giovedì 31 dicembre 2020

Non c’è rivoluzione senza liberazione animale, e viceversa - Sergio Sinigaglia


 

Nell’ambito dei movimenti antisistemici, le tematiche legate alla questione animale, in particolare all’antispecismo, sono piuttosto snobbate, nonostante un numero non indifferente di attivisti e attiviste abbia fatto scelte di vita piuttosto chiare per quanto riguarda l’alimentazione e, più in generale, siano estremamente sensibili all’argomento.

C’è una notevole sottovalutazione ignorando come il tutto sia in stretta relazione con la necessità di un mutamento radicale e profondo dell’attuale modello sociale, economico e culturale.

La stessa emergenza pandemica ha evidenziato quanto l’oppressione, la supremazia che il genere umano ha stabilito sin dalle sue origini sulle altre specie e sulla natura, abbia favorito il diffondersi di malattie ed epidemie, fino a raggiungere i livelli di guardia che ci hanno portato in questa situazione.

Ritenere l’antispecismo una teoria e una pratica, un terreno di confronto e di mobilitazione non rilevante è alquanto miope.

Ormai ci sono numerosi contributi sul terreno della riflessione politica e filosofica di pensatori appartenenti all’area critica che spiegano perché dovremmo ritenere la tematica non disgiunta dalle battaglie che si stanno portando avanti sul fronte ambientale e anche nell’ambito economico e sociale. 

Tra i contributi più efficaci citiamo quelli di intellettuali e studiosi, per quanto riguarda il nostro Paese, come Annamaria Rivera e Massimo Filippi. Di quest’ultimo ricordiamo “Crimini in tempo di pace”, Eleuthera, scritto insieme a Filippo Trasatti. Sempre sul piano della riflessione politica, uscendo dai confini nazionali,  è opportuno citare Steven Best “Liberazione totale” Ortica edizioni.

Best accomuna una radicale critica al sistema capitalistico con la necessità di un processo di “liberazione animale”. L’oppressione animale come specchio dell’oppressione dell’uomo sull’uomo. Una società basata sullo sfruttamento, non può che produrre lo sfruttamento in tutti i suoi ambiti. «Il capitalismo ha avuto origine dall’imperialismo, dalla colonizzazione, dalla tratta internazionale di schiavi, dai genocidi e dalla distruzione ambientale su larga scala. Senza, non sarebbe stato possibile . Il capitalismo è un sistema di schiavitù, sfruttamento, gerarchia di classe, ineguaglianza, violenza e lavoro forzato. È basato su necessità di profitto e di potere».

Una critica radicale al modello esistente, sviluppatosi nei secoli, non può però prescindere dal fatto che l’edificazione del sistema schiavistico e di sfruttamento è speculare ad un altro modello schiavistico che ha visto la nostra specie, sin dalla preistoria, esercitare un’oppressione sistematica sulle altre e che successivamente, nel processo di civilizzazione, ha trovato le modalità razionali per dare vita al sistema produttivo moderno, capitalistico e non, che trova nel dominio sul mondo animale (non umano), pieno dispiegamento.

Analizzare i fenomeni sociali con quello che Best chiama «il punto di vista animale» significa acquisire la consapevolezza «del ruolo cruciale che gli animali hanno giocato nell’evoluzione umana e le conseguenze del dominio umano sui non umani. Non potremo comprendere e risolvere i problemi sistemici della società capitalista, le origini e le dinamiche della gerarchia e nemmeno immaginare una società razionale, autonoma etica ed ecologica del futuro se non faremo i conti con diecimila anni di specismo che ci portiamo dietro e il trattamento barbaro riservato agli altri animali». Una visione che getta «nuova luce sulle origini, le dinamiche dello sviluppo delle culture dominanti». Inoltre il punto di vista animale «è una estensione della teoria dal punto di vista femminista che fu sviluppato per rivelare il dominio patriarcale e il suo impatto debilitante sulla donna e l’umanità in generale». Del resto la diffidenza e il sarcasmo che spesso vengono usati da chi sottovaluta l’antispecismo e più in generale le questioni a esso collegate, ricordao l’ironia e gli sbeffeggiamenti con cui la maggior parte dell’opinione pubblica, maschile, reagiva ai primi movimenti di emancipazione femminile, alle rivendicazioni delle “suffragette”.

A sinistra l’eredità marxista classica ha ritenuto e continua a ritenere il tema del tutto irrilevante o al massimo lo inserisce nella battaglia più ampia portata avanti sul fronte ambientale. La centralità della lotta di classe, non può perdere tempo con tali quisquilie.

Marx era figlio dei suoi tempi e incentrò la sua analisi, visto il contesto, sullo sviluppo del nascente sistema industriale e le sue contraddizioni di classe. Del resto alle spalle aveva una plurisecolare storia del pensiero filosofico che sin dall’antichità, salvo alcune eccezioni, riteneva gli animali non umani “cose”, una linea che inevitabilmente fu ereditata, a partire da Cartesio, dai pensatori moderni e tracciò il solco di una tradizione che arriva fino ai giorni nostri e ha contagiato anche gran parte della sinistra in tutte le sue articolazioni.

Del resto fino agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso stessa sorte, come accennato, hanno avuto il movimento femminista, quello ecologista, nonché le tematiche legate alla diversità sessuale e alla violenza sui minori. La mitica “centralità operaia”, per decenni ha fatto passare in secondo piano le altre altrettanto fondamentali centralità. Un’analisi che ignora – come rimarcano Filippi e Trasatti all’inizio del loro saggio – che Henry Ford per dare vita alla nuova catena di montaggio che caratterizzerà la futura produzione automobilistica su larga scala e si allargherà a tutto il sistema produttivo, prende spunto dalla catena di montaggio del mattatoio di Chicago dove furono macellati dalla sua inaugurazione del 1865 al 1900 quattrocento milioni di animali.

Mentre gli altri movimenti, a partire da quello femminista, hanno gradualmente guadagnato la scena sociale e politica globale, per i movimenti animalisti e antispecisti ancora la strada è lunga, seppure segnali di inversione di tendenza da tempo iniziano ad esserci, una maggiore consapevolezza si sta sviluppando. Lo evidenzia la scelta sempre più ampia di un’attenzione verso la scelta alimentare con una crescita esponenziale di chi opta per il cibo vegetariano e vegano.

Così come sono ormai diffusi movimenti, con varie articolazioni, che agiscano  contro le vessazioni e le torture nei confronti dei non umani.

La sensibilità maggiore si registra nei confronti degli allevamenti intensivi e dei veri e propri crimini dell’agrobusiness. Il dato relativo ai quattrocento milioni di animali macellati in meno di trent’anni nel mattatoio di Chicago 150 anni fa, impallidisce di fronte alle statistiche attuali che registrano 170 miliardi di animali eliminati ogni anno; oltre 14 miliardi di animali ogni mese; 5.390 animali al secondo.

Ormai sono diverse le inchieste giornalistiche che attestano questo gigantesco sterminio. Alcuni anni fa la rivista Internazionale pubblicò un’inchiesta di due giornalisti francesi che descrivevano la catena di montaggio di una fabbrica di macellazione dei maiali. L’analisi affrontava anche lo sfruttamento umano, evidenziando non solo le conseguenze sulle mani degli operai che ogni cinque, sei secondi sgozzavano un animale ma il crescente rifiuto dal punto di vista etico, degli stessi lavoratori. Un profondo disagio che si tramutava nelle numerose richieste di trasferimento di reparto dopo un tot di tempo, nelle bugie in famiglia per tacere sul lavoro svolto. Un articolo dove si evidenziava ancora una volta lo stretto intreccio tra sfruttamento umano e non umano.

La critica al sistema alimentare industriale porta molti a fare una scelta di qualità, ma cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia. Si tratta della «teoria della carne felice» come la chiamano efficacemente Filippi e Trasatti. Insomma trattiamoli bene e uccidiamoli con amore. «É una strategia approntata dall’apparato industriale del settore per rispondere alle preoccupazioni di un numero sempre maggiore di consumatori disturbati dalle modalità con cui la carne viene prodotta”.

Ma – aggiungiamo – le cose non cambiano se si tratta del piccolo produttore biologico, perché il risultato è sempre lo stesso: l’uccisione. 

La recente ricerca scientifica ha ormai attestato il livello cognitivo delle specie non umane, ignorato o sottovalutato fino a ieri. Non si tratta solo di “sensibilità”, ma di vera e propria attività cognitiva, che innumerevoli esperimenti hanno potuto dimostrare. Fra i tanti contributi citiamo quello dell’etologo e primatologo Frans de Wall «Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?» (edito da Cortina) che offre un ampio ventaglio di sperimentazioni non sui soliti primati, ma su diverse altre specie.

Abbiamo sinteticamente proposto alcuni tesi che mostrano come non sia più possibile per chi è impegnato in prima fila per una profonda trasformazione della nostra società – oggi ancora più necessaria in un contesto sempre più drammatico dal punto di vista sociale e e ambientale – prescindere dalla questione specista.

Abbiamo ricordato come per molto tempo tematiche considerate marginali o comunque non fondamentali sono faticosamente entrate nell’agenda politica dei vari movimenti di questi decenni. E per provare a sintetizzare il tutto possiamo parafrasare un vecchio quanto efficace slogan del movimento femminista: non c’è rivoluzione senza liberazione animale, non c’è liberazione animale senza rivoluzione.

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mercoledì 30 dicembre 2020

Poveri ma felici - Mauro Armanino

Anche la felicità, nel Sahel, è di sabbia. Tutto qui è precario. Il clima, il lavoro, la politica, le elezioni presidenziali, e soprattutto la sicurezza alimentareSenza parlare della scuola, la sanità e la speranza di vita. Proprio lei, la felicità, ci consente di risalire nella classifica mondiale e africana dei Paesi più o meno felici. È il recente rapporto delle Nazioni Unite che l’attesta con certezza. Ebbene sì. I nigerini si sentono più contenti che gli abitanti di altri Paesi dell’Africa occidentale. Il Niger si trova al posto numero 103, facendo un salto di ben undici posizioni rispetto all’edizione del 2019, dove eravamo appena alla poco invidiabile posizione 114 della classifica. Ora sorpassiamo la Nigeria, il Burkina Faso, il Mali e il Togo. Ci passano invece davanti la Costa d’Avorio, il Benin, il Ghana e financo la Guinea delle recenti scandalose elezioni presidenziali. I primi della lista sono i soliti noti. La Finlandia, la Danimarca, la Svizzera, l’Islanda e la Norvegia. Detto rapporto prende in esame gli indicatori tipo il PIB, i servizi sociali, la speranza di vita, le libertà individuali, la generosità e la percezione della corruzione. Grazie alla sabbia, che attraversa tutti questi ambiti, il nostro Paese ha potuto risalire, miracolosamente, la classifica che, nello sviluppo umano, lo vede inchiodato all’ultimo posto ormai da anni.  Si sa, anche la classifica è di sabbia, come la gioia di vivere.

Ultimi della classifica nello sviluppo umano e a metà classifica in termini di felicità, effimera ed eterna come sabbia. Malgrado tutto e contro tutto. L’uccisione di appena qualche giorno fa di Issaka Hamani, uno dei due marciatori della pace del Niger. Assassinato nei pressi di Diffa, dove avrebbe dovuto tenersi la festa dell’anniversario della dichiarazione della repubblica, avvenuta 62 anni or sono. Ucciso di notte mentre dormiva e forse sognava un Paese libero dalla guerre e dalle armi. Ogni anno percorreva centinaia di kilometri a piedi, dalla capitale Niamey fino alla città dove si doveva celebrare la festa della Repubblica. Ucciso qualche ora prima di altre decine di persone nella zona da un attacco rivendicato da Boko Haran, gruppo armato terrorista attivo da anni nella zona. Hanno bruciato case, tende e soprattutto assassinato innocenti contadini, derubandone infine i pochi averi che rimanevano per la stagione. I feriti sono almeno un centinaio e le ferite interiori molte di più. Non sarà facile rimarginarle. L’unica cosa saggia sarebbe quella di imparare a seminare qualcosa di differente nei solchi delle ferite, per poi generare inedite sapienze dimenticate dall’odio. Siamo felici eppure tutto congiura contro, ad esempio le prossime elezioni del 27 dicembre. Si è riusciti a fare il possibile per complicare le cose, dai candidati riconosciuti o squalificati o tutt’ora in discussione per finire con la mancanza di consenso praticamente su tutto.

Anche la felicità, nel Sahel, è di sabbia. Continuità e ulteriori progressi, portano scritto i bus, i pannelli pubblicitari elettorali e i taxi che girano con l’immagine del ‘delfino’ presidenziale. A meno di dieci giorni dal voto, vigono ancora seri dubbi sulla sua identità nazionale, messa in discussione da alcuni documenti che sembrano contraddire la versione ufficiale. I motivi per essere felici, a ben pensarci, sarebbero pochi…, eppure facciamo del nostro meglio per piazzarci almeno a centro classifica, da buoni cittadini obbedienti alla polvere che in questa stagione invade e occupa il territorio e l’immaginario. Anch’essa, la polvere, minuta, fragile, insistente e penetrante, va a nozze col vento detto Harmattan, del deserto, che rende le notti e le mattinate fresche o a giorni, fredde. Persino il sole, generalmente arrogante, accetta di mettersi da parte per qualche settimana e rispetta la stagione della polvere per tornare al tempo opportuno.

La polvere invade la politica e la politica dispensa polvere. Tra le due si realizza una simbiosi quasi perfetta, anche se di perfetto al mondo non c’è nulla. Le felicità è anch’essa impolverata e forse per questo sfugge alle definizioni dei rapporti onusiani. Proprio la polvere ha contribuito all’assassinio di Issaka Hamani, che marciava la pace. È stato ucciso nella notte, mentre dormiva nella casa di un capo della zona. L’omicidio non fermerà la marcia della pace che, grazie alla polvere e al vento, porterà lontano i passi, spezzati, di Issaka. Poveri e felici o forse felici perché poveri, indigenti e vulnerabili che hanno imparato e tramandato il segreto. La felicità non si compra e non si vende da nessuna parte. Solo si condivide, come un natale di sabbia che Dio non ha dimenticato di annotare sul calendario di quest’anno.

                                                                                       Niamey, 20 dicembre 2020

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martedì 29 dicembre 2020

Una scomoda verità - Annamaria Manzoni

Il grido d’allarme sui cambiamenti climatici, sul degrado ambientale, sulla necessità di un cambiamento di rotta rispetto a un intero modello di sviluppo risuona sempre più forte. Se molti degli appelli degli scienziati da anni cadono nel vuoto, grande risonanza ha invece avuto quello tanto più comprensibile e accattivante della giovanissima Greta Thunberg, che, gridando al mondo che la nostra casa è in fiamme, richiama i “grandi” alle loro responsabilità. Le cose che dice non sono certo nuove: è innegabile che le sue parole assumono una semantica nuova e potente soprattutto grazie al “personaggio”: il viso corrucciato, l’aspetto infantile affondato nelle felpe troppo grandi, le lunghissime trecce da folletto da saga nordica, movimentano il suo linguaggio diretto e arrabbiato che stride con quello di chi parla in politichese, tra mediazioni e vergognosi compromessi.

Risultato è che la sua presenza sia stata incredibilmente contesa nelle occasioni più prestigiose: è ospite alla COP24, al vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a Katowice in Polonia; al Forum Economico Mondiale di Davos; al Parlamento Europeo; parla con papa Francesco; e dovunque in giro per il mondo lancia impietosi atti di accusa contro i potenti, che continuano a reclamarla, pur sapendo che li insulterà, e a coccolarla, forse convinti che sia strategicamente vincente e più economico farsi amico il nemico: difficile altrimenti spiegarsi lo spettacolo surreale della gogna a cui molti politici sembrano sottostare con masochistico piacere, quando applaudono le sue parole, commossi quasi fino alle lacrime, tanto da sollevare più di un dubbio che forse non capiscono che proprio a loro le accuse sono dirette. O forse pensano che una così, pericolosa non lo è di sicuro

Basta e avanza: il mondo dei ragazzi sembra trovare un’imprevista unità: e si formano movimenti quali FFF, Fridays For Future, e XR, Exctintion Rebellion – che vanta tra i suoi attivisti un’altra donna scomoda, Carola Rackete – che parlano di rispetto per la terra, la natura, l’ambiente. I ragazzi scendono in piazza: sono corde sensibili ad essere toccate, il futuro è di tutti, la natura chiama e il suo è un appello disperato a cui si risponde con il cuore ancora prima che con la voce. E i giovani si fanno attori sul palcoscenico troppo spesso disertato da quelli che contano.

Certo sono tanti anche i suoi detrattori, i quali, secondo una tecnica particolarmente in voga, non avendo grandi argomenti per contrastare le sue idee, contrastano lei. La ridicolizzano, la insultano, la chiamano Gretina, insinuano che la spontaneità esibita sia in realtà la maschera di una sudditanza prezzolata ad altri poteri forti. Tant’è: il Time la proclama Persona dell’Anno 2019 e le dedica la sua prestigiosa copertina: lei su uno spuntone di roccia, spruzzata dalle onde, sguardo dritto e aperto sul futuro, sola, ad affrontare la vita e le sue brutture, a muso duro.

Nel vasto movimento in atto, ancora in gran parte da inquadrare e decodificare, c’è un elemento che resta però oscurato: Greta è vegana. Per inciso, lo è anche Carola.

Il suo impegno per la salvaguardia della terra coincide con una scelta immediatamente attuabile in privato, qui e ora, indipendentemente dalle leggi inique di un mondo iniquo. Non consumare alcun prodotto che derivi dallo sfruttamento e dalla sofferenza degli altri animali è in primo luogo scelta etica, ma anche elemento imprescindibile del rispetto della natura e dei suoi abitanti, umani e nonumani. Per altro la connessione con la situazione climatica è scientificamente indiscutibile: gli allevamenti intensivi sono responsabili dell’emissione di enormi quantità di gas serra e della deforestazione necessaria per destinare nuovi spazi agli allevamenti e alle colture necessarie per foraggiare il bestiame.

Tra i tanti che da tempo ne fanno denunce appassionate, si trovano testimonianze di particolare peso: Greenpeace, associazione ambientalista certo non in odore di animalismo, sulla scorta dei dati Fao da anni afferma senza mezzi termini che le conseguenze peggiori della crisi climatica in corso non possono essere evitate se, a livello politico, si continua a difendere la produzione intensiva di carne e latticini, e non ci si decide a favorire la transizione verde, invece di limitarsi a citarla. Sostiene conseguentemente che è fondamentale dirigere l’alimentazione verso un minor consumo di prodotti animali, argomento davvero trascurato nelle discussioni sul cambiamento climatico.

Il premio Nobel per la pace 2007, l’indiano Rajendra Pachauri, direttore dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) ha costantemente invitato ad una riduzione del consumo di carne quale scelta personale decisiva per contribuire a ridurre le emissioni di gas serra.

Nicholas Stern, presidente del Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment presso la London School of Economics, in un’intervista al Times ha dichiarato: la carne determina uno spreco di acqua e produce elevate emissioni di gas serra. Essa esercita una enorme pressione sulle risorse del pianeta. Una dieta vegetariana è meglio. […] Ritengo sia importante che la gente pensi a cosa sta facendo e questo include cosa sta mangiando. […] Dovranno incominciare a riflettere anche sulle emissioni prodotte da quello che si mangia.

Rob Bailey, per conto di Ghatham House, Centro Studi Britannico specializzato in analisi geopolitiche, già nel 2015 denunciava e accusava: prevenire un catastrofico riscaldamento globale dipende dalla volontà di affrontare il tema del consumo di carne e latticini, ma il mondo sta facendo molto poco. Parecchio è stato fatto sulla deforestazione e il trasporto, ma c’è un divario enorme per quanto riguarda il settore zootecnico… Rimane una profonda riluttanza a impegnarsi in merito, dato che i governi pensano non sia di loro competenza … dire alle persone cosa dovrebbero mangiare.

C’è di che rimanere basiti davanti all’indifferenza con cui queste dichiarazioni sono state accolte a livello mondiale. Ma c’è dell’altro: tutte queste (non)consapevolezze sono state enormemente amplificate dalla tragedia dell’attuale pandemia, in cui gli allevamenti intensivi e la nostra relazione distorta con gli altri animali giocano un ruolo essenziale anche nel provocare e diffondere infezioni virali, come il Covid-19 ha portato prepotentemente alla ribalta. Abbiamo imparato che il virus che può albergare senza conseguenze nei pipistrelli, può diventare devastante se trasferito direttamente o indirettamente nell’uomo: e il passaggio avviene in conseguenza della deportazione degli animali in luoghi che non sono i loro, dove vivono in condizioni spaventose e uccisi in modo crudelissimo, come per esempio nei wet market cinesi. Per altro il fenomeno è tutt’altro che nuovo, dal momento che, per restare a tempi recentissimi, porzioni di mondo hanno dovuto affrontare nel 2003 la Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome) e nel 2012 la Mers (Middle-East Respiratory Syndrome ) L’imputabilità dei pipistrelli viene ogni volta risolta con uccisioni di massa in quanto colpevoli del disastro, con contemporanea assoluzione della specie umana, che invece è la vera responsabile, con la deportazione dai loro normali luoghi di vita a spazi urbani, etologicamente disastrosi.

Se queste sono le situazioni spesso ricordate, una pubblicità di poco superiore allo zero viene concessa dai mass media ai casi innumerevoli di epidemie che si originano e si sviluppano sempre più spesso negli allevamenti intensivi di tutto il mondo: morbo della mucca pazza, influenza aviaria, peste suina; nonché le infezioni connesse all’antibiotico resistenza, conseguente allo sfrenato uso di antibiotici negli allevamenti intensivi, per prevenire o affrontare le infezioni, conseguenti alle situazioni infernali in cui gli animali vengono allevati. Ogni volta l’unico intervento umano è quello di procedere allo sterminio di milioni di individui animali, nel migliore dei casi gasati, ma molto spesso sepolti vivi: tanto per risparmiare tempo e denaro.

È conseguente che occuparsi di ambiente, rispetto per la natura, cambiamenti climatici significa occuparsi del nostro rapporto con gli altri animali e quindi della nostra alimentazione, dal momento che noi di animali ne mangiamo qualcosa come 170 miliardi ogni anno.

A fronte di tutto ciò il 21 ottobre scorso il Parlamento Europeo ha confermato il sostegno economico al sistema degli allevamenti intensivi, scartando l’opzione di finanziare le misure ambientali. Da rimanere attoniti a fronte del Green Deal Europeo, annunciato come priorità da Ursula van der Leyen nel momento del suo insediamento come presidente della Commissione Europea, con l’annuncio di misure atte a rendere la produzione di energia e lo stile di vita più compatibili con le esigenze ambientali, e a trasformare l’Europa in una società giusta e prospera dove le emissioni di gas serra saranno azzerate e la crescita sarà sganciata dall’utilizzo delle risorse naturali. Parole parole parole: il mondo è organizzato sul dileggio di tutte le evidenze scientifiche: chissenefrega dell’etica, e a questo sembriamo drammaticamente assuefatti, ma anche delle ricadute drammatiche sulla salute delle persone: meglio rimuovere, negare, nascondere. Parliamo d’altro.

Greta Thunberg è vegana, come si è detto, e lo è anche Carola Rackete: in sintonia con la consapevolezza che la lotta al disastro climatico comporta un imprescindibile rimodellamento dello stile di vita di ognuno. È però un dato di fatto che il richiamo alla necessità del veganismo come scelta di coerenza e serietà, non fuoriesca nei discorsi di Greta (Carola non è vista come leader e non è usa ai discorsi programmatici): lo ritiene forse scontato, pleonastico al punto che farlo presente risulterebbe offensivo dell’intelligenza di chi la segue e di chi le si affianca? Forse, visto anche il fatto che i suoi interventi sono essenzialmente accusatori e non contemplano un decalogo dei comportamenti da tenere. Se così è, per quanto arrabbiata sia con il mondo e così poco propensa a guardare gli altri con comprensione e indulgenza, finisce comunque per peccare di troppo ottimismo nel dare per scontato che tutto sia ovvio, condiviso dai suoi compagni di lotta in nome di quella credibilità, senza la quale il rischio di fotocopiare le politiche parolaie contestate diventa reale.
Di fatto le centinaia di migliaia, forse milioni di giovani scesi nelle piazze di tutto il mondo nel Global Strike For Future del 15 marzo 2019 e nelle altre occasioni minori non hanno certo usato i loro megafoni per dare voce alla necessità che, tra i passi ineludibili verso la salvaguardia dell’ambiente, l’alimentazione vegana sia un must, un una scelta fondamentale. Non se ne è sentito proprio parlare al netto di qualche striscione: al riguardo sono molto più che afoni, sono muti: ovviamente non nella loro totalità, ma rispetto agli obiettivi più espliciti dei loro movimenti. Non offre risultati la ricerca on line sui siti di FFF, mentre quella sui siti inglesi di XR consente di prendere atto che il veganismo non è condizione sine qua non dell’adesione al movimento, ma solo una scelta da incoraggiare quale very good start, tanto che nelle occasioni pubbliche viene offerto soprattutto, ma non esclusivamente cibo vegano, dato anche che it’s not all down to individual action: non tutto dipende dall’azione dei singoli.

In sintesi, nulla più che un’opzione consigliabile, che con buona volontà si può andare a scovare anche nella Dichiarazione, che Rebellion Extinction ha messo in rete, in cui si legge che la ribellione di cui si parla è dettata dall’amore “per questa terra, per gli esseri viventi che la popolano”. Ma quindi non mangiarli questi esseri viventi non dovrebbe essere invece un must?

Una forte timidezza avvolge tutta la materia: ipotizzare che non vi sia adeguata consapevolezza della questione non sarebbe solo deludente, ma drammatico, perché testimonierebbe di una ignoranza, incompatibile con l’obiettivo grandioso dei cambiamenti epocali di cui FFF e XR sono paladini, che necessita di competenze oltre che di passione.

Resta allora una spiegazione banale, poco lusinghiera, riferita alla ritrosia a mettersi in gioco in prima persona con modificazioni della proprie abitudini, del proprio stile di vita che, tutto sommato, presenta aspetti più che gradevoli e induce a non allargarsi troppo, rendendo le dichiarazioni troppo vincolanti. Pericolose analogie con quei politici che hanno immesso nel proprio vocabolario svolta verde, green deal, ambiente, questione climatica, e poi legiferano in direzione ostinata e contraria, congelando lo stato delle cose, come già ricordato, almeno per i prossimi sette anni con il loro ignobile sostegno economico agli allevamenti intensivi: morale gattopardesca che spinge a cambiare affinchè nulla cambi.

Nella questione ambientale, come in quella antispecista, esistono aree in cui solo le leggi e la politica possono intervenire e l’unica possibilità a portata di comuni cittadini resta quella, sempre più svuotata di potere, del voto o della protesta più o meno organizzata. E vi sono invece aree in cui ognuno ha la possibilità di agire qui e ora per dare il proprio personale contributo all’obiettivo previsto e magari sbandierato. Fin troppo facile osteggiare le pratiche orride di altri luoghi: mattanza di cani, tormento degli orsi della bile, supplizio dei tori: esprimere la nostra indignazione con uno sdegno sincero designa la nostra appartenenza al mondo dei giusti, senza che questo comporti alcun impegno personale, né modifichi il nostro quotidiano. La questione cambia però se il nostro stile di vita e le nostre abitudini sono le stesse che contestiamo nelle loro conseguenze finali: dal momento che, nel mondo occidentale, mangiamo anche tre volte al giorno tutti i giorni, è innegabile l’impatto individuale del consumo di prodotti di origine animale, tangibile nella sua moltiplicazione per il numero delle persone implicate. In ogni caso se la potenza della spinta etica propulsiva di azioni di portata planetaria non è tale da reggere l’impegno necessario a modificare la scelta del cibo (“ma a me la carne piace!”) non si sta parlando di una sconfitta, ma di una debacle. Soprattutto in considerazione della enorme disponibilità di prodotti, esenti da sfruttamento animale, che le nostre società occidentali sono in grado di fornire.

L’occultamento del problema dell’alimentazione anche in relazione alla salvaguardia della natura è un fatto grave e di certo non nuovo. Il documentario-denuncia Una scomoda verità (2006), accolto entusiasticamente dal mondo “contro”, che, per tramite dell’ex candidato alla presidenza degli Stati Uniti Al Gore impone come imperativo morale la lotta contro il surriscaldamento del pianeta, propone anche comportamenti virtuosi adottabili dai singoli, che, diventando buone prassi, aiutano a ridurre i quantitativi di CO2: grande successo, grandi apprezzamenti. Non una parola, una sola, sul ruolo della zootecnia moderna nell’emissione di gas serra e, conseguentemente, sulle responsabilità dell’alimentazione di ognuno. A quanto pare questa si che è una scomoda verità, tanto scomoda che neppure un documentario che la elegge come titolo-denuncia se la sente di affrontarla, tanto scomoda da richiederne il totale oscuramento.

In questo caso il sospetto di mastodontici interessi economici da difendere è più che legittimo, ma ben diversa è la situazione degli attuali movimenti.
Evidentemente la passione etica e l’entusiasmo che smuovono i più giovani non si sono ancora strutturati in autoconsapevolezza e la critica al mondo che giustamente pretendono in consegna dalle precedenti generazioni vive in buona parte di sogni ancora non trasformati in progetti. Precedenti generazioni, che hanno responsabilità enormi sull’attuale condizione del pianeta, ma a cui va dato atto anche di avere messo in moto una forte riflessione critica e autocritica, che investe il campo filosofico, economico, scientifico, psicologico, riflessione da ampliare e sviluppare, per evitare il rischio di arretramenti sempre possibili e di arroccamenti retrogradi sullo status quo.

Non possiamo che augurarci che questo avvenga, nell’interesse declamato dell’ambiente tanto amato, che non è un’entità astratta, ma il risultato tangibile della somma di tutti i nostri comportamenti, che nei fatti oltre che nei desideri dovrebbero tendere al perseguimento del benessere degli umani, non scindibile da quello dei nonumani, che sono quelli che più di tutti pagano il prezzo degli egoismi, dell’ignoranza, della miopia, questi sì del tutto umani.
Sii il cambiamento che vuoi nel mondo, è l’esortazione gandhiana non da ripetere fino a svuotarla della sua potenza, ma da tradurre in stile di vita. Proviamoci. Provateci.

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In cauda venenum - Legambiente

 

Il dossier Stop Pesticidi, elaborato da Legambiente e presentato questa mattina (17 dicembre 2020, ndr) nella diretta streaming trasmessa su www.legambiente.ithttp://agricoltura.legambiente.itwww.lanuovaecologia.it e sui rispettivi canali social e realizzato in collaborazione con Alce Nero, ci dice che i pesticidi più diffusi negli alimenti in Italia sono Boscalid, Dimethomorph, Fludioxonil, Acetamiprid, Pyraclostrobin, Tebuconazole, Azoxystrobin, Metalaxyl, Methoxyfenozide, Chlorpyrifos, Imidacloprid, Pirimiphos-methyl e Metrafenone. Sono per la maggior parte fungicidi e insetticidi utilizzati in agricoltura che arrivano sulle nostre tavole e che, giorno dopo giorno, mettono a repentaglio la nostra salute. I consumatori stanno chiedendo prodotti sempre più sani e sostenibili ma il business dell’agricoltura intensiva sembra non voler cedere il passoL’edizione 2020 del rapporto dell’associazione ambientalista fotografa una situazione che vede risultare regolare e privo di residui di pesticidi solo il 52% dei campioni analizzati. Senza dubbio, un risultato non positivo e che lascia spazio a molti timori in merito alla presenza di prodotti fitosanitari negli alimenti e nell’ambiente. Analizzando nel dettaglio i dati negativi, si apprende che i campioni fuorilegge non superano l’1,2% del totale ma che il 46,8% di campioni regolari presentano uno o più residui di pesticidi.

Cattive notizie anche in merito alla quantità di residui derivanti dall’impiego di prodotti fitosanitari in agricoltura: i laboratori pubblici regionali ne hanno trovato traccia in campioni di ortofrutta e prodotti trasformati in elevata quantità. Preoccupanti inoltre i dati del multiresiduo, che – è bene ricordarlo – la legislazione europea non considera non conforme a meno che ogni singolo livello di residuo non superi il limite massimo consentito, benché sia noto da anni che le interazioni di più e diversi principi attivi tra loro possano provocare effetti additivi o addirittura sinergici a scapito dell’organismo umano. Proprio il multiresiduo risulta essere più frequente del monoresiduo, essendo stato rintracciato nel 27,6% del totale dei campioni analizzati, rispetto al 17,3% dei campioni con un solo residuo.

Come negli anni passati, la frutta è la categoria in cui si concentra la percentuale maggiore di campioni regolari multiresiduo. Ad essere privo di residui di pesticidi è solo il 28,5% dei campioni analizzati, mentre l’1,3% è irregolare e oltre il 70%, nonostante sia considerato regolare, presenta uno o più residui chimici. L’89,2% dell’uva da tavola, l’85,9% delle pere, e l’83,5% delle pesche sono campioni regolari con almeno un residuo. Le mele spiccano con il 75,9% di campioni regolari con residui e registrano l’1,8% di campioni irregolari. Alcuni campioni di pere presentano inoltre fino a 11 residui contemporaneamente. Situazione analoga per il pompelmo rosso e per le bacche di goji che raggiungono quota 10 residui. Diverso il quadro per la verdura: se, da una parte, si registra un incoraggiante 64,1% di campioni senza alcun residuo, dall’altro fanno preoccupare le significative percentuali di irregolarità in alcuni prodotti come i peperoni in cui si registra l’8,1% di irregolarità, il 6,3% negli ortaggi da fusto e oltre il 4% nei legumi. Tali dati, se analizzati in riferimento alla media degli irregolari per gli ortaggi, che è dell’1,6%, destano preoccupazione. Ad accomunare la gran parte delle irregolarità è il superamento dei limiti massimi di residuo consentiti per i pesticidi (54,4%) ma non mancano casi in cui è stato rintracciato l’utilizzo di sostanze non consentite per la coltura (17,6%). Nel 19,1% dei casi, poi, sono presenti entrambe le circostanze. Le sostanze attive che più hanno determinato l’irregolarità sono l’organofosforico Chlorpyrifos nell’11% dei casi e il neonicotinoide Acetamiprid nell’8% dei casi. Altro dato da sottolineare è la presenza di oltre 165 sostanze attive nei campioni analizzati. L’uva da tavola e i pomodori risultano quelli che ne contengono la maggior varietà, mostrando rispettivamente 51 e 65 miscele differenti.

Tra i campioni esteri, la Cina presenta il tasso di irregolarità maggiore (38%), seguita da Turchia (23%) e Argentina (15%). In alcuni di questi alimenti non solo sono presenti sostanze attive irregolari, ma anche un cospicuo numero di multiresiduo. È il caso, ad esempio, di un campione di bacca di goji (10 residui) e di uno di tè verde (7 residui), entrambi provenienti dalla Cina. Degno di nota è anche un campione di foglie di curry proveniente dalla Malesia nel quale, su 5 residui individuati, 3 sono irregolari. Sul fronte dell’agricoltura biologica, su 359 campioni analizzati 353 risultano regolari e senza residui, ad eccezione di un solo campione di olive, di cui però non si conosce l’origine. Non è quindi possibile, allo stato attuale, sapere se l’irregolarità è da imputare a una contaminazione accidentale, all’effetto deriva o a un uso illegale di fitofarmaci. L’ottimo risultato è ottenuto, tra le altre cose, grazie all’applicazione di ampie rotazioni colturali e pratiche agronomiche preventive, che contribuiscono a contrastare lo sviluppo di malattie e a potenziare la lotta biologica tramite insetti utili nel campo coltivato.

 “Serve una drastica diminuzione dell’utilizzo delle molecole di sintesi in ambito agricolo, grazie a un’azione responsabile di cui essere tutti protagonisti – ha dichiarato Angelo Gentili, responsabile agricoltura di Legambiente -. Per capire l’urgenza di questa transizione, si pensi alla questione del glifosato, l’erbicida consentito fino al 2022, nonostante il 48% degli Stati membri dell’Ue abbia deciso di limitarne o bandirne l’impiego per la sua pericolosità; l’Italia inizi dalla sua messa al bando. Inoltre, per diminuire la chimica che ci arriva nel piatto è necessario adeguare la normativa sull’uso dei neonicotinoidi, seguendo l’esempio della Francia che da anni ha messo al bando i 5 composti consentiti dall’Ue, e approvare al più presto il nuovo Piano di Azione Nazionale sull’uso sostenibile dei prodotti fitosanitari”.

“Occorre liberare l’agricoltura dalla dipendenza dalla chimica – ha aggiunto il presidente di Legambiente Stefano Ciafani – per diminuire i carichi emissivi e favorire un nuovo modello, che sposi pienamente la sostenibilità ecologica come asse portante dell’economia made in Italy, diventando un settore strategico per il contrasto della crisi climatica. Riteniamo anche necessaria una svolta radicale delle politiche agricole dell’Unione, con una revisione della Politica Agricola Comune che superi la logica dei finanziamenti a pioggia e per ettaro per trasformarsi in sostegno all’agroecologia e a chi pratica agricoltura sostenibile e biologica. Le risorse europee, comprese quelle del piano nazionale di ripresa e resilienza, vanno indirizzate all’agroecologia, in modo da accelerare la transizione verso una concreta diminuzione della dipendenza dalle molecole pericolose di sintesi, promuovendo la sostenibilità nell’agricoltura integrata e in quella biologica come apripista del modello agricolo nazionale, con l’obiettivo di giungere in Italia al 40 % di superficie coltivata a biologico entro il 2030”.

Legambiente torna a chiedere che l’Italia allinei le sue politiche al Green deal e a quanto previsto dalle strategie europee Farm to fork e Biodiversità che ambiscono a ridurre entro il 2030 del 50% l’impiego di pesticidi, del 20% di fertilizzanti, del 50% di antibiotici per gli allevamenti, destinando una percentuale minima del 10% di superficie agricola ad habitat naturali. Ritiene, inoltre, strategico approvare la legge sull’agricoltura biologica, ferma al Senato della Repubblica, come strumento per sostenere il settore. Altro aspetto da non trascurare è quello dell’etica del cibo e della legalità: se gli alimenti devono essere sani, lo deve essere anche il lavoro che li produce così come sono rilevanti i rischi per la salute dei braccianti non regolarizzati derivanti dall’esposizione diretta ai pesticidi, in assenza dei più elementari dispositivi di protezione individuale previsti dalla normativa vigente. Per questo è importante attuare misure specifiche rispetto al fenomeno del caporalato, sia attraverso politiche di prevenzione che di controllo e vigilanza e di assistenza, reintegrazione e inserimento socio-lavorativo dei braccianti sfruttati e approvare con la massima urgenza la normativa contro le aste al doppio ribasso di prodotti agroalimentari da parte della grande distribuzione.

Nota metodologica dossier Stop pesticidi

Il dossier di Legambiente Stop Pesticidi riporta i dati elaborati nel 2019 dai laboratori pubblici italiani accreditati per il controllo ufficiale dei residui di prodotti fitosanitari negli alimenti. Tali strutture hanno inviato i risultati di 5.835 campioni di alimenti di origine vegetale, di provenienza italiana ed estera, genericamente etichettati dai laboratori come campioni da agricoltura non biologica. L’elaborazione dei dati prevede la loro distinzione in frutta, verdura, trasformati e altre matrici.

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lunedì 28 dicembre 2020

L’impatto psicologico della pandemia sulle persone che si sono ammalate di COVID-19, i loro familiari, gli operatori sanitari e sulla popolazione - Tiziana Metitieri

 

Uno degli effetti di questo lungo periodo di emergenza è l’entrata nel lessico quotidiano di termini che hanno a che fare con la salute psicologica, l’espressione delle emozioni, i disturbi mentali. La preoccupazione per l’impatto psicologico della pandemia e delle emergenze da essa scaturite (sanitaria, economica, educativa, sociale) ha portato nella prima ondata a dare vita a iniziative talvolta estemporanee di comunicazione, di ricerca o di intervento che non si sono ripetute con la stessa assiduità nella seconda ondata.

Non è neppure mancato il linguaggio consueto fatto di allarmi e stigma che, se da un lato strumentalizzava il disagio psicologico allo scopo di raccogliere attenzioni pubbliche o politiche, dall’altro continuava a contrastarne la legittimità, rendendo sempre più invisibile chi già da prima della pandemia affronta condizioni neuropsicologiche o psichiatriche. Questo meccanismo ha messo anche nell’ombra il lavoro eccezionale dei – troppo pochi - servizi di psicologia del nostro sistema sanitario nazionale che hanno saputo adattarsi ai nuovi bisogni di cura.

«Sia nella prima che nella seconda ondata abbiamo attivato percorsi orientati ai pazienti COVID-19, ai familiari e agli operatori», ha raccontato a Valigia Blu Elena Vegni, Professore Ordinario di Psicologia Clinica presso il Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano e direttrice dell’Unità Operativa Complessa di Psicologia Clinica dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano.

«Compito essenziale degli psicologi in ospedale è anche curare chi cura», ha aggiunto Giulia Lamiani, ricercatrice in Psicologia Clinica del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano e consulente dell’Unità Operativa Complessa di Psicologia Clinica dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano. Entrambe le strutture dell’ASST sono diventate ospedali COVID-19.

Vegni e Lamiani hanno anche partecipato al gruppo di lavoro multidisciplinare che ha definito le indicazioni e le checklist per assicurare una modalità strutturata di comunicazione tra operatori sanitari e familiari dei pazienti in isolamento, seguendo il principio “che il tempo dedicato alla comunicazione deve essere inteso come un momento di cura”.

Con loro abbiamo ripercorso l’esperienza clinica e di ricerca per fare anche il punto sull’impatto psicologico della pandemia di SARS-CoV-2 sulle persone che si sono ammalate di COVID-19, sui loro familiari, sugli operatori sanitari e sulla popolazione generale.

«Nella prima ondata, la scelta degli interventi da attuare, ad esempio l’introduzione dei dispositivi digitali nei reparti, era derivata da una percezione clinica e aveva coinvolto i pazienti in ospedale, i loro familiari e gli operatori sanitari (medici, infermieri, OSS). Tra le due ondate sono stati condotti i controlli medici e psicologici per i pazienti dimessi e sono state aperte le altre attività ambulatoriali che erano sospese da marzo. La seconda ondata è stata più intensa perché sono stati riattivati i percorsi per i pazienti COVID-19, per i familiari e per gli operatori oltre al mantenimento delle attività per i pazienti con altre condizioni. Questa seconda ondata è stata più complessa in termini logistici, basti pensare ai cambi di vestizione per recarsi dai pazienti COVID-19 a quelli non COVID-19 (cardiologici, oncologici, ecc.)», riassume la professoressa Vegni . «Ma gli interventi ora si basano sull’esperienza di lavoro».

I pazienti COVID-19 e le sequele psicologiche

In una recente revisione delle manifestazioni psichiatriche e neuropsichiatriche associate alle gravi infezioni da coronavirus che ha preso in considerazione la SARS esordita nel 2002, la MERS del 2012 e l’attuale COVID-19, Jonathan Rogers e collaboratori concludono che “se l'infezione da SARS-CoV-2 segue un decorso simile a quello da SARS-CoV o da MERS-CoV, la maggior parte dei pazienti dovrebbe guarire senza soffrire di malattie mentali. SARS-CoV-2 causa delirium in una percentuale significativa di pazienti nella fase acuta”. Secondo gli autori, tuttavia, i medici devono essere consapevoli del rischio che a lungo termine le persone che si sono ammalate di COVID-19 possano manifestare depressione, ansia, affaticamento, disturbo post-traumatico da stress e sindromi neuropsichiatriche più rare.

In una lettera alla rivista Psychological Medicine, il gruppo di lavoro sulla neurologia e la neuropsichiatria della COVID-19 che aggiorna, attraverso il blog dedicato, tutte le nuove pubblicazioni sul tema, chiarisce che, al momento, è difficile accertare una relazione causale tra la gravità della COVID-19 e lo sviluppo del disturbo post-traumatico. In questa fase è necessario identificare i potenziali fattori di rischio, per individuare i pazienti più vulnerabili e intervenire tempestivamente. Secondo James Badenoch e gli altri autori della lettera, finora, sono stati ipotizzati diversi meccanismi per spiegare come insorga il disturbo post-traumatico nei pazienti con COVID-19: “I fattori biologici e ambientali possono svolgere un ruolo, anche nei casi di COVID-19 lieve o moderata”. Inoltre, diversi studi stanno dimostrando “che il disturbo post-traumatico da stress può essere una complicazione del delirium” che ha un’alta prevalenza nei pazienti COVID-19, non solo in quelli ricoverati in terapia intensiva. Sarà, quindi, da studiare se “il delirium è associato a una maggiore probabilità di trauma psicologico a lungo termine nel contesto specifico della COVID-19”.

La professoressa Vegni conferma che «i pazienti che escono dall’esperienza medica Covid continuano i controlli psicologici, e talvolta anche in seguito ad un ricovero non complicato, non solo dopo aver affrontato le condizioni più gravi, presentano una sintomatologia di tipo post-traumatico». Nella prima ondata le modalità stesse del ricovero e il distacco dai familiari «sono stati avvertiti come irrealtà», che ha riguardato anche «l’elaborazione di lutti complicati: persone ricoverate alle quali moriva un congiunto ammalato».

«Noi c’eravamo» ricorda Vegni, con le persone che guarivano e con le tante che non ce l’hanno fatta: «Le persone non sono morte da sole, potevano contare sullo sguardo di un soggetto vicariante». Nella seconda ondata, continua, «c’è stata una sorta di normalizzazione: come se fosse dato per scontato che chi muore di COVID-19 muore drammaticamente senza i propri familiari. Si incontra di più la rabbia, la rassegnazione anticipatoria».

Sia nella prima che nella seconda ondata è apparso chiaro quanto l’attività in presenza, nelle camere di degenza, diventasse «mandatoria o addirittura psicologicamente irrinunciabile perché il paziente si confronta con la paura di morire e il totale isolamento. C’è bisogno di una presenza, anche se questa modalità di interazione è complicata e faticosa perché si è bardati. Il paziente altrimenti rimane da solo per tutto il giorno e per tanti giorni, in alcuni casi con il casco in testa, e questo è destruente». Anche il passaggio di documenti all’interno della stanza di degenza per autorizzare una procedura medica avviene con tutte le cautele e le distanze, a rendere ancora più incombente la sensazione di pericolo.

I familiari e il lutto

Quello che la pandemia ha rivelato è l’assenza, al di fuori dei reparti di cure palliative e degli hospice, di percorsi definiti di assistenza al lutto nelle strutture ospedaliere.

L’esperienza della malattia e della morte è stata complicata e intensificata quando ha riguardato una persona cara infettata da SARS-CoV-2. L’impossibilità di vedere il proprio familiare negli ultimi giorni di vita, le barriere poste dagli schermi o dalle misure di protezione e l’interruzione dei rituali dopo la morte hanno reso ancora più complicato l’adattamento al lutto. A tutto questo si deve aggiungere la concomitanza di più lutti all’interno di una famiglia, seguita dalle difficoltà finanziarie incombenti in alcune situazioni.

Agli ospedali dell’ASST «sia nella prima che nella seconda ondata è stato attivato un servizio di supporto psicologico alle famiglie che subivano un lutto, con la prima chiamata entro le 48 ore successive», spiega la professoressa Vegni e il supporto ai familiari in lutto è continuato fino a quando necessario, «per completare il percorso di cura del paziente che muore in ospedale, una cura che include l’evento-morte».

Con i familiari, aggiunge Vegni, «l’obiettivo clinico è di verificarne i bisogni: nei casi necessari si continuano le telefonate e in alcuni casi si è fatto da ponte per ritrovare gli operatori sanitari che avevano visto gli ultimi istanti di vita del proprio congiunto».

Sue Morris e collaboratrici, prendendo come riferimento l’esperienza delle cure palliative, hanno raccomandato alcune strategie psicologiche da implementare negli ospedali per sensibilizzare al lutto e per preparare le famiglie alla morte dei loro cari, sostenendole nei mesi successivi. Si tratta di strumenti educativi, di comunicazione e di supporto cognitivo-comportamentale.

Gli operatori e il disagio morale

Gli staff ospedalieri sono tra le categorie più a rischio di sviluppare gli effetti diretti e indiretti della pandemia. Sono, difatti, i più esposti ai rischi di contagio del virus SARS-COv-2 e alle conseguenze dello stress del loro lavoro sulla salute mentale.

«Nella prima ondata i dati sugli operatori hanno rivelato sentimenti di paura, solitudine (molti avevano deciso di andare a vivere lontano dalle famiglie), impotenza. Il compattarsi tra operatori ha dato però motivazione al gruppo», spiega Lamiani. «Nella seconda ondata, l’impotenza che prima era sostenuta da un’attivazione, adesso, per i limiti ancora evidenti, è diventata un’impotenza appresa con apatia e un esaurimento emotivo tipico del burnout». A complicare questo stato psicologico è l’essere passati da essere oggetto di gratitudine ed idealizzazione nella prima ondata, a essere diventati oggetto della rabbia che serpeggia nella popolazione.

Per Vegni, «nella prima ondata vi era la consapevolezza del ritorno alla normalità dell’investimento relazionale nell’atto di cura; nella seconda ondata le richieste dei pazienti sono diventate pressanti», facendo prorompere la riflessione «sugli aspetti esistenziali e sulla complessità dell’atto di cura che include l’aspetto relazionale».

In particolare, le ricercatrici dell’ASST Santi Paolo e Carlo e dell’Università di Milano hanno studiato il disagio morale negli operatori sanitari.

«Il disagio morale», spiega Lamiani, «è quel disagio sperimentato quando non si può agire secondo i propri standard professionali. Molti operatori si sono trovati a disagio nel non poter erogare cure nel modo in cui erano abituati a farlo. Questo ha significato fare i conti con il limite e con il passaggio da un ruolo di guarigione a un ruolo di accompagnamento, con un conseguente cambiamento nel significato del proprio agire». Si tratta di «un vissuto specifico che ha a che fare con i propri valori e con la propria identità professionale».

Lamiani riporta anche i risultati del "Progetto benessere", che è partito preso l’ASST a luglio, per valutare l’incidenza di ansia, depressione e stress post-traumatico negli operatori sanitari e amministrativi, attraverso appositi questionari. La partecipazione allo studio era su base volontaria e quindi probabilmente hanno partecipato solo gli operatori che sentivano l’esigenza. «Hanno risposto in più di 300 e questo dimostra che il questionario ha incontrato un bisogno». In tal modo, è stata messa in atto una «psicologia più proattiva, con la possibilità di una presa in carico individuale degli operatori che in base ai questionari segnalavano un disagio».

Secondo una metanalisi in continuo aggiornamento, il carico aggiuntivo sulla salute psicologica di chi lavora direttamente con i pazienti infetti durante le emergenze sanitarie epidemiche e pandemiche (includendo COVID-19, Ebola, influenza H1N1, SARS e MERS) è associato a un lieve incremento della prevalenza dell’ansia in fascia clinica e della depressione in fascia clinica, mentre non si registra ai dati attuali un aumento della prevalenza del disturbo post-traumatico da stress. Per gli autori della metanalisi, non è chiaro quale sarà l’impatto di questi incrementi sulla salute mentale degli operatori “ma è chiaro che esistono notevoli barriere che impediscono l'uso dei servizi di salute mentale da parte del personale sanitario”. Pertanto, “la disponibilità di servizi di salute mentale dovrebbe essere una priorità dato che i tassi di disagio psicologico sono già molto alti”.

Un aspetto critico è che gli operatori sanitari che vivono condizioni di disagio tendono a non richiedere spontaneamente né a cercare i servizi necessari ma a utilizzarli quando questi sono messi a disposizione dal proprio ospedale. Nelle due strutture dell’ASST di Milano, contando sulla ventennale esperienza dell’Unità Operativa di Psicologia, fin dalla prima ondata sono stati organizzati diversi tipi di interventi per gli operatori. In primo luogo, nei reparti era ed è garantita la presenza di psicologi.

«Abbiamo istituito una stanza di decompressione che nella prima ondata è stata adibita in modo da creare un setting accogliente con materiale informativo sulla prevenzione psicologica, sul burnout e lo stress, e su come dare cattive notizie», racconta la professoressa Vegni. «Un luogo sicuro dove poter staccare, con la possibilità di ascoltare musica, di essere guidati da una psicologa nel rilassamento e poter raccogliere le emozioni emergenti». Nella prima ondata la stanza aveva registrato circa 300 accessi ma nella seconda ondata «c’è stata una cronicizzazione dell’emergenza, che probabilmente ha portato a un minore uso della stanza di decompressione».

Come descritto da Leone e colleghi, tra gli altri interventi, “gli psicologi clinici delle ASST hanno istituito uno spazio di supporto individuale e hanno offerto agli operatori la possibilità di accedere agli incontri di decompressione e debriefing” anche attraverso le micro-equipe alle quali partecipavano medici, infermieri e OSS.

«Emotivamente è un’esperienza dura», afferma Lamiani. «Prima della pandemia abbiamo sempre lavorato con gli operatori ma questo, non rappresentava la parte principale del nostro lavoro. Ora invece è una parte cospicua. Quest’anno lo sforzo richiesto agli operatori è notevole. Ora i livelli di fatica sono alti, i costi elevati. La cura degli operatori deve essere tenuta a mente perché devono essere messi in condizioni di prestare al meglio le cure».

Durate l’estate, tra la prima e la seconda ondata, è stato anche organizzato un gruppo di miglioramento interdisciplinare per rivedere quello che aveva funzionato e quello che non aveva funzionato nella prima ondata, similmente a quanto avviene nella revisione degli eventi avversi. Al gruppo hanno preso parte diversi professionisti, per riflettere su quello che è stato fatto, per integrare e per apprendere dall’esperienza vissuta.

La popolazione generale e l’adattamento

I numerosi studi sull’impatto psicologico dell’epidemia nella popolazione generale risentono di alcune debolezze metodologiche quali la rappresentatività dei campioni studiati, gli strumenti utilizzati e il periodo di tempo in cui sono state condotte le ricerche. Nel complesso, i ricercatori richiamano alla cautela nelle modalità con cui si diffondono le notizie sul disagio psicologico e ad evitare toni sensazionalistici.

Come mostrano Ann John, Louis Appleby e altri, in un editoriale di novembre sul British Medical Journal, in base a diversi studi, non si registrano variazioni – né un aumento né un calo - dei tassi di suicidio nei primi mesi della pandemia, almeno nei paesi ad alto reddito. “Il quadro è molto meno chiaro nei paesi a basso reddito, dove possono mancare le reti di supporto disponibili in contesti con maggiori risorse”. In questo momento devono trovare spazio le misure di prevenzione. Secondo gli autori, “identificare i fattori di rischio noti che potrebbero essere esacerbati dalla pandemia è fondamentale. Questi includono depressione, disturbo post-traumatico da stress, disperazione, sentimenti di intrappolamento e sovraccarico, abuso di sostanze, solitudine, violenza domestica, abbandono o abuso di minori, disoccupazione e altre insicurezze finanziarie”. A questo scopo “devono essere messi a disposizione servizi adeguati per le persone in crisi e per coloro che hanno problemi di salute mentale emergenti o pre-esistenti”.

L’andamento dei livelli di ansia e di depressione durante la prima ondata è stato analizzato attraverso uno studio longitudinale inglese su oltre 30.000 partecipanti. I risultati di questo studio suggeriscono che i livelli più alti di depressione e ansia sono stati sperimentati nelle prime fasi del confinamento per poi diminuire piuttosto rapidamente nelle settimane successive, probabilmente per un effetto di adattamento. Tuttavia, essere donne o giovani, avere un grado di istruzione basso, un reddito basso o condizioni psichiatriche preesistenti, vivere da soli o con bambini si sono dimostrati fattori di rischio per livelli più elevati di ansia e sintomi depressivi sperimentati all'inizio del lockdown e queste disuguaglianze sebbene ridotte permanevano nelle settimane successive.

Riassumendo i risultati di questo studio, tendiamo a mostrare un rapido adattamento alle nuove esigenze psicologiche poste dai cambiamenti di vita anche durante una pandemia e i mesi di confinamento per ridurne i contagi. Le disuguaglianze nella rapidità e nell’efficacia di questo adattamento però si mantengono ed è per questo che è necessario supportare i gruppi vulnerabili che possono avere un impatto più severo e prolungato sulla salute mentale.

All’Università degli Studi di Milano, Lamiani sta conducendo una ricerca qualitativa sui processi di adattamento/disadattamento nella popolazione generale dopo la prima ondata della pandemia. Riposizionarsi a ondata finita rappresenta il processo cruciale per promuovere l'adattamento. Riposizionarsi vuol dire «entrare in contatto con i vissuti spiacevoli scatenati dalla pandemia e dal lockdown, come i vissuti di paura, di perdita (reale o simbolica), di incertezza, di solitudine, di disconnessione, di esaurimento e cercare di dare loro un senso e una forma per poter stare nel presente». Ovviamente il riposizionamento richiede risorse psicologiche individuali ma è anche influenzato da fattori contestuali.

I dati suggeriscono, spiega Lamiani, che «il processo di riposizionamento, può facilitare l’adattamento e la crescita: riuscire a stare in questa situazione, con tutti i residui emotivi della prima ondata, trovando un proprio posto o cambiando priorità. L’alternativa è il disadattamento, caratterizzato da blocchi nella sfera individuale, relazionale o nella propria progettualità».

In questo difficile anno si è scritto e parlato di più di aspetti e problemi psicologici legati alla pandemia. In molti casi le situazioni di fragilità che erano rimaste sommerse sono affiorate e questa situazione ha permesso di chiedere aiuto, di non sentire lo stigma della richiesta di aiuto. Si è diffusa la percezione che la sofferenza psicologica sia umana e degna di attenzione e cure, analogamente alla sofferenza fisica.

Questo patrimonio potrebbe andare disperso e, una volta tornati a quella che sarà una rinnovata normalità, potremmo tornare a dare poco spazio all’espressione delle emozioni e del disagio psicologico, all’ascolto delle richieste di aiuto. O, peggio, queste richieste potrebbero rimanere inascoltate perché i servizi specialistici sono insufficienti o non accessibili a tutti. La sofferenza psicologica tornerà invisibile? L’attenzione attuale alla salute psicologica servirà a moltiplicare i servizi nel sistema sanitario nazionale?

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domenica 27 dicembre 2020

L'obesità influisce sulla salute del pianeta, più anidride carbonica a causa dell'eccesso di peso


L'obesità pesa anche sulla salute del Pianeta, c'è poco da fare: essere appesantiti da chili di troppo equivale a produrre una maggiore quantità di emissioni di CO2 sia per via dei processi metabolici dell'organismo (più ponderosi negli individui sovrappeso e obesi), sia per via dell'eccesso di cibo consumato da chi soffre di obesità. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Obesity: a livello globale l'obesità contribuisce a un eccesso di 700 mega-tonnellate (una mega tonnellata è un miliardo di chili) di emissioni di CO2 l'anno, pari a circa l'1,6% di tutte le emissioni prodotte dall'uomo.

Lo studio è stato condotto da esperti dell'Università di Copenaghen, dell'Alabama e dell'ateneo di Auckland in Nuova Zelanda che però sottolineano: questi dati non devono portare alla stigmatizzazione dell'eccesso di peso. Le persone che soffrono di obesità sono già vittime di discriminazioni, e numerosi studi hanno documentato l'esistenza di diversi stereotipi. "Questo studio dimostra che paghiamo un prezzo altissimo per la difficoltà di accesso alle cure contro l'obesità - sostiene Ted Kyle, fondatore di ConscienHealth. Non solo il problema affligge i pazienti obesi, ma l'eccesso di peso non curato può anche contribuire a problemi ambientali".

La ricerca è stata svolta calcolando le emissioni in più prodotte da un individui obeso rispetto a individui di peso normale: gli esperti hanno tenuto conto del surplus di emissioni legate ai più ponderosi processi metabolici di chi convive con chili di troppo, le emissioni in più dovute alla produzione e al consumo dell'eccesso di cibo mangiato da questi individui, infine le emissioni legate al maggior dispendio di carburante per i loro spostamenti.

I ricercatori hanno visto che rispetto a un individuo normopeso, uno obeso produce ogni anno 81 kg extra di emissioni di CO2 per sostenere il suo metabolismo più elevato, 593 kg extra l'anno di emissioni legate al maggior consumo di cibo e bevande, 476 kg extra l'anno di emissioni per gli spostamenti in automobile e aerei. Complessivamente l'obesità è risultata associata a un 20% in più di emissioni di gas serra se confrontata con le emissioni di persone normopeso. Secondo gli autori questo studio offre un motivo in più per sviluppare, finanziare ed attuare strategie preventive e terapeutiche nella lotta all'obesità: il vantaggio oltre che in termini di salute e di risparmio sui costi sanitari sarebbe anche per l'ambiente.

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