domenica 31 gennaio 2016

Adhd, una malattia fittizia - Maurizio Parodi


Lo psichiatra statunitense Leon Eisenberg, il padre scientifico dell’Adhd(acronimo inglese di Attention Deficit Hyperactivity Disorder, Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività), nella sua ultima intervista a Der Spiegel (2011) ha detto: “L’Adhd è un ottimo esempio di malattia fittizia”, dunque inventata.
Ciononostante la “malattia” continua a infestare i manuali diagnostici e statistici. Sono tra l’1 e il 3 per cento i bambini affetti da Adhd, con una maggiore concentrazione nelle società più industrializzate. In Germania, l’uso di farmaci per curare il deficit di attenzione è passato da 34 kg (nel 1993) a 1.760 kg (nel 2011), con un aumento di 51 volte nelle vendite. Negli Stati uniti l’incidenza (crescente) è dell’8,4 per cento (ben 5,3 milioni di diagnosi) con un incremento del 66 per cento tra il 2000 e il 2010. Sempre negli Usa, il 90 per cento dei bambini iperattivi è curato con psicofarmaci.

Insomma, i bambini che non stanno tranquilli mentre la maestra spiega (magari cose inutili, noiose, incomprensibili…), che disturbano il compagno di banco (forse per consentire alla propria residua vitalità, mortificata dall’esercizio scolastico più pedestre, di sopravvivere nelle forme di una socialità «clandestina») diventano piccoli ammalati, «da curare»: una pillola ogni due-tre ore e l’alunno sta tranquillo, al suo posto. È formula magica suadentemente recitata negli annunci pubblicitari, in spregio alle rigide norme statunitensi che vietano di rivolgersi direttamente ai consumatori per propagandare prodotti farmaceutici che possono creare dipendenza – un eloquente dato sociale: le loro prescrizioni sono tra le più rubate.
Va ricordato che, dopo trent’anni di ricerca e migliaia di esperimenti compiuti in prestigiose università, non vi sono ancora prove scientifiche certe dell’esistenza della malattia che il farmaco dovrebbe curare. Per contro, si è notato che i disturbi lamentati spesso si attenuano quando gli scolari sono in vacanza o nei casi in cui si presti loro maggiore attenzione. Eppure l’Adhd viene trattata alla stregua di una malattia biologica, anche se non esiste alcuna possibilità di verifica in tal senso; d’altra parte, se sussistessero prove biologiche, diverrebbe una malattia «fisica», neurologica (non sarebbe nemmeno di competenza psichiatrica) accertabile con esami del sangue o altro test di laboratorio; invece non è mai stato trovato alcun marcatore biochimico, neurologico o genetico per il disturbo da deficit di attenzione, d’altra parte risulta dubbia l’attività di associazioni come la Chadd (Children and Adults with Adhd) che ogni anno riceve oltre un milione di dollari dalle grandi industrie farmaceutiche per finanziare iniziative di sensibilizzazione.
La malattia è fittizia, ma gli interessi economici sono veri. E i danni per la salute anche mentale di bambini e ragazzi drammaticamente reali.

venerdì 29 gennaio 2016

Il giorno dei risultati - Claudio Rossi Marcelli

...Prima di Natale mia figlia di otto anni è stata sottoposta a un test da parte del team di supporto della scuola: “Mostra una certa difficoltà nella lettura e nella scrittura, pensiamo possa soffrire di una leggera forma di dislessia o deficit dell’attenzione”. Io ho cercato di non preoccuparmi: parla fluentemente tre lingue, ha una creatività incontenibile ed è adorata da tutti i suoi amici. Leggendo un articolo sugli effetti di questi disturbi sulle bambine, però, ho scoperto che il più insidioso è la perdita di autostima e la conseguente tendenza alla depressione o l’anoressia durante l’adolescenza.
Così una sera, dopo averla messa a letto, mi sono sdraiato accanto a lei e le ho detto: “Tu lo sai che sei una bambina superintelligente, vero?”. “Davvero lo pensi?”, mi ha risposto subito lei, “perché io penso proprio di no. Non sono intelligente a scrivere e non sono intelligente a leggere. I miei compagni sono tutti più bravi di me”.
Mentre mi parlava, due grosse lacrimone le scendevano sulle guance. Io l’ho abbracciata forte e le ho fatto una lunghissima lista dei motivi per cui penso che sia un piccolo genio. E non ho smesso finché non si è addormentata con un sorriso sul volto.
I risultati del test arriveranno a giorni, ma noi ci siamo convinti che anche una leggera forma di dislessia non sarebbe un problema se riusciremo a convincere nostra figlia che è una bambina perfetta così com’è. E a quelli che dubitano che siamo una famiglia, cerchiamo di non pensarci. Anche perché siamo troppo impegnati a essere una famiglia.

domenica 24 gennaio 2016

Gli abitanti di Flint hanno bevuto acqua avvelenata. E il governo lo sapeva - Marina Forti

Migliaia di abitanti di Flint, nello stato del Michigan, Usa, hanno bevuto per quasi due anni acqua piena di piombo. In settembre i medici hanno trovato piombo nel sangue di 200 bambini sotto i 6 anni. Solo nei primi giorni di questo gennaio però il governatore del Michigan Rick Snyder ha dichiarato lo stato d’emergenza. E ora risulta che Snyder e il suo staff erano stati informati del problema già un anno fa, e anche i dirigenti dell’Ente di protezione ambientale ne erano al corrente.
«Il governo ha avvelenato gli abitanti di Flint», titola un notiziario locale. «Qualcuno dovrebbe andare in galera per questo», dicono ingrugnati cittadini, in coda per ricevere bottiglie d’acqua potabile dai vigili del fuoco (cito da questo servizio di mlive-Flint Journal). Il cineasta (e cittadino di Flint) Michael Moore ha fatto circolare un hashtag, #ArrestGovSnyder: ora raccoglie firme su una petizione per chiedere al Procuratore generale degli Stati uniti di arrestare il governatore del Michigan.
Cosa è successo dunque a Flint, la città operaia già sede della General Motors?
Tagli di bilancio. Tutto è cominciato alla fine nel 2013, quando un commissario speciale nominato dal governatore Snyder ha deciso di chiudere il contratto di fornitura idrica dal sistema di Detroit (che pesca dal lago Huron) e di attingere invece al fiume Flint, in attesa di costruire un nuovo sistema di approvvigionamento proprio: l’amministrazione avrebbe risparmiato 5 milioni di dollari nel primo anno, e 19 milioni in 8 anni.

Dall’aprile 2014 dunque, in nome del risanamento finanziario,  l’acquedotto di Flint pesca dal fiume omonimo. «Gli abitanti hanno capito subito che l’acqua era cattiva. Aveva un colore orribile, il sapore era cattivo, l’odore cattivo», spiega Curt Guyette, giornalista investigativo che lavora con la American Civil Liberties Union (Aclu) del Michigan e ha contribuito a far emergere lo scandalo. Per mesi però i cittadini si sono sentiti dire che l’acqua era sicura. «Ormai nel 2015 una residente, LeeAnn Walters, ha potuto far analizzare la sua acqua dalle autorità, ed è risultato che conteneva oltre 100 parti per miliardo di piombo. Non esiste un livello sicuro di piombo. Le norme federali considerano un livello di guardia 15 parti per miliardo, oltre bisogna intervenire». Ma nessuno è intervenuto.
Piombo nel sangue. Fin quando nel settembre 2015 la dottoressa Mona Hanna-Attisha, medico del locale ospedale pediatrico, ha diffuso uno studio da cui risulta che il numero di bambini con altissimi livelli di piombo nel sangue era schizzato in alto da quando la città beve dal fiume Flint. Più o meno allo stesso tempo un ricercatore di Virginia Tech ha trovato che quell’acqua conteneva livelli preoccupanti di sostanze corrosive e piombo.
Le autorità hanno negato. Nel frattempo però anche attivisti sociali e giornalisti indipendenti hanno cominciato a analizzare campioni d’acqua. Le proteste sono aumentate.
In ottobre le autorità pubbliche hanno infine riconosciuto ciò che ormai tutti sospettavano: l’acqua del rubinetto non era da bere. Il 1 ottobre il governatore Snyder ha stanziato 12 milioni di dollari perché l’acquedotto di Flint tornasse ad allacciarsi al sistema di Detroit.
Il danno però era fatto. E per molti bambini rischia di essere irreversibile, perché il piombo agisce sullo sviluppo del cervello e del sistema nervoso (qui la scheda dell’Organizzazione mondiale della sanità).
Il fatto è che l’acqua del fiume Flint contiene sostanze corrosive, in misura tale che in breve hanno cominciato a corrodere le vecchie tubature di ghisa della città (oltre metà dell’acquedotto ha più di 75 anni): ora è chiaro che gli amministratori non avevano fatto tutte le necessarie analisi sulla qualità dell’acqua, prima di metterla nell’acquedotto. Paradossale: già nell’ottobre 2014 General Motors ha smesso di usare quell’acqua perché faceva arrugginire i suoi motori. Ma nessuno si è preoccupato degli umani.
Le autorità sapevano. Eppure l’allora sindaco di Flint, Dayne Walling, aveva segnalato il problema almeno un anno fa. Il governatore Snyder era stato informato: si deduce da un promemoria datato 1 febbraio 2015, mandatogli dal suo staff: diceva che «il sindaco cavalca il panico pubblico… per chiedere allo stato di condonargli il debito e ottenere soldi per migliorie delle infrastrutture». Liquidava le lamentele dei cittadini per quell’acqua giallastra e di cattivo sapore: la Safe Drinking Water Act (la legge federale sull’acqua potabile) «non regolamenta l’aspetto estetico dell’acqua».
Quel promemoria non parlava di piombo, ma citava la corrosione delle tubature e i trialometani (gruppo di sostanze usate nella disinfezione): in concentrazioni alte possono causare tumori. Doveva bastare almeno per fare indagini sulla situazione, invece la nota al governatore tagliava corto: «Sarebbe un problema di salute pubblica solo in caso di esposizione cronica, a lungo termine».
Quella nota fa parte di quasi 300 pagine di e-mail che il governatore ha diffusomercoledì, nel tentativo di parare lo scandalo. Il giorno prima, 19 gennaio, nel suo discorso sullo “stato dello stato”, Snyder si era scusato per la seconda volta in pochi giorni con i cittadini per il “lamentevole” disservizio. Il suo portavoce dice che il governatore non ha saputo della gravità del problema fino al 1 ottobre, quando ha preso le misure necessarie. Ma sembra una tesi difficile da sostenere.
Ormai piovono rivelazioni. Il Detroit news ha riferito che le autorità federali avevano cominciato a indagare sul caso di Flint in febbraio, e da aprile scorso l’ente di protezione ambientale, Epa, sapeva che mancava un sistema di controllo sulla corrosione delle tubature: lo ha confermato la responsabile dell’Epa nel Michigan, Susan Headman (ora criticata perché ha lasciato quelle informazioni nel cassetto).
Insomma: le autorità sanitarie sapevano, il governatore anche. I ricercatori di Virginia Tech dicono che tutto si poteva evitare filtrando l’acqua, con una spesa di appena 100 dollari al giorno. Invece i cittadini hanno bevuto acqua avvelenata.
Una città di neri. Molti si chiedono se sarebbe successo così anche in una città di bianchi. Perché Flint è abitata al 56 per cento da neri. È anche una delle città più povere del paese, in profonda crisi da quando la General Motor ha chiuso quasi tutte le sue attività produttive – non è più la città operaia raccontata da Ben Hamper in Revithead. I più abbienti se ne sono andati, in città la disoccupazione è altissima, la povertà è la regola, 41 per cento degli abitanti sono considerati sotto la soglia di povertà. Proprio come nella vicina Detroit. Ovvio che le amministrazioni municipali vanno in bancarotta: chi poteva pagare tasse è andato via. Alla radice di questa crisi c’è una profonda ingiustizia.
Giorni fa il sindaco di Flint, signora Karen Weaver, ha detto che costerà intorno a 1,5 miliardi di dollari rimettere a posto la rete di distribuzione dell’acqua potabile. Ora i soldi arrivano, il governatore ha promesso 28 milioni per il recupero di Flint; il presidente Obama ha promesso 5 milioni supplementari di assistenza finanziaria.
Eppure, giorni fa il dipartimento alle finanze del comune di Flint ha annunciato una ondata di distacchi dell’acqua a cittadini che non pagano la bolletta: 1.800 avvisi partiti in novembre, altri in questi giorni. L’annuncio ha suscitato un coro di indignazione.
Secondo Lonnie Scott, che dirige la coalizione Progress Michigan, a Flint non è in questione solo la responsabilità di qualche amministratore, ma la logica dell’austerità: «La gestione d’emergenza, e decenni di austerity repubblicana, sono la causa del disastro».
da qui

sabato 23 gennaio 2016

Prima di allacciarvi le scarpe

 Campagna Abiti Puliti e Cnms


La nuova inchiesta realizzata dal Centro Nuovo Modello Di Sviluppo e dalla campagna Abiti Puliti “Una dura storia di cuoio” analizza la situazione lavorativa nell’industria della concia italiana. La ricerca, parte del progetto Change Your Shoes, focalizza l’attenzione in quella che viene definita la Repubblica del Cuoio: il distretto produttivo di Santa Croce, in Toscana.
Attraverso interviste e ricerche sul campo, gli attivisti fotografano una situazione di sfruttamento che spesso varca i limiti della legalità. Dopo un’accurata analisi del contesto nazionale e internazionale del mercato delle pelli, la ricerca ricostruisce il viaggio attraverso le 240 concerie e i 500 terzisti che insieme impiegano 12.700 lavoratori di Santa Croce. La maggior parte sono aziende di piccole dimensioni. Nonostante questo, alcune di loro possiedono concerie all’estero per la maggior parte situate in Brasile, India e Est Europa.
Rapporti di lavoro precari, contratti di quattro ore, lavoro nero, ricatto della manodopera straniera, rischi per la sicurezza e per la salute degli operai sono solo alcune delle caratteristiche evidenziate dal rapporto. I lavoratori e le lavoratrici spesso hanno paura a denunciare per non perdere il posto di lavoro. I lavoratori interinali rappresentano la moderna schiavitù. Spesso ci troviamo a denunciare situazioni simili in paesi lontani. Ora parliamo di Europa. Ora parliamo anche di noi.

I punti principali del rapporto:
1) Uno sguardo al commercio globale di pelle: l’Italia stazione conciaria del lusso

L’Italia non dispone di grandi allevamenti di bestiame: con 6 milioni di bovini allevati, ricopre appena lo 0,36 per cento del totale mondiale. Anche la produzione di pelli grezze è ridotta, appena l’1 per cento del totale mondiale. Però l’Italia ha una lunga tradizione conciaria e molti stabilimenti di lavorazione, per cui riesce a generare il 17 per cento del valore della produzione totale mondiale di pelli finite (5,25 miliardi di euro) e addirittura il 30 per cento del valore delle esportazioni. Si tratta quindi in gran parte di pelle ottenuta a partire da semilavorati importati dall’estero: un calcolo svolto nella ricerca dimostra come ben il 75 per cento della pelle prodotta in Italia abbia in realtà origine da pelle semilavorata di provenienza estera.
2) Si produce di meno e si commercia di più, anche nei distretti

L’attività di concia in Italia è sviluppata principalmente in tre distretti, che assieme coprono l’88,6 per cento di tutta la produzione: in ordine di importanza, Arzignano in Veneto, lungo la valle del Chiampo in provincia di Vicenza; Santa Croce sull’Arno in Toscana, tra le province di Pisa e Firenze; Solofra in Campania, tra Napoli e Avellino.
L’industria conciaria italiana è dominata da piccole imprese a proprietà familiare, ma ciò non ha impedito ad alcune di esse diinternazionalizzarsi, di aprire concerie all’estero. Esempi sono Antiba, azienda di Santa Croce che possiede concerie in India, o Vicenza Pelli, azienda di Arzignano con uno stabilimento in Serbia. I campioni dell’internazionalizzazione sono i fratelli Mastrotto che dal Veneto si sono espansi in Brasile, Tunisia, Vietnam, per disporre di pelli finite a basso costo da collocare sul mercato mondiale, ormai affollato da nuovi venuti che riescono a vendere a prezzi molto più bassi di quelli praticati dai paesi di vecchia industrializzazione.

3) Il segreto del distretto di Santa Croce sull’Arno: il piccolo sfrutta meglio

Il distretto di Santa Croce contribuisce al 70 per cento di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa e al 98 per cento di quello prodotto in Italia. Qui ci sono 240 concerie, per la maggior parte di piccole dimensioni e con i macchinari necessari alla sola fase centrale della concia; sono affiancate da oltre 500 laboratori terzisti per l’esecuzione delle altre lavorazioni specifiche. Solo in rarissimi casi, le concerie appartengono a grandi imprese internazionali: tra i casi più noti Blutonic e Caravel Pelli Pregiate (15 e 76 dipendenti), proprietà della multinazionale del lusso Kering, che detiene tra gli altri i marchi Gucci e Bottega Italiana. Il distretto impiega 12.700 persone, tra lavoratori alle dirette dipendenze delle imprese e assunti da agenzie interinali. I primi rappresentano il 72 per cento del totale, i secondi il 28 per cento. È nelle officine dei terzisti che si concentra il lavoro interinale, dove si registrano le situazioni di maggior sfruttamento lavorativo.
4) La deregolarizzazione dei rapporti di lavoro: una flessibilità che favorisce l’illegalità

Nel 2012 i lavoratori interinali nel distretto di Santa Croce erano 1.733. Nel 2014 sono 3.451, il doppio. Segno che il lavoro è cresciuto, ma in forma sempre più precaria. Lo dimostra anche il fatto che nel 2014 nel distretto hanno trovato lavoro 4.650 nuovi addetti, ma solo 1.199 alle dirette dipendenze delle aziende produttrici. A confermare la precarietà interviene anche il dato sui contratti: nel 2014 i lavoratori interinali sono stati 3.451, ma i contratti stipulati sono stati 5.021, uno e mezzo a testa. Sono diffusi persino contratti di 4 ore: un lavoratore viene assunto alle 8 e a mezzogiorno si ritrova già senza lavoro.
Nonostante le maggiori elasticità consentite dalla legge, le infrazioni non sono scomparse. Nel distretto di Santa Croce è abituale lavorare ben oltre le ore di straordinario consentite, facendo ampio ricorso al pagamento al nero. Dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2014, nel distretto sono state ispezionate 185 aziende (concerie e terzisti) per un totale di 1.024 lavoratori. Di questi, 70 per cento erano di nazionalità italiana e 30 per cento immigrati. Complessivamente sono state trovate irregolarità riguardanti 217 lavoratori fra cui 116 totalmente in nero. Il 43 per cento dei lavoratori in nero erano immigrati.

5) Il ricatto ai lavoratori stranieri: I lavoratori interinali rappresentano la moderna schiavitù

I contratti interinali aperti nel 2014 hanno riguardato per il 54 per cento stranieri, quasi tutti “extra comunitari”. Non è un caso se negli ultimi dieci anni gli stranieri residenti nei comuni del distretto sono passati da 5.060 a 14.248. La crisi ha indebolito ulteriormente la posizione degli immigrati e molti di loro stanno perdendo le posizioni che avevano raggiunto. Alcuni, che in passato erano riusciti a conquistarsi un lavoro a tempo indeterminato, lo hanno perso quando sono andati a trovare i propri cari in Senegal: le dimissioni in bianco fatte firmate al momento dell’assunzione sono servite ai datori di lavoro per licenziare gli operai che si assentavano per periodi troppo lunghi. Le agenzie interinali si prestano spesso ai desideri delle ditte, che vogliono che alcuni lavoratori senegalesi, particolarmente apprezzati, vadano a lavorare solo per loro, anche se vengono assunti occasionalmente con contratti interinali. Un rapporto “usa e getta”, quindi, con l’obbligo di essere sempre a disposizione: il tempo di un lavoratore diventa così totalmente proprietà della ditta, sia quando lavora che quando non lavora.

6) La salute a rischio, soprattutto nelle aziende terziste
Nel distretto ci sono aziende moderne, attente alle normative sulla sicurezza e l’igiene, ma anche concerie e terzisti che investono malvolentieri, cercando anzi di risparmiare a discapito dei vincoli normativi. Dalla ricerca emerge che sono soprattuttogli interinali i più a rischio: nelle ore in cui sono assunti vengono costretti a ritmi massacranti e spesso senza la fornitura degli indumenti antinfortunistici, come le cuffie contro il rumore o le mascherine per ripararsi dalle esalazioni.
Nel 2011 la sezione della Medicina del Lavoro competente per il distretto di Santa Croce, ha condotto uno studio su 101 lavoratori addetti alla scarnatura, con un’età media di 44 anni, di cui 37 stranieri: di tutti i lavoratori esaminati, 31 sono risultati positivi per disturbi alla colonna vertebrale. I casi di malattie professionali riconosciuti nel distretto di Santa Croce dal 1997 al 2014 sono stati 493, suddivisibili in cinque grandi gruppi: malattie muscolo-scheletriche (44 per cento), tumori (19 per cento), dermatiti da contatto, ipoacusie da rumore e malattie respiratorie.
7) Acque chiare, ma tanta opacità
In un’area in cui vivono circa 110.000 persone, il carico inquinante nel sistema delle acque è pari a quello di una città con 3 milioni di abitanti: eppure tra riciclo dei rifiuti e corretto smaltimento le condizioni ambientali sono molto migliorate rispetto al passato. Ciò nonostante la ricerca ha riscontrato una evidente mancanza di collaborazione da parte delle imprese di smaltimento e una grande opacità dei dati. Purtroppo anche nel passato recente la mancanza di controlli ha portato anche allo sviluppo di situazioni criminali: la Guardia di Finanza ha scoperto che tra 2006 e 2013 il Consorzio di Fucecchio (oggi chiuso) ha immesso nel fiume Arno ben 5 milioni di metri cubi di fanghi tossici senza depurarli.

mercoledì 20 gennaio 2016

L’istruzione è sotto attacco, 13 milioni i bambini colpiti in Medio Oriente e Nordafrica secondo l’Unicef – Mara Budgen


L’Unicef, con il rapporto Education under fire, fornisce una stima dell’impatto devastante dei conflitti sugli scolari in Medio Oriente e Nordafrica.
Tredici milioni di bambini non hanno accesso all’istruzione a causa dei conflitti in atto in Medio Oriente e Nordafrica. Questi e altri dati allarmanti sono emersi dal rapporto Education under fire dell’Unicef, che analizza la situazione dell’istruzione in Siria, Iraq, Yemen, Libia, Palestina, Sudan, Giordania, Libano e Turchia.

Fino a pochi anni fa, la regione era vicina al raggiungimento dell’istruzione primaria per tutti. Per esempio, in Siria, nel 2010 il 93 per cento dei bambini era iscritto alle scuole elementari. Nel 2013, però, il tasso è sceso al 62 per cento. Oggi più di due milioni di bambini non hanno accesso all’istruzione in Siria e questo scenario ne minaccia altri 500mila. Inoltre, dei 3-4 milioni di siriani scappati dal paese, 700mila bambini non vanno a scuola.

“In mezzo a violenza e instabilità, la scuola è un luogo di cultura e opportunità, un santuario per la ripresa e la salute. L’istruzione fornisce ai bambini le capacità per ricostruire le loro società”
(Anthony Lake, direttore generale di Unicef)

In queste zone di conflitto, uno dei principali fattori che impediscono l’accesso all’istruzione è la distruzione fisica delle strutture scolastiche. Si stima che 8.850 scuole in Siria, Iraq, Yemen e Libia siano inagibili perchè danneggiate o utilizzate per ospitare le persone che hanno lasciato le proprie case o per scopi militari. Queste condizioni interessano un quarto delle scuole in Siria, mentre in Iran tre milioni di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie abitazioni hanno trovato rifugio in strutture scolastiche.

Non solo le scuole sono nel centro del mirino (nel 2014 sono stati registrati 214 attacchi a edifici scolastici nella regione), ma anche bambini e insegnanti. Durante i 51 giorni di conflitto che ha incendiato Israele e Palestina nell’estate del 2014, 551 bambini palestinesi sono stati uccisi e più di tremila sono rimasti feriti, molti dei quali riportando disabilità permanenti. Molti genitori non mandano i propri figli a scuola per paura che gli possa succedere qualcosa in loro assenza. Inoltre, sono stati registrati diversi attacchi a insegnanti, come quello in Yemen che ha ucciso tredici professori in una sola offensiva. In Siria, circa 53mila docenti sono stati obbligati a interrompere la loro attività di insegnamento a causa della guerra civile.

Il rapporto dell’Unicef mette in luce alcune delle azioni necessarie per migliorare l’accesso all’istruzione ai bambini nelle aree di conflitto in Medio Oriente e Nordafrica. Queste misure prevederebbero servizi informali di istruzione, azioni di pressione sulle parti coinvolte nel conflitto per fermare gli attacchi alle scuole, e maggiori aiuti umanitari destinati all’istruzione. Il rapporto evidenzia anche iniziative come No Lost Generation, grazie alla quale sono stati avviati 600 gruppi di istruzione in Siria con lo scopo di aiutare i bambini nel proseguimento degli studi. La distribuzione di materiale scolastico da parte dell’Unicef alle famiglie ha inoltre aiutato i bambini iracheni e siriani a continuare il loro percorso scolastico presso le loro abitazioni e i campi profughi.

I conflitti mettono non solo a repentaglio la vita dei bambini, ma minano anche la loro possibilità di costruire un futuro migliore per le comunità e le nazioni in cui vivono. Se i bambini crescono circondati dalla violenza, senza avere la possibilità di sviluppare i mezzi necessari per affrontare il trauma, da adulti saranno più propensi a sviluppare modelli comportamentali distruttivi e, allo stesso tempo, sarà meno probabile che acquisiscano le capacità per poter affrontare i processi complessi di risoluzione del conflitto, ricostruzione e pace duratura.

(Tradotto da CAMILLA SOLDATI)

lunedì 18 gennaio 2016

SIAMO ANGOSCIATI. IL GRIDO DEI MEDICI


Un appello da sottoscrivere (*)


Caro presidente Mattarella, abbiamo ascoltato ed apprezzato il suo discorso di fine anno, in particolare dove lei ha toccato il tema dell’inquinamento e delle sue ricadute per la salute.
Il tema è di stringente attualità, specie in queste settimane di continui superamenti dei livelli di smog ed in cui ci sembra paradossale che non si possa far altro che sperare in un cambiamento delle condizioni climatiche (come se ”magicamente” con la pioggia gli inquinanti si dileguassero e non ricadessero viceversa al suolo) e sembra che non ci resti altro che confidare nella “benignità” di quella Natura che viceversa costantemente violiamo. Proprio a questo proposito, come cittadini italiani, ci rivolgiamo a Lei per esprimerle tuttoil nostro più profondo sgomento e la nostra angoscia per i tempi che stiamo vivendo.
Siamo certamente preoccupati per la mancanza di lavoro e perché non vediamo un futuro per i nostri giovani, ma ancor più ci angoscia la consapevolezza che stiamo compromettendo un bene ancora più prezioso: la loro salute.
Vorremmo tanto continuare a illuderci di vivere nel “Bel Paese”, ma purtroppo così non è: lei saprà che l’ultimo rapporto dell’ UE ci pone al primo posto per morti premature in Europa a causa dei livelli di PM2.5, ossidi di azoto, ozono.
Siamo il Paese dove la speranza di “vita in salute” alla nascita (disabilità medio-grave) dal 2004 al 2013 è diminuita di 7 anni nei maschi e di oltre 10 nelle femmine. Secondo l’ultimo rapporto dei registri tumori (AIRTUM) “Considerando il rischio cumulativo di avere una diagnosi di qualunque tumore, questa probabilità riguarda un uomo ogni due e una donna ogni tre nel corso della loro vita”.
Gli ultimi dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ACCIS, Automated Childhood Cancer Information System – IARC), dei quali si attende un aggiornamento proprio quest’anno, hanno tempo fa evidenziato come questo problema sia rilevante anche nei bambini, con un’incidenza di tumori infantili più alta in Italia rispetto alle medie europee sia nella fascia di età 0-14 che in quella 0-19.
Dall’esame del più aggiornato rapporto nazionale AIRTUM emerge, come ricordato in un editoriale pubblicato sulla rivista “Epidemiologia e Prevenzione” nel 2013, che i tassi italiani di incidenza dei tumori in età 0-14 anni continuino ad essere tra i più alti fra i paesi occidentali, nonostante la crescita si sia apparentemente stabilizzata rispetto ai dati precedenti.
A questo si aggiunga la rilevanza di particolari, stridenti e diffuse criticità sanitarie locali da danno ambientale come quelle che caratterizzano i Siti di Interesse Nazionale (SIN), ben descritte dagli studi “SENTIERI” dell’Istituto Superiore di Sanità e valide per tutte le classi età, o i rilevi del recentissimo rapporto dell’ISS sulla Terra dei Fuochi, nel quale si legge che: “Per quanto riguarda la salute infantile è emerso un quadro di criticità meritevole di attenzione, in particolare si sono rilevati eccessi nel numero di bambini ricoverati nel primo anno di vita per tutti i tumori, e, in entrambe le province, eccessi di tumori del sistema nervoso centrale nel primo anno di vita e nella fascia di età 0-14 anni.”
In maniera simile, nell’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulla situazione di Taranto, dove si è registrato un eccesso di incidenza di tumori in età pediatrica del 54% rispetto all’atteso regionale, si ricorda come “l’osservazione di un eccesso di incidenza dei tumori e delle malattie respiratorie fra i bambini e gli adolescenti contribuisce a motivare l’urgenza degli interventi tesi a ripristinare la qualità dell’ambiente”.
A proposito dei SIN è anche importante sottolineare come, nonostante le evidenze epidemiologiche, ci siano ancora, in questo momento, circa sei milioni di italiani che risiedono in aree ad elevato rischio ambientale e sanitario senza che in quasi nessuno di questi luoghi si siano avviate le pratiche di bonifica e risanamento previste dalla legge. In alcuni di questi luoghi (ad esempio Taranto), in assenza di bonifiche si è persino continuato ad insediare nuove sorgenti inquinanti.
Ma quante piccole o grandi Taranto e quante Terre dei Fuochi ci sono sparse nel nostro paese?
Le evidenze scientifiche dimostrano ampiamente che le sostanze tossiche presenti nell’aria, nei cibi, nelle acque generano un aumento del rischio non solo di cancro o di patologie cardiovascolari, ma anche di tante altre malattie in adulti e bambini: sindrome metabolica, diabete, obesità, patologie neurodegenerative, disturbi dello spettro autistico, infertilità, abortività spontanea, (anche per valori di inquinanti abbondantemente al di sotto dei limiti di legge), diminuzione del Quoziente Intellettivo, per non citarne che alcune.
In Europa si calcola che ogni anno si perdano 13 milioni di punti di QI e si contino ben 59.300 casi aggiuntivi di ritardo mentale a causa dell’esposizione durante la gravidanza a pesticidi organo-fosforici e che, in definitiva, per l’esposizione a sostanze che agiscono come interferenti endocrini i costisanitari conseguenti ammontano a 209 miliardi di euro, pari all’1,23% dell’intero prodotto interno lordo.
L’Italia è il Paese europeo che consuma più pesticidi per ettaro di suolo agricolo e la contaminazione nelle falde acquifere superficiali e profonde aumenta a dismisura.
La testimonianza coraggiosa di un imprenditore agrozootecnico che vede andare in fumo il lavoro e l’impegno di una vita per la contaminazione del suo terreno da insediamenti petroliferi ci ha letteralmente toccato il cuore e siamo certi che sarà così anche per lei.
Con il cuore in mano le vogliamo dunque chiedere se le sembra sensato che venga chiesto solo a noi cittadini di avere comportamenti virtuosi (raccolta differenziata/trasporto pubblico/meno riscaldamento nelle case) e nel contempo si attuino politiche energetiche e industriali che sono contrarie al più elementare buon senso. Alla luce di numerose evidenze scientifiche che dimostrano la nocività degli inceneritori di rifiuti (compresi quelli di nuova generazione), come si può prevedere di costruire nuovi impianti che avranno bisogno di enormi quantità di rifiuti da bruciare per almeno 20 anni per ammortizzare i costi, vanificando quindi tutti i nostri sforzi?
E che dire del recente decreto “Sblocca Italia” che, calcolando il “fabbisogno di incenerimento” invece del più sostenibile “fabbisogno di impianti per il recupero di materia” e superando i vincoli territoriali, consente già a centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti di viaggiare su e giù per l’Italia con l’ovvio aggravio anche dell’inquinamento da traffico? Come si possono prevedere incentivi agli inceneritori, pari ogni anno ad oltre 500 milioni di euro, per finanziare la produzione di energia da rifiuti e contemporaneamente chiedere ai cittadini di ridurre i rifiuti non riciclabili? Gli incentivi previsti per gli inceneritori sono superiori al totale dei contributi ricevuti dai Comuni dal CONAI per la raccolta differenziata degli imballaggi.
Non sarebbe più utile, sia dal punto di vista economico che ambientale, prevedere che quella cifra – proveniente dai contributi dei cittadini – fosse utilizzata per promuovere raccolte differenziate di qualità e impianti di recupero e riciclo? Si stima che un più uso efficiente delle risorse lungo l’intera catena potrebbe ridurre il fabbisogno di fattori produttivi materiali del 17%-24% entro il 2030, con risparmi per l’industria europea dell’ordine di 630 miliardi di euro l’anno. Chi così legifera non è in linea con quanto chiaramente indicato dalle direttive EU in tema di gestione di rifiuti che pongono il recupero di materia prioritario rispetto al recupero di energia, come è ormai documentato da fiumi di inchiostro. Chi così legifera sembra non considerare che ogni processo di combustione genera inquinamento atmosferico, rifiuti liquidi e ceneri tossiche (che vengono addirittura destinate alla produzione di cemento) e continua pervicacemente a premiare l’incenerimento di biomasse di ogni genere, inclusi scarti animali fino a ieri destinati a produrre mangimi.

Stiamo assistendo a devastazioni di fiumi per tagli sconsiderati degli alberi destinati a queste centrali e spuntano come funghi centrali a biogas in cui la materia organica invece di essere restituita ai suoli come compost viene “digerita” in assenza di ossigeno con rischi per ambiente e salute. Si “dimentica” che così facendo si perde il benefico effetto che l’aumento di sostanza organica nei suoli avrebbe nel contrastare non solo la desertificazione (che ormai riguarda il 30% dei nostri suoli) ma anche i cambiamenti climatici, grazie alla “cattura” della CO2, favorita anche dalla agricoltura biologica.
Per non parlare della follia di trivellare il nostro Paese per la ricerca di idrocarburi per mare e per terra i cui effetti devastanti sono ormai scientificamente e in modo incontestabile dimostrati: non è questa l’energia di cui abbiamo bisogno.
A tal proposito la lettera “Energia per l’Italia” indirizzata al Governo da valenti ricercatori e scienziati del nostro Paese è rimasta ad oggi senza risposta e così pure le considerazioni dei medici sono rimaste inascoltate. Sembra che non si voglia prendere coscienza del fatto che la materia sul nostro pianeta è qualcosa di “finito” e che la vita si è sviluppata grazie a una fonte esterna, il sole: è quindi a questa fonte inesauribile che dobbiamo rivolgerci per rendere possibile il proseguimento della vita stessa sulla Terra.
Caro Presidente, l’angoscia che portiamo nel cuore è davvero grande e non ci potremmo perdonare di non avere tentato ogni strada utile a contrastare la follia delle scelte che si vanno operando nel nostro Paese.
Come medici, ingegneri, ricercatori, scienziati, cittadini siamo disponibili a stilare un manifesto di intenti: “Italia sostenibile e responsabile”, anche perché, coerentemente con gli impegni assunti dal nostro Paese al vertice di Parigi, Cop 21, non vorremmo che tutto rimanesse, ancora una volta, lettera morta.
Le chiediamo quindi di riceverci, ascoltarci ed approfondire direttamente con noi le questioni che abbiamo sollevato. Vorremmo anche darle testimonianza delle tante esperienze positive e delle tante soluzioni già in essere nel nostro Paese, quali ad esempio quelle attuate nei Comuni Virtuosi che riteniamo dovrebbero essere maggiormente conosciute, valorizzate e premiate. La ringraziamo per l’attenzione e fiduciosi in un positivo riscontro voglia gradire i nostri più sinceri auguri e saluti.
Gentilini Patrizia, medico oncoematologo Forlì Comitato scientifico ISDE
Di Ciaula Agostino, medico internista Bari Comitato scientifico ISDE


(*) Appello diffuso in rete e rilanciato, tra gli altri, da comunivirtuosi.org e da «Comune info»


sabato 16 gennaio 2016

Lampedusa - La lotta degli eritrei contro le impronte digitali

“Siamo considerati come pacchi postali da spedire da un posta all’altro”. I profughi eritrei arrivati a Lampedusa non vogliono rimanere in Italia, né essere “ricollocati” dove non hanno affetti, relazioni o progetti. Una storia di dignità contro burocrazia

 “Da  un mese circa 230 profughi eritrei, sudanesi e siriani protestano a Lampedusa contro il sistema europeo di riallocazione”. È l’inizio della lettera di Don Mussie Zerai al commissario europeo Dimitris Avramopoulos.

“Gli eritrei contestano il fatto che il programma adottato non tiene conto dei desideri, delle situazioni particolari, dei legami affettivi, di parentela, di amicizia in base alle quali ciascuno può preferire un paese piuttosto che un altro”.
“Siamo considerati – dicono – come dei pacchi postali da spedire da qualche parte, anziché esseri umani con una loro storia, un vissuto, un carico di speranze e di progetti per il futuro”
Eppure i profughi del corno d’Africa sono considerati fortunati. Gli altri sono ormai “migranti economici” ed espulsi con una procedura sommaria.

Io sono fuggito da un regime che pretendeva di decidere della mia vita al posto mio. Di stabilire, cioè, il mio futuro, determinare dove e come dovevo vivere. Per questo sono fuggito: per essere libero di scegliere autonomamente il mio futuro.
Qui ora mi trovo invece davanti a un altro regime di regole che, sostanzialmente, pretende anch’esso di determinare il mio futuro, perché è evidente che la mia vita dipenderà dal posto in cui verrò mandato.
Ecco il motivo del mio no: chiedo il rispetto della mia libertà e del mio desiderio di avere una vita dignitosa”  (Testimonianza raccolta da Don Mussie Zerai).