domenica 26 febbraio 2017

Si parla di animali: umani e non (qualche pensiero di Rita)


I miserabili
Ogni tanto penso a quanto debba essere triste e povera la vita di chi non si sa relazionare con gli altri animali. Di chi non riesce nemmeno a vederli, gli altri animali, se non attraverso le lenti offuscanti del pregiudizio e dello specismo.
La maggior parte delle persone che incontra un gatto, o un cane, dice: "toh, un gatto", oppure "toh, un cane". Pensa cioè di aver incontrato un rappresentante di quella specie e che uno valga l'altro poiché tutti hanno gli stessi identici comportamenti di specie e se poi qualcuno fa qualcosa di particolare allora si è subito pronti a bollarla con l'etichetta di "istinto".
Invece, al di là delle caratteristiche di specie condivise - che abbiamo anche noi, in quanto animali, giacché, al di là delle differenze, tutti noi homo sapiens in certi contesti ci comportiamo più o meno alla stessa maniera e di certo non possiamo fare cose che non sono contemplate nella nostra etologia - ogni animale è un individuo singolo dotato di un proprio carattere e dall'incontro con ciascuno ne deriva una particolare e unica relazione. 
Abitare il mondo convinti che gli altri esseri viventi siano solo parte indistinta della natura a fare da sfondo alle nostre gesta - le uniche che valgano! - è davvero miope. E tutto ciò mi mette una tristezza infinita, mi fa sentire scoraggiata e amareggiata.
Ci vantiamo di essere una specie superiore perché abbiamo sete di conoscenza e curiosità, eppure quando incontriamo gli altri animali li liquidiamo con sufficienza e persino disprezzo. 
Per non parlare di quello che facciamo agli animali che vengono definiti "da reddito". Oppressi, violentati, trasformati in prodotti alimentari o indumenti di vestiario.
Spazzare via il mondo interiore di miliardi di individui, riducendoli a oggetti, non è solo criminale, è proprio miserevole, ossia ci rende una specie ottusa, stupida, arida, cinica, miope. Siamo dei miserabili!
È più vasto l'orizzonte di un cucciolo di bovino che si affaccia al mondo - per quanto gli venga brutalmente limitato da una gabbia - che quello di un umano che in esso è capace di vedere solo "carne bianca".


Rimozione come difesa

Ieri durante il presidio NOmattatoio è passato un camion di cavalli. Non siamo riusciti a riprenderlo perché il semaforo era verde e andava troppo veloce.
Ho fatto in tempo però a incrociare gli sguardi di quelle creature - le criniere mosse dal vento, l'espressione di paura e ansia - prima che il camion girasse a destra per entrare al mattatoio. 
Ancora una volta ho pensato che persino noi che siamo lì, consapevoli dello sterminio di miliardi di animali in atto in ogni parte del globo, comunque sia mettiamo costantemente in atto una rimozione di quello che realmente accade. La rimozione è la nostra salvezza altrimenti saremmo annientati dal dolore e dalla disperazione e non avremmo più energie per agire. 
La mia speranza è che anche tutti coloro che continuano a mangiare gli animali lo facciano non per cattiveria, sadismo, o indifferenza, ma per non venire annientati dalla consapevolezza di quanto accade agli altri animali con il sostegno delle proprie scelte.
Una volta lo disse anche Melanie Joy: le persone amano gli animali (basti pensare a come essi siano presenti nello nostre vite sin da quando siamo bambini: li abbiamo avuti nei nostri giochi, sulla carta da parati delle nostre camerette, sui vestitini) e se sono indifferenti al loro sterminio è proprio perché prenderne veramente atto provocherebbe troppo dolore e costringerebbe a fare delle scelte che vengono percepite come difficili e problematiche (come quella di diventare vegan). 
Per noi non è stato difficile fare una scelta coerente con il nostro sentire, ma per molti lo è perché c'è ignoranza, disinformazione, pregiudizi e perché l'industria della carne, del latte, delle uova, del pellame e quella farmaceutica remano contro il sorgere di questa consapevolezza e accrescono la rimozione, negazione e dissociazione. 
Anche il considerare gli altri animali come oggetti, o comunque individui inferiori fa parte di questo pacchetto che è il suddetto meccanismo di rimozione, negazione e giustificazione.

Questa mia riflessione (peraltro nulla di nuovo, sono cose che ho già detto tante volte) non è una giustificazione, ma un tentativo di spiegazione del perché vengano commessi crimini tanto atroci con la complicità di tutti.


La pericolosità di una società folle che produce individui dissociati

In occasione della presentazione della campagna NOmattatoio a Parma Etica, ho avuto il piacere di conoscere il Prof. Maurizio Corsini, psichiatra, psicoanalista e presidente dell’associazione Diritti degli Animali. Ha introdotto e commentato la nostra conferenza, poi partecipato con interventi molto interessanti al dibattito che ne è seguito (il video integrale si può vedere sulla pagina NOmattatoio). 
Mi ha colpito molto una sua affermazione riguardo la sofferenza degli animali con cui noi attivisti siamo costantemente a contatto (anche solo con il pensiero; più spesso per la capacità che abbiamo acquisito di vedere la realtà oltre le lenti del carnismo e dello specismo e quindi nelle sue varie e molteplici manifestazioni di dominio e violenza sugli altri animali) e che si traduce in sofferenza anche nostra personale. L’empatia è infatti quel processo che ci permette di immedesimarci nel dolore altrui facendoci immedesimare nella condizione e stato fisico e psicologico dell'altro, dopo averlo riconosciuto come individuo a prescindere dalla specie o etnia di appartenenza. Questo attributo, l’empatia, è fondamentale per relazionarsi in maniera sana con gli altri, altrimenti si rimane chiusi nel proprio mondo egotico in cui si continua a credere che tutto ciò che ci circonda esista per soddisfare i nostri capricci (mondo del bambino nella prima fase della sua vita, infatti). 
Purtroppo nella società del dominio e sopraffazione dell’altro per interessi economici ci fa comodo negare agli altri (che siano animali non umani o umani appartenenti a diverse etnie) la nostra stessa capacità di sentire il dolore o di esperire la realtà in maniera altrettanto ricca e complessa: passaggio che apre la strada a ogni tipo di barbarie e che legittima abusi, sfruttamento e uccisioni di massa. 
Vivere senza empatia è fondamentalmente pericoloso perché impedisce proprio di riconoscere l’altro come individuo e conduce a una desensibilizzazione progressiva che può partire sì dalla negazione degli altri animali in quanto individui in grado di soffrire, ma può arrivare anche a legittimare la violenza sui nostri stessi simili umani.
Certo, essere sani dal punto di vista dell’empatia, ossia essere persone integre dal punto di cognitivo (ed è patologico lo stato dissociato, al contrario di cosa sostengono coloro che ci tacciano di essere patosensibili) ci crea enorme disagio e dolore, diceva il professore, ma è sempre meglio che avere una mente dissociata che non è in grado di ricondurre le informazioni al soggetto che ci troviamo di fronte nella sua integrità, per cui, come scrive anche Annamaria Manzoni nel suo Abbiamo un sogno, da una parte si indica al bambino l’animale carino che si vede in un prato, dall’altra gli si offre il prosciutto nel piatto (con tutte le implicazioni e associazioni affettive che ne derivano) senza che questo – il risultato finale di una catena di sfruttamento e smontaggio – risulti più riconducibile all’individuo vivo che è stato. Del resto è quel che fa il sociopatico, ossia scinde le persone in strumenti utili al suo soddisfacimento, le reifica, le considera oggetti, non individui. Ed è ciò che la nostra società fa nei confronti degli altri animali. In poche parole, viviamo in una società sociopatica in cui la dissociazione cognitiva conduce alla negazione della realtà per come effettivamente si dispiega davanti ai nostri occhi, per poi adattarla, ossia trasformarla nella propria personalissima visione (che è quella sostenuta dalla società del dominio) al fine di giustificare quello che vien fatto passare come normale, ossia la violenza istituzionalizzata nei confronti degli animali. Sempre la Manzoni, come anche il Prof. Corsini, mettono in guardia dai pericoli di una mente così dissociata e frantumata (ammalatasi a causa della società in cui siamo cresciuti), in quanto chi non è capace di riconoscere la violenza che è alla base dell’industria della carne e sottesa a quella che Melanie Joy chiama l’ideologia carnista, facilmente sarà una persona incapace di riconoscere la violenza in generale o quanto meno sarà più incline a un processo di desensibilizzazione graduale. E infatti, ancora Annamaria Manzoni, in un altro suo libro dal titolo Sulla Cattiva strada, mette in guardia dal legame che c’è tra violenza sugli animali e violenza sulle persone.
Il fatto è che distinguere tra una violenza cosiddetta necessaria, che è ciò che fa chi sostiene l’industria della carne, quindi gli allevamenti (che sono sempre una forma di dominio sui corpi altrui) e i mattatoi e una violenza da condannare (quella sui membri appartenenti alla nostra stessa specie) porta a delle conseguenze davvero gravi perché una società in cui si permette il perpetrarsi di forme di violenza legittimate e istituzionalizzate, rimane comunque una società con delle sacche di violenza che finiscono per contaminare la società stessa. Quando si agisce la violenza, in qualsiasi forma, che sia legalizzata o meno, come si fa a capire dove sia il limite? Se è consentito sventrare un vitello, perché non anche prenderlo a calci? E perché non un cane? E perché allora non anche un bambino o una donna? E infatti tutte le forme di violenza cosiddette aggiuntive che vediamo avvenire all'interno di allevamenti e mattatoi, in realtà sono la norma perché e proprio perché è difficile aprire un rubinetto e poi decidere quando chiuderlo.
Non è possibile permettere di prendere a calci, sgozzare e fare a pezzi individui senzienti oppure torturarli per la ricerca medica – seppure in ambienti specifici – e pensare che la violenza di queste pratiche non abbia poi delle ripercussioni sul tessuto sociale stesso e sugli individui che ne fanno parte. 
Un macellaio che per anni e per tutto il giorno è costretto a stare in mezzo al sangue che scorre e a maneggiare coltelli e quant’altro, non può che essere progressivamente desensibilizzato o comunque subirà un processo di rimozione e adattamento della psiche per poter continuare a svolgere il suo lavoro, convincendosi che chi ha tra le mani non sia un individuo capace di sentire, che quelle urla non siano davvero urla, ma solo stridii meccanici (come sosteneva il buon Cartesio) e che, tutto sommato, non ci sia nulla di male nel suo lavoro, essendo oltretutto legalizzato. 
La stessa tesi della violenza dilagante di colui che la percepisce come normale all’interno di un dato contesto è sostenuta nel romanzo della scrittrice argentina Ana Paula Maia, dal titolo Di Uomini e Bestie. Qui il protagonista, che è un macellaio, almeno è consapevole di uccidere individui senzienti e non cerca un'autoassoluzione sociale. Purtuttavia, non esita a uccidere, con la stessa metodica precisione e velocità, un suo collega di lavoro. In fondo, perché mai chi taglia una gola per mille volte al giorno non dovrebbe far suo quel gesto di estrema violenza e non dovrebbe essere pronto a ripeterlo, quasi automaticamente, all’occorrenza?
Attenzione, non sto dicendo che tutti i macellai siano degli assassini di umani in potenza (di animali non umani lo sono senz’altro!); il più delle volte si tratta di persone poverissime che provengono da altri paesi e che accettano quel tipo di lavoro perché altrimenti sarebbero rimandati indietro e che nemmeno si rendono conto di esser parte di un ingranaggio sociale che, seppure su diversi lavelli, stritola anche loro stessi e li piega al giogo del dominio sui più deboli. 
Sto dicendo che una società che consente pratiche di violenza inenarrabili è una società malata e che da un corpo malato non possono che generarsi atti e pensieri malati. 
Quindi, come ho già sostenuto tante altre volte, la questione dello sfruttamento sugli animali è un problema gravissimo che non riguarda solo noi cosiddetti animalisti, ma la società nel suo complesso. 

Ci lamentiamo dell’indifferenza che avvelena le nostre esistenze, ci scandalizziamo se una persona chiede aiuto per strada perché sta per essere uccisa e nessuno si ferma, ma non riflettiamo mai abbastanza sulle pratiche di violenza normalizzata – e per questo ancor più subdola – che accettiamo senza farci due domande e siamo subito pronti a tacciare per pato-sensibili gli animalisti. 
Non è una questione di preferire gli animali non umani agli umani, ma di risvegliare in noi quell’attributo importantissimo che è l’empatia e che ci permette di non voltarci dall’altra parte di fronte a ogni tipo di abuso e violenza sul vivente, a prescindere se abbia due zampe o due ali o delle pinne.
E, come ha detto il Professor Corsini, non siamo noi a essere patosensibili, è il resto della società a essere folle. 
Come altrimenti chiamare la pratica di condannare alla schiavitù e morte prematura miliardi di individui – dopo una non-vita infernale – quando non è necessario? Follia. Una follia da cui, per fortuna, si può guarire. 
Come? Beh, intando smettendo di considerare il problema della violenza sugli altri animali come un qualcosa che riguardi solo noi attivisti, ma riconoscerlo come un enorme problema di ingiustizia sociale.

sabato 25 febbraio 2017

Le fiamme di Standing Rock - Maria Rita D'Orsogna


I campi di protesta degli indiani e dei loro sostenitori sono stati evacuati con la forza da membri delle forze dell’ordine che hanno perlustrato le tende e arrestato dozzine di persone. Fra gli arrestati quarantasei persone, incluso un gruppo di militari di guerra che hanno resistito per un’ora. Ci sono volute tre ore e duecentoventi poliziotti, nonché diciotto guardie nazionali per andare tenda per tenda.
Come poteva essere altrimenti? Ci erano riusciti pelo pelo sotto Obama a ottenere un fermo temporaneo, figuriamoci se con il nuovo presidente il fermo poteva restare. E cosi, tutti via. Mica un oleodotto da 3.8 miliardi di dollari può aspettare? Tutti via, volenti o nolenti, e a sfregio bruciano pure tutto quello che trovano.

Alcuni dei protestanti, per la maggior parte indiani, erano li, vicino allo Standing Rock Indian Reservation, da aprile 2016. Al culmine delle proteste c’erano migliaia di persone. Adesso ne erano rimaste poche centinaia a causa del freddo e dell’arrivo dei tribunali.
A costruire l’oleodotto la ditta di Dallas chiamata Energy Transfer Partners in cui è o è stato un investitore. Non si sa perché non rende i suoi investimenti pubblici, ma di certo si sa che fino a novembre 2016 lo era. Il cosiddetto Army Corps of Engineers che si occupa della manutenzione dei sistemi idrici della nazione aveva annunciato che occorreva sgomberare tutto entro il 22 febbraio, per questioni di sicurezza legate a possibili inondazioni e straripamenti di fiumi.
Dicono pure che erano preoccupati per la sicurezza dei manifestanti e della grande quantità di rifiuti che avevano lasciato – tende, e macchine che avrebbero potuto finire nei fiumi. Mercoledì 22 febbraio erano quasi tutti andati via, a parte qualche recidivo, fra cui il gruppo di veterani di guerra. Non è ben chiaro perché le tende e tutto il resto è stato bruciato: alcuni dicono che era necessario perché le tende erano ormai ghiacciate e semi incorporate al terreno; altri che era un riturale indiano.
E cosi, tre ore dopo era tutto finito. Almeno a Standing Rock. Questo perché uno dei rappresentanti dei Sioux, Chase Iron Eyes, ricorda che la battaglia continuerà nei tribunali e con il supporto dell’opinione pubblica.

Intanto la Energy Transfer Partners ha incominciato i lavori per stendere il suo tubo di petrolio sotto il lago Oahe vicino al fiume Missouri. Cosi avremo petrolio fresco fresco dal North Dakota fino all’Illinois. Che vuoi che siano i diritti degli indiani. Che vuoi che siano i diritti di chiunque.

venerdì 24 febbraio 2017

Quirra, denuncia-shock: “Dietro tumori e feti deformi 300 tonnellate di veleni” - Pablo Sole



“Ogni settimana arrivavano lunghe colonne di camion. Dopo aver attraversato il paese puntavano verso il Poligono di Quirra, dove i militari avevano già scavato buche mastodontiche imbottite di esplosivo. Ci buttavano dentro il carico dei convogli e lo facevano saltare in aria. Si trattava di armi e munizionamento fino ad allora custodito nei bunker di tutta Italia. E per anni a Escalaplano, il cielo ha portato pioggia e polveri sottili. Trecento tonnellate, secondo il nostro consulente Giovanni Battista De Giudici, dell’Università di Cagliari, finite sul paese e sulle campagne circostanti fino ad insinuarsi nelle sorgenti. Le stesse che alimentano l’acquedotto”. Mette i brividi ascoltare la testimonianza che Giuseppe Carboni, l’avvocato che assiste il Comune di Escalaplano nel processo sui veleni di Quirra, ha reso il 22 febbraio a Roma di fronte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito. Ne vien fuori un quadro cupo – coi militari impegnati in una sistematica “opera di occultamento” – e insieme drammatico. “Quando il procuratore Fiordalisi ha fatto visita ad una ragazza con gravi malformazioni – ha raccontato Carboni – si è messo a piangere”.
Il patto di omertà e quelle minacce per nulla velate
 “Quando i militari facevano queste operazioni – ha detto Carboni – non si adottava alcuna misura di contenimento dei danni. Si pensava più ad occultare queste attività. C’era una continua negazione del fatto che si facessero queste cose. Il brillamento di queste armi è stato, per decenni, accuratamente nascosto. Lo conferma anche un’intercettazione ambientale disposta dal procuratore Domenico Fiordalisi (il pm del processo sui veleni di Quirra, ndr) raccolta il 3 marzo 2011. È emerso che non solo erano in corso queste attività, ma alle persone che vi partecipavano veniva chiesto un giuramento di omertà assoluta, anche con la minaccia di licenziamenti”. Ma, come si vedrà più avanti, si arrivò perfino a mettere in guardia chi sapeva sui rischi per la propria incolumità. “Perfino alcuni generali interrogati da Fiordalisi – ha detto Carboni – hanno negato queste attività”. A smentirli, poche settimane fa durante un’udienza del processo, l’ex maresciallo Francesco Palombo, in servizio a Quirra dal 1999 al 2000 come ruspista. “Le buche che scavavo erano profonde 20 metri e larghe 40 – ha dichiarato il militare -. Qui venivano fatti brillare bombe e proiettili, in prevalenza residuati della seconda guerra mondiale. I fumi e le polveri si alzavano per oltre 40 metri e a seconda dei venti venivano trasportati nei paesi adiacenti”. Non solo: ad aggravare la situazione hanno concorso anche le sperimentazioni delle aziende private che a Quirra, dietro il pagamento di un lauto affitto – 50mila euro l’ora, ma il dato risale al 2003 – hanno condotto vari test. “Come il Csm, il Centro sviluppo materiali di Roma, che sperimenta la resistenza alle esplosioni degli oleodotti – ha raccontato Carboni -. Ebbene, quando facevano saltare in aria i tubi, con delle esplosioni enormi, riportavano a galla anche i materiali inquinanti”.
I residui delle esplosioni “raccolti e seppelliti nel poligono. Dove pascolano gli animali”
L’intercettazione citata da Carboni ha come protagonista Mauro Artizzu, ex militare di leva originario di Nuoro che ha prestato servizio a Quirra nel 1997 e tempo dopo si è ammalato di tumore. Secondo le registrazioni, ampiamente riportate dal giornalista Riccardo Bocca su L’Espresso, i brillamenti provocavano esplosioni enormi e nonostante questo rimanevano dei residui poi fatti esplodere nuovamente o sotterrati. “L’area circostante veniva ricoperta da una coltre bianca, simile alla neve. Come se fosse gommapiuma, però era pesante – raccontava Artizzu, intercettato, ad un amico -. I militari la raccoglievano, la mettevano nei fusti che poi venivano sotterrati nel poligono, proprio dove i pastori portavano gli animali a pascolare. Le mucche mangiavano l’erba, poi morivano”. E poi c’era il vento. “Se spirava verso Jerzu, tutta quella roba andava lì, altrimenti verso Villaputzu. E quando pioveva – aggiungeva Artizzu – tutto era assorbito dalle falde acquifere”. In un’informativa trasmessa a Fiordalisi dagli uomini della Mobile di Nuoro, viene detto a chiare lettere che i superiori di Artizzu “lo costringevano a rispettare il segreto su tale attività. In caso contrario – riporta Mariangela Maturi nel libro ‘Silenzio di piombo’ – avrebbe potuto avere delle pesanti ritorsioni che avrebbero messo a rischio la sua incolumità personale”. 
Gli aborti, i bambini senza arti e i il 65% dei pastori morti di tumore
Le polveri sottili che hanno ammantato Escalaplano e le zone adiacenti al poligono – unico giudice: il vento, come scriveva in modo incisivo pochi anni fa il compianto giornalista Giorgio Pisano – hanno causato quel che oggi “è sotto gli occhi di tutti”, ha detto Carboni. “Senza arti, cieca e sorda. Così è nata una ragazza che è scomparsa pochi anni fa dopo aver vissuto per 25 anni in un lettino. Quando il procuratore Fiordalisi l’ha vista, e non mi vergogno nel riportare questo fatto, si è messo a piangere. Ma poi ci sono anche i bimbi nati senza apparato digerente o con patologie che hanno colpito l’apparato genitale. A Quirra il 65% dei pastori è morto di tumore. Ma va anche detto che non è sempre facile, soprattutto per una questione di pudore, documentare aborti e malformazioni. Intanto però stiamo documentando i casi in modo dettagliato e si arriverà all’elenco dei bimbi nati malformati. Più facile – ha aggiunto l’avvocato – avere dati sugli animali. Ad esempio, dalle ricerche è emerso che l’incidenza delle malformazioni sugli animali che pascolano all’interno del poligono è pari al 3,5%, mentre all’esterno si ferma allo 0,025. Questo è già una spia”.

domenica 19 febbraio 2017

L’EUROPA HA DECISO: L’ITALIA AVRA’ NON 1 MA 7 DEPOSITI DI SCORIE NUCLEARI - Gianni Lannes



Gli euroburocrati che decidono il destino del popolo italiano pensano che italiane ed italiani siano soltanto carne da macello, al massimo cavie per esperimenti non autorizzati dalla gente, ma che comunque vanno in onda sulla nostra pelle di esseri socialmente disuniti.

Dopo aver affondato impunemente per decenni centinaia di navi dei veleni e migliaia di container zeppi di scarti pericolosi delle industrie tedesche, francesi, elvetiche, olandesi  eccetera - sempre a Bruxelles si sono detti: perché scontentare Piemonte, Lazio, Campania e Basilicata, che si terranno per sempre le scorie. E non fare una sorpresa alla Sardegna?
 
«Il Deposito Nazionale sarà costituito da una struttura di superficie, progettata sulla base degli standard IAEA e delle prassi internazionali, destinata allo smaltimento a titolo definitivo dei rifiuti radioattivi a bassa e media attività».

E’ quanto è scritto a pagina 30 dell’audizione Sogin Spa, ovvero «Atto del Governo n° 58 (Gestione combustibile nucleare esaurito e rifiuti radioattivi)».
Dunque, la prima menzogna del Governo italiano è che non ci sarà un unico deposito nazionale. Infatti, per i rifiuti nucleari più pericolosi, ad alta attività o se preferite di terza categoria, è previsto un deposito di smaltimento geologico, vale a dire, nelle profondità della terra.



In passato, lo Stato italiano ha nascosto una quantità consistente di scorie nucleari, ben 350 metri cubi provenienti dalla centrale atomica militare di Pisa (Camen, già Cresam infine Cisam) nella miniera di Pasquasia in Sicilia (chiusa inspiegabilmente, seppure produttiva), dove ha operato l’Enea per un esperimento in materia di confinamento di scorie nel sottosuolo.
E’ sufficiente esaminare il primo inventario nazionale sulla contabilità nucleare redatto dall’Enea nel 2000 e successivamente dall’Apat, per appurare che dei 700 metri cubi sfornati dal reattore RTS 1, gestito dallo Stato Maggiore della Difesa, mancano oggi all’appello appunto 350 metri cubi. 

I depositi di rifiuti nucleari realizzati recentemente dalla Sogin - a Trino, Saluggia, Bosco Marengo, Borgo Sabotino, Garigliano, Trisaia - non sono “confinamenti temporanei” o momentanei, anche se le autorità, gli esperti di regime unitamente agli ambientalisti venduti al miglior offerente, lo vogliono far credere a tutti gli ingenui. Il settimo deposito di superficie sarà impiantato in Sardegna. "Tanto i sardi si vendono in cambio di qualche posto di lavoro, e poi sono già imbottiti di scarti radioattivi che dai vasti poligoni militari sono fluiti nel ciclo biologico", hanno pianificato dall'alto quelli che comandano a casa nostra, beninteso per conto terzi.
  
Altra menzogna di Stato: la quantità di scorie da allocare nel predetto sito sardo. L’ultimo inventario nucleare dell’Apat tra rifiuti e combustibile irraggiato, indica una quantità complessiva di 26.137 metri cubi. La Sogin, invece, ne ha già stimato 90 mila metri cubi. Qual è la reale provenienza di ben oltre 60 mila metri cubi di scorie atomiche? La risposta è scontata: l’Europa.

Basta una semplice ricerca e due minuti di tempo per appurare che dietro le due direttive Euratom (2009/71 – 2011/70) si nascondono nientedimeno che i soliti profittatori internazionali. La Svizzera, ad esempio, non fa parte dell'Unione europea, ma detta legge in materia di spazzatura nucleare, dopo aver già inondato il nostro Paese, con la sua incontenibile immondizia chimica e nucleare.


Agli scettici, a parte il decreto legislativo del 4 marzo 2014, emanato da Napolitano,  si raccomanda la lettura di un illuminante documento dell’Enea stilato ad uso del Governo italiano, licenziato espressamente il 3 febbraio 2014 per le Commissioni riunite Ambiente e Industria Senato della Repubblica si legge:

«All’art. 3 comma 6 vengono fissate le condizioni alle quali sono soggette le spedizioni, importazioni ed esportazioni di rifiuti radioattivi e di combustibile nucleare esaurito che possono essere smaltiti anche in Paesi Terzi con i quali siano vigenti specifici accordi sotto l’egida della Comunità. Infatti la Direttiva riconosce esplicitamente i possibili benefici di un approccio “dual track”, tendente ad affiancare alla creazione di un deposito nazionale anche un deposito geologico multinazionale condiviso, che possa essere incluso nei programmi di gestione dei rifiuti radioattivi nei vari Paesi Europei. Per quanto riguarda i rifiuti ad alta attività, l’ENEA aderisce all’Associazione privata “ARIUS” (Association for Regional and International Underground Storage, con sede in Svizzera) dalla sua creazione nel 2002, della quale ha anche detenuto per qualche tempo la presidenza e partecipa ai lavori di ERDO-WG (European Repository Development Organisation – Working Group). Tale gruppo ha la proprietà del concetto di deposito consortile europeo condiviso per quelle nazioni che, essendo dotate di modesti inventari di rifiuti nucleari, troverebbero di difficile gestione ed antieconomica la collocazione di tali materie in un deposito definitivo nazionale. La Direttiva, anche per il lavoro di sensibilizzazione svolto da ARIUS presso la Commissione Europea, considera questa opzione anche in caso di destinazione verso Paesi terzi esterni all’Unione, previo accordo con la Comunità (Ch.1 Scope, Definitions and General Principles, art.4, punto 4). Si ritiene necessario sottolineare che l’adesione dell’Italia alla costituzione del consorzio ERDO (European Repository Development Organisation) per lo sviluppo di un deposito geologico profondo regionale condiviso in ambito europeo è una opzione importante sia dal punto di vista politico, che dal punto di vista dell’accettabilità sociale; prevede una strategia ed una decisione a livello istituzionale, anche alla luce di quanto avvenuto in Italia con l’esito del referendum che ha, di fatto, sancito la chiusura del programma nucleare nel nostro Paese e, quindi, il proprio inventario dei rifiuti radioattivi rimarrà nei prossimi anni pressoché stabile».

Esaminando una miriade di carte ufficiali (Governo, Sogin, Enea, Unione Europea, Iaea) è facile rendersi conto che dietro a tutto si profila un unico intento, mascherato a parole dalla sicurezza ambientale, vale a dire, il profitto economico a tutti i costi quel che costi.

Dagli anni ’50 non è cambiato nulla, sempre a prendere ordini dagli “alleati” angloamericani. Nel 1959 ad Ispra in provincia di Varese, viene allestito il primo reattore nucleare (impianto di ricerca poi regalato all’Europa): è la premessa per la produzione di energia generata dall’atomo, senza valutare le conseguenze ambientali e sanitarie, sul territorio e da danno della popolazione. Così l’Italia eterodiretta per volere di Washington innalza le sue centrali in luoghi inidonei, con il fine certo di produrre energia elettrica, ma al contempo plutonio, utile per le bombe atomiche. Latina con il reattore a grafite e uranio. Trino Vercellese e Garigliano alimentate dall’uranio arricchito. Nel 1980 giunge anche Caorso, in mezzo al Po, un impianto che funziona con gli stesso combustibili del Garigliano. Nel frattempo, dal 1963 è attiva anche la centrale nucleare militare, ovviamente segreta del Camen, oggi Cisam, ed una miriade di reattore nucleari di ricerca: università di Palermo, Milano, Padova, Pavia. L’Italia non aveva e non ha una politica ecologica  di smaltimento della spazzatura nucleare. Non a caso - attesta la banca dati internazionale Iaea - nel 1967 inabissa i primi 23 metri cubi di scorie nucleari, consentendo in seguito ad alcuni Stati europei che vanno per la maggiore (Germania, Francia, Svizzera, ad esempio) di inabissare nel Mediterraneo di tutto e di più.

A metà degli anni '60 il Governo italiano realizza in Basilicata il primo cimitero nucleare, mascherandolo con un centro di ricerca, prima del CNEN, poi dell'ENEA. Alla Trisaia, a parte l'Itrec, ha operato attivamente l'Eni con una fabbrica di combustibili nucleari in società con un'azienda del governo inglese, ossia l'UKAEA. Le 86 barre dell'Elk River cedute da Washington - 20 soltanto riprocessate - sono ben altra cosa cosa, ovvero il ciclo uranio-torio. L'Eni ai magistrati ha sempre negato la produzione di plutonio alla Trisaia. Ma a luglio del 2013, in un'operazione quasi segreta, sono stati portati via da questo centro atomico in Lucania, ben 20 chilogrammi di uranio e plutonio, poi imbarcati su una nave diretta negli Stati Uniti d'America. Obama al recente vertice europeo di fine marzo ha ringraziato i maggiordomi della repubblichetta delle banane, per la cessione gratuita del materiale strategico. Appunto: quanto plutonio è stato prodotto dalle 5 centrali nucleari italiane? A proposito mister Napolitano, dove è finito?

Ma chi si è arricchito realmente con l'affarone dell'atomo nel belpaese? Vediamo un pò: prevalentemente società nordamericane e inglesi: General Electric, Westinghouse, Abb, Ukaea, Eni, Enel, Fiat. A pagare in termini economici nonché di perdita di salute è soltanto la popolazione, che non ha avuto benefici di alcun genere. Infatti l’attività di decomissioning viene finanziata dall’ignaro contribuente italidiota attraverso la componente A 2 della tariffa elettrica (la bolletta della luce). Lo hanno stabilito il Decreto interministeriale 26 gennaio 2000, la legge 83 del 2003 e il decreto interministeriale 3 aprile 2006.

Nel 1999 lo Stato ha inventato la Sogin un eufemismo, il cosiddettodecommissioning, inserendola nel portafoglio del ministero del tesoro. Nel 2010 la Corte dei Conti ha bocciato la gestione Sogin, oggi in nettissimo ritardo sulla tabella di marcia. In ogni caso, le ecomafie di Stati e le multinazionali del crimine ringraziano lo Stato tricolore. Tanto pagano sempre i "fessi". A proposito Matteo Renzi, che ne sarà della centrale nucleare della Difesa, in riva al Tirreno in quel di Pisa?




http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:199:0048:0056:IT:PDF

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2009:172:0018:0022:IT:PDF

http://www.world-nuclear.org/info/nuclear-fuel-cycle/nuclear-wastes/international-nuclear-waste-disposal-concepts/

http://www.fanr.gov.ae/En/MediaCentre/News/Pages/UAE-Nuclear-Regulator-hosts-Radioactive-Waste-Management-Workshop-for-the-Middle-East-and-North-Africa-.aspx

http://www.iaea.org/INPRO/4th_Dialogue_Forum/DAY_4_2_August-ready/3._-_Kickmaier_INPRO_Forum_Aug_2012.pdf

http://www.nirs.org/mononline/nm746_48.pdf

http://www.world-nuclear.org/info/Nuclear-Fuel-Cycle/Nuclear-Wastes/Radioactive-Waste-Management/

http://www.enea.it/it/produzione-scientifica/pdf-volumi/RDSSintesi200911I.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdf_2008/WM_08_paperSAPIERRCMcC.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdf_2006_7/05_Braunschweig_11_2007%20.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdf_2006_7/B-EurUP-March%202006.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdf_2006_7/D-Bulletin%20of%20Atomic%20Scientists%20publication-in%20Press.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdf_2006_7/02-Las%20Vegas%20IHLRWM,%20Apr30-May4-2006.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdf2005/ICEM-1329-Stefula-McCombie.pdf

 http://www.arius-world.org/pages/pdf2005/IAEA_Safety_Conference-Tokyo-October.pdf

http://www.arius-world.org/pages/pdfs_pub/Dubrovnik%202004%20SAPIERR.pdf

http://www.sapierr.net/

http://www.earth-prints.org/bitstream/2122/1142/1/Amorino-Quattrocchi.pdf


http://sulatestagiannilannes.blogspot.it/2014/04/leuropea-ha-decretato-che-litalia-avra.html

sabato 18 febbraio 2017

La carne che costa poco ha un prezzo altissimo per animali e lavoratori - Stefano Liberti

È il grande rimosso del nostro tempo. Gli allevamenti intensivi – i capannoni dove gli animali sono rinchiusi, fatti ingrassare, trattati con antibiotici per evitare che si ammalino, infine inviati alla macellazione – sono qualcosa che nessuno vuole vedere. Paradossalmente, mentre cresce il consumo di carne al livello globale, aumenta la distanza fisica e anche cognitiva tra noi esseri umani e gli animali di cui ci nutriamo.
Eppure, quella animale dovrebbe essere una delle questioni più dibattute del mondo contemporaneo, con le sue enormi implicazioni morali, ma anche ambientali ed energetiche. Oggi, nel mondo due animali su tre sono allevati in questo modo. Il sistema non è sostenibile: le bestie rinchiuse nei capannoni devono essere nutrite. Milioni di ettari di terreno servono alla produzione di cereali e legumi per i mangimi, e sono sottratti alla coltivazione per l’alimentazione umana. Secondo le stime di Tony Weis, professore all’università di Western Ontario, il meccanismo allevamenti-colture per la produzione di mangimi occupa oggi un terzo delle terre arabili.
L’allevamento intensivo è nato nel 1923 negli Stati Uniti quasi per caso: la signora Celia Steele, di Oceanview (Delaware), ricevette per errore 500 pulcini invece dei 50 che aveva ordinato. Non volendo disfarsene, pensò di chiuderli in un capannone, li nutrì con mais e integratori e gli animali resistettero all’inverno. Replicò l’operazione e diventò milionaria. Negli anni settanta un agricoltore del North Carolina, Wendell Murphy, applicò il metodo di Steele ai maiali. Seguirono le mucche, i conigli, i tacchini. Negli Stati Uniti, ci sono circa 70 milioni di maiali rinchiusi nei capannoni.
E in Italia? Secondo le cifre dell’anagrafe zootecnica italiana, sono otto milioni, l’80 per cento dei quali ripartiti tra Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Nella sola provincia di Brescia ci sono 1.286.418 suini, circa ventimila più dei residenti. Nessuno li vede, perché nessuno li vuole vedere.

L’indagine dell’associazione Essere animali è la più completa mai condotta in Italia. Si tratta di un lavoro clandestino, fatto di appostamenti, di accessi notturni, di inviati sotto copertura. Le immagini che ne sono scaturite, di cui presentiamo qui una selezione, sono inquietanti. I maiali sono ammassati in spazi minuscoli, le scrofe sono imprigionate nelle cosiddette gabbie di gestazione, che gli impediscono ogni movimento. I polli “allevati a terra” (come si legge sulle etichette delle uova) vivono in capannoni sovraffollati privi di contatto con l’esterno. Gli uccelli non riescono a stare in piedi sulle proprie zampe perché sono letteralmente “gonfiati” con mangimi e ormoni. Tutto ciò non è un’eccezione, ma la prassi. Ed è una prassi del tutto legale.
Lontani di riflettori, questi animali risultano invisibili. Sono pura e semplice materia prima. Ma anche coloro che lavorano in questi capannoni sono invisibili: la grande maggioranza della manodopera negli allevamenti intensivi è costituita da immigrati, per lo più indiani, sottoposti a turni massacranti e a mansioni che molti di noi non accetterebbero. Questo è il sistema di sfruttamento e di sofferenza alla base della produzione intensiva di carne. Quel sistema che l’industria non vuole mostrare, ma che noi fingiamo di ignorare, felici di ottenere carne a basso costo il più spesso possibile.

venerdì 17 febbraio 2017

Eatkarus



Uscire dal labirinto della cattiva alimentazione che porta al sovrappeso e all'obesità si può. Gli sforzi da fare sono tanti spesso con pochi buoni modelli da seguire, ma poi sono ripagati dal raggiungimento degli obiettivi. Come quello di riuscire a fare cosa che prima erano impossibili. Ad esempio, in senso metaforico, volare. Perché ci si sente più leggeri, non più appesantiti da zavorre che spesso non sono soltanto fisiche. È questo il messaggio che arriva da un'emozionante video della catena di supermercati tedesca Edeka, famosa per i suoi spot creativi, che ha raggiunto la cifra record di oltre due milioni di visualizzazioni in pochissimi giorni (appena tre) su Youtube. Il video, che si chiama 'Eatkarus' e sposa la parola 'eat' (mangiare), con 'Karus', il mito di Icaro che insieme al padre Dedalo costruì delle ali per uscire da un labirinto, racconta la storia di un bambino, inserito in un contesto di persone obese in cui è ricompresa anche la sua famiglia, che ha il coraggio di cambiare. Molti sono gli sforzi richiesti, affrontati tra lo scetticismo e la derisione: lo si vede provare a volare, con tutto il suo peso, aggrappato a dei palloncini, nel tentativo di provare a imitare un uccellino che ha visto dalla finestra, o arrancare sulla neve per arrivare in cima a una montagna da cui provare a lanciarsi con delle ali. Fino a quando non cambia qualcosa: inizia a mangiare diversamente, comprende che la chiave per stare bene e perdere peso è una sana alimentazione. Dimagrisce, si libera, e finalmente può volare con le sue ali fatte di carta. Lo slogan dello spot e': "Mangia come ciò che vuoi essere". "È un video che scatena una reazione positiva, è delicato, dolce e non accusatorio - spiega Marina Biglia, presidente di Amici Obesi Onlus (www.amiciobesi.it) - parla di leggerezza. Di qualcuno che si è alleggerito anche attraverso l'alimentazione, si è liberato". "Evidenzia che l'obesità è una malattia curabile - conclude Briglia - offre una speranza".

Ma quale celiachia – Chiamatela Roundup


  
SONO ALMENO 12 MILA ANNI CHE L’UMANITA’ MEDITERRANEA SI NUTRE DI FRUMENTO SENZA PROBLEMI. E di colpo, ecco sorgere la “intolleranza al glutine”, con relativo ipersviluppo degli affari relativi a questa “malattia”: paste senza glutine a 5 volte il prezzo delle normali, prodotti bio dove l’etichetta dichiara “senza glutine”, cibi spesso a carico del servizio sanitario nazionale… Il glutine è un veleno? Si deve sospettare del grano geneticamente modificato? Per una volta no. Anche se c’entra il Roundup, il diserbante della Monsanto, specifiamente concepito dalla multinazionale per essere usato in abbondanza coi suoi semi geneticamente modificati (modificati appunto per resistere al diserbante, che uccide tutte le erbacce) .
Come ha scoperto la dottoressa Stephanie Seneff, ricercatrice senior al Massachusetts Institute of Technology (MIT), da una quindicina d’anni gli agricoltori americani, nelle loro vastissime estensioni, hanno preso l’abitudine di irrorarle di Roundup immediatamente prima della mietitura.In questo caso, approfittano delle qualità disseccanti del prodotto, con il suo agente attivo, glisofato. Hanno scoperto che, spargendo tonnellate di glisofato, la resa per ettaro aumenta. Perché? Perchè, prova a spiegare la Seneff, “le brattee protettive si frantumano, la spiga muore, e con l’ultimo sospiro, rilascia i chicchi” che altrimenti resterebbero attaccati nel resti della spiga ancor umida. L’aumento di resa non è enorme, ma è importante per coltivatori stra-indebitati con le banche. Inoltre, il disseccamento facilita la battitura condotta coi giganteschi macchinari industriali (spesso affittati, quindi se li si può usare per meno giorni, si risparmia) e consente di anticipare l’operazione di mietitura. “Un campo di grano matura di solito in modo ineguale; una irrorata di Roundup consente di disseccare ugualmente le zone ancor verdi e quelle già gialle, e procedere alla mietitura nello stesso tempo”, ha spiegato un coltivatore di nome Keith Lewis. E’ dunque l’estrema manifestazione della industrializzazione totale dell’agricoltura americana, nel quadro della violenza generale sulla natura (hanno abolito la rotazione agricola, coltivano sempre le stesse colture da denaro sullo strssso campo, compensando l’impoverimento del terreno con tonnellate di fertilizzanti chimici), hubrys che resterà sempre come lo stigma dell’americanismo quando avrà condotto all’estinzione di questa civiltà. Lo stesso ministero americano dell’agricoltura ha reso noto che, dal 2012, il 99% del grano duro, il 97% del frumento prinaverile, e il 61 % di quello invernale subisce il trattamento al glisofato: il che costituisce un aumento dell’88% per il grano duro, e del 91% per il primaverile rispetto a quanto si faceva nel 1998.

PICCOLO PARTICOLARE L’IMDUSTRIA DELLA BIRRA NON ACCETTA L’ORZO DA TRASFORMARE IN MALTO SE IRRORATO DI ROUNDUP i piselli e le lenticchie, se irrorate, non hanno parimenti mercato. Invece il grano si può vendere, e dar da mangiare agli esseri umani, oltre che agli animali allevati per la carne e il latte. Che esista una relazione diretta fra il consumo di grano così trattato e la misteriosa “intolleranza al glutine” non è dubbio. E’ stato comprovato da uno studio della dottoressa Senef e del suo collega Anthony Samsel, pubblicato già nel 2013 sulla rivista “Interdisciplinary Toxicology”. Chi è interessato può trovare i particolari (molto allarmanti) dell’interferenza patologica del glisofato nei processi di malassorbilento di minerali, inibizione dei citocromi, nella distruzione dei bio-batteri intestinali e persino nella sintesi della serotonina, senza dire che la celiachia quadruplica il rischio di cancro.




A NOI PROFANI BASTERA’ QUESTA TABELLA DEL TUTTO ELOQUENTE. Ora, è noto che quando in Sicilia il frumento è vicino al raccolto, arrivano nei nostri porti navi granarie delle sei “sorelle”, le multinazionali oligopoliste globali del grani, con i loro carihi: a prezzi stracciati. E’ grano americano, canadese, australiano – probabilmente conservato da più stagioni in quelle navi, dove controlli occasionali hanno rivelato grumi di muffa. Il mistero è come mai queste navi non vengano sistematicamente sottoposte ai controlli dei NAS e della Finanza, per procedere al sequestro, alla distruzione delle granaglie tossiche o muffite. Ciò che farebbe bene alla salute dei celiaci, e punirebbe il trasparente dumping che danneggia i nostri produttori. Il video-giornalista francese (origine portoghese) Paul Moreira ha completato un reportage esplosivo sulle coltivazioni Ogm (e il conseguente spargimento dell’erbicida Roundup) nelle pianure argentine, dove ormai la coltivazione di soya e mais sono tutte geneticamente modificate. “mi ha messo sull’avviso – racconta – un lancio della Asociated Press che segnalava che un numero crescente di bambini nelle zone agricole argentine nasceva malformato. Sul posto, telecamera a spalla, ho trovato cose indicibili. Si continua a ripetere che la cultura estensiva di OGM non presenta rischi per gli uomini? Ma non si dice che il Roundup e simili erbicidi sono sempre meno efficaci, e quindi gli agricoltori ne raddoppiano, o triplicano, la disseminazione per continuare a produrre le stesse quantità di mais e soia. Le sostanze restano duravolmente nelle falde freatiche.

IN UN VILLAGGIO DI VENTICINQUE CASE NEL MEZZO DELLA PAMPA HO VISTO 5 CASI DI BAMBINI DEFORMI E MALATI. Non ho avuto il coraggio di mostrarli tutti, ho ripreso le immmagini della bambina relativamente più bella che abbraccia la mamma. In queste famiglie nascondono i loro bambini, se ne vergognano come fosse colpa loro. Le autorità hanno cercato di dire che si tratta dei frutti di unioni fra consanguinei, poi hanno ammesso – davanti alla mia telecamera – la vera causa. Il gironalista ha prodotto il documentario *Bientôt dans votre assiette (de gré ou de force)” (presto nei vostri piatti, che lo vogliate o no) visibile su youtube. Anche la dottoressa Seneff ha segnalato l’abnorme comparsa di neonati malformati nello stato di Washington , 20 casi negli ultimi tre anni. “Hanno cercato le cause, hanno pesnato a tutto, tranne al glifosato. Non ci hanno pensato, ritenendolko innocuo. Ma ne gettano a tonnellate, e v finisce nei corsi d’acqua. Ci sono studi pubblicati che il glifosato causa l’anencefalia nelle rane (rane nascono senza cervello, ndr.): c’è una chiara connessione, e io ho anche appurato il motivo. Il glisofato blocca la degradazione naturale della’cido retinoico, che si accumula nel feto e è notoriamente la causa dell’anencefalia. …inoltre interrompe gli enzimi citocromo p450, che si accumulano nel fegato… è l’enzima che decompone l’acido retinoico”.
La speranza, conclude la dottoressa, “viene da Cina e Russia. La Russia ha preso una posizione fortissima contro gli Ogm. Putin ha detto: mangiate puro i vostri Ogm, noi non li vogliamo. E vengo adesso da una conferenza a Pechino organizzata dal professor Gu: ha raccolto tutti gli scienziati che hanno compiuto studi su Ogm e Roundup, ed hanno suonato l’allarme; Don Huber, Mae-Wan Ho, Jeffrey Smith, Judy Carman dall’Australia….i cinesi hanno visto che, in rapporto diretto con l’aumento della importazione di soya Ogm al Roundup, sono cresciuti infertilità, autismo, Parkinson. I cinesi possono fare la differenza, se cominciano a rifiutare le importazioni”.

mercoledì 15 febbraio 2017

La ricerca sul cancro è sotto attacco negli Stati Uniti - Marina Forti*



L’apparenza è quella di una disputa scientifica, ma a ben vedere ha risvolti molto politici. Nella prima settimana dell’era di Donald Trump un’organizzazione scientifica degli Stati uniti, l’American chemistry council (Consiglio americano della chimica) ha lanciato una campagna contro una delle istituzioni scientifiche affiliate all’Organizzazione mondiale della sanità. Si tratta dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, Iarc nell’acronimo in inglese.
Ed è un attacco senza mezzi termini. “Le monografie della Iarc sono responsabili di infinite notizie fuorvianti circa la sicurezza del cibo che mangiamo, i lavori che facciamo e i prodotti che usiamo nelle nostre vite quotidiane”, ha dichiarato il presidente dell’associazione statunitense, Cal Dooley, in un comunicato. Una delle attività della Iarc, che ha sede a Lione in Francia, è infatti quella di identificare le sostanze che possono provocare il cancro negli esseri umani: composti chimici, farmaci, sostanze con cui veniamo in contatto nella quotidianità o nella vita professionale o per stile di vita.
Per farlo, l’agenzia ha sviluppato un metodo fondato sulla revisione sistematica delle informazioni disponibili nella letteratura scientifica internazionale: quindi le sue valutazioni si basano su un bacino estremamente ampio di dati e studi, rivisti e valutati da un “gruppo di lavoro” e discusse in seminari interni.
Guardare chi è chi
Così, quando la Iarc pubblica una monografia su una certa sostanza, è l’esito di studi e revisioni durati mesi se non anni. E negli ultimi quarant’anni la Iarc ha individuato un migliaio di sostanze classificabili come “probabili” o “possibili” agenti cancerogeni. Ora però l’associazione statunitense accusa l’Agenzia internazionale di “persistenti deficienze scientifiche che provocano confusione e decisioni politiche male informate”.
Di fronte ad accuse così gravi è sempre utile guardare chi è chi. L’American chemistry council è un’organizzazione finanziata dall’industria chimica statunitense. E la sua campagna ha tra l’altro un obiettivo preciso, che si chiama glifosato, un erbicida tra i più diffusi sul mercato, brevettato negli anni settanta dalla multinazionale statunitense Monsanto. Due anni fa la Iarc ha catalogato il glifosato come sostanza “potenzialmente carcinogena”, cosa che in teoria dovrebbe portare a vietarne o almeno limitarne la vendita e l’uso. Per il momento l’ente europeo per la sicurezza del cibo (European food safety authority) si è limitato a raccomandare ai paesi membri di limitare l’uso del glifosato (per esempio, nel verde pubblico, giardini, scuole, campi sportivi), e l’Italia è per ora il solo paese dove il governo ha accolto la raccomandazione e decretato limiti molto stretti all’uso di glifosato.
Una decisione europea però incombe, anche perché nel 2012 è scaduta l’autorizzazione al glifosato e ora si procede per proroghe successive (l’ultima scadrà alla fine di quest’anno). L’ente europeo aspetta tuttavia che l’Agenzia europea per la chimica completi il suo studio sull’impatto del glifosato sulla salute umana e sull’ambiente.
Dunque c’è una divergenza nelle valutazioni dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro e dell’ente europeo, su cui si è acceso un dibattito in ambito scientifico che ha coinvolto studiosi ed epidemiologi (per esempio in commenti come questo). La posta in gioco sarà un mercato multimiliardario, considerato che il glifosato è presente in circa 750 prodotti per l’agricoltura e per il giardinaggio. Un ampio fronte di organizzazioni ambientaliste e per la salute ha lanciato una raccolta di firme per chiedere che l’Unione europea metta al bando il glifosato.
Questo però significa anche che la campagna dell’American chemistry council non è poi così innocente. L’associazione statunitense ha addirittura lanciato un sito web per attaccare la Iarc (in cui riprende tra l’altro dichiarazioni del capo dell’ente europeo per la sicurezza del cibo, Bernhard Url, il quale in un’audizione al parlamento europeo, alla fine del 2015 aveva accusato l’Agenzia di Lione di fare “una scienza da facebook” – anche allora a proposito del glifosato). L’associazione americana chiede che gli Stati Uniti, principali finanziatori della Iarc, taglino i loro fondi.
La Iarc ha risposto accusando l’industria chimica di usate una tattica simile a quella usata dall’industria del tabacco. Vale la pena di ricordare che tra gli sponsor dell’American chemistry council si contano Bayer, DuPont e Monsanto, le maggiori aziende chimiche mondiali. Come “scienza di parte” non c’è male.
(*) Ripreso dalla rivista «Internazionale». Marina Forti ha un suo blog: www.terraterraonline.org/blog/ovvero «Terra Terra – cronache da un pianeta in bilico». (db)