo me è un segno importante perché chi non
vaccina i propri figli inizia a essere percepito giustamente come un incivile”.
13) infine, è da almeno quarant’anni che, sulle orme
delle ricerche dell’epidemiologo Thomas McKeown, presentate in un libro da me a
suo tempo tradotto, è stato
dimostrato che, con l’eccezione degli antibiotici, i farmaci, vaccini compresi,
hanno avuto ben poco peso nella scomparsa di malattie letali, mentre un ruolo
fondamentale, in Occidente, lo hanno avuto l’acqua potabile, le reti fognarie e
soprattutto una alimentazione adeguata; il che spiega
come mai malattie che da noi erano considerate innocue, ed anzi salutari, come
quelle esantematiche, in paesi dove si soffre la fame e la mancanza di acqua
potabile e di trattamento dei reflui esse continuino a essere devastanti, come
lo erano in Europa e negli Stati uniti quando ancora quegli standard non erano
stati raggiunti. Che malattie come il tifo, la poliomielite o il vaiolo, che
decenni fa seminavano il terrore anche nei nostri paesi, abbiano cominciato a
scomparire in seguito a un declino iniziato ben prima dell’introduzione dei vaccini
obbligatori è peraltro comprovato dalle serie statistiche relative alla
diffusione nel tempo di questi flagelli. Senza
per questo negare che dove la malattia era ancora diffusa, l’obbligo vaccinale
abbia avuto comunque effetti diretti positivi.
Vaccini quando
necessari
Niente vaccini
allora? No. Vaccini quando sono necessari: in tutti i
paesi ancora esposti a quei flagelli a causa delle condizioni igieniche e
alimentari della popolazione; per tutti coloro che vanno in viaggio in quei
paesi; e nei paesi da tempo immuni, uno per volta e solo in presenza di un
rischio reale o di una epidemia conclamata – e non inventata come quelle
segnalate dalla ministra Lorenzin e avallate dal prof. Burioni. Sempre tenendo
conto che la cosiddetta immunità di gregge deve ancora essere dimostrata. Tutto
questo per mostrare che la questione dei vaccini non è un aspetto secondario
dell’assetto politico, sociale e costituzionale in cui viviamo, ma una
manifestazione, non la sola, ma in prospettiva una delle principali, di una
spinta a sottomettere gli esseri umani a una medicalizzazione
e “chimicizzazione” sistematiche attraverso cui si
possono aprire le vie a molte altre forme di intrusione nelle nostre vite, nei
nostri corpi e nella nostra psiche; come lo sono già oggi la gestione dei dati
relativi a tutti gli aspetti delle nostre vite raccolti, senza che ce ne
accorgiamo, e venduti, senza che lo consentiamo, dai grandi gestori mondiali
della rete. E come lo è l’inquinamento che viene imposto all’ambiente in cui
viviamo e al cibo di cui ci nutriamo da parte delle società che controllano,
insieme alla tecnologia e alla ricerca, anche le istituzioni pubbliche dello
Stato che dovrebbero difenderci.
Autogoverno
La democrazia intesa
come autogoverno, fondato sia sulla partecipazione informata dei cittadini e
delle cittadine che sul conflitto contro chi vorrebbe imporci le sue scelte e i
suoi interessi grazie al suo potere, che oggi è soprattutto potere finanziario,
è l’unica forma di vera democrazia. Ma non è né realizzabile né perseguibile
senza schierarsi anche su questa frontiera, che è quella del controllo sui
nostri corpi e sulle nostre vite.
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domenica 26 novembre 2017
Le nostre vite sono “cheap” - RotaFixa
Qualche sera fa è toccato a John.
Un ragazzo canadese di ventidue anni, presumibilmente felice di essere venuto a
studiare o quel che è in un luogo il cui nome è leggendario nel mondo, ma non
certo per i suoi attuali meriti. Un luogo che dovrebbe invece essere evitato e,
come la Orano de La peste di
Camus, isolata dal resto del mondo per motivi di emergenza sanitaria. Nel
nostro caso mentale. L’epidemia di aggressività stradale è in aumento,
complice sia la cultura generale, sia l’uso smodato di
cocaina, sia la certezza di impunità non dico giuridica ma direttamente dalla
riprovazione sociale, strumento di autocontrollo collettivo ormai fortemente
ridotto se non svanito.
Chi, come me e molti altri in un numero sempre crescente malgrado tutto, ha scelto di
non muoversi con un mezzo a motore, è costantemente a rischio.Ad aggiungere beffa al
sempre più probabile danno – fino al danno definitivo e senza alcun ritorno, la
morte -, noi siamo percepiti come una perdita irrilevante. Quasi scontata,
visto che abbiamo scelto uno stile di vita che io chiamo moderno e che quasi
tutti a Roma giudicano al meglio bislacco. Siamo insomma
tranquillamente sacrificabili, perché “se l’è cercata”: un po’ come chi è
vittima di violenza sessuale perché ha osato questo abbigliamento, quel locale,
quell’altra zona, la notte poi “che giri a fare da sola”.
La scorsa settimana ho partecipato a due convegni legati al “mondo bici”.
Nel secondo, che riguardava le ricadute economiche del mezzo da qualche anno
riscoperto anche qui in Italia -e non certo grazie a quelli che oggi si fanno
belli a tavoli da convegno, ma grazie alle decine di migliaia di attivisti
sparsi per la penisola subalpina- ho sentito con le mie sventuratissime
orecchie il capo della polizia stradale, Roberto Sgalla, stilare la lista delle cose da
fare per salvaguardare la vita di chi si sposta in bici. Nell’ordine: “sistema
di tracciabilità della bicicletta”, leggasi targa, “obbligo di indumenti
riflettenti”, “obbligo di casco (“come a Malta”, ha aggiunto). Ah: ha esordito
chiedendo una persecuzione delle bici elettriche, con la scusa che “lo stanno
facendo a New York”. Transeat.
Fortunatamente ero stato invitato a intervenire dal moderatore del
tavolo, Paolo Gandolfi,
un deputato consapevole e intelligente, del Pd. Paolo, prendendo spunto dalla
mia breve (dis)avventura come bike manager di
Roma, mi ha chiesto quali
fossero a mio avviso gli ostacoli amministrativi allo sviluppo della
ciclabilità in questa intossicata capitale continentale del sud Europa. Ho avuto quindi
l’occasione di ripetere che scontiamo un problema gigantesco di
arretratezza culturale da parte degli amministratori, come anche evidenziato
dall’intervento della capo della polizia stradale. Ora non ricordo
le esatte parole ma il concetto era quello. Poco prima era intervenuta con
concetti simili anche la presidente della Fiab, Giulietta Pagliaccio.
Un po’ tutto, ad andare sul più ampio, è arretrato in Italia e ostacola il
cambiamento. La percezione collettiva dell’uso della strada è a nostro sfavore,
e -oltre alle pubblicità tossiche come quella cartacea qui sotto
– persino gli algoritmi
dei siti di informazione piazzano la pubblicità di auto con regolarità sotto ai
pezzi in cui si parla di ciclisti morti in strada. L’ultimo esempio lo
posto qui, ed è dovuto all’uccisione di John:
Convegni a pioggia per parlare di bike sharing, bike economy, ciclovie
turistiche, alti guaiti per le vittime della strada (che dovrebbero essere definite
in realtà vittime
della motorizzazione, visto che la strada è solo un supporto aperto al pubblico e per sua
natura è inerte) da parte di gente che chiede per favore, per pietà, di non
essere uccisa: sono una realtà virtuale. Quella concrete, tangibile, è quella delle
morti dovute alla motorizzazione, persino in città dove da decenni il limite di
velocità, già abbastanza elevato, sembra ormai essere una banale parte del
paesaggio, come una pietra o un cactus.
Se ne esce? Non lo so. Avendo imparato da Noam Chomsky ho una certa sfiducia
nei governi ma sono convinto che la pressione di massa è l’unica, esclusiva via
d’uscita da una situazione di estremo pericolo generalizzato. Nel nostro caso,
un pericolo che non
costa nulla mettere in atto. Solo qualche funerale e amen, chi vive
si dà pace.
da quisabato 25 novembre 2017
Un giro dentro Fico, la Disneyland del cibo a Bologna - Angelo Mastrandrea
L’olandese Randstad è una delle principali agenzie al mondo di lavoro
interinale. È finita nel mirino delle proteste studentesche del 13 ottobre 2017 per
un progetto intitolato “Un giorno da Fico”. I ragazzi contestavano una delle
novità più importanti della legge del governo Renzi sulla Buona scuola: il principio dell’alternanza scuola-lavoro,
che prevede l’obbligo per gli studenti dell’ultimo triennio delle superiori di
fare un’esperienza formativa – tra le 200 e le 400 ore a seconda che si tratti
di un istituto tecnico o di un liceo – in un’azienda, un’istituzione,
un’associazione sportiva o di volontariato, perfino in un ordine professionale.
Nell’elenco c’è pure Fico Eataly World, la Fabbrica italiana contadina di
Oscar Farinetti – una società partecipata da Eataly World, Coop Alleanza 3.0 e
Coop Reno – che aprirà il 15 novembre. La Randstad è finita sul banco degli
imputati perché accusata di reclutarle manodopera gratuita.
Per capirne di più chiedo ai diretti interessati. Negli uffici dell’ex
Mercato ortofrutticolo alla periferia di Bologna, negano accuse e sospetti.
Spiegano che il progetto è della Randstad, si svolgerà nelle scuole e alla fine
da loro arriverà solo un pugno di ragazzi, “non più di sette o otto”, e
comunque “non verranno a fare i lavapiatti”.
L’amministratrice delegata Tiziana Primori dice che c’è un protocollo
“sulla tutela dell’occupazione, la qualità del lavoro e la valorizzazione delle
relazioni sindacali” firmato con i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil e il
comune di Bologna, per “favorire la piena regolarità delle condizioni di
lavoro, l’agibilità sindacale, il diritto d’assemblea e la trasparenza della
filiera delle aziende presenti nel parco”. Fico, spiega, darà lavoro stabile a
settecento persone, mentre altre tremila lavoreranno nell’indotto.
Ne parlo con Marta Fana, ricercatrice all’università Sciences Po di Parigi,
autrice di Non è lavoro, è sfruttamento.
“Bisognerà vedere quante saranno le assunzioni stabili e quanti i contratti di
somministrazione, dunque precari”, dice. Fana contesta a Farinetti la “gestione
politica” della nascita di Fico: “Perché la regione ha speso 400mila euro per
la formazione di persone per le quali non c’è la certezza di assunzione?”. A
suo parere, le istituzioni locali, guidate dal Partito democratico, non
avrebbero dovuto mettersi al servizio di quello che definisce solo “l’ennesimo
centro commerciale”.
Dalla Randstad rendono noti i contenuti dell’accordo con la nuova impresa
di Farinetti: i dipendenti della multinazionale olandese gireranno le scuole di
tutta Italia per “illustrare ai ragazzi i nuovi trend del mercato del lavoro,
guidarli in un tour virtuale di Fico Eataly World e lanciare un project work”
sul tema dell’innovazione nella filiera agroalimentare. Il progetto coinvolgerà
20mila studenti, appunto, e prevede 300mila ore di alternanza scuola-lavoro, ma
a Fico i ragazzi ci passeranno appena una giornata, per assistere a un convegno
sul tema della “Food innovation”, al termine del quale saranno premiate le
scuole vincitrici.
Istituzioni, università, entusiasti
Gli studenti non sono andati molto per il sottile, accomunando Fico ad Autogrill e a McDonald’s. Ma alla Fabbrica contadina bolognese respingono anche questi paralleli. Nello staff di Fico molti hanno lavorato a Slow food o hanno studiato all’università di Scienze gastronomiche fondata da Carlo Petrini a Pollenzo, in Piemonte, molti hanno lavorato a Eataly.
Gli studenti non sono andati molto per il sottile, accomunando Fico ad Autogrill e a McDonald’s. Ma alla Fabbrica contadina bolognese respingono anche questi paralleli. Nello staff di Fico molti hanno lavorato a Slow food o hanno studiato all’università di Scienze gastronomiche fondata da Carlo Petrini a Pollenzo, in Piemonte, molti hanno lavorato a Eataly.
L’amministratrice delegata Tiziana Primori arriva invece da Coop adriatica
ed è l’anello di congiunzione tra Eataly e il mondo cooperativo. Mi riceve nel
suo ufficio, dove campeggia una frase di Italo Calvino: “Se alzi un muro, pensa
a cosa lasci fuori”. Su un grande tavolo di legno apre una mappa del progetto e
spiega: “Questo non è un luogo dove si viene esclusivamente per comprare o per
mangiare, ma per conoscere”.
I visitatori, dice, potranno seguire l’intera filiera del prodotto. Prima
di sedersi a tavola per mangiare un piatto di pasta, per esempio, saranno
condotti da un “ambasciatore del gusto” a vedere un campo di grano, la
macinazione in uno dei due mulini a pietra e la nascita di una tagliatella di
Campofilone in uno dei tre pastifici. A supervisionare il tutto saranno le
facoltà di veterinaria e agraria dell’università di Bologna.
A Bologna tutti i poteri cittadini, istituzionali e privati, sono in
qualche misura coinvolti. Il comune ci ha messo la struttura, che varrebbe 55 milioni di euro. Per la
ristrutturazione sono stati raccolti 75 milioni di euro di fondi privati: 15
milioni sono arrivati dal sistema cooperativo, dieci da imprenditori locali e
altri 50 da casse previdenziali professionali.
Al progetto partecipano centocinquanta imprenditori grandi e piccoli (da
piccoli artigiani a grandi consorzi come quello del Parmigiano reggiano), i
ministeri dell’ambiente e dell’agricoltura, l’associazione dei borghi più belli
d’Italia e l’Ente nazionale italiano per il turismo (Enit), Slow food, le
università di Bologna e quella di Napoli, la Suor Orsola Benincasa .
Nelle ambizioni dei fondatori, la “Disneyland del cibo”, com’è stata
soprannominata, dovrebbe attirare quattro milioni di visitatori il primo anno e
arrivare a sei milioni nel giro di tre. Il sindaco Virginio Merola è così
entusiasta che è andato a Manhattan per presentarla alla stampa americana sulla
terrazza del Flatiron building, il grattacielo all’incrocio tra Broadway e la
Fifth avenue che oggi ospita Eataly New York. Per portare i turisti che
immagina diretti a frotte verso la periferia bolognese, ha annunciato un
servizio di bus elettrici.
Dentro il parco
Mi portano a visitare la struttura: centomila metri quadrati, di cui 80mila coperti, percorribile a piedi o su piste ciclabili con l’immancabile carrello della spesa. Ci sono due ettari di campi e stalle con più di duecento animali, dal maiale calabrese alla pecora di Altamura, e duemila cultivar. Solo un piccolo agrumeto è coperto, per ragioni climatiche.
Mi portano a visitare la struttura: centomila metri quadrati, di cui 80mila coperti, percorribile a piedi o su piste ciclabili con l’immancabile carrello della spesa. Ci sono due ettari di campi e stalle con più di duecento animali, dal maiale calabrese alla pecora di Altamura, e duemila cultivar. Solo un piccolo agrumeto è coperto, per ragioni climatiche.
All’interno, 40 fabbriche contadine producono carni, pesce, pasta, formaggi
e dolci. C’è anche una torrefazione del caffè. A ricordare che siamo a Bologna
ci pensano una fabbrica di Grana Padano e un intero padiglione dedicato alla
mortadella. Al centro ci sono un auditorium, un teatro e un cinema che sarà
gestito dalla Cineteca di Bologna.
Qui, fino all’altro ieri, sorgeva il Centro agroalimentare di Bologna
(Caab), nato negli anni novanta ma progettato nei settanta. Il presidente era
Andrea Segré, ex professore di politica agraria all’università di Bologna e
ideatore del Last minute market, un mercato nato per recuperare e riciclare i
prodotti invenduti. A quattro mesi dalla nomina, capito che il Caab languiva e
non avrebbe avuto futuro, Segré aveva contattato Farinetti “per sviluppare
l’idea del parco agroalimentare che da anni mi frullava nella testa”.
Era il novembre del 2012 e, ora che tutto si è realizzato, sarà lui a
presiedere la fondazione Fico, che dovrà promuovere programmi di “cultura della
sostenibilità economica, sociale, ambientale ed alimentare”.
Il comitato scientifico, presieduto dall’europarlamentare Paolo De Castro,
ex ministro delle politiche agricole nei governi D’Alema e Prodi, ha già messo
in cantiere le prime iniziative: una giornata sulla dieta mediterranea e la
creazione di un frutteto della biodiversità.
L’architetto ferrarese Thomas Bartoli ha rimesso a nuovo la struttura,
salvando pure un pezzo del vecchio mercato, che non chiuderà del tutto. Bartoli
è un fedelissimo del fondatore di Eataly. Mi spiega di aver mantenuto la
vecchia architettura industriale, ma con l’obiettivo di creare una “sensazione
contadina”, creando un continuum tra l’interno e i campi, e che il suo progetto
è a “cemento zero”, anzi ha recuperato due ettari “per aumentare la superficie
verde”. Ma, si schernisce, “l’idea di Fico è talmente forte che la
realizzazione architettonica è passata in secondo piano”.
Una Disneyland del cibo
Tutto bene, dunque? Fico sarà un esempio dell’Italia che riparte da cibo e turismo, cioè due dei suoi punti di forza? O, come sostengono i critici, è solo un modo furbo per capitalizzare la tendenza a mangiar bene, pulito e sano, come sostiene un fortunato slogan coniato dal fondatore di Slow food, Carlo Petrini?
Tutto bene, dunque? Fico sarà un esempio dell’Italia che riparte da cibo e turismo, cioè due dei suoi punti di forza? O, come sostengono i critici, è solo un modo furbo per capitalizzare la tendenza a mangiar bene, pulito e sano, come sostiene un fortunato slogan coniato dal fondatore di Slow food, Carlo Petrini?
In un libro intitolato La danza delle mozzarelle, lo
scrittore Wolf Bukowski prende di mira il modello di narrazione del cibo che
parte da Slow food, e prima ancora dal Gambero rosso, per finire a Coop, a
Eataly e alla sua ultima evoluzione: la Fabbrica contadina di Bologna, appunto.
“Fico non è solo un parco giochi per rudi cooperatori e costruttori edili, ma è
proprio una Disneyland, un mondo dove fantasia e realtà del capitale si
rispecchiano reciprocamente”, scrive Bukowski, che attacca frontalmente
l’ideologia di Renzi e Farinetti, improntata al marketing e all’ottimismo, in
politica come al supermercato, in cui il conflitto è visto come qualcosa di
anormale.
Bukowski vede in Fico la saldatura tra il pensiero di Farinetti e il
capitalismo emiliano di derivazione postcomunista: una sorta di
socialdemocrazia economica in una regione dove il pubblico governa e le
cooperative rosse prosperano. Definisce Bologna “la città coop”, portando come
esempio il fatto che nel giro di poche centinaia di metri, in pieno centro
cittadino, sono nati negli ultimi anni il Mercato di mezzo, che è stato voluto
dall’amministratrice delegata di Fico, Primori, e può essere considerato un
prototipo del Parco, e una libreria Coop con annesso punto vendita Eataly.
Tutto attorno, una teoria di super e ipermercati Coop.
I due alleati
Oscar Farinetti ci scherza, ma si intuisce che non gli va di essere contestato sia da destra sia da sinistra, di essere dipinto come un compagno e allo stesso tempo come una specie di Berlusconi nei cui negozi il quarto stato marcia con i sacchetti della spesa, come mostrava qualche tempo fa una parodia del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo esposta all’interno di Eataly Roma. Al contrario, ci tiene a mostrare di conoscere i suoi dipendenti uno per uno. All’ingresso dell’ex Air terminal vicino alla stazione Ostiense, a Roma, si compiace dei clienti che lo avvicinano e della sua popolarità. Stringe mani e parla della qualità dei prodotti e di come diffonderli ancora di più.
Oscar Farinetti ci scherza, ma si intuisce che non gli va di essere contestato sia da destra sia da sinistra, di essere dipinto come un compagno e allo stesso tempo come una specie di Berlusconi nei cui negozi il quarto stato marcia con i sacchetti della spesa, come mostrava qualche tempo fa una parodia del celebre dipinto di Pellizza da Volpedo esposta all’interno di Eataly Roma. Al contrario, ci tiene a mostrare di conoscere i suoi dipendenti uno per uno. All’ingresso dell’ex Air terminal vicino alla stazione Ostiense, a Roma, si compiace dei clienti che lo avvicinano e della sua popolarità. Stringe mani e parla della qualità dei prodotti e di come diffonderli ancora di più.
Da quando quelli con il marchio Slow food sono finiti sugli scaffali di
Eataly, la loro diffusione è decuplicata. La richiesta di collaborazione è
arrivata pure per Fico, e dall’associazione di Petrini hanno risposto sì, pur
mantenendo uno sguardo critico.
Ne parlo con Carlo Petrini, l’uomo incoronato da Time tra gli “eroi
del nostro tempo”, in quanto guru di una filosofia e di un movimento nel
frattempo divenuti globali. A suo avviso il problema, a questo punto, è di
“governare il limite”. Spiega che qualsiasi produzione, se supera una certa
soglia, diventa “invasiva”, pur se buona, pulita e giusta. Il fondatore di Slow
food ritiene invece che si debba evitare il “rivendicazionismo sui prezzi”,
altra critica frequente. A suo parere va bene che un alimento di qualità costi
di più se tutti sono pagati meglio, dal contadino al trasportatore.
Farinetti concorda su quest’ultimo punto. Spiega che “il 15 per cento di
quello che vendiamo lo produciamo noi, il resto arriva da piccoli, medi e
grandi produttori”, selezionati da un gruppo di giovani provenienti
dall’università di Pollenzo e spediti in giro per l’Italia. Accorciando la
filiera, dice, “riusciamo a pagare la carne il 31 per cento in più e a venderla
a un prezzo decente”.
Sulla questione della produzione ritiene invece che ci siano margini
ulteriori di crescita. “In Italia ci sono 14 milioni di ettari di terreni
coltivati, negli anni ottanta erano 19, anche se oggi si produce di più”, dice.
Vuol dire che l’agricoltura di qualità (convenzionale a residuo zero,
biologica, biodinamica, simbiotica) può svilupparsi ancora molto e puntare al
mercato italiano (tuttora gastronomicamente poco educato a dispetto delle
apparenze) e soprattutto a quello estero.
È su quest’ultimo punto che il patròn di Eataly ha trovato l’intesa con
Coop Alleanza 3.0. Sebastiano Sardo, che ha selezionato i produttori del
neonato Parco agroalimentare, dice che l’obiettivo è “creare una piattaforma
dei prodotti italiani da esportare” per contrastare i cosiddetti italian sounding, il mercato dei prodotti venduti come
italiani ma che non lo sono. Secondo i dati dell’Assocamerestero,
l’associazione che raggruppa le 78 camere di commercio italiane all’estero, l’italian sounding ha un giro d’affari di 54
miliardi di euro, mentre l’ industria alimentare italiana si aggira sui 132.
L’accusa di monopolio
A opporsi a questo clima di consenso generale ed entusiasmo diffuso sono stati gli anarchici e gli antagonisti che il 12 dicembre 2016, mentre nell’aula magna dell’università di Bologna si presentava il progetto, hanno lanciato letame e caramelle a forma di vermi contro una coop e una pizzeria biologica di Alce Nero. Quel che contestavano era la grande illusione denunciata da Wolf Bukowski: pensare che si possa trasformare la società educandola a fare la spesa e a cucinare in maniera corretta.
A opporsi a questo clima di consenso generale ed entusiasmo diffuso sono stati gli anarchici e gli antagonisti che il 12 dicembre 2016, mentre nell’aula magna dell’università di Bologna si presentava il progetto, hanno lanciato letame e caramelle a forma di vermi contro una coop e una pizzeria biologica di Alce Nero. Quel che contestavano era la grande illusione denunciata da Wolf Bukowski: pensare che si possa trasformare la società educandola a fare la spesa e a cucinare in maniera corretta.
I contestatori ritengono che nei padiglioni dell’ex mercato ortofrutticolo
il renzismo di Farinetti si saldi con gli affari delle coop, creando un
monopolio di fatto nella distribuzione e nel consumo di cibo.
Gli anelli istituzionali di congiunzione sarebbero il sindaco di Bologna
Virginio Merola, già nel mirino per gli sgomberi di spazi occupati e centri
sociali, e il ministro del lavoro Giuliano Poletti, ex presidente di Legacoop e
ideatore insieme al governo di Matteo Renzi del Jobs act. Questo contribuisce a
spiegare le proteste studentesche e lo scetticismo di un pezzo di sinistra
radicale.
Al fondatore di Eataly si imputa di essere diventato il “braccio
imprenditoriale di Slow food” e non gli si perdona l’infatuazione per Matteo
Renzi, culminata nella partecipazione alle manifestazioni organizzate dal
segretario del Pd all’ex stazione ferroviaria fiorentina della Leopolda.
La prima volta è stata nel 2012, quando ha detto che “la politica è come la
maionese impazzita e Renzi vuole rifarla da zero”. Nel 2013 l’allora sindaco di
Firenze ha tagliato il nastro di Eataly Firenze e nel 2014 l’ha accolto come
“l’amico Oscar”. Lui ha ricambiato dimostrando sintonia con lo spirito della
Leopolda. “Questo è un posto dove ci si lamenta poco, mentre ciascuno esprime
con sintesi le proprie idee di soluzione”, ha dichiarato a La Stampa.
Un anno fa, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre che è
costato le dimissioni a Renzi, fiutando il clima sfavorevole ha affermato:
“Dobbiamo tornare a essere simpatici”. Un anno dopo, appare più disincantato ma
non ha cambiato opinione. “Renzi è stato tradito dal suo carattere, però è
onesto”, dice. Nel frattempo, a inaugurare Fico è stato invitato il più mite
Paolo Gentiloni.
venerdì 24 novembre 2017
Non parliamo di cibo – Wolf Bukowski
È il decimo compleanno di
Eataly. Per festeggiarlo non parliamo di cibo. Non nominiamo neppure il nuovo
Spaghetto Eataly, “cibo del futuro” secondo La Stampa, “servito in tutti i loro
ristoranti” a partire dal giorno dell’anniversario. “La ricetta è semplice:
pasta con pomodorini datterino condita a crudo con olio extravergine. La novità
è non cuocere più la salsa, per assaporare meglio «l’essenza degli
ingredienti»” (27/01/2017). Il motto del piatto, declamato dal menù,
avverte: “è difficile essere semplici”; il prezzo è 8 euro e 50 centesimi.
Non parliamo degli spaghetti,
prodotti dal pastificio Afeltra (proprietà di Farinetti), né dei datterini di
Finagricola, cooperativa che Il Mattino del 20 ottobre 2014 definisce “Fiat del
Sud” nonché “impero agricolo a Battipaglia” con numeri “da orgoglio nazionale”.
(Com’è pure quella storia del piccolo produttore?)
Non parliamo del vino, e tantomeno
del Vino Libero. La sua (parziale) libertà da solfiti era pubblicizzata da
Eataly con tanta… libertà, da averle procurato il fastidio di un provvedimento
dell’Antitrust: “l’utilizzo dell’espressione ‘vino libero’ […] in mancanza di
ulteriori specificazioni, lascia erroneamente intendere che il vino promosso in
vendita sia totalmente libero da sostanze chimiche, inducendo in errore il
consumatore circa le effettive caratteristiche del vino e il reale contenuto
dei solfiti in esso presenti” (Autorità garante della concorrenza e del
mercato, provvedimento n. 25980 del 13 aprile 2016).
Solfiti o meno, il Vino Libero di
cui non parliamo è commercializzato da Fontanafredda srl, azienda che Farinetti
ha comprato dalla Fondazione Monte Paschi di Siena in due diverse tranches, nel
2008 e nel 2012.
Nel 2014, dopo alcune domande
insistenti di una giornalista televisiva sulle condizioni di lavoro in Eataly,
Fontanafredda si mobilita e raccoglie, in difesa del padrone, le firme dei
dipendenti. Su www.vinolibero.it si trova il link al video di quella che viene
chiamata “aggressione”: l’intervistatrice ripete le proprie domande a un
Farinetti che non risponde sul punto, dà sulla voce e si sbraccia con movimenti
che trasudano, quelli sì, aggressività trattenuta.
I sindacati gialli colgono
l’occasione per esibire canina fedeltà: “UILA-UIL respinge sindacalmente questi
metodi e non può che dire bene di Fontanafredda […] Ogni giorno, nei nostri
uffici, affrontiamo situazioni davvero drammatiche e, proprio per questo
motivo, riteniamo che quello che è avvenuto sia un fatto gravissimo.” FAI-CISL
rilancia, proponendo una campagna aziendalsindacale di promozione: “Episodi
come quello verificatosi martedì fanno male all’azienda e, a ricaduta, ai
lavoratori. Dobbiamo tutti insieme ribaltare la situazione e dare eco nazionale
alla vicenda”.
Ecco, non parliamo di tutto questo,
ma solo di mattoni. Immobili. Real Estate. Soldi con fondamenta.
È dalla giunta torinese che Eataly
ottiene l’immobile per il suo primo store: l’ex stabilimento Carpano, al
Lingotto. Sindaco è Chiamparino, e la città si sta preparando alle Olimpiadi
invernali – una macchina di distruzione di territorio e denaro pubblico, degno
antecedente dell’Expo milanese. Il bando comunale per l’assegnazione
dell’immobile vede un solo partecipante: Eataly. Quello che l’azienda vi
realizzerà, e che aprirà nel 2007, non sarà solo un ristorante, e neppure un
supermercato di lusso, ma un “parco enogastronomico” – qualsiasi cosa ciò
voglia, o non voglia, dire. In cambio della ristrutturazione il canone di
affitto è zero, e la concessione dura sessant’anni.
Analoghe sintonie col potere
politico, negli anni successivi, si concretizzano a Bologna in due diversi
edifici di proprietà pubblica (un ex cinema e un ex mercato alimentare,
entrambi in pieno centro), e a Firenze. Dove, a fronte di promesse
occupazionali subito disattese, Farinetti ottiene dal comune il cambio di
destinazione d’uso dell’immobile. Sindaco, allora, è Matteo Renzi.
A Bari, nel 2013, la “licenza di
commercio più veloce del mondo” viene rilasciata a Eataly dal sindaco Emiliano,
oggi sfidante di Renzi e leader di piddini che fingono di essere un po’ meno di
destra degli altri. Forse è in quel momento, diciamo attorno alla metà dei
dieci anni che festeggiamo, che matura il salto di qualità. Eataly è risultata
utile agli amministratori per valorizzare un edificio, o una zona cittadina,
contribuendo così alla speculazione immobiliare, vera tipicità italiana (altro
che spaghetti col pomodorino). Perché, allora, non coinvolgerla direttamente in
trasformazioni urbane in grande stile?
La prima è Expo 2015, grande
eventopera che sblocca la costruzione di autostrade inutili e apre alla
cementificazione di terreni non ancora impermeabilizzati, consegnando le scelte
urbanistiche ai privati – dopo aver drenato soldi pubblici in quantità
impressionante. La seconda è quella che cresce a Bologna attorno a Fico
(Fabbrica italiana contadina), expo eterno che aprirà il 4 ottobre 2017 in
immobili del valore di 55 milioni di euro, concessi dal Comune per 40 anni a
Farinetti, Coop e soci. Abbiamo promesso di non parlare di cibo, quindi non
evochiamo neppure la prospettiva che le classi delle elementari, invece di
andare in una fattoria, in una cantina o in laboratorio di pasta fresca… siano
educate all’alimentazione nella Disneyland del cibo (così chiamavano il parco i
promotori stessi, prima di avvedersi del ridicolo). Prospettiva orribile ma
vera e incombente: Fico non è ancora aperto, e già gli istituti di due regioni
(Emilia Romagna e Campania) possono partecipare ai concorsi “Aspettando FICO…
nella scuole”.
No, non diciamo altro: accenniamo
piuttosto ai terreni che aumentano il proprio valore per la prossimità al Fico,
alla contemporanea riduzione dello stock di edilizia residenziale pubblica nel
quartiere popolare lì accanto, a progetti che si alternano veloci come i frutti
sulla bobina di una slot machine ma che sono tutti, uniformemente, grigio
cemento.
Cemento che cala su terreni liberi,
in alcuni casi ancora coltivati. Un quartierino nuovo di zecca; no, piuttosto
un centro commerciale, un parco divertimenti (sì, un altro!); oppure un
hotel.
E ancora: ogni allargamento di
strada, autostrada, tangenziale ormai da anni, a Bologna, è motivata dal Fico.
E mentre tutto precipita in un (in)gorgo di mobilità tossica e di malta
cementizia, i ragazzi delle scuole cosa impareranno al Fico? La
“sostenibilità”. Già, certo. Avevate dubbi?
Il feticcio, il pretesto del cibo
trasforma edifici, poi città, e Farinetti è il suo frontman e ideologo. Ma non
basta. Il recente accordo tra Fico e l’Enit, ente governativo di promozione del
turismo, consentirà “il consolidamento del Brand Italia”, la diffusione del
“modello di lifestyle italiano” e la promozione dell'”italianità nel mondo”.
(Comunicato stampa ENIT del 15/2/2017).
Tradotto dal fuffese, significa che
la prospettiva dei farinettiani è di porre il paese intero a servizio del
turismo incoming e dell’export agroalimentare. E questo implica: salari bassi,
città che espellono gli abitanti incompatibili con l’arredo dei migliori
caffè, cemento quale conseguenza inevitabile, infrastrutture a misura di ricchi
turisti e non di pendolari modesti, imposizione del decoro tramite l’uso
reiterato e generoso del manganello. Ecco dunque il menù di compleanno di Eataly,
e dell’Eatalya intera. I festeggiamenti si profilano eterni. A meno che non vi
si ponga termine, per dare inizio a una miglior festa.
giovedì 23 novembre 2017
The Fico Show e il pifferaio magico Oscar Farinetti: grazie Melinda e un po’ di info utili - Catia Sulpizi
Avete presente la scena finale del film The Truman Show?
Quando Christof (Il Regista che arricchiva il suo prestigio sulla pelle del povero Truman) si rende conto che ormai Truman ha scoperto la verità ed è disposto anche a morire pur di far cessare la farsa, decide di interrompere la tempesta e, parlandogli direttamente dal cielo della scenografia televisiva, cerca di convincerlo che la finta vita del colorato set televisivo è migliore e più vera di quella grigia della vita reale?
Quando Truman, non cadendo nella tentazione sceglie la cruda verità e salutando scherzosamente con un inchino il suo pubblico «Casomai non vi rivedessi… buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!», si avvia determinato a scoprire la verità?
Questo è ciò che ho provato dopo aver partecipato all’anteprima di Fico: un traboccante bisogno di Vero.
Tutto quel cibo patinato, ben confezionato, frutta e verdura dai colori fluorescenti, quell’idea di serra come il meglio che ti potesse capitare nella vita, fabbriche artigianali contadine dove il contadino assume i connotati di un broker più che di un uomo che “puzza” di fatica e soprattutto la totale assenza di profumi del cibo in un posto che vuole essere la meraviglia dell’agroalimentare italiano mi è sembrato veramente un po’ troppo come forzatura per dichiarare l’eccellenza italiana.
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