Nella fotografia analogica descrive il procedimento che rende visibile
un’immagine latente in un supporto fotosensibile. In geometria la distensione
su una superficie piana di una figura geometrica solida. Tutti i processi di
sviluppo sono caratterizzati dall’uniformità. Se non si completano rigorosamente tutte
le loro fasi nelle successioni e nei tempi previsti, lo sviluppo non arriva a
buon fine: gli
esseri viventi subiscono delle limitazioni, la fotografia non rispecchia la
realtà che il fotografo si proponeva di rappresentare, il disegno non
riporta fedelmente le misure e le proporzioni del solido geometrico a cui si
riferisce.
In economia il concetto di sviluppo è stato utilizzato
per la prima volta dal neo-eletto presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel suo discorso
d’insediamento alla Casa Bianca il 20 gennaio 1949. In quel discorso lo
sviluppo economico veniva presentato come un processo di liberazione
delle potenzialità della tecnologia dal viluppo delle limitazioni che le pone
la finalizzazione dell’economia alla sussistenza. Nei Paesi in cui questo processo
era avvenuto, i progressi della tecnologia avevano consentito di accrescere il
potere degli esseri umani sulla natura, la produzione di merci e il benessere
delle popolazioni. Per questo motivo il neo-Presidente degli Stati Uniti li
definiva sviluppati, mentre definiva sottosviluppati i Paesi ancora prevalentemente
caratterizzati da un’economia di sussistenza e da un modesto sviluppo
tecnologico.
La
differenza dei livelli di benessere tra gli uni e gli altri era oggettivamente
misurabile in termini di divario del reddito pro-capite (il valore monetario
del prodotto interno lordo diviso per il numero degli abitanti). In realtà il reddito
fornisce la misura del potere d’acquisto, cioè della possibilità di comprare
sotto forma di merci la maggior parte dei beni di cui si ha bisogno o si
desiderano. Non può
prendere in considerazione i beni che si autoproducono, o vengono scambiati
sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari, perché non si
ottengono comprandoli e, quindi, non hanno un prezzo.
Nelle società in cui il saper fare è un elemento
significativo del patrimonio culturale condiviso, le persone sono in grado di
autoprodurre una parte dei beni di cui hanno bisogno, gli orti
familiari sono diffusi e i rapporti di solidarietà non sono stati totalmente
sostituiti da rapporti commerciali, il reddito pro-capite è inferiore a quello
delle società in cui le persone non sanno fare nulla e devono comprare
tutto, la maggior
parte della popolazione vive in aree urbane e non può coltivare nulla, i
rapporti di solidarietà sono stati sostituiti da rapporti commerciali e dalla
competizione, o dall’indifferenza nei confronti degli altri, il lavoro è stato
appiattito sull’occupazione, cioè sullo svolgimento di attività che non hanno
alcuna attinenza con la soddisfazione dei bisogni esistenziali di chi le
compie, ma offrono in cambio un reddito monetario con cui si può comprare tutto
ciò che serve per vivere.
Utilizzando il criterio di valutazione introdotto dal neo-presidente
americano Truman e ormai generalizzato, le società del primo tipo sono sottosviluppate, ma non per questo se ne può dedurre
che il loro livello di benessere sia inferiore a quello del secondo tipo di
società che, invece, sono sviluppate.
Nonostante costituisca da allora un caposaldo dell’immaginario collettivo, sia
dei sostenitori del pensiero dominante, sia dei suoi avversari, non è detto che
il benessere sia direttamente proporzionale all’entità del reddito pro-capite e
cresca in proporzione con la sua crescita. Ciò non vuol dire che non ci sia
nessuna attinenza tra il benessere e il reddito, né che il benessere
diminuisca, o quanto meno non cresca, col crescere del reddito. Il contrario di
una proposizione non vera non è necessariamente vero.
La
produzione di merci è indispensabile per migliorare il benessere, perché nessun
individuo e nessuna comunità in cui il legame sociale sia costituito dalla
solidarietà, o dall’economia del dono, come è stata definita da Marcel Mauss,
sono in grado di produrre autonomamente e di scambiare senza l’intermediazione
del denaro tutto ciò che è necessario per vivere, o rende piacevole la vita. Le economie di
sussistenza non hanno mai fatto a meno della produzione di merci e del mercato.
Il
benessere sociale cresce al crescere della quantità e della varietà delle merci
che si possono acquistare, a integrazione dei beni che si autoproducono o si
scambiano sotto forma di dono reciproco del tempo. La compravendita delle
eccedenze della produzione agricola per autoconsumo, dei beni prodotti dagli
artigiani e dei servizi forniti da personale specializzato (dai medici ai
professionisti, agli insegnanti) danno un contributo insostituibile al
miglioramento della qualità della vita. La produzione di merci
e il mercato sono elementi costitutivi delle attività economiche, tanto quanto
l’autoproduzione e gli scambi non mercantili. Se però lo
sviluppo, cioè l’aumento del reddito monetario pro-capite, diventa il criterio
di valutazione del benessere di una società, tutte le attività produttive
vengono progressivamente indirizzate alla crescita della produzione di merci. L’economia
diventa economia di mercato non quando ci sia un mercato in cui si scambiano
merci con denaro, ma quando si produce tutto per il mercato. Di
conseguenza tutte
le forme di autoproduzione e di scambi non mercantili basati sulla solidarietà
diventano freni allo sviluppo della mercificazione, per cui vengono ostacolati e repressi
in vari modi: con apposite misure legislative, con la loro svalutazione nel sistema
dei valori condivisi, con la cancellazione delle conoscenze necessarie al saper
fare dall’ambito della cultura, con l’esaltazione della concorrenza come
fattore di progresso, con l’identificazione del benessere col tantoavere.
Le innovazioni tecnologiche vengono finalizzate
all’aumento della produttività e i danni ambientali che spesso vengono causati
per accrescerla, non vengono nemmeno presi in considerazione. Le risorse
ambientali vengono considerate infinite o infinitamente riproducibili. I beni
comuni vengono privatizzati. L’unica forma di lavoro socialmente riconosciuta è
l’occupazione. Chi lavora per produrre beni per autoconsumo e non per produrre
merci in cambio di un reddito che consenta di comprarle, viene inserito nella
categoria delle non forze di lavoro. La povertà e la ricchezza vengono misurate
con il livello del reddito monetario.
L’introduzione del concetto di sviluppo in economia è avvenuta nella fase
storica in cui gli Stati Uniti avevano completato la trasformazione della loro
economia in economia di mercato, riducendo al minimo l’autoproduzione e gli
scambi non mercantili. Affinché la loro economia e il loro reddito pro-capite
potessero continuare a crescere, avevano bisogno di estendere la possibilità di
vendere le loro merci al di fuori dei loro confini e di acquisire al di fuori
dei loro confini le materie prime necessarie a sostenere la loro crescita
economica. Dovevano
fare in modo che i Paesi sottosviluppati si inserissero nel
circuito economico e produttivo dei Paesi sviluppati.
Pertanto, era
necessario che, nei Paesi in cui gran parte delle attività produttive erano
ancora finalizzate alla sussistenza, aumentasse il numero dei consumatori di
merci e di conseguenza il numero dei produttori di merci, perché soltanto chi
lavora in cambio di un reddito monetario, e non per produrre ciò che gli serve
per vivere, è in grado di, e non può far altro che, acquistare sotto forma di
merci tutto ciò di cui ha bisogno. Per questo motivo il neo-presidente Truman
proponeva agli Stati Uniti di fornire ai popoli che definiva sottosviluppati, perché non erano stati capaci di
sviluppare le potenzialità che nella sua visione del mondo caratterizzano il patrimonio
genetico di tutte le società, l’assistenza tecnologica necessaria a
diventare Paesi in via di sviluppo.
In questo modo, non solo estendeva l’egemonia culturale del modello
americano sui popoli del terzo mondo, presentandosi come il ricco filantropo
che aiuta il povero a superare le sue difficoltà, ma si accattivava il consenso
delle grandi compagnie industriali americane, aprendo ad esse grandi spazi di
mercato in cui vendere le loro tecnologie, o in cui utilizzarle per estrarre le
materie prime, in particolare le energie fossili, di cui i Paesi industrializzati
avevano bisogno per continuare a crescere. Inoltre contava di contrastare
efficacemente la politica internazionale dell’Unione Sovietica, che si
proponeva di guidare verso la costituzione di Stati socialisti le lotte di
liberazione di quei popoli dal colonialismo.
Bastarono venti anni per rendersi conto che la
finalizzazione dell’economia allo sviluppo stava creando problemi sempre più
gravi a livello ambientale, sia perché i consumi delle risorse non rinnovabili,
in particolare delle fonti fossili, ne rendevano sempre più costoso
tecnicamente e più problematico politicamente l’approvvigionamento, sia perché
la finalizzazione delle innovazioni tecnologiche all’aumento della produttività
causava forme di inquinamento sempre più gravi.
Inoltre, gli
aiuti allo sviluppo dei popoli sottosviluppati anziché accrescere il
loro benessere, accrescevano la ricchezza degli strati sociali più ricchi e la
povertà degli strati sociali più poveri. Nei Paesi in via di sviluppo lo
spostamento dall’economia di sussistenza all’economia di mercato fu attuato a
partire dall’agricoltura, con la cosiddetta rivoluzione
verde (così chiamata anche in contrapposizione con la rivoluzione rossa a cui l’Unione Sovietica tentava
di indirizzare i movimenti di liberazione di quei popoli).
Per accrescere i rendimenti agricoli furono selezionate geneticamente
varietà vegetali più produttive, che però richiedevano maggiori quantità
d’acqua, l’uso di fertilizzanti chimici, fitofarmaci, macchinari agricoli e
carburante. I loro semi erano sterili e dovevano essere acquistati ogni anno
dai produttori. L’adozione
di queste innovazioni richiedeva investimenti che non potevano essere
effettuati dai contadini poveri. Inoltre, i fertilizzanti di sintesi e la
monocoltura delle essenze più produttive impoverivano progressivamente il
contenuto humico dei suoli e accrescevano la dipendenza dell’agricoltura dalle
industrie chimiche dei Paesi nord-occidentali. La rivoluzione verde
accentuò la dipendenza dei Paesi sottosviluppati dai Paesi sviluppati, gli aiuti allo
sviluppo accrebbero i loro debiti, i contadini poveri persero la possibilità di
soddisfare le loro esigenze vitali con l’agricoltura di sussistenza e furono
costretti a emigrare nelle baraccopoli che si espandevano ai margini delle
città.
Nei primi anni settanta del secolo scorso i problemi ambientali e sociali
causati dalla finalizzazione dell’economia allo sviluppo non potevano più
essere ignorati. Nel
1970 il Club di Roma, un’associazione internazionale promossa da dirigenti industriali, imprenditori
e docenti universitari, commissionò a un gruppo di
studiosi del Massachusetts Institute of Technology uno studio
previsionale sul futuro dell’umanità se cinque fattori critici avessero
continuato a crescere con gli stessi incrementi che avevano avuto dalla fine
della seconda guerra mondiale: l’aumento della popolazione, la
produzione di alimenti, la produzione industriale, l’esaurimento delle risorse
non rinnovabili e l’inquinamento. Dallo studio, pubblicato nel 1972 in italiano
col titolo I limiti dello sviluppo (in inglese
era Limits to growth) risultò che entro il XXI secolo
sarebbero stati superati i limiti della compatibilità ambientale e si sarebbe
arrivati al collasso.
Nello stesso anno fu convocata a Stoccolma la prima conferenza mondiale sull’Ambiente
umano, in cui si cominciò a prendere in considerazione il fatto che la tutela
ambientale non era meno importante dello sviluppo economico per la qualità
della vita. Nell’autunno del 1973 scoppiò la prima crisi petrolifera e tutti
i Paesi sviluppati furono costretti a varare
drastiche misure di riduzione dei consumi energetici. Sempre in quegli anni
cominciarono a manifestarsi tre forme d’inquinamento globali: le piogge
acide, il buco
nell’ozono e
l’effetto serra, da cui si evinceva che l’apparato tecno-industriale aveva raggiunto una
potenza tale da modificare gli equilibri della biosfera in un senso sfavorevole
per l’umanità.
L’idea che lo sviluppo fosse la realizzazione delle
potenzialità insite nel patrimonio genetico delle società umane cominciò a
vacillare e nelle conferenze mondiali, convocate per cercare di attenuare i
problemi che creava, si cominciò a sostenere che occorreva definirne meglio le
connotazioni, perché non ogni tipo di sviluppo può essere considerato positivo. Si cominciò a
dire che occorreva un nuovo modello di sviluppo, senza peraltro
andare molto oltre la definizione; che lo sviluppo per essere
buono doveva essere sostenibilee/o durevole e via aggettivando; che
non bisognava confondere lo sviluppo, che ha una valenza qualitativa, con la
crescita economica, che ha una connotazione esclusivamente quantitativa. Da
questa distinzione sarebbe stato logico far derivare un disaccoppiamento tra i
due concetti e, quindi, la possibilità di perseguire uno sviluppo senza
crescita, o anche associato a una decrescita.
Cosa
impossibile da concepire in un sistema economico che continuava e continua a
identificare la quantità con la qualità, come è stato ribadito anche da papa
Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in Veritate (2009),
dove, al punto 14, si legge che è «un grave errore disprezzare le capacità
umane di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che
l’uomo è costitutivamente proteso verso l’essere di più». Non
è necessario essere teologi per sapere che nella concezione cristiana l’uomo è
costitutivamente proteso verso l’essere meglio e basta l’esperienza
quotidiana della vita per verificare che non sempre il più coincide col meglio,
mentre spesso capita d’imbattersi in situazioni in cui è il meno a costituire
un miglioramento. La stessa identificazione tra quantità e qualità è stata
implicitamente sostenuta da chi ha affermato che il fine delle attività
produttive sia perseguire una crescita qualitativa,
senza specificare le ragioni per cui escludeva che anche la decrescita potesse
avere connotazioni di qualità. Da questi tentativi di assegnare a un concetto
connotazioni incompatibili con il suo significato, la logica è uscita
malconcia, ma, quel che è peggio, i problemi causati dalla
finalizzazione dell’economia allo sviluppo sostenibile o alla crescita
qualitativa, che dir si voglia, sono rimasti irrisolti e si sono aggravati.
Il tentativo più efficace di ridare al concetto di sviluppo la credibilità
che aveva perso quando si cominciò a capire che era la causa determinante della
crisi ecologica, fu effettuato nel 1987 dalla Commissione mondiale
sull’ambiente e lo sviluppo istituita dall’Onu e presieduta dall’ex primo
ministro norvegese Gro Harlem Brundtland, che lo sganciò, ma solo
concettualmente, dal suo legame simbiotico con la crescita della produzione di
merci per agganciarlo allasostenibilità. Nel rapporto finale della
commissione, intitolato Our Common Future,
veniva formulato per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile, che veniva così definito: «uno
sviluppo che soddisfi i bisogni delle generazioni presenti senza compromettere
la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». In questa
definizione la sostenibilità non è l’obbiettivo da raggiungere per
ridurre l’impatto dello sviluppo sull’ecosistema terrestre, ma una connotazione
che le generazioni attuali devono conferire allo sviluppo per consentire che le
generazioni future possano continuare a fare altrettanto.
Più che di sviluppo sostenibile si sarebbe dovuto parlare di sviluppo
durevole, come alcuni hanno fatto. Lo sviluppo non veniva ridefinito in
funzione della sua sostenibilità, ma la sostenibilità veniva valorizzata come
connotazione indispensabile per dare continuità allo sviluppo. Le applicazioni
pratiche di questa impostazione furono i progressi delle tecnologie che
accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse non rinnovabili, in modo di
consumarne di meno per ogni unità di prodotto, e delle tecnologie meno
impattanti sugli ambienti, soprattutto per ridurre l’incidenza dei disastri
ambientali che avevano cominciato a instillare nell’opinione pubblica forti
dubbi sulla bontà dello sviluppo.
Del resto, per quale motivo si sente la necessità di parlare di sviluppo
sostenibile se non per prendere le distanze da uno sviluppo che non lo è? Se
non per ridare credibilità a un’idea che l’ha persa? L’impegno maggiore
venne riservato allo sviluppo delle fonti energetiche rinnovabili e, in
subordine, dell’efficienza energetica. Con una resipiscenza tardiva, dopo aver
interrato o bruciato dagli anni cinquanta del secolo scorso quantità crescenti
di rifiuti, l’attenzione è stata recentemente rivolta al recupero dei materiali
che contengono, facendo diventare di gran moda lo slogan dell’economia circolare e inducendo gli spiriti semplici
a credere che si possa attivare una sorta di moto produttivo perpetuo a ridotto
impatto ambientale utilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi per
produrre nuovi oggetti. Le tecnologie che aumentano l’efficienza nell’uso delle
risorse e riducono l’inquinamento dei processi produttivi sono una cosa buona,
ma i vantaggi che offrono vengono annullati, come in una gigantesca fatica di
Sisifo, se contestualmente continua ad aumentare la quantità della produzione.
Se il fine dell’economia resta lo sviluppo, la sostenibilità del sistema
economico e produttivo non aumenta anche se aumenta la sostenibilità di alcuni
processi produttivi. L’economia finalizzata allo sviluppo non può essere
sostenibile. Lo sviluppo sostenibile è un ossimoro.
a cos’è la sostenibilità? Per definire con precisione
il concetto di sostenibilità, uscendo dalla genericità con cui viene usato,
occorre metterlo in relazione con la fotosintesi clorofilliana, l’unico processo
biochimico che produce l’energia di cui hanno bisogno tutte le specie viventi.
Ogni giorno il sole invia sulla terra una quantità di energia luminosa, che
viene utilizzata dalla vegetazione per sintetizzare molecole di anidride
carbonica con molecole d’acqua e ricavarne molecole di uno zucchero semplice,
il glucosio, che successivamente concorrono a formare le molecole complesse che
costituiscono la struttura dei vegetali (cellulosa e lignina), e quelle che li
nutrono e nutrono attraverso le catene alimentari tutte le specie viventi
(lipidi, proteine, vitamine, carboidrati). La fotosintesi clorofilliana assorbe
l’anidride carbonica emessa dall’espirazione di tutti i viventi, compresi i
vegetali, e genera l’ossigeno necessario alla loro respirazione.
Per
8.000 secoli questo scambio è rimasto in equilibrio: tanta anidride carbonica
emessa dall’espirazione dei viventi veniva metabolizzata dalla vegetazione
quanto ossigeno veniva emesso dalle piante e inspirato da tutti i viventi. Dalla seconda
metà del XIX secolo e, con intensità crescente nel XX, questo equilibrio si è
rotto perché gli esseri umani da una parte hanno accresciuto le emissioni di
anidride carbonica bruciando quantità crescenti di fonti fossili per ricavare
l’energia necessaria allo svolgimento dei processi produttivi e al sistema dei
trasporti, d’altra hanno ridotto la fotosintesi clorofilliana disboscando per
fare posto all’agricoltura e alle aree urbane.
L’anidride carbonica eccedente le capacità di sintesi della vegetazione si
è progressivamente accumulata nell’atmosfera, aumentando la sua concentrazione
nel miscuglio di gas che compongono l’aria, dalle 270 parti per milione in cui
si era stabilizzata da 8.000 secoli a 380 nel secolo scorso e a 410 nei primi
15 anni di questo secolo. Poiché l’anidride carbonica trattiene all’interno
dell’atmosfera una parte della radiazione infrarossa che il sole invia sulla
terra e la terra rimbalza verso lo spazio, nel XX secolo la temperatura media
del pianeta è aumentata di 0,8 °C e si è innescato un cambiamento climatico di
cui l’umanità ha appena iniziato a subire le conseguenze. In questo
contesto la
finalizzazione delle attività economiche e produttive alla sostenibilità
richiede l’adozione di tecnologie, di misure di politica economica e di stili
di vita che consentano di ricondurre le emissioni di anidride carbonica a
quantità metabolizzabili dalla fotosintesi clorofilliana.
Questo obbiettivo può essere perseguito agendo in due direzioni: diminuendo i consumi
di fonti fossili e aumentando la superficie terrestre ricoperta da boschi e
foreste. Entrambe in una prima
fase richiedono investimenti che comportano un aumento della produzione e del
consumo di merci, ma in prospettiva ne determinano una diminuzione stabile. La scelta più
efficace per ridurre i consumi di fonti fossili non è, come si è voluto far
credere nell’ottica dello sviluppo sostenibile, lo sviluppo delle fonti
rinnovabili, ma una strategia incentrata in primo luogo sulla riduzione di
sprechi e inefficienze (circa il 70 per cento dei consumi energetici in
Italia), in modo da ridurre al minimo il fabbisogno da soddisfare con le fonti
rinnovabili. Poiché il patrimonio edilizio assorbe circa la metà dei consumi energetici
totali, occorre limitare drasticamente la costruzione di nuovi edifici e
indirizzare l’edilizia alla ristrutturazione energetica di quelli esistenti.
Per aumentare le superfici ricoperte da boschi e foreste occorre ripiantumare
quelle disboscate per ricavarne terreni agricoli non dedicati all’alimentazione
umana, ma all’alimentazione degli animali d’allevamento e alla produzione di biocarburanti. Invece di prendere in
considerazione una strategia di questo genere, finalizzata a ridurre le emissioni di anidride carbonica, i
governanti di tutto il mondo, nel corso della Cop 21 che si è svolta a Parigi
nel dicembre 2015, si sono accordati di contenere l’aumento della
temperatura terrestre in questo secolo tra 1,5 e 2 °C, ovvero da un valore
minimo che è il doppio rispetto all’incremento del secolo scorso, a un valore
massimo superiore di 2,5 volte. Di sviluppo sostenibile si muore. Più
lentamente che di sviluppo, ma si muore.
Nel 2017, secondo il Footprint Institute, il giorno in cui l’umanità è
arrivata a consumare tutte le risorse rinnovabili che la fotosintesi
clorofilliana rigenera nel corso di un anno, è stato il 2 agosto. L’anno precedente
era stato il 14 agosto. Dieci anni prima intorno alla metà di settembre. Venti
anni prima intorno alla metà di ottobre. Quale nuovo modello di sviluppo
consente d’invertire questa tendenza? Come si potrebbe riportare gradualmente
quel giorno verso il 31 dicembre se non diminuendo il consumo di risorse
rinnovabili, che si può raggiungere riducendo innanzitutto gli allevamenti di
animali e l’alimentazione carnea? Una diminuzione dei consumi si può
definire sviluppo sostenibile? In tutti gli oceani galleggiano
ammassi di poltiglie di plastica grandi come continenti e il numero dei pesci è
stato dimezzato dalla pesca d’altura. Come si può fare in modo che che i
rifiuti non biodegradabili ammassati in mare e sulla superficie terrestre
diminuiscano se non se ne riduce drasticamente la produzione? Come si può fare
in modo che il numero dei pesci torni ad aumentare se non limitando la pesca?
Come si possono ridurre le più gravi forme d’inquinamento se non abolendo la
produzione dei veleni di sintesi chimica usati in agricoltura per accrescere i
rendimenti e in alcuni cicli industriali che hanno devastato i territori in cui
sono stati insediati? Come si può arrestare la perdita della biodiversità, come
si può ricostituire la fertilità dei suoli, se non riducendo lo sfruttamento
dei terreni agricoli? Come si può garantire la disponibilità di acqua
necessaria a tutti gli esseri umani e a tutte le forme di vita, se non
riducendo gli sprechi?
Per
consentire all’umanità di avere un futuro, la sostenibilità deve sostituire lo
sviluppo come riferimento di tutte le scelte produttive. La sostenibilità non
può essere considerata un’opzione al servizio dello sviluppo, allo scopo di
attenuare le conseguenze negative che genera. Né si può ridurre il suo
significato a una generica attenzione nei confronti dei problemi ambientali. La
sostenibilità esprime un concetto tanto preciso quanto ignorato: la necessità di
evitare che la produzione e il consumo di merci oltrepassino i limiti della
compatibilità ambientale. Poiché questi limiti sono già stati ampiamente
superati, la sua declinazione attuale impone che le attività economiche e
produttive siano indirizzate a:
– diminuire
le emissioni di sostanze di scarto biodegradabili (anidride
carbonica) alle quantità che possono essere metabolizzate dalla biosfera;
– diminuire
i consumi di risorse rinnovabili alle quantità che possono essere rigenerate
annualmente dalla fotosintesi clorofilliana;
– ridurre
i consumi delle risorse non rinnovabili, utilizzandole con la massima efficienza,
riutilizzando quelle che è possibile riciclare, producendo beni durevoli
riparabili e aumentando la loro durata di vita;
– abolire
la produzione delle sostanze di sintesi che non possono essere metabolizzate dai
cicli biochimici.
Per continuare a utilizzare in economia la
parola sviluppo come sinonimo di miglioramento, o
se ne capovolge il significato che si è consolidato dal 1949 a
oggi, svincolandolo dal legame simbiotico con la crescita e apparentandolo
alle parole diminuzione, riduzione, decrescita,
o si elimina dall’economia. La prima ipotesi presuppone una deroga
alla logica, o quanto meno al senso comune. La seconda è più drastica, ma meno
ambigua. In fin dei conti si usa soltanto da settant’anni. Comunque, per
superare la crisi economica e invertire la tendenza al peggioramento della
crisi ecologica non
serve un nuovo modello di sviluppo, ma un nuovo modello di economia senza
sviluppo.
.
Fonte: mauriziopallante.it