lunedì 29 aprile 2019

Stiramento del seno: una pratica che miete vittime in mezza Africa - Daniele Bellocchio




Breast ironing breast flattening: è questo il nome con cui è comunemente conosciuta la pratica, diffusa soprattutto in Camerun e in diversi paesi dell’Africa Occidentale (TogoBeninGuineaCosta d’Avorio tra gli altri), attraverso la quale viene impedita o arrestata la crescita del seno delle giovani ragazze. Le madri e le nonne, in gran segreto, tra le mura domestiche sottopongono le bambine a un dolorosissimo rituale: attraverso l’impiego di pietre incandescenti, bastoni roventi e cinture, stirano letteralmente il seno di figlie e nipoti.
La pratica dello stiramento del seno
Le ragazze per mesi sono sottoposte al trattamento. Sul loro corpo vengono premuti con forza gli oggetti incandescenti sino a quando, dopo numerose settimane il seno scompare. Rimangono però cicatricidanni permanenti e una mutilazione perpetua sul corpo e nell’anima delle giovani.
Il motivo per cui il breast ironing viene praticato, è quello di “tutelare le giovani daattenzioni maschili, molestie, stupri e gravidanze indesiderate” che impedirebbero alle ragazze di proseguire gli studi.
Breast ironing: in Camerun vittima una donna su quattro
Secondo l’Onu, invece, questo è un crimine contro le donne. Per capire i danni che provoca, e la sua diffusione, occorre leggere i dati divulgati dall’organizzazione tedesca Giz, una delle prime a occuparsi del fenomeno.
https://www.osservatoriodiritti.it/2019/04/18/stiramento-del-seno-una-pratica-che-miete-vittime-in-mezza-africa/Secondo l’agenzia tedesca i danni più diffusi sono infezioni, formazione di ascessi, malformazioni e completo arresto dello sviluppo del seno. Dati ufficiali, essendo il breast ironing praticato in clandestinità, è difficile reperirli, ma stando sempre al report dell’organizzazione sono oltre 4 milioni le vittime nel mondo di questa pratica e nel solo Camerun una donna su quattro è costretta a subire questa violenza.
Stiramento del seno: la testimonianza di una vittima
Kinaya, nome di fantasia, è una donna adulta originaria dell’Africa occidentale che ha deciso di dare la sua testimonianza all’emittente britannica BBC. Quando compì 10 anni fu sottoposta alla stiratura del seno e oggi ricorda così quella drammatica esperienza:
«Mia madre mi disse: ”Se non stiri i seni gli uomini verranno da te e incominceranno a fare sesso”. La pratica dura anche mesi e il dolore che provi non sparirà mai, te lo ricordi per sempre. Inoltre, mentre viene eseguito il breast ironing non è permesso piangere e gridare perché ciò significherebbe non essere una ragazza forte e le urla e le lacrime getterebbero dell’onta sulla famiglia».
Oggi Kinaya è madre e quando sua figlia, la primogenita, compì 10 anni, la madre le propose di effettuare la stiratura del seno anche alla nipotina. «Mi sono opposta in tutti i modi e ho giurato che nessuna delle mie figlie avrebbe patito quello che sofferto io e mi sono allontanata dalla mia famiglia perché avevo paura che potessero compiere questa violenza sulle mie figlie di nascosto».

Un rituale usato (anche) contro l’omosessualità
Un’altra drammatica storia è quella di Simone, anche questo nome di fantasia. «Io venni sottoposta al breast ironing quando avevo 13 anni e mia madre scoprì che ero omosessuale. Lei pensava che fossi attraente per via del mio seno, allora decise di stirarlo perché in quel caso sarei stata brutta e nessuno mi avrebbe voluta».
Per mesi Simone fu costretta, oltre che a subire la stiratura, anche a indossare una strettissima fascia che le provocava dolore persino a respirare. A distanza di anni, dopo che fu costretta da sua madre a sposare un uomo dal quale ebbe poi un figlio, il danno si mostrò in tutta la sua evidenza:
Breast ironing anche tra le bambine nel Regno Unito
Il problema della violenza sulle ragazze adolescenti non interessa soltanto l’Africa: oggi all’interno della comunità africana del Regno Unito questo fenomeno si sta diffondendo sempre di più. Un’inchiesta del quotidiano londinese The Guardian ha rivelato che a LondraLeedsEssex e Wolverhampton si sono registrati diversi casi di ragazze, se non addirittura bambine, sottoposte a questa pratica. E dati non ufficiali parlano di oltre 1.000 vittime di quest’arcaica e crudele tradizione.
Attualmente non esiste un reato specifico per il breast ironing, ma il ministero degli Interni inglese lo ha definito come un abuso su minori specificando che come tale dovrebbe essere perseguito. A riguardo si è espressa anche Angie Mariott, infermiera ginecologa collaboratrice della polizia del Cheshire, che ai microfoni della BBC ha dichiarato: «È un crimine nascosto perché non viene denunciato dal momento che le donne temono poi di essere estromesse dalle loro comunità».

L’acqua e la guerra contro i popoli - Raúl Zibechi



Nessuno si sorprenderà se diciamo che l’acqua viene utilizzata come arma di guerra contro i popoli. Il caso della Striscia di Gaza parla da sé. Tuttavia, non abbiamo ancora idea dell’entità del fenomeno, perché siamo abituati a considerare che i casi più noti siano piuttosto delle eccezioni. Niente di più sbagliato.
Milioni di persone sono prive di acqua nelle grandi città dell’América Latina, in particolare a São Paulo e a Città del Messico. Non ci sono cifre chiare sui problemi di approvvigionamento, ma è certo che l’acqua è sempre più contaminata, scarsa e, di conseguenza, viene militarizzata dagli Stati. Il cambiamento climatico e la crescente disuguaglianza  giocano contro i settori popolari che sono i più colpiti dalla crisi nella fornitura di acqua potabile di qualità.
In El Salvador, il 90 per cento dell’acqua è contaminata, piena di sostanze chimiche come il glifosato, come evidenzia un recente studio. In Uruguay, un paese che aveva una buona qualità dell’acqua e dei servizi in generale,quest’estate le spiagge pullulavano di cianobatteri a causa dell’eccessivo uso di glifosato nelle coltivazioni di soia transgenica. Il risultato è che le famiglie di classe media possono comprare i filtri a carboni attivi per purificare l’acqua (da 200 a 500 dollari al pezzo), mentre i settori popolari la consumano contaminata.
In Brasile l’Agenzia Nazionale delle Acque [Agência Nacional de Águas, ANA] ha appena reso pubblico che in 15 anni ci saranno 55 milioni di abitanti delle aree urbane a rischio idrico, il che impone la realizzazione di opere milionarie per le quali non c’è un budget.  Nel 2016 c’erano 812 municipi (sui 5000 complessivi del paese) che erano riforniti con camion-cisterna, sempre sorvegliati dai militari per il rischio di assalti. L’agenzia riconosce che anche se si realizzassero le opere programmate, ci saranno ugualmente milioni di persone senza accesso all’acqua.
Il primo punto di cui tener conto è che questa realtà indica che gli Stati non saranno in grado di fornire acqua, un diritto umano fondamentale. Inoltre, gli Stati stanno procedendo a privatizzare la risorsa.
Il VII Incontro Nazionale degli Acquedotti Comunitari della Colombia, che si è tenuto il 16, 17 e 18 novembre 2018, ha denunciato “la trasformazione delle imprese pubbliche municipali in imprese private e miste per azioni, e la persistenza nel farlo con i nostri acquedotti comunitari; la perdita dell’autonomia municipale e territoriale dei governi locali nella gestione delle proprie risorse per l’acqua e la depurazione e la distruzione delle comunità organizzate come tessuti costruiti congiuntamente dalle persone”.

In Colombia esistono 12.000 acquedotti comunitari che forniscono il 40% dell’acqua nelle zone rurali e il 20% nelle città, ma il governo di destra di Iván Duque intende privatizzarli, in quella che considerano “violenza istituzionale”. Finché persiste il modello neoliberale, la gestione comunitaria dell’acqua è in pericolo, tanto per i tentativi di privatizzazione quanto per l’attacco frontale dello Stato, dei gruppi paramilitari e del narcotraffico al tessuto comunitario che sostiene gli acquedotti.
Il secondo punto è che spetta ai movimenti antisistemici garantire il diritto all’acqua, di fronte alla collusione tra Stati e imprese monopolistiche per fare dell’acqua un grande affare. L’esperienza colombiana è importante ma non è l’unica. La scommessa delle comunità non è banale; si tratta di reti di organizzazioni di base, radicate nella vita quotidiana nei territori dei popoli originari, neri, contadini e nelle periferie urbane, quelli che stanno realizzando il controllo popolare dell’acqua, dall’esplorazione e alla fornitura fino alla depurazione.
Anche nelle città ci sono esperienze notevoli, come quella di Cochabamba in Bolivia. A Città del Messico, una delle metropoli più colpite dalla scarsità della risorsa, esiste una manciata di movimenti che con il loro lavoro militante sono stati capaci di risolvere il loro problema per l’accesso all’acqua. Segnalo la  Comunidad Habitacional Acapatzingo, a  Iztapalapa (una delle zone più colpite dalla scarsità).
Una comunità di 600 famiglie è stata capace, in piena area urbana, di combinare  la ricezione dell’acqua intubata, con la raccolta e lo stoccaggio di acqua piovana trattata con filtri, e la costruzione di pozzi. In questo modo è molto difficile che riescano a soffocare il movimento. Gli esempi che ci danno alcuni movimenti, devono essere raccolti e analizzati dalle organizzazioni popolari, per cercare di risolvere un grave problema per l’autonomia de los de abajo.

(Pubblicato su Desinformémonos con il titolo Aguas y movimientos
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo)



domenica 28 aprile 2019

Chi è l’azienda numero 30? - Maria Rita D’Orsogna



Il greenwashing dell’Eni è dappertutto. Biocarburante, biodiesel,  green diesel, green investments, guardate cosa si legge ad esempio sul Fatto Quotidiano.
L’ENI ha portato a Venezia le Associazioni dei Consumatori per far vedere come funziona il nuovo ciclo produttivo. L’ENI brevetta Ecofining che è flessibile, quindi potrà trasformare in green diesel l’olio ricavato dalle microalghe (How ENI green diesel was born). Da ENI quattro miliardi nell’energia green. E cosi a non finire.
Se infatti si fa la lista dei cento maggiori emettitori di anidride carbonica, dal 1988 al 2015, l’ENI è nella top cento, è la numero 30Queste cento ditte, hanno finora emesso il 70 per cento dei maggiori gas serra nell’intervallo citato, secondo il Carbon Majors Report, rilasciato nel 2017.
I dati arrivano da database pubblici, e incolpano produttori di carbone e petrolieri in primis coma maggior responsabili dello sfacelo ambientale: ExxonMobil, Shell, BP e Chevron sono fra le ditte private più note nella lista; e poi ci sono il governo cinese, russo e indiano per l’uso di carbone, la saudita ARAMCO, la russa Gazprom, la messicana PEMEX, e la ditta di stato naizonale National Iranian Company. Dall’altro lato dello spettro industriale altre ditte, che per amore o per immagine decidono di invece far rotta verso il 100 per cento rinnovabile: Apple, Facebook, Google e Ikea che fanno parte della RE100 initiative per appunto andare verso le zero emissioni.
E certo, l’ENI può fare tutta la pubblicità che vuole, ma la sua essenza non cambia. Parimenti ai titoloni sul green di qua e sul green di là ci sono titoli comeEni signs offshore exploration and production sharing agreement with RAK Petroleum Authority High hopes for Eni’s Kekra find, ENI enters in Lebanon signing two exploration and production contracts.Cioè trivelle nuove negli Emirati Arabi Uniti, in Pakistan, in Libano. Hai voglia a coprirti dietro una foglia green, cara ENI! Distruttrice nasci, e distruttrice muori.
Ecco qui la lista delle ditte più impattanti in termini di emissioni di gas serra nella sua interezza; le percentuali sono sul totale. L’ENI emette lo 0.59 per cento del totale. E no, non è poco.

sabato 27 aprile 2019

un incontro con Pietro Bartolo


Virginia di Vivo, studentessa di medicina, racconta l’incontro con Pietro Bartolo, medico a Lampedusa

Mi reco molto assonnata al congresso più inflazionato della mia carriera universitaria, conscia che probabilmente mi addormenterò nelle file alte dell’aula magna. Mi siedo, leggo la scaletta, la seconda voce è «sanità pubblica e immigrazione: il diritto fondamentale alla tutela della salute». Inevitabilmente penso “e che do bali”. Accendo Pokémon Go, che sono sopra una palestra della squadra blu. Mi accingo a conquistarla per i rossi. Comincia a parlare il tale dottor Pietro Bartolo, che io non so chi sia. Non me ne curo. Ero lì che tentavo di catturare un bulbasaur e sento la sua voce in sottofondo: non parla di epidemiologia, di eziologia, non si concentra sui dati statistici di chissà quale sindrome di lallallà. Parla di persone. Continua a dire “persone come noi”.
Decido di ascoltare lui con un orecchio e bulbasaur con l’altro. Bartolo racconta che sta lì, a Lampedusa, ha curato 350mila persone, che c’è una cosa che odia, cioè fare il riconoscimento cadaverico. Che molti non hanno più le impronte digitali. E lui deve prelevare dita, coste, orecchie. Lo racconta:«Le donne? Sono tutte state violentate. TUTTE. Arrivano spesso incinte. Quelle che non sono incinte non lo sono non perché non sono state violentate, non lo sono perché i trafficanti hanno somministrato loro in dosi discutibili un cocktail antiprogestinico, così da essere violentate davanti a tutti, per umiliarle. Senza rischi, che le donne incinte sul mercato della prostituzione non fruttano». Mi perplimo.
Ma non era un congresso ad argomento clinico? Dove sono le terapie? Perché la voce di un internista non mi sta annoiando con la metanalisi sull’utilizzo della sticazzitina tetrasolfata? Decido di mollare bulbasaur, un secondino – poi torno Bulba, devo capire cosa sta dicendo questo qua.
«Su questi barconi gli uomini si mettono tutti sul bordo, come una catena umana, per proteggere le donne, i bambini e gli anziani all’interno, dal freddo e dall’acqua. Sono famiglie. Famiglie come le nostre.
Mostra una foto, vista e rivista, ma lui non è retorico, non è formale. È fuori da ogni schema politically correct, fuori da ogni comfort zone.
«Una notte mi hanno chiamato: erano sbarcati due gommoni, dovevo andare a prestare soccorso. Ho visitato tutti, non avevano le malattie che qualcuno dice essere portate qui da loro. Avevano le malattie che potrebbe avere chiunque. Che si curano con terapie banali. Innocue. Alcuni. Altri sono stati scuoiati vivi, per farli diventare bianchi. Questo ragazzo ad esempio»: mostra un’altra foto, tutt’altro che vista e rivista. Un giovane, che avrà avuto 15/16 anni, affettato dal ginocchio alla caviglia.
Mi dimentico dei Pokémon.
«Lui è sopravvissuto agli esperimenti immondi che gli hanno fatto. Suo fratello, invece, non ce l’ha fatta. Lui è morto per essere stato scuoiato vivo».
Metto il cellulare in tasca.
«Qualcuno mi dice di andare a guardare nella stiva, che non sarà un bello spettacolo. Così scendo, mi sembrava di camminare su dei cuscini. Accendo la torcia del mio telefono e mi trovo questo».
Mostra un’altra foto.
Sembrava una fossa comune. Corpi ammassati come barattoli di uomini senza vita.
«Questa foto non è finta. L’ho fatta io. Ma non ve la mostrano nei telegiornali. Sono morti lì, di asfissia. Quando li abbiamo puliti ho trovato alcuni di loro con pezzi di legno conficcati nelle mani, con le dita rotte. Cercavano di uscire. Avevano detto loro che siccome erano giovani, forti e agili rispetto agli altri, avrebbero fatto il viaggio nella stiva e poi, con facilità, sarebbero usciti a prendere aria presto. E invece no. Quando l’aria ha cominciato a mancare, hanno provato ad uscire dalla botola sul ponte, ma sono stati spinti giù a calci, a colpi in testa. Sapeste quanti ne ho trovati con fratture del cranio, dei denti. Sono uscito a vomitare e a piangere. Sapeste quanto ho pianto in 28 anni di servizio, voi non potete immaginare».
Ora non c’è nessuno in aula magna che non trattenga il fiato, in silenzio.
«Ma ci sono anche cose belle, cose che ti fanno andare avanti. Una ragazza. Era in ipotermia profonda, in arresto cardiocircolatorio. Era morta. Non avevamo niente. Ho cominciato a massaggiarla. Per molto tempo. E all’improvviso l’ho ripresa. Aveva edema, di tutto. È stata ricoverata 40 giorni. Kebrat era il suo nome. È il suo nome. Vive in Svezia. È venuta a trovarmi dopo anni. Era incinta»: ci mostra la foto del loro abbraccio.
«Sì perché la gente non capisce. C’è qualcuno che ha parlato di razza pura. Ma la razza pura è soggetta a più malattie. Noi contaminandoci diventiamo più forti, più resistenti. E l’economia? Queste persone, lavorando, hanno portato miliardi nelle casse dell’Europa. E io aggiungo che ci hanno arricchito con tante culture. A Lampedusa abbiamo tutti i cognomi del mondo e viviamo benissimo. Ci sono razze migliori di altre, dicono. Sì, rispondo io. Loro sono migliori. Migliori di voi che asserite questo».
Fa partire un video e descrive: «Questo è un parto su una barca. La donna era in condizioni pietose, sdraiata per terra. Ho chiesto ai ragazzi un filo da pesca, per tagliare il cordone. Ma loro giustamente mi hanno risposto “non siamo pescatori”. Mi hanno dato un coltello da cucina. Quella donna non ha detto bau. Mi sono tolto il laccio delle scarpe per chiudere il cordone ombelicale, vedete? Lei mi ringraziava, era nera, nera come il carbone. Suo figlio invece era bianchissimo. Sì perché loro sono bianchi quando nascono, poi si scuriscono dopo una decina di giorni. E che problema c’è, dico io, se nascono bianchi e poi diventano neri? Ha chiamato suo figlio Pietro. Quanti Pietri ci sono in giro!».
Sorridiamo tutti.
«Quest’altra donna, invece, è arrivata in condizioni vergognose, era stata violentata, paralizzata dalla vita in giù… Era incinta. Le si erano rotte le acque 48 ore prima. Ma sulla barca non aveva avuto lo spazio per aprire le gambe. Usciva liquido amniotico, verde, grande sofferenza fetale. Con lei una bambina, anche lei violentata, aveva 4 anni. Aveva un rotolo di soldi nascosto nella vagina. E si prendeva cura della sua mamma. Tanto che quando cercavo di mettere le flebo alla mamma lei mi aggrediva. Chissà cosa aveva visto. Le ho dato dei biscotti. Lei non li ha mangiati. Li ha sbriciolati e imboccava la mamma. Alla fine le ho dato un giocattolo. Perché ci arrivano una montagna di giocattoli, perché la gente buona c’è. Ma quella bimba non l’ha voluto. Non era più una bambina ormai».
Foto successiva.
«Questa foto invece ha fatto il giro del mondo. Lei è Favour. Hanno chiamato da tutto il mondo per adottarla. Lei è arrivata sola. Ha perso tutti: il suo fratellino, il suo papà. La sua mamma prima di morire per quella che io chiamo la malattia dei gommoni, che ti uccide per le ustioni della benzina e degli agenti tossici, l’ha lasciata a un’altra donna, che nemmeno conosceva, chiedendole di portarla in salvo. E questa donna, prima di morire della stessa sorte, me l’ha portata. Ma non immaginate quanti bambini, invece, non ce l’hanno fatta. Una volta mi sono trovato davanti a centinaia di sacchi di colori diversi, alcuni della Finanza, alcuni della Polizia. Dovevo riconoscerli tutti. Speravo che nel primo non ci fosse un bambino. E invece c’era proprio un bambino. Era vestito a festa. Con un pantaloncino rosso, le scarpette. Perché le loro mamme fanno così. Vogliono farci vedere che i loro bambini sono come i nostri, uguali».
Ci mostra un altro video. Dei sommozzatori estraggono da una barca in fondo al mare corpi esanimi. «Non sono manichini» ci dice.
Il video prosegue.
Un uomo tira fuori dall’acqua un corpicino. Piccolo. Senza vita. Indossava un pantaloncino rosso. «Quel bambino è il mio incubo. Io non lo scorderò mai».
Non riesco più a trattenere le lacrime. E il rumore di tutti coloro che, alternandosi in aula, come me, hanno dovuto soffiarsi il naso.
«E questo è il risultato»: ci mostra l’ennesima foto. «368 morti. Ma 367 bare. Sì. Perché in una c’è una mamma, arrivata morta, col suo bambino ancora attaccato al cordone ombelicale. Sono arrivati insieme. Non abbiamo voluto separarli, volevamo che rimanessero insieme, per l’eternità».
Penso che possa bastare così. E questo è un estratto. Perché il dottor Bartolo ha parlato per un’ora. Gli altri relatori hanno lasciato a lui il loro tempo. Nessuno ha osato interromperlo. E quando ha finito tutti noi, studenti, medici e professori, ci siamo alzati in piedi e abbiamo applaudito, per lunghi minuti. E basta. Lui non ha bisogno di aiuto: «non venite a Lampedusa ad aiutarci, ce l’abbiamo sempre fatta da soli noi lampedusani. Se non siete medici, se non sapete fare nulla e volete aiutare, andate a raccontare quello che avete sentito qui, fate sapere cosa succede a coloro che dicono che c’è l’invasione. Ma che invasione!».
E io non mi espongo, perché non so le cose a modo. Ma una cosa la so. E cioè che questo è vergognoso, inumano, vomitevole. E non mi importa assolutamente nulla del perché sei venuto qui, se sei o no regolare, se scappi dalla guerra o se vieni a cercare fortuna: arrivare così, non è umano. E meriti le nostre cure. Meriti un abbraccio. Meriti rispetto. Come, e forse più, di ogni altro uomo.

venerdì 26 aprile 2019

Il mio ministro è un uomo saggio… - Ascanio Celestini



Il ministro dell’Interno del mio paese indossa la divisa. Non tutta insieme. Una giacca, un caschetto. Se la mette quando fa i comizi o le passeggiate tra la folla. Qualcuno per lui dice «preparate i telefonini».
Lui comunica attraverso la sua pagina Facebook. In quello spazio parla direttamente agli italiani e in molti lo seguono. Ha più di tre milioni e mezzo di follower. Un politico che comunica come il mio compagno di calcetto entra nella mia vita come se fosse un amico. In una foto che ha postato recentemente lo si vede con una t-shirt nera con su stampata una scritta a caratteri enormi: LA DIFESA È SEMPRE LEGITTIMA.
È un’altra delle sue tecniche di comunicazione. Si mette addosso una felpa o una maglietta con una scritta. Basta la foto. La scritta parla per lui. Quasi sempre è infilata sopra la camicia. Usata come una bandiera. Poi aggiunge tre righe di commento. Spesso c’è una faccina. Manda baci, saluti e chiede ai follower: «Che ne dite, amici?».
Il giorno di Pasqua ha postato due immagini sbarazzine. In una si fa il selfie con un somaro: «Guardate chi ho incontrato!». Nell’altra si ritrae con una montagna di polenta. Nelle stesse ore il suo responsabile della comunicazione ha postato una foto sorprendente per il giorno della Resurrezione di Cristo.
Il ministro dell’Interno del mio paese è ritratto con un’arma da guerra e poche righe: «Siamo armati e dotati di elmetto!». Undici anni fa Umberto Bossi minacciò di scatenare i suoi uomini. «Abbiamo trecento mila martiri – disse – i fucili sono sempre caldi».
In quel lontano aprile si chiuse il secondo governo Prodi, tornò Berlusconi e non scoppiò una guerra civile. Non credo che scoppi la prossima settimana. Ma in questi anni è cambiato il linguaggio, dei media e il nostro. Un linguaggio che non tutti sanno gestire e che per qualcuno può diventare un delicatissimo detonatore.
Poco più di un anno fa un italiano di ventotto anni ha sparato a sei immigrati di origine sub-sahariana. È stato arrestato davanti al monumento dei caduti di Macerata mentre faceva il saluto romano e gridava «viva l’Italia» con il tricolore sulle spalle. Anche il ministro dell’Interno del mio paese ha condannato quell’azione. Il ministro è un uomo saggio e peserà ogni parola per il bene del mio paese.

mercoledì 24 aprile 2019

Quel cucciolo a 700 km da casa - Maria Rita D’Orsogna



Siamo in Russia, nel villaggio di Tilichiki dove il 16 aprile un orso polare è stato avvistato in cittàLa sua tana è a settecento chilometri più a nord.Cosa ci faceva cosi lontano dal suo habitat naturale? 
Cercava cibo. L’orso non mostrava segni di aggressione, ma era stanco e magro e ha circolato per vario tempo in tutta la penisola di Kamtchatka dove si trova il villaggio di Tilichiki appunto alla ricerca di qualcosa da mangiare. I residenti gli hanno dato del pesce.
Si ipotizza che l’orso abbia circa due anni e che abbia viaggiato su un isolotto di ghiaccio dal Bering Sea fino alla penisola. Tipicamente gli orsi vivono con le loro madri fino ai tre anni, quindi questo esemplare è un cucciolo, non abituato a cercare cibo da solo
È questo un fenomeno che preoccupa sempre più i villaggi della Russia settentrionale perché le storie di orsi affamati diventano sempre più numerose e più tristi. L’idea è di sedarlo e di riportarlo a casa con trasporto aereo.
Povero orso, vaglielo a spiegare che questi sono i nostri tempi moderni, eh?

martedì 23 aprile 2019

I genitori perfetti non esistono - Daniele Novara



Decalogo antifragilità educativa per genitori
L’emergenza educativa degli ultimi anni? Senz’altro una certa diffusa fragilità dei genitori. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: aumento esponenziale delle certificazioni neuro-psichiatriche infantili; uso di schermi digitali già a due o tre anni di età con successivo sviluppo di forme di dipendenza dai videogiochi; difficoltà sistematiche nelle autonomie di base come per esempio vestirsi, preparare la cartella, andare a dormire. Ma anche fenomeni come la dispersione scolastica o l’assenza di obiettivi di studio o di lavoro, altre due gravi conseguenze con cui dobbiamo fare i conti. Cambiare direzione, però, è possibile. E alcune linee guida da seguire:
1. Liberarsi dall’ansia da prestazione
I genitori perfetti non esistono, quindi inutile angosciarsi: quelli che si sentono tali rischiano di fare più danni in assoluto. Ciò che ciascuno di noi può invece fare è cercare di migliorarsi e per farlo può soprattutto concentrarsi sul fronte dell’organizzazione: educare bene i figli, infatti, è sostanzialmente un fatto organizzativo.
2 Tenere vivo il dialogo con l’altro genitore
Oggi si assiste a una strana tendenza: parlare tantissimo, troppo, con i figli e pochissimo con il marito o la moglie. Al contrario, quando si diventa genitori il dialogo nella coppia dovrebbe intensificarsi, non diminuire. È parlando che si posso prendere le giuste decisioni, stabilire le regole educative condivise.
3 Dare (insieme) le giuste regole
Una regola non andrebbe mai data da un solo genitore (in genere la mamma) perché questo può creare equivoci. Per esempio il bambino può credere che quella regola non valga con l’altro genitore, che non ci sia accordo e che ci sia margine per ribellarsi o fingere di non aver capito.
4 Essere concreti
Fino agli undici-dodici anni i bambini hanno bisogno di chiarezza, sono individui molto concreti, non hanno bisogno di fiumi di parole e spiegazioni sul perché e il percome si deve andare a dormire alle 9 o il gelato prima di cena non va bene. A un bambino non interessano le spiegazioni.
5 Favorire le esperienze sensoriali
Una buona educazione passa anche dalla gestione della dimensione digitale che deve essere centellinata e rimandata all’età giusta. Lo sviluppo cognitivo di un bambino, infatti, ha soprattutto bisogno di esperienze sensoriali, tattili, olfattive, uditive e così via. Esperienze che può fare nella natura, giocando con i compagni, ma anche leggendo un libro.
6 Non urlare
Urlare non serve a nulla se non a dimostrare tutta la fragilità emotiva dell’adulto. Un genitore organizzato, anche nell’inevitabile momento critico, non alza la voce e non ricorre alla violenza o ai castighi.
7 Uscire dal mito dell’ascolto
Una lamentela ricorrente di tante mamme? “Mio figlio non mi ascolta mai!”. Invece l’idea dell’ascolto non ha a che fare con l’organizzazione. A mamma e papà non deve importare di essere ascoltati o ringraziati dai figli, ma solo che questi facciano la cosa giusta, da lavarsi le mani prima di cena a spegnere il telefonino prima di andare a dormire. I figli ci chiedono di essere pratici, non di sentirsi ripetere mille volte la stessa cosa.
8 Non chiedere il suo parere
A un bambino non si chiede “A che ora vuoi andare a dormire?”, “Cosa vuoi mangiare per cena?”, “Quando ti va di fare i compiti?” come se fosse un adulto in miniatura. Il primo a non volerlo è il bambino stesso, che ha bisogno di regole, non di prendere decisioni al posto di mamma e papà.
9 Accompagnarlo all’autonomia
Un altro punto critico? La preparazione dello zaino che, in molte famiglie, diventa un esercizio di stile, ordine e organizzazione per fare bella figura con le maestre. Peccato che, se lo zaino lo fa la mamma, il bambino non diventerà mai autonomo nell’organizzazione del suo impegno scolastico. E avrà sempre bisogno di aiuto. Stesso discorso per i compiti, che sono affare esclusivo dei figli non della mamma, del papà o dei nonni: gli adulti devono creare le condizioni di tranquillità e ordine affinché il bambino possa lavorare tranquillo, ma non sedersi accanto a lui o, peggio, sostituirsi.
10 Liberare gli adolescenti dal controllo
Man mano che crescono i ragazzini si vogliono smarcare dal controllo materno e hanno bisogno della figura paterna che, senza accudirli, faccia da sponda negoziando gli orari, la paghetta o le uscite, creando la giusta resistenza che permetta allo stesso tempo al figlio di fare i primi passi fuori dal nido.

Il decalogo è stato realizzato da Daniele Novara per il convegno CPP “Dalla parte dei genitori” (13 aprile 2019 a Piacenza).


Nonostante il finto figo Trudeau, il Canada continua ipocritamente a trivellare e a devastare - Maria Rita D'Orsogna



Justin Trudeau la racconta e la sorride bene.
Ma la realta' non e' come lui vorrebbe farci credere.

Le Tar Sands del Canada, un angolo remoto a nord del paese avvolto un tempo da neve e ghiaccio e distese di bianco e' ora coperto di raffinerie, terreni violentati, fumi e puzze.

E' il piu' grande progetto industriale del mondo intero.

C'e' una autostrada che attraversa le Tar Sands per fornire vie di trasporto ai petrolieri.

Fanno ottocento chilometri di impianti di estrazioni di petrolio, raffinerie, desolforatori, vasche di monnezza varia, acqua inquinata. Ottocento chilometri, senza sosta. Nel complesso l'area in sui si eseguono queste operazioni di estrazione di Tar Sands e' grande quanto l'Inghilterra intera.
L'Alberta ha quattro milioni di persone, e se fosse una nazione indipendente sarebbe il quinto principale paese produttore di petrolio al mondo. Si calcola che le riserve di bitume dell'Alberta siano di 170 miliardi di barili.

I danni provocati da queste estrazioni a chi ci vive li, e al pianeta sono incalcolabili. Malattie, fumi, petro-economia, cambiamenti climatici, corruzione.

Eppure in Alberta vogliono pompare ancora di piu', espandendosi e mangiando ancora piu tundra. Vogliono colorare il bianco e il verde di nero.

Chi sono questi folli che vogliono continuare la devastazione? Beh, i politici dell'Alberta, ma anche il governo centrale del figo Trudeau non e' che abbia detto o fatto niente in contrario. E' un elefante in una stanza, tutti sanno, nessuno dice niente. E l'elefante si sposta e fa danni maggiori in altre stanze.
 
Ma c'e' di piu': a livello internazionale Trudeau e i suoi compari cercano di passare per verginelle ambientali, come la Norvegia, a fare la predica agli altri, presentando scintillanti azioni contro i cambiamenti climatici. 

Per gli altri, mica per se. Dicono che queste Tar Sands portano lavoro, che i legami fra residenti e trivellatori sono "complessi" e che occorre pensare, parlare, "dialogare".

Mi sovviene quando questo lo diceva l'ENI.

Fra i paradossi del Canada: quando si discutevano gli accordi di Parigi dicevano che volevano un tetto massimo dell'aumento delle temperature mondiali di 1.5 gradi centigradi.  Poi quando ci furono le proteste per l'ennesimo oleodotto che doveva attraversare il paese per portare petrolio dalle Tar Sands al mare, il cosiddetto Trans Mountain Oil Pipeline nel 2018, il governo di Justin Trudeau
lo nazionalizzo', al costo di quasi 4 miliardi di euro per essere sicuri che si sarebbe costruito e per incassare i petro-yuan dalla Cina.

La ditta in questione, la ex proprietaria dell'oleodotto, si chiama Kinder Morgan, ed e' basata in Texas. Gia' operano un oleodotto fra l'Alberta ed il mare - oleodotto vecchio di 65 anni e lungo 1,150 chilometri. Volevano semplicemente costruirne un altro, in parallelo dalla portata maggiore per far arrivare al mare, al porto, e in Cina ancora piu' petrolio. Ma sia i progetti per l'oleodotto nuovo che quello esistente vecchio si snodano lungo territori immacolati, attraverso fiumi e pure nel  Jasper National Park. Le proteste da mezzo mondo portarono quelli della Kinder Morgan ad annunciare che si sarebbero ritirati nell'Aprile del 2018.

Il governo del finto figo Trudeau had deciso di prendere in mano le redini del progetto e di completarlo con fondi pubblici. E quindi, da un lato il paese ha approvato una carbon tax il giorno 1 Aprile 2019 per tagliare le emissioni di CO2 ma allo stesso tempo vuole espandere le esportazioni di petrolio verso il mare per poterlo vendere ai cinesi.

Come puo' essere?

Non e' un controsenso? 
Il finto figo Trudeau dice che dobbiamo agire per salvare il pianeta ma poi nazionalizza gli oleodotti!

Intanto nel cuore delle Tar Sands si continua a trivellare e a generare il petrolio per l'oleodotto e per i cinesi. C'e' gente che si ammala a tassi mai visti di tumore, bambini, giovani e vecchi. C'e' la foresta boreale ferita, ci sono gli animali malati e confusi dalla perdita di habitat, c'e' l'aria putrida in cima al mondo.
 

E' una questione del potere infinito dei petrolieri, che quando arrivano distruggono tutto, in Basilicata come in Alberta, perche' mangiano l'essenza stessa della democrazia e finiscono con il fare il bello e il cattivo tempo sulla pelle di tutti gli altri.


Il Canada non raggiungera' gli obiettivi preposti per il 2020 contro i cambiamenti climatici, ne tantomeno quelli per il 2030 imposti a Parigi. E questo a causa dell'industria del petrolio che si calcola emettera' 100 milioni di tonnellate di CO2 l'anno nel 2030.

E' intero apporto della Nigeria, paese produttore di petrolio pure lui e con 190 milioni di persone, contro il 30 del Canada.

Il Canada nonostante la sua patina progressista e' invece un vero petro-stato. Il petrolio rappresenta la sua maggior fonte di reddito e di conseguenza i governi, gli enti controllori, e pure alcuni corpi univeristari sono asserviti ai petrolieri.

L'epicentro di tutto e' una vasta area a nord di Edmonton e attorno al fiume dell'Athabasca. La citta' di Fort McKay e' quella maggiormente colpita e qui vivono varie comunita' indigene devastate dall'industria petrolifera. 

Come detto in passato qui non si estrae vero petrolio, ma *sotto* la foresta borale c'e' roccia bituminosa impregnata di petrolio che deve essere trattato in modo chimico e altamente impattante per *spremere* poche gocce di petrolio. I trattamenti sono intensi e per ogni barile di petrolio prodotto dalle Tar Sands, siccome deve arrivare dal trattamento estremo di sabbie bituminose, ce ne vogliono dai sei ai dodici in totale di acqua fresca, che diventano poi monnezza tossica.

La devastazione si puo' vedere fino da google maps. 

Oltre allo smantellamento di foresta boreale i laghi artificiali di monnezza a cielo aperto per metterci l'acqua ora tossica. Contengono monezza per 500 mila piscine olimpioniche.

Si, cinquecentomila piscine!

L'acqua e' cosi tossica che se ci cadono gli uccelli muoiono stecchiti. 

Le morie sono cosi frequenti che devono esserci messi degli spaventapasseri. Non sempre funzionano.

I pesci nel fiume Athabasca e nei suoi tributari sono troppo inquinati da mercurio e non si possono mangiare. Oltre ai pesci le carni della selvaggina sono inquinate da troppo arsenico e anche questi non si possono consumare. Le concentrazioni di mercurio e arsenico sono decine di volte superiori a quanto considerato sano. Lo stesso dicasi per le papere. Ora a noi queste idee di pescare e di andare a caccia per mangiare possono sembrare stravaganti ma questo e' stato il modo tradizionale di vivere delle comunita' indigene della zona per millenni. 

Il fiume Athabasca era usato come mezzo di trasporto dagli indigeni, visto che si snoda fra le principali citta' della zona: Fort McMurray, Fort McKay, Fort Chipewyan, ma adesso a causa dell'inquinamento e della continua estrazione di acqua in molti posti i livelli dell'acqua sono cosi fortemente calati che non e' piu considerato navigabile in alcuni tratti.

Alcune comunita' devono bollire l'acqua prima di usarla perche' e' troppo inquinata.

Tutta la vita naturale ne ha risentito: caribou, bisonti, elci, uccelli, pesci, acqua, foresta, persone. 
Tutt'a un tratto non si puo' piu' bere, mangiare, viaggiare vivere in simbiosi con il fiume.

Lung l'Athabasca sorgono 175 progetti estrattivi con ditte da tutto il mondo: l'american Exxon, la canadese Suncor, la CNOOC della Cina per fare alcuni nomi. Finora la maggior parte del petrolio arrivava negli USA adesso invece si vuole aprire ai mercati asiatici. 


Il fato di questi laghi di monnezza tossica e' incerto. Sono cresciuti in modo esponenziale in volume e numero durante gli scorsi 50 anni. Non si sa cosa fare. Si sa solo che perdono e che la monnezza spesso finisce nell'acqua del fiume, in teoria da essere usata dagli umani.
 L'aria e' inquinata, ci sono le piogge acide. Ai petrolieri non importa di investire per salvare l'ambiente e devastano senza accorgimento alcuno. Anche perche' il finto figo Trudeau glielo permette.  Il suo governo, come tutti quelli passati, approva tutto, sempre e comunque.
 
E con l'ambiente si ammala l'uomo con forti tassi di cancro, aborti spontanei, bimbi morti alla nascita. Se ne parla da anni. Nessuno fa niente. 


E poi c'e' la parte piu' orribile di tutto: il ricatto o muori di cancro o muori di fame.

Gli indigeni qui non sono mai stati ricchi e ai petrolieri basta regalare un po di promesse di lavoro, di case, di progetti sociali, magari aiutare ad aprire negozi, e voila', la politica e a volte anche i residenti, gli si prostrano ai piedi.

Solo che le promesse non si concretizzano mai per davvero.
Un po’ come in Basilicata. 

Il costo per ripulire tutto?

Circa 200 miliardi di euro.