venerdì 29 aprile 2016
Giuseppe Li Rosi in difesa del grano (no ogm)
(a Cagliari, nel novembre 2010, lo so perché ero nel pubblico)
qui un articolo interessante
inizia così:
TORNANO i grani antichi in Sicilia. Tornano a riempire i campi, ricostruiscono paesaggi, arricchiscono la biodiversità di un'agricoltura che da decenni ha ridotto a poche specie super selezionate il frumento dell'isola che fu uno dei granai dell'Impero romano. Ufficialmente sono solo 500 ettari, ma c'è chi parla di 3.000. I contadini che stanno passando al biologico e al recupero delle sementi locali crescono di anno in anno, si associano, mettono in piedi filiere alimentari e fanno cultura, oltre che coltura.
"Ho convertito 100 ettari dell'azienda familiare a grano locale" confessa Giuseppe Li Rosi, uno dei più convinti sostenitori del ritorno all'antico in agricoltura, "e sono il custode di tre varietà locali, Timilia, Maiorca e Strazzavisazz". I custodi seminano queste rarità botaniche, dedicando almeno 10 ettari a ogni coltura, si impegnano nella ricerca storica e a mantenere la purezza del seme. Li Rosi, contadino da generazioni, è anche il presidente dell'associazione Simenza, cumpagnia siciliana sementi contadine, che mette insieme settanta produttori "ma altri cento sono pronti a entrare", assicura Giuseppe. La sperimentazione, oltre alla conservazione, è all'ordine del giorno nella Cumpagnia: si coltivano campi anche con miscugli di sementi, un procedimento diametralmente opposto alla tecnica moderna, che ricerca l'uniformità, lo standard in nome della quantità...
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giovedì 28 aprile 2016
Cemento sulle coste, Regione choc: “Abbiamo sanato in maniera illegittima” - Pablo Sole
“Scusate, abbiamo scherzato. Dice l’ufficio legale della Regione che dobbiamo rispettare le norme,
perfino quelle nazionali. Pare quindi che non potessimo sanare, come
abbiamo regolarmente fatto finora, le centinaia di metri cubi di cemento che privati e società hanno riversato
sulle coste. Nemmanco facendo pagare le due lire di sanzione che abbiamo sempre
irrogato. Poi, dice sempre l’avvocatura regionale che avremmo dovuto chiedere
il parere vincolante della Sovrintendenza ai beni paesaggistici: ce ne siamo
scordati. Ma da oggi basta, si cambia: applicheremo le leggi”.
Ecco cosa vien fuori a tradurre
dal burocratese l’ordine di servizio (leggi) che
il 15 luglio 2015 Alessandro Pusceddu, direttore del Servizio tutela paesaggistica di Cagliari e Carbonia-Iglesias,
trasmette agli uffici. È un documentodirompente, un’ammissione di colpa che alza il velo su anni e anni di
abusi sanati senza colpo ferire. Da Carloforte a Muravera: tutto consentito. Sulle coste il cemento, nelle casse
della Regione qualche euro: fatti salvi un paio di casi, per l’ufficio tutela
del paesaggio le colate di cemento non hanno mai causato alcun danno (in
caso contrario: o sarebbero arrivate le ruspe, o il conto sarebbe stato
ben più salato) e quindi con pochi spiccioli il discorso è chiuso. Lo
testimonia il ‘prezziario’ applicato con grande benevolenza a chi,
aggrappandosi ai vari condoni e al buon cuore degli uffici regionali, ha
costruito in area vincolata di tutto un po’: piscine, immobili nuovi di pacca e
perfino capannoni industriali.
Il parere
dell’area legale citato da Pusceddu è del 27 marzo 2015 (leggi) ed
è stato secretato in
vista di potenziali contenziosi. Per due mesi non accade nulla: il
documento viene trasmesso agli uffici dal Dg della Pianificazione urbanisticaElisabetta Neroni solo il 13 maggio. Ma servono ancora sessanta giorni
perché in viale Trieste si accorgano dell’esistenza di quel documento, quando
Pusceddu firma appunto l’ordine di servizio e tra le altre cose scrive, quasi
fosse un principio sconosciuto caduto improvvisamente dal cielo: “Dalla lettura
del parere […] emerge che la Regione non può derogare alle norme procedimentali
stabilite dalla legislazione nazionale in materie di competenza esclusiva dello
Stato, quali il paesaggio”. Da qui, poche righe dopo, l’incredibile ammissione: “La procedura finora seguita dal Servizio si discosta da tali
principi”. Una brevissima frase dalla portata sconcertante,
anche perché Pusceddu è a capo del Servizio tutela da oltre quattro anni e
mezzo (nonostante il Piano anticorruzione della Regione consideri quella
posizione ad alto rischio e quindi imponga che il dirigente venga sostituito
ogni tre anni).
C’è poi un ulteriore elemento che
lascia esterrefatti: è dal 2006 che l’ufficio legale della Regione
tenta di far capire al Servizio tutela che sanare cubature e altri abusi
diversi dal semplice restauro conservativo nelle aree vincolate, è semplicemente illegittimo. Lo
scriveva appena dieci anni fa l’avvocato Graziano
Campus (leggi), citando non solo la Corte
Costituzionale ma anche diverse sentenza emesse l’anno prima dalla Corte
d’appello di Cagliari e l’ha ribadito nel
marzo dello scorso anno il direttore generale dell’area legale Sandra
Trincas: le opere non sono sanabili, il ministero può
annullare l’autorizzazione e il parere della Sovrintendenza è vincolante. Tutto
chiaro? Non proprio, visto che poche settimane dopo Alessandro
Pusceddu firma la sanatoria nientemeno che per il petrolchimico Eni di
Sarroch. Abusivo, chiaramente.
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mercoledì 27 aprile 2016
L'impronta mal distribuita
"Attualmente
produciamo 36 miliardi di tonnellate all’anno di anidride carbonica, mentre il
sistema naturale è in grado di assorbirne attorno a 20. Tutti gli anni abbiamo un bilancio negativo di oltre 16
miliardi di tonnellate che accumulandosi in atmosfera fanno aumentare la
temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima".
"l’umanità vive al di sopra delle sue possibilità perché ha un livello di consumi" -in termini energetici, e non solo alimentari- per soddisfare i quali sarebbe necessario una superficie produttiva equivalente a 20 miliardi di ettari, che è del 66% più alta di quella disponibile (pari a 12 miliardi di ettari); se suddividessimo questi 12 miliardi di ettari per i 7 miliardi di persone che abitano il pianeta, "scopriremmo che ogni abitante ha a propria disposizione 1,7 ettari. Questa è l’impronta ecologica sostenibile"; "in realtà la superficie richiesta dall’umanità è 20 miliardi di ettari, per cui l’impronta ecologica reale è pari a 2,8 ettari a testa".
Ma non basta: "Lo stile di vita degli italiani richiede 4,6 ettari a testa, un’impronta superiore a quella sostenibile di due volte e mezza".
Ecco alcuni dei dati contenuti nel dossier "L'impronta mal distribuita", a cura del Centro nuovo modello di sviluppo. Potete sfogliarlo qui sotto, oppure scaricarlo a questo link.
"l’umanità vive al di sopra delle sue possibilità perché ha un livello di consumi" -in termini energetici, e non solo alimentari- per soddisfare i quali sarebbe necessario una superficie produttiva equivalente a 20 miliardi di ettari, che è del 66% più alta di quella disponibile (pari a 12 miliardi di ettari); se suddividessimo questi 12 miliardi di ettari per i 7 miliardi di persone che abitano il pianeta, "scopriremmo che ogni abitante ha a propria disposizione 1,7 ettari. Questa è l’impronta ecologica sostenibile"; "in realtà la superficie richiesta dall’umanità è 20 miliardi di ettari, per cui l’impronta ecologica reale è pari a 2,8 ettari a testa".
Ma non basta: "Lo stile di vita degli italiani richiede 4,6 ettari a testa, un’impronta superiore a quella sostenibile di due volte e mezza".
Ecco alcuni dei dati contenuti nel dossier "L'impronta mal distribuita", a cura del Centro nuovo modello di sviluppo. Potete sfogliarlo qui sotto, oppure scaricarlo a questo link.
venerdì 22 aprile 2016
Glifosato, le prime analisi in Italia, è una roulette russa – Valentina Corvino
Sconosciuto fino a un anno fa, oggi il glifosato è al centro di una querelle
scientifica e politica. Mentre si attende di sapere da che parte sarà l’Europa,
tra la posizione dello Iarc (Agenzia dell’OMS), che lo ha classificato come
“probabile cancerogeno per l’uomo”, e quella dell’Efsa, che invece lo ha
assolto, in molti Paesi si allarga la schiera di chi è contrario all’uso del
pesticida. Stiamo parlando dell’erbicida più usato al mondo, sintetizzato per
la prima volta nel 1950. Da allora viene irrorato con numeri impressionanti: il
volume di glifosato spruzzato è sufficiente a trattare tra il 22 e il 30% dei
campi coltivati nel mondo. Mai nessuna sostanza è stata irrorata su una
superficie mondiale tanto vasta.
Ma quanto
glifosato, dai campi, finisce sulle nostre tavole? Il Test-Salvagente, in
edicola da domani 23 aprile, ha condotto le prime analisi italiane per
scoprire il livello di contaminazione in corn flakes, farine, biscotti, fette
biscottate e pasta. Il risultato? Una roulette russa in cui né le aziende né i consumatori
possono stare tranquilli. Per una stessa marca, infatti, sono stati trovati lotti
in cui è stato rintracciato l’erbicida accanto a lotti che non lo contenevano.
I residui, sempre inferiori ai limiti di legge, testimoniano una contaminazione
diffusa, quasi ubiquitaria.
Discorso
diverso e ben più allarmante sull’acqua che beviamo tutti i giorni. Il
Test-Salvagente ha analizzato 26 campioni provenienti da diverse città italiane e in due casi l’Ampa, un derivato del
glifosato che con l’erbicida condivide la tossicità e gli effetti a lungo
termine sulla salute umana, è risultato superiore ai limiti di legge. Nessuna
Regione italiana – denuncia il mensile dei consumatori – analizza la presenza
di glifosato e del suometabolita
Ampa nelle acque potabili,
nonostante le raccomandazioni comunitarie.
Spiega Riccardo Quintili, direttore
de il Test-Salvagente: “L’Europa non sacrifichi agli interessi di pochi uno dei
suoi principi fondamentali, quello di precauzione che stabilisce che di fronte
a un possibile pericolo per la salute si debba vietare un prodotto o una
sostanza. È il caso, chiaro, del glifosato, un pesticida che rischia di
avvelenare anche i simboli del made in Italy”.
Un timore che sembra interessare anche l’industria e il nostro ministro
per le Politiche Agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina, che proprio al mensile dei consumatori ha
anticipato il piano “glifosato zero” sulle produzioni italiane.
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martedì 12 aprile 2016
Il petrolchimico abusivo benedetto dall’Ufficio tutela del paesaggio. “Ma almeno piantate due alberi” - Pablo Sole
In
effetti l’impatto paesaggistico “è percettibile”. Ma fate così: intonacate lo
spaccio aziendale e date una tinteggiata. Ma coi colori della terra: bene
il borgogna, male il grigio
topo. Rifinite tutto montando gli infissi (in legno) e se proprio vi
vien bene, “laddove fosse possibile” piantate due alberi.
Prescrizioni del genere, il Servizio tutela
paesaggistica della
Regione le impone quasi tutti i giorni a chi si rivolge agli uffici di viale
Trieste per ‘aggiustare’ il tiro in caso di abusi edilizi. Solo che in
questo caso il destinatario si chiama Eni e l’opera
abusiva è semplicemente un impianto petrolchimico. Costruito
a due metri dalla battigia. Si parla dell’ex Polimeri
Europa di Sarroch, venduto poi alla Sarlux (Gruppo Saras) nel dicembre del 2014.
Rivelatrice la sanzione comminata all’ente di Stato: 270mila
euro, anche in
comode rate. È tutto nero
su bianco in un documento riservato in possesso
di Sardinia
Post (guarda).
Il mastodonte costruito sul
mare
In pillole, giusto per farsi un’idea di quanto sia esteso
l’impianto, basta ricordare solo alcune strutture per cui è stata chiesta
la sanatoria: 47 serbatoi da migliaia
di litri per lo stoccaggio di sostanze come etilene e benzene, centinaia
e centinaia di metri di condotte, una centrale termoelettrica e perfino un sottopasso che taglia
la statale 195. Con un piccolissimo problema: nessuna licenza edilizia
– come fatto presente a suo
tempo dal Comune di Sarroch – e nessun nullaosta paesaggistico.
Tutto abusivo, appunto. Questo non ha impedito all’Eni (a cui abbiamo chiesto un commento, senza riscontro) di
incassare il via libera del Servizio tutela paesaggistica, nonostante il
mancato coinvolgimento della Sovrintendenza ai beni paesaggistici – il cui parere è
vincolante – e in contrasto con diverse sentenze del Consiglio
di Stato.
Una pratica vecchia di
trent’anni, un condono concesso a tempo di record
Quando nel dicembre del 2014 l’Eni decide di vendere il mega
impianto di Sarroch alla Sarlux, si scontra subito con un piccolo inghippo:
sullo stabilimento pesa una richiesta di condono edilizio presentata appena trent’anni prima e la pratica è ancora
aperta. Semplicemente, il Comune di Sarroch non hai chiesto conto all’Eni e
il Cane a sei zampe non ha mai chiesto conto al Comune. Dal 1985 ad oggi, tutto
è andato avanti come se nulla fosse ma con le trattative per la
vendita il problema è tornato prepotentemente a galla: nessun notaio potrà
ufficializzare il passaggio di consegne alla Saras se prima non viene definita
l’istruttoria di condono. E nel frattempo, dal 2004, occorre appunto anche il
parere del Servizio tutela paesaggistica. A quel punto – siamo nel dicembre del
2014 – un problema vecchio di trent’anni si risolve senza colpo ferire nel giro
di qualche settimana: il 16 dicembre l’Eni chiede il nullaosta al Servizio
tutela paesaggistica e appena 48 ore dopo incassa il certificato di
“futura sanabilità” dal Comune di Sarroch. Sette giorni dopo l’accordo con
Saras è chiuso e viene annunciata
l’acquisizione degli impianti. Vale a
dire sei mesi prima del
nullaosta paesaggistico della Regione, che arriva il
27 maggio 2015 insieme con la sanzione di 270mila euro.
Quanto costa sanare un
petrolchimico in Sardegna
Sulle prime, l’entità della sanzione potrebbe sembrare
importante. Ma non lo è affatto se si esamina la lista delle opere per cui Eni
chiede il nullaosta paesaggistico: in sostanza, pressoché l’intero
impianto. Sintetizzando dai documenti ufficiali, compaiono tra le altre cose:
la costruzione di uffici tecnici, officine, magazzini e manutenzione strumenti;
il cambio di destinazione d’uso del “fabbricato ex frati cappuccini (uffici)” e
del “fabbricato ex carmelitani (centro di addestramento, cancelleria e
spaccio)”; la costruzione di una centrale termoelettrica. E ancora, come
accennato poco sopra: “N. 47 serbatoi; sottopasso SS 195 al km. 18,4; torcia
N. Paraffine; torri di raffreddamento; pipe rack e pipe way; modifiche impianto
reforming; ampliamento cabine elettriche; sala pompe; Formex-Btx; bunker
bombole laboratorio chimico; modifiche impianto policondensazione; serbatoio
sferico S 341”. Omettiamo il resto delle opere, ma la
lista è ancora lunga (guarda
qui). Sarebbe poi
curioso sapere quanto ha incassato (e soprattutto se ha incassato) il Comune di Sarroch per
l’oblazione dovuta sul versante urbanistico. Anche in questo caso siamo in
attesi di riscontri.
Il Servizio tutela della
Regione: “L’impianto non ha pregiudicato il paesaggio”
“Riteniamo che gli interventi nel loro complesso non
abbiano arrecato pregiudizio ai valori paesaggistici tutelati dal
vincolo”. Così gli uffici regionali preposti alla tutela del
paesaggio giustificano il nullaosta. Spiegando poi che le opere “non
hanno alterato negativamente le caratteristiche paesaggistiche dei luoghi
circostanti, poiché realizzate e incidenti in un’area destinata ad attività
industriali e da queste già compromessa sin dagli anni ’60-’70”. Una tesi in
totale contrasto con il Consiglio di Stato, che in buona sostanza ha affermato
più e più volte un principio generale molto semplice: il fatto che l’area
vincolata sia degradata non
può giustificare la sua ulteriore distruzione.
Sovrintendenza non ti conosco.
E negli uffici della Regione si aggira uno spettro…
Quel che lascia perplessi su tutto l’iter che porta al
nullaosta, è il mancato coinvolgimento della Sovrintendenza ai beni
paesaggistici, posto che l’impianto sorge letteralmente a mezzo metro dal mare e
sull’intera area, dal 1985 grava appunto un vincolo paesaggistico. “Ma non
dovevamo mandare niente alla Sovrintendenza – sostiene il responsabile del
procedimento per l’Ufficio tutela, Antonio Vanali -. Lo ha
stabilito una circolare ad hoc emanata oltre dieci anni fa per dirci come
andava gestito l’iter e questa non contemplava il passaggio alla
Sovrintendenza, quindi non l’abbiamo coinvolta”.
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domenica 10 aprile 2016
Stefano Caccavari e l’Orto di Famiglia fermano la discarica più grande d’Europa
«Dall'accampamento dei Filistei uscì un
campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in
testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso
era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo…» (1 Samuele
17,4-7)
«Davide disse a Saul: Nessuno si perda
d'animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo.
» (1 Samuele
17,32)
«Appena il Filisteo si mosse… Davide
cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e
colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde
con la faccia a terra…» (1 Samuele 17,48-51)
Golia è la più grande discarica per
rifiuti solidi e speciali d’Europa, la Battaglina, e Davide, per
chi ancora non lo conoscesse, è Stefano Caccavari giovanissimo
imprenditore.
Ci troviamo a San Floro un
comune collinare in provincia di Catanzaro a pochi chilometri dal Golfo di
Squillace, circondato da boschi, campi e frutteti, famoso per la lavorazione
tradizionale dei fichi secchi e oggi per l’Orto di Famiglia. È proprio in
questo territorio, nei comuni di Borgia, San Floro e Girifalco, precisamente su
due falde acquifere, che nel 2014 sarebbe dovuta sorgere l’“Isola
ecologica Battaglina”, una discarica gigantesca, la seconda più grande
d’Europa, ricordiamo che secondo alcuni la più grande d'Europa è
Malagrotta situata nella Riserva naturale Litorale romano, 240 ettari di
superficie dove ogni giorno vengono scaricati quasi 5000 tonnellate di rifiuti.
Stesso contesto per la c.d. “Battaglina”, in un’area individuata, tanto per
parlare, a prevalenza boschiva, con il conseguente disboscamento per la
realizzazione delle “vasche”, e come se ciò non bastasse con un sistema idrico
superficiale e classificata zona sismica di categoria 1.
“Calabria grande e amara” titolava un saggio
del 1964 di Leonida Rèpaci, anche in quest’occasione “amara” sarebbe
stata la conclusione naturale, quasi prevedibile, come per molte altre realtà
di questa terra, se non ci fosse stata la caparbia opposizione dei
cittadini di San Floro, Girifalco, Borgia, Amaroni, Cortale, Settingiano e
Caraffa, guidati dal comitato No Bat e sostenuti da Legambiente, che sono
riusciti a fermare il “gigante d’immondizia”.
Tra loro il giovane Stefano Caccavari, 28
anni compiuti a marzo di quest’anno, e la sua lucida e coraggiosa
reazione a un “mostro” che li avrebbe spazzati via, tirare fuori “dalla
bisaccia” non già un sasso, ma un pugno di terra. Ha considerato la vocazione
del suo territorio, agricola, e partendo dalla riflessione che quasi tutte le
famiglie a San Floro mantengono la tradizione di farsi un piccolo orto dietro
casa ha, insieme allo zio Franco, preso un pezzo della sua terra ed
ha coltivato i primi dieci orti di famiglia, il progetto si chiama proprio così Orto
di Famiglia.
«Dare la possibilità alle persone di avere
un piccolo pezzo di terra,» racconta Stefano «dove i lavori agricoli
vengono fatti da noi e le famiglie che prendono in affitto l’orto vengono
direttamente a raccogliere i loro prodotti, qui l’innovazione», non bisogna
aspettare di andare in pensione per realizzare il sogno dell’orto o fare
gimcane micidiali, tra impegni di lavoro e famiglia, per trovare il tempo da
dedicare alla terra. Qui trovano tutto pronto e tutto “vero biologico”, verdure
di stagione senza concimi chimici e nessun pesticida, nei campi di
Stefano, i parassiti vengono combattuti con l’utilizzo di insetti predatori.
Un anno e mezzo fa erano in dieci,
stagione dopo stagione sono oltre 160, all’Orto di Famiglia si cresce
continuamente facendo agricoltura, aggregando persone che sanno fare e
costruendo una comunità che non solo vive il territorio, ma ne diventa custode.
«Dove le persone non fanno nulla per
tutelare e proteggere il territorio che vivono, il territorio è destinato a
scomparire», se ci pensate è proprio così, come dice Stefano, «se nessuno
reagisce ai problemi esterni i territori sono destinati a morire, perché arriva
chi vuole colonizzare, conquistare e fa la discarica» e aggiungo
io, magari fosse solo la discarica e la morte del territorio, il
business criminale dei rifiuti tossici in discariche abusive in molte
zone di questo territorio, è una vera sciagura. Come se “i criminali”,
le loro famiglie, i loro parenti, i loro amici, non mangiassero, non
respirassero, non vivessero come noi, per una “palata di soldi” dimenticano
la palata di terra che toccherà anche a loro sulla bara quando tutto sarà
contaminato. Ma questa è la capacità intellettiva, il grado di sviluppo
dell’intelligenza che in molti, troppi, sembra essersi involuto.
L’Orto di Famiglia è una risposta concreta a queste
vergogne:
- Riappropriarsi del territorio,
curarlo, avere passione è anche una molla a difenderlo.
E poi vogliamo mettere il “mangiare sano”,
mangiare prodotti coltivati da noi stessi e nel rispetto della natura. Infatti
nel “giardino” di Stefano da un’iniziale semplice “raccolta” delle verdure, gli
ortisti oggi hanno imparato e voluto coltivare loro stessi il proprio orto. Se
amiamo qualcosa siamo capaci di tutto per proteggerla! Oggi Stefano
Caccavari è impegnato in un nuovo progetto: il primo mulino social.
La chiusura dell’ultimo mulino a pietra,
in provincia di Crotone, ha significato per Stefano la fine per macinare
il suo grano con una tecnica tradizionale, e già, perché ho trascurato di dirvi
che lui e la sua famiglia hanno diversi ettari di grani antichi, «dal
grano duro al grano tenero, dal mais alla segale, lo facciamo esclusivamente
per mangiare sano e difendere la tradizione.» scrive «E’ il
nostro territorio, è la nostra vocazione agricola, è la voglia di mangiare come
100 anni fa che ci spinge ad andare avanti, e adesso è l’ora di avviare il
nostro mulino biologico a pietra naturale per macinare esclusivamente i nostri
Grani Antichi.»
Così inizia per Stefano la nuova
avventura, recuperare le antiche macine in pietra naturale “la ferté” dell’ultimo
mulino e dare vita al primo Mulino social a pietra made in San Floro. Si tratta
di macine antiche, prodotte nel 1800, di una pietra speciale e durissima, la
famosa pietra francese chiamata “le Fertè”.
Per la raccolta fondi il 18
febbraio ha lanciato una campagna adesioni su Facebook e la rete ha risposto
con entusiasmo sostenendo energicamente il progetto. Chi volesse può
ancora partecipare o prenotare il kit di Farina Bio composto da 20 Kg di farina
macinata a pietra.
Progetti semplici e importanti, idee nate
per ribellione, come la discarica, la chiusura di un antico mulino, o la
salvaguardia della biodiversità, che permettono si di entrare in contatto con
la natura e il naturale, di riscoprire il piacere di un’alimentazione sana, ma
soprattutto sono un modello per la salvaguardia e il rilancio di un
territorio.
L’Orto di Famiglia, che Stefano a
raccontato in uno degli incontri nel salone di Confindustria di Reggio
Calabria, “aperto” da Angelo Marra, presidente del
Gruppo Giovani imprenditori Confindustria, ai giovani corsisti dei CFP di
Reggio, è la risposta al corso organizzato e promosso dall’associazione Pensando
Meridiano:
- I giovani hanno bisogno di
modelli positivi da imitare.
Le azioni di Stefano sono un esempio
replicabile universalmente, perché come recita una massima:
“Semina un pensiero e raccoglierai
un'azione, semina un'azione e raccoglierai un'abitudine, semina un'abitudine e
raccoglierai un carattere, semina un carattere e raccoglierai un destino.”
Sulle “ricadute” delle azioni che
facciamo avevo iniziato a parlarvene qui, ci sono grandi azioni che si devono ripetere per
l’importanza delle conseguenze e azioni miserabili che andrebbero schiacciate
per la bassezza dei loro effetti.
|
Il 23 marzo scorso il deposito
dell’azienda agricola di Stefano Caccavari è stato distrutto da un incendio, «La Calabria è
dolce e amara, ma noi andiamo avanti. Questa notte l’Orto di Famiglia è
stato oggetto di un atto vandalico.», sono parole di Stefano rilasciate a
“il Quotidiano del Sud”, « La nostra casetta di legno, spazio di
aggregazione e di convivialità, è stata data alle fiamme da ignoti… Orto di
Famiglia non è semplicemente un’azienda agricola ma è una comunità di persone
che, coltivando la nostra terra, si sono posti a guardia e a difesa del
territorio e che non si lascerà minimamente intimorire dall’accaduto. Chi
lavora la terra mette sempre in conto gli imprevisti. Noi andiamo avanti
utilizzando la cenere dell’incendio per concimare i nostri terreni».
da qui
venerdì 8 aprile 2016
giovedì 7 aprile 2016
mercoledì 6 aprile 2016
Il mondo che vorrei e il referendum - Daniele Previtali
In questi giorni si parla tanto del
Referendum abrogativo del 17 aprile, non molto (e male) in Tv (ovviamente),
mentre sui social bisogna dire che c’è una discreta attenzione. Quasi ogni
giorno si diffonde in modo virale qualche articolo o immagine che porta le
ragioni dei favorevoli e dei contrari al blocco delle trivellazioni in mare
entro le dodici miglia dalla costa. Premettendo che sono tra i favorevoli al
blocco (quindi voterò Sì), vorrei portare il mio punto di vista
cercando di svincolarmi il più possibile dalle fonti lette finora. Perché sento
questa necessità? Perché purtroppo leggo il diffondersi di posizioni basate su una visione molto parziale
del mondo in cui viviamo e soprattutto sull’idea per cui
Noi poco possiamo fare e dovrebbe essere il governo a far svoltare il paese
verso le Rinnovabili.
Innanzitutto va chiarito che il tema del referendum non è
“continuiamo o smettiamo di usare il petrolio”, bensì semplicemente “vogliamo o
no permettere ancora le trivellazioni vicino le nostre coste”? Molti sui social hanno lamentato che non ci sono
sufficienti informazioni per giungere ad una scelta consapevole, io sostengo
non solo che ci sono, ma anche che non sono neanche necessarie, basta osservare
come va il mondo e pensare alle conseguenze di entrambe i possibili risultati.
Nel caso vinca l’astensionismo è facile, tutto rimarrà come è ora. Cosa
accadrebbe nel caso vinca invece il Sì? Anche chi è sfavorevole alle
trivellazioni pensa che non cambierebbe nulla. Analizziamo alcune delle
contestazioni:
1) Il capo del governo dice che si perderebbero
solo posti di lavoro. Bene, ragioniamoci… Sappiamo che il petrolio non è
infinito, prima o poi finirà, forse non saranno
gli attuali lavoratori a perdere il lavoro ma prima o poi chi ci lavora lo
perderà. Inoltre il lavoro in un settore inquinante come l’estrazione
petrolifera non è proprio cosa da incentivare. Quindi la domanda diventa: per
aumentare stabilmente l’occupazione, ci interessano davvero dei posti di lavoro
in un settore senza futuro? A Renzi interessa davvero creare benessere o solo
aumentare un numeretto per poi far cadere comunque nel disagio queste famiglie
fra qualche anno? Ci interessa
in sostanza il “lavoro a qualunque costo” o il “lavoro utile”? Perché secondo Renzi
noi dovremmo essere contenti anche se l’occupazione aumentasse grazie ad una
maggiore produzione di armi, mentre sfido chiunque a dirmi di essere contento
se l’occupazione italiana aumenta grazie a guerre e morti in altri paesi. Qualsiasi
persona veramente interessata al bene del suo paese dovrebbe ragionare in
questi termini e non in questo modo limitato e senza futuro. A me interessa il
“lavoro utile”, cioè quello che produce effetti lunghi e positivi per la
società e non danneggia l’ambiente. Siccome non voglio pensare che dietro alle
affermazioni di Renzi ci sia altro, posso affermare con certezza che un
individuo come lui, con tale limitatissima capacità di pensiero analitico,
dovrebbe ricoprire incarichi ben meno importanti. Ma d’altra parte la metà
degli italiani non riesce ad andare oltre una semplice relazione di
causa-effetto (spesso neanche quella), per cui è normale che ragionando così si
ottiene consenso.
.
2) Molti sostengono che anche bloccando le
trivellazioni vicino la costa lo si farà altrove e che comunque oltre le dodici
miglia già ci sono. Chi fa questo ragionamento guarda il dito e non la luna. Io
mi chiedo: vogliamo o no
cominciare da qualche parte? Oppure crediamo davvero che debbano essere i
governi a fare i loro passi verso un modello sostenibile? Chi ragiona così, per analogia possiamo
paragonarlo ad una persona che getta l’immondizia per terra fuori casa in
quanto “tanto tutti i vicini lo fanno”, dicendo che è inutile tenere pulito il
proprio pezzettino finché ci sono altri che sporcano. Cosa rispondere se non
che hanno una visione davvero limitata del mondo, di come può cambiare e
dell’importanza che ognuno di noi ha? Queste persone sono ancora stretti nella
morsa della delega, pensano che debbano essere gli altri a cambiare le cose
mentre noi siamo solo attori passivi.
3) Poi ci sono gli ipocriti che danno degli
ipocriti a chi vorrebbe un mondo migliore, insomma quelli che dicono che il
petrolio ci serve e che quindi non possiamo non trivellare perché sennò finiamo
come col nucleare francese. Cosa rispondere? A parte che il nucleare è stato ed
è ancora follia pura, le alternative ci sono e come! Certo, finché si pomperà petrolio nessuno avrà interesse
ad adottarle seriamente, questo è lapalissiano. Ma per il semplice motivo che i
nostri vicini usano fonti inquinanti non vuol dire che dobbiamo farlo anche
noi. Perché secondo voi i paesi produttori di petrolio stanno investendo nel
Solare Termodinamico? Mica sono stupidi, sanno che il petrolio finirà e quando
accadrà vogliono essere pronti. E noi che facciamo? Se diamo retta a questa
categoria di persone faremo una brutta fine. Il Solare Termodinamico è
molto funzionale, sfrutta la concentrazione della luce
del sole per scaldare un liquido che portato ad altissime temperature (diverse
centinaia di gradi) viene usato per alimentare le turbine e produrre energia
elettrica. E con l’energia elettrica possiamo fare tutto, cucinare, far andare
mezzi di trasporto, ogni cosa. Questa tecnologia costa pochissimo, ha un
impatto ambientale praticamente nullo, si adatta bene alle nostre latitudini,
funziona anche di notte e con cielo nuvoloso e potrebbe essere distribuito in
tanti piccoli impianti connessi in modo da rendere il sistema più robusto e
funzionale. Perché non lo adottiamo? Perché buttiamo soldi in inutili opere e
permettiamo ancora le trivellazioni nel Mediterraneo con il rischio di
distruggere l’intero ecosistema in caso di incidente? Ci siamo dimenticati del
disastro del Golfo del Messico di qualche anno fa? Per chi guardava l’Isola dei
Famosi mentre milioni di barili di petrolio venivano sverzati in mare per 106
giorni, consiglio di consultare Google.
Conclusione: se vogliamo cambiare le cose dobbiamo usare
ogni mezzo. Questo referendum è certamente solo un piccolo tassello, guardiamo
la realtà, di certo non ci sarà alcun passaggio netto dal petrolio alle
rinnovabili, ma se anche
ognuno di noi inizia a fare la sua parte allora possiamo cambiare veramente. Oltre a votare il 17 aprile, iniziamo ad adottare
uno stile di vita sempre meno dipendente dal petrolio, facciamo in modo di diminuire la richiesta,
riduciamo gli sprechi, evitiamo la plastica, ottimizziamo l’uso
dell’automobile, evitiamo di acquistare o tenere nell’armadio tanti vestiti
inutili (per produrli serve molta energia, regaliamoli!), preferiamo il cibo
crudo e riduciamo carne e latticini (che ci fa anche bene alla salute),
installiamo stufe a legna (non pellet) per il riscaldamento di casa, eliminiamo
(o almeno riduciamo) tabacco e alcolici, favoriamo il riuso di oggetti usati
invece di acquistarne sempre di nuovi, acquistiamo cibo e prodotti da aziende
che puntano sulla riduzione delle fonti fossili, non acquistiamo prodotti che
arrivano da lontano (ad esempio la frutta tropicale), cerchiamo di autoprodurre
in casa il più possibile usando ingredienti locali, favoriamo il turismo a
basso impatto ambientale (ovvero in agriturismi o ecovillaggi che attuano
pratiche di sostenibilità)… Possiamo fare davvero tanto, dobbiamo Evolverci
cari amici, è inutile che ci giriamo intorno, il mondo e l’umanità hanno
bisogno di un cambiamento, Gaia ce lo chiede, e se i nostri vicini non lo fanno
facciamolo noi, è questo che conta. Gli interessi dei governi e delle multinazionali
possono avvenire solo se Noi rimaniamo inermi. Il vero cambiamento è questo, ma
sfruttiamo tutti gli strumenti che abbiamo, per cui intanto il 17 aprile
diciamo con forza che su un pezzettino di mondo non si trivella più!
martedì 5 aprile 2016
lunedì 4 aprile 2016
sabato 2 aprile 2016
venerdì 1 aprile 2016
Con il petrolio ci si sporca spesso e volentieri - Gruppo d'Intervento Giuridico
Si è dimessa
il Ministro dello sviluppo economico Federica Guidi, ma non è
un pesce d’aprile.
Non passerà
alla storia per la statura politica, ma per aver
parlato un po’ troppo di affari petroliferi con
il compagno, un certo Gianluca Gemelli, zuppo d’interessi
legati al petrolio lucano e indagato dalla magistratura insieme a funzionari
E.N.I. e funzionari pubblici. Qualcuno è pure finito ospite delle patrie
galere.E questo Governo Renzi passerà alla storia per aver favorito spudoratamente
gli interessi dei petrolieri, anche a scapito della democrazia.
Per esempio,
facendo carte false per non far andare a votare gli italiani
sulreferendum
contro la durata illimitata delle concessioni estrattive a mare già esistenti
entro la fascia delle 12 miglia marine dalla costa (17 aprile
2016).
E per
disinformarli.
Sapete
perché ‘sta gente vuol mantenere la durata illimitata delle concessioni
estrattive sotto costa, introdotta dal decreto
Sblocca Italia?
Perché
dismettere un impianto comporta costi molto alti per le società
concessionarie: meglio estrarre il minimo per il maggior tempo possibile.
Questo modus
operandi, inoltre, ha anche un’ulteriore spiegazione economica: le
franchigie. Le società petrolifere, infatti, non pagano le royalties se
estraggono meno di 20 mila tonnellate di petrolio a terra e meno
di 50 mila tonnellate a mare. Ovviamente vendono, però, il petrolio senza
alcun pensiero. E se le soglie sono superate, scatta
un’ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata.
Così il 7%
delle royalties di legge viene pagato solo dopo le prime 50
mila tonnellate di greggio estratto e neppure per intero. In Italia, inoltre,
sono esentate dal pagamento le produzioni in regime di permesso di
ricerca. Ecco perché per chi estrae è fondamentale quella “durata di
vita utile del giacimento“, indicata dal decreto Sblocca Italia.
Se previste
nel progetto originariamente approvato, le società concessionarie possono
realizzare nuove trivelle a mare anche entro la fascia delle 12 miglia marine
dalla costa, alla faccia del divieto stabilito dalla legge (art. 6, comma
17°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.) e alla faccia
delle balle raccontate dalla propaganda astensionista filo-governativa.
Insomma, per
capirci, con il petrolio ci si sporca spesso e volentieri.
Per un po’
di ambiente e un bel po’ di democrazia in più votiamo e facciamo votare SI’ al
referendum del prossimo 17 aprile 2016!
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
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