Navarro, California – Tute da
ginnastica, infradito, scarpe da tennis, molti piedi nudi. La prima lezione di
yoga è all’alba. In prima fila c’è un tizio coi pantaloncini corti, piuttosto
maldestro, che si allunga i muscoli su un tappetino in silicone. Mi chiedo,
goffaggine a parte, chi possa essere: il Ceo di una startup della Silicon
Valley, o forse un insegnante di Stanford. Certamente qualcuno che è convinto
di passare troppo tempo davanti a uno schermo. E che, di conseguenza, è venuto
qui per disintossicarsi. Come tutti gli altri, rigorosamente in incognito.
Sono circa trecento i
“campeggiatori” che trascorrono le vacanze qui aCamp
Grounded, una specie
di bootcamp per la “disintossicazione
digitale”: mente e cuore si liberano dal morbo della tecnologia per
«tornare individui», spiegano da Digital Detox, l’organizzazione terapeutica
nata a un’ora della Silicon Valley per tamponare la “tossicodipendenza
digitale”. Il programma prevede tre giorni di immersione nella natura, senza
connessioni: «Ricordiamo come si torna liberi, insegniamo a diventare di nuovo
ragazzi».
I partecipanti vengono
perquisiti all’ingresso: no computer portatili, no Ipad, niente social network.
Messi in riga come militari, a rispondere a regole e superiori. Un po’ fa Full Metal Jacket, un po’ Moonrise Kingdom.Anche il proprio nome va
abbandonato prima di abbracciare la natura, in un villaggio nella foresta di
Mendocino attraversata da filari di vigneti e dove la Rete non arriva (e
persino Google Maps fa fatica a rintracciare la strada).
Alcuni consigli: è gradito
portare la propria tenda sa casa e i dormitori sono divisi, donne e uomini (con
una clausola: «Se però volete sgattaiolare nel reparto altrui, non è un
problema», è scritto sul regolamento). Solo su un punto, non c’è
morbidezza: «Siamo chiari. Questa non è una conferenza, un evento per
creare net-working. Una opportunità per incontrare un contatto giusto per la vostra
carriera». A disposizione per le presentazioni, un qualsiasi pseudonimo. C’è un
tizio che si fa chiamare “Maniglie dell’amore”, un altro “Campo di grano”.
Il cervello inizia a dare
segni di astinenza a partire dal secondo giorno: quando il divieto di immortalare
le sequoie che fanno ombra alle tende su Instagram diventa un’inquietudine
(sento una scout che sospira: «ma quanto diventerebbe “popular” questa scena
tra i miei contatti?»).
I campeggiatori hanno
facce paonazze dal sole, dal movimento. Pallavolo, tiro con l‘arco. Laboratori
di pelletteria, panificazione. Lezioni di respirazione. Tra i volontari c’è un
professionista delle coccole, che
abbraccia i più bisognosi (il soprannome al villaggio è Topless, nella vita,
specifica, «non indossa una camicia da almeno sei anni»). Il cibo è
rigorosamente vegano. Il messaggio che vogliono
mandare, suppongo, è questo: davanti
allo schermo si consuma cibo-spazzatura, disintossicati pure da questo. Il sabato sera a cena è di
regola il silenzio. Così si può «riascoltare i sapori», concentrandosi soltanto
sulle papille, «e godendo di quel che si mangia».
Tra le più gettonate nel
villaggio Grounded: guardare le stelle È un rehab, ma ha qualcosa di romantico.
Ovunque cartelli No phone zone e sveglie senza lancette con una
scritta sul vetro: Now. Per tutta la durata del
campo non c’è modo di sapere che ore siano.
Levi Felix ha fondato
Digital Detox dopo essere finito in ospedale. Per troppo Internet, sostiene: «A
farmi ammalare è stato il distaccamento dalla realtà», racconta prima di
chiudere il terzo campo Scout e aprire la sessione invernale di incontri battezzati
con lo slogan “disconnettersi per riconnettersi”. Nel cuore del suo rehab sono
arrivati da tutta America, e da grandi compagnie (Google, Oracle, Airbnb,
Facebook): «Ho avuto una carriera promettente, fino a quando mi sono trasferito
a Los Angeles e sono stato promosso vicepresidente di Causecast.org, una
piattaforma “sociale”: organizzavo campagne sui social media, eventi di
beneficenza, produzione di cortometraggi. Tutto perfetto, fino al giorno in cui
mi sono trovato in terapia intensiva per una emorragia».
«Un colpo di fortuna, o di
sfortuna», commenta Felix. «Sono uscito dalla clinica, ho lasciato il mio
lavoro, ho fatto un viaggio intorno al mondo e poi su una isola in Cambogia ho
scritto il progetto di un campo di disintossicazione, e l’ho creato».
Erin Freeny ha trent’anni,
il suo soprannome al Campo è Petit Gavroche: «Il mio personaggio preferito nei Miserabili di Hugo», dice. Vive a San Francisco e
cura la sezione Social Media di una scuola di lingua per stranieri. Ha comprato
i biglietti per Camp Grounded in dieci minuti, «un’amica mi ha mandato il link
dell’evento per ironizzare sull’ultima follia del momento: un campo di
disintossicazione digitale. Lei rideva per come gli hipster stessero sprecando
i propri soldi. Io invece ho trovato l’idea geniale, ho preso il mio pass al
Summer Camp, e ci sono andata».
Erin non è mai stata una
campeggiatrice e mai ha avuto la chance, adolescente, di passare l’estate in un
villaggio scout. Da adulta e in mezzo ad adulti sconosciuti, stressati dal
lavoro e della vita, ha ritrovato energia: «Non è stato soltanto la fuga della
tecnologia ad arricchirmi ma la possibilità di giocare, di essere leggera,
sciocca. Camminare nella natura. Conoscere nuove persone senza preoccuparmi
dell’aspetto “professionale” di chi avevo davanti». Tutti adulti, tutti
professionisti, un po’ di pazzia: «Ci siamo spinti emozionalmente dove l’uomo
non sa spingersi più. Una grande esperienza, da uomini, senza stereotipi».
Dopo l’esperienza a Camp
Grounded, qualcuno ha deciso di lasciare il lavoro. Altri hanno semplicemente
ridotto l’eccesso di check-in su Facebook.