I miserabili
Ogni tanto penso a quanto debba essere triste e povera
la vita di chi non si sa relazionare con gli altri animali. Di chi non riesce
nemmeno a vederli, gli altri animali, se non attraverso le lenti offuscanti del
pregiudizio e dello specismo.
La maggior parte delle persone che incontra un gatto,
o un cane, dice: "toh, un gatto", oppure "toh, un cane".
Pensa cioè di aver incontrato un rappresentante di quella specie e che uno
valga l'altro poiché tutti hanno gli stessi identici comportamenti di specie e
se poi qualcuno fa qualcosa di particolare allora si è subito pronti a bollarla
con l'etichetta di "istinto".
Invece, al di là delle caratteristiche di specie
condivise - che abbiamo anche noi, in quanto animali, giacché, al di là delle
differenze, tutti noi homo sapiens in certi contesti ci comportiamo più o meno
alla stessa maniera e di certo non possiamo fare cose che non sono contemplate
nella nostra etologia - ogni animale è un individuo singolo dotato di un
proprio carattere e dall'incontro con ciascuno ne deriva una particolare e
unica relazione.
Abitare il mondo convinti che gli altri esseri viventi
siano solo parte indistinta della natura a fare da sfondo alle nostre gesta -
le uniche che valgano! - è davvero miope. E tutto ciò mi mette una tristezza
infinita, mi fa sentire scoraggiata e amareggiata.
Ci vantiamo di essere una specie superiore perché
abbiamo sete di conoscenza e curiosità, eppure quando incontriamo gli altri
animali li liquidiamo con sufficienza e persino disprezzo.
Per non parlare di quello che facciamo agli animali
che vengono definiti "da reddito". Oppressi, violentati, trasformati
in prodotti alimentari o indumenti di vestiario.
Spazzare via il mondo interiore di miliardi di
individui, riducendoli a oggetti, non è solo criminale, è proprio miserevole,
ossia ci rende una specie ottusa, stupida, arida, cinica, miope. Siamo dei
miserabili!
È più vasto l'orizzonte di un cucciolo di bovino che
si affaccia al mondo - per quanto gli venga brutalmente limitato da una gabbia
- che quello di un umano che in esso è capace di vedere solo "carne
bianca".
Rimozione come difesa
Ieri durante il presidio NOmattatoio è passato un
camion di cavalli. Non siamo riusciti a riprenderlo perché il semaforo era
verde e andava troppo veloce.
Ho fatto in tempo però a incrociare gli sguardi di
quelle creature - le criniere mosse dal vento, l'espressione di paura e ansia -
prima che il camion girasse a destra per entrare al mattatoio.
Ancora una volta ho pensato che persino noi che siamo
lì, consapevoli dello sterminio di miliardi di animali in atto in ogni parte
del globo, comunque sia mettiamo costantemente in atto una rimozione di quello
che realmente accade. La rimozione è la nostra salvezza altrimenti saremmo
annientati dal dolore e dalla disperazione e non avremmo più energie per
agire.
La mia speranza è che anche tutti coloro che
continuano a mangiare gli animali lo facciano non per cattiveria, sadismo, o
indifferenza, ma per non venire annientati dalla consapevolezza di quanto
accade agli altri animali con il sostegno delle proprie scelte.
Una volta lo disse anche Melanie Joy: le persone amano
gli animali (basti pensare a come essi siano presenti nello nostre vite sin da
quando siamo bambini: li abbiamo avuti nei nostri giochi, sulla carta da parati
delle nostre camerette, sui vestitini) e se sono indifferenti al loro sterminio
è proprio perché prenderne veramente atto provocherebbe troppo dolore e
costringerebbe a fare delle scelte che vengono percepite come difficili e
problematiche (come quella di diventare vegan).
Per noi non è stato difficile fare una scelta coerente
con il nostro sentire, ma per molti lo è perché c'è ignoranza, disinformazione,
pregiudizi e perché l'industria della carne, del latte, delle uova, del pellame
e quella farmaceutica remano contro il sorgere di questa consapevolezza e
accrescono la rimozione, negazione e dissociazione.
Anche il considerare gli altri animali come oggetti, o
comunque individui inferiori fa parte di questo pacchetto che è il suddetto
meccanismo di rimozione, negazione e giustificazione.
Questa mia riflessione (peraltro nulla di nuovo, sono cose che ho già detto tante volte) non è una giustificazione, ma un tentativo di spiegazione del perché vengano commessi crimini tanto atroci con la complicità di tutti.
Questa mia riflessione (peraltro nulla di nuovo, sono cose che ho già detto tante volte) non è una giustificazione, ma un tentativo di spiegazione del perché vengano commessi crimini tanto atroci con la complicità di tutti.
La pericolosità di una società folle
che produce individui dissociati
In occasione della presentazione della campagna
NOmattatoio a Parma Etica, ho avuto il piacere di conoscere il Prof. Maurizio
Corsini, psichiatra, psicoanalista e presidente dell’associazione Diritti degli
Animali. Ha introdotto e commentato la nostra conferenza, poi partecipato con
interventi molto interessanti al dibattito che ne è seguito (il video integrale
si può vedere sulla pagina NOmattatoio).
Mi ha colpito molto una sua affermazione riguardo la
sofferenza degli animali con cui noi attivisti siamo costantemente a contatto
(anche solo con il pensiero; più spesso per la capacità che abbiamo acquisito
di vedere la realtà oltre le lenti del carnismo e dello specismo e quindi nelle
sue varie e molteplici manifestazioni di dominio e violenza sugli altri
animali) e che si traduce in sofferenza anche nostra personale. L’empatia è
infatti quel processo che ci permette di immedesimarci nel dolore altrui
facendoci immedesimare nella condizione e stato fisico e psicologico dell'altro,
dopo averlo riconosciuto come individuo a prescindere dalla specie o etnia di
appartenenza. Questo attributo, l’empatia, è fondamentale per relazionarsi in
maniera sana con gli altri, altrimenti si rimane chiusi nel proprio mondo
egotico in cui si continua a credere che tutto ciò che ci circonda esista per
soddisfare i nostri capricci (mondo del bambino nella prima fase della sua
vita, infatti).
Purtroppo nella società del dominio e sopraffazione
dell’altro per interessi economici ci fa comodo negare agli altri (che siano
animali non umani o umani appartenenti a diverse etnie) la nostra stessa
capacità di sentire il dolore o di esperire la realtà in maniera altrettanto
ricca e complessa: passaggio che apre la strada a ogni tipo di barbarie e che
legittima abusi, sfruttamento e uccisioni di massa.
Vivere senza empatia è fondamentalmente pericoloso
perché impedisce proprio di riconoscere l’altro come individuo e conduce a una
desensibilizzazione progressiva che può partire sì dalla negazione degli altri
animali in quanto individui in grado di soffrire, ma può arrivare anche a
legittimare la violenza sui nostri stessi simili umani.
Certo, essere sani dal punto di vista dell’empatia,
ossia essere persone integre dal punto di cognitivo (ed è patologico lo stato
dissociato, al contrario di cosa sostengono coloro che ci tacciano di essere
patosensibili) ci crea enorme disagio e dolore, diceva il professore, ma è
sempre meglio che avere una mente dissociata che non è in grado di ricondurre
le informazioni al soggetto che ci troviamo di fronte nella sua integrità, per
cui, come scrive anche Annamaria Manzoni nel suo Abbiamo un sogno,
da una parte si indica al bambino l’animale carino che si vede in un prato,
dall’altra gli si offre il prosciutto nel piatto (con tutte le implicazioni e
associazioni affettive che ne derivano) senza che questo – il risultato finale
di una catena di sfruttamento e smontaggio – risulti più riconducibile
all’individuo vivo che è stato. Del resto è quel che fa il sociopatico, ossia
scinde le persone in strumenti utili al suo soddisfacimento, le reifica, le
considera oggetti, non individui. Ed è ciò che la nostra società fa nei confronti
degli altri animali. In poche parole, viviamo in una società sociopatica in cui
la dissociazione cognitiva conduce alla negazione della realtà per come
effettivamente si dispiega davanti ai nostri occhi, per poi adattarla, ossia
trasformarla nella propria personalissima visione (che è quella sostenuta dalla
società del dominio) al fine di giustificare quello che vien fatto passare come
normale, ossia la violenza istituzionalizzata nei confronti degli animali.
Sempre la Manzoni, come anche il Prof. Corsini, mettono in guardia dai pericoli
di una mente così dissociata e frantumata (ammalatasi a causa della società in
cui siamo cresciuti), in quanto chi non è capace di riconoscere la violenza che
è alla base dell’industria della carne e sottesa a quella che Melanie Joy
chiama l’ideologia carnista, facilmente sarà una persona incapace di
riconoscere la violenza in generale o quanto meno sarà più incline a un
processo di desensibilizzazione graduale. E infatti, ancora Annamaria Manzoni,
in un altro suo libro dal titolo Sulla Cattiva strada, mette in
guardia dal legame che c’è tra violenza sugli animali e violenza sulle persone.
Il fatto è che distinguere tra una violenza cosiddetta
necessaria, che è ciò che fa chi sostiene l’industria della carne, quindi gli
allevamenti (che sono sempre una forma di dominio sui corpi altrui) e i
mattatoi e una violenza da condannare (quella sui membri appartenenti alla
nostra stessa specie) porta a delle conseguenze davvero gravi perché una
società in cui si permette il perpetrarsi di forme di violenza legittimate e
istituzionalizzate, rimane comunque una società con delle sacche di violenza
che finiscono per contaminare la società stessa. Quando si agisce la violenza,
in qualsiasi forma, che sia legalizzata o meno, come si fa a capire dove sia il
limite? Se è consentito sventrare un vitello, perché non anche prenderlo a
calci? E perché non un cane? E perché allora non anche un bambino o una donna?
E infatti tutte le forme di violenza cosiddette aggiuntive che vediamo avvenire
all'interno di allevamenti e mattatoi, in realtà sono la norma perché e proprio
perché è difficile aprire un rubinetto e poi decidere quando chiuderlo.
Non è possibile permettere di prendere a calci,
sgozzare e fare a pezzi individui senzienti oppure torturarli per la ricerca
medica – seppure in ambienti specifici – e pensare che la violenza di queste
pratiche non abbia poi delle ripercussioni sul tessuto sociale stesso e sugli
individui che ne fanno parte.
Un macellaio che per anni e per tutto il giorno è costretto
a stare in mezzo al sangue che scorre e a maneggiare coltelli e quant’altro,
non può che essere progressivamente desensibilizzato o comunque subirà un
processo di rimozione e adattamento della psiche per poter continuare a
svolgere il suo lavoro, convincendosi che chi ha tra le mani non sia un
individuo capace di sentire, che quelle urla non siano davvero urla, ma solo
stridii meccanici (come sosteneva il buon Cartesio) e che, tutto sommato, non
ci sia nulla di male nel suo lavoro, essendo oltretutto legalizzato.
La stessa tesi della violenza dilagante di colui che
la percepisce come normale all’interno di un dato contesto è sostenuta nel
romanzo della scrittrice argentina Ana Paula Maia, dal titolo Di Uomini
e Bestie. Qui il protagonista, che è un macellaio, almeno è consapevole di
uccidere individui senzienti e non cerca un'autoassoluzione sociale.
Purtuttavia, non esita a uccidere, con la stessa metodica precisione e
velocità, un suo collega di lavoro. In fondo, perché mai chi taglia una gola
per mille volte al giorno non dovrebbe far suo quel gesto di estrema violenza e
non dovrebbe essere pronto a ripeterlo, quasi automaticamente, all’occorrenza?
Attenzione, non sto dicendo che tutti i macellai siano
degli assassini di umani in potenza (di animali non umani lo sono senz’altro!);
il più delle volte si tratta di persone poverissime che provengono da altri
paesi e che accettano quel tipo di lavoro perché altrimenti sarebbero rimandati
indietro e che nemmeno si rendono conto di esser parte di un ingranaggio
sociale che, seppure su diversi lavelli, stritola anche loro stessi e li piega
al giogo del dominio sui più deboli.
Sto dicendo che una società che consente pratiche di
violenza inenarrabili è una società malata e che da un corpo malato non possono
che generarsi atti e pensieri malati.
Quindi, come ho già sostenuto tante altre volte, la
questione dello sfruttamento sugli animali è un problema gravissimo che non
riguarda solo noi cosiddetti animalisti, ma la società nel suo complesso.
Ci lamentiamo dell’indifferenza che avvelena le nostre
esistenze, ci scandalizziamo se una persona chiede aiuto per strada perché sta
per essere uccisa e nessuno si ferma, ma non riflettiamo mai abbastanza sulle
pratiche di violenza normalizzata – e per questo ancor più subdola – che
accettiamo senza farci due domande e siamo subito pronti a tacciare per
pato-sensibili gli animalisti.
Non è una questione di preferire gli animali non umani
agli umani, ma di risvegliare in noi quell’attributo importantissimo che è
l’empatia e che ci permette di non voltarci dall’altra parte di fronte a ogni
tipo di abuso e violenza sul vivente, a prescindere se abbia due zampe o due
ali o delle pinne.
E, come ha detto il Professor Corsini, non siamo noi a
essere patosensibili, è il resto della società a essere folle.
Come altrimenti chiamare la pratica di condannare alla
schiavitù e morte prematura miliardi di individui – dopo una non-vita infernale
– quando non è necessario? Follia. Una follia da cui, per fortuna, si può
guarire.
Come? Beh, intando smettendo di considerare il
problema della violenza sugli altri animali come un qualcosa che riguardi solo
noi attivisti, ma riconoscerlo come un enorme problema di ingiustizia sociale.