venerdì 30 gennaio 2015

vini d'annata

Una scoperta che riscrive la storia della viticultura dell'intero Mediterraneo occidentale. A farla gli studiosi dell'Università di Cagliari. L'équipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità (CCB), guidata dal professor Gianluigi Bacchetta, ha rinvenuto semi di vite di epoca Nuragica, risalenti a circa 3000 anni fa. E ha avanzato l'ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d'importazione, bensì autoctono. 

Sino ad oggi, infatti, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici, che colonizzarono l'isola attorno all'800 a.C., e successivamente ai Romani, il merito di aver introdotto la vite domestica nel Mediterraneo occidentale. Ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà Nuragica dimostra che la viticoltura in Sardegna era già conosciuta: probabilmente ebbe un'origine locale e non fu importata dal vicino Oriente. A suffragio di questa ipotesi, il gruppo del CCB sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili "parentele" tra le diverse specie di vitigni. 

La ricerca. Nel sito nuragico di Sa Osa, vicino la splendida località di Cabras-Or, nell'Oristanese (non lontano dal luogo del ritrovamento delle due statue dette 'I giganti di Or'), la squadra di archeobotanici del professor Bacchetta, grazie alla collaborazione con la Soprintendenza per i Beni  Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, ha trovato oltre 15.000 semi di vite, perfettamente conservati in fondo a un pozzo che fungeva da 'paleo-frigorifero' per gli alimenti. "Si tratta di vinaccioli non carbonizzati, di consistenza molto vicina a quelli 'freschi' reperibili da acini raccolti da piante odierne - spiega Bacchetta - Grazie alla prova del Carbonio 14 i semi sono stati datati intorno a 3000 anni fa (all'incirca dal 1300 al 1100 a. C.), età del bronzo medio e periodo di massimo splendore della civiltà Nuragica"...
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martedì 27 gennaio 2015

Conversione ecologica, qui e ora - Domenico Finiguerra

Un’inchiesta del quotidiano The Guardian sostiene che in Europa ci sono almeno 11 milioni di case vuote, di queste 2 sono in Italia: un problema continentale, di carattere sociale ed ambientale. Il nostro Paese ha perso dal 1971 al 2010 quasi 5 milioni di ettari di superficie agricola utilizzata. Questo è dovuto a due fenomeni: l’abbandono delle terre e la cementificazione.
L’Italia poi è il terzo paese in Europa ed il quinto nel mondo nella classifica deldeficit di suolo. Ci mancano 49 milioni di ettari per coprire il nostro intero fabbisogno, pari a 61 milioni di ettari. Siamo destinati ad essere sempre più dipendenti dalla produzione di terreni di altri paesi.
Questi dati ci restituiscono a spot la fotografia di una situazione drammatica che accomuna gran parte dei Paesi dell’eurozona, specialmente Italia, Spagna, Germania, Portogallo, Francia. La “crisi del mattone” rappresenta, in fondo, la crisi di un sistema e di un modello di sviluppo che in troppi e per troppo tempo hanno ostinatamente inseguito nonostante ci fossero campanelli d’allarme a preavvisare il disastro puntualmente arrivato.
Da questa crisi si può a nostro avviso uscire in modo diverso da come ci si è entrati. Non è uno slogan. La crisi strutturale internazionale che stiamo vivendo, a causa della situazione economico-politica, deve essere affrontata con una consapevolezza e una sensibilità nuove, nel pieno rispetto delle superfici non impermeabilizzate, dei fiumi, delle coste, del paesaggio e dell’ambiente, con grande chiarezza e trasparenza. Muratori, carpentieri, piastrellisti, installatori, lavoratori del cemento, lapidei, cavatori, geometri, ingegneri, architetti, restauratori devono avere ancora un futuro nelle costruzioni. Questa volta non per distruggere il territorio, ma per valorizzarne la bellezza e per gratificarne la professionalità e la passione.
La conversione ecologica deve rappresentare una delle sfide (a nostro avviso la prima e irrinunciabile) che l’Europa deve vincere nei prossimi anni. La tutela del territorio, accompagnata ad una riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati (capannoni, case, fabbriche…), è uno dei grandi volani in grado di attivare occupazione a km zero (distribuita cioè là dove si attuano gli interventi), ridurre l’impatto antropico e consentire circoli virtuosi di risparmio economico da reinvestire in altri interventi di sostenibilità ambientale. Insomma, per riassumerla in uno slogan, fare del bene all’ambiente non solo è necessario, ma possibile e conveniente.
Tutto questo è fondamentale non solo per ridurre i consumi energetici e tutelare un bene comune come il territorio. A riavvolgere infatti il nastro degli ultimi sessant’anni di storia del nostro Paese si scopre che nel periodo compreso tra il 1950 e il 2012 ci sono state oltre mille frane e settecento inondazioni in 563 località diverse, che sono costate la vita a novemila persone, con oltre 700mila sfollati. Per non parlare dei danni al patrimonio artistico e culturale. Solo l’alluvione di Firenze del 1966 ha danneggiato 1500 opere d’arte e 1.300.000 volumi della Biblioteca nazionale.
Novemila persone sono un paese intero. Novemila persone sono 15 chilometri di corpi distesi sul ciglio di una strada. Provate a pensarci, forse è la distanza che percorrete ogni giorno per andare al lavoro. Immaginatevi di essere accompagnati da tutte le vittime di questa guerra che per la maggior parte del tempo non fa rumore, tace, agisce sotto traccia, costruendo le proprie vittime nel giorno per giorno di costruzioni abusive, condoni edilizi, paesi abbandonati, campagne sacrificate al “progresso”, fiumi spostati e golene infestate di capannoni e seconde case. Pensate a tutto questo, per qualche istante, perché è importante visualizzare lo scempio di questa assurdità.
A leggere tutti i numeri di questa storia vengono i brividi, e sono cifre più che attendibili che ci fornisce lo Stato in persona, nelle sue tante diramazioni istituzionali. I comuni italiani interessati da frane sono 5.708, pari al 70,5% del totale: 2.940 sono stati classificati con livello di attenzione molto elevato. L’Italia è un paese a elevato rischio idrogeologico. Le frane e le alluvioni sono le calamità in-naturali che si ripetono con maggior frequenza e causano, dopo i terremoti, il maggiore numero di vittime e di danni. Solo negli ultimi dieci anni sono stati spesi oltre 3,5 miliardi di euro con ordinanze di Protezione Civile per far fronte a eventi idrogeologici.
Ciò che serve, dunque, è un’operazione senza precedenti coordinata a livello europeo di manutenzione straordinaria dei nostri edifici pubblici (a partire dalle scuole), dei corsi d’acqua e delle montagne, diffusa e capillare, in grado quindi di generare ricchezza, occupazione e sicurezza. Affiancare agli interventi manutentivi un’altrettanto radicale opera di informazione e formazione dei cittadini e delle comunità locali. Un lavoro quotidiano, per i prossimi anni, in grado di mettere al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica la questione del paesaggio e di un prendersi carico collettivo della sua tutela.

sabato 24 gennaio 2015

10 punti sulla Resistenza che ricomincia dalle montagne… - di bortocal

… almeno la mia.
* * *
Ecco alcune riflessioni, sempre mie: una specie di bilancio esistenziale in 10 punti.
1.     Viviamo soffocati dalla burocrazia, che solo apparentemente e` stupida, ma invece e` perfettamente mirata e ha lo scopo di costringerci a soddisfare tutti i nostri bisogni primari attraverso il mercato.
Riconquistare l’auto-sufficienza come produttori diretti di quel che serve ai nostri bisogni fondamentali e` un primo modo di liberarsi dalla dittatura del mercato e delle merci.
2.     La seconda forma di condizionamento capillare delle nostre vite sta nella moltiplicazione dei bisogni superflui, che fanno conto anche sul bisogno di ostentazione tipico di molti esseri umani, che, non potendo distinguersi per quello che sono, credono di poterlo fare per quello che hanno.
La prima libertà e` quella psicologica dai bisogni che non ci appartengono.
3.     Non tutto quello che il mercato offre e` in se stesso disprezzabile e una totale liberazione dal mondo delle merci e` impossibile. E tuttavia
non e` difficile selezionare anche praticamente tra i bisogni indotti quelli che non corrispondono alla propria natura profonda e rifiutarli; la selezione dei bisogni diminuisce il grado di dipendenza economica e dunque aumenta il grado di libertà personale.
4.  Da tempo lo scopo del continuo aumento della produzione non e` altro che l’accumulazione di ulteriore guadagno di chi affoga già nei soldi.
Questo problema dello spasimo di chi ha già tutto di volere ancora di più non ci riguarda.
Sottrarsi all'obbligo imposto di arricchirsi a tutti i costi e` un primo modo di indebolire la dittatura economica di chi ha troppo.
5.    Il mondo oggi non ha bisogno di aumentare ulteriormente la produzione del superfluo, ma di migliorare la felicita` concreta degli esseri umani; l’aumento della produzione di merci aumenta l’infelicità della massa degli esclusi e non soddisfa a sufficienza l’infima minoranza di coloro che possono avere inutilmente tutto.
Possiamo cominciare a cambiare questo stato di cose e a rifiutare il superfluo almeno per noi stessi; gli altri si regolino come credono e per quel che sentono.
6. Il problema di tutti coloro che non hanno abbastanza non dipende affatto da una insufficiente produzione di beni, ma dalla loro cattiva distribuzione: e` matematicamente chiaro che se una minoranza dell’1% possiede la meta` della ricchezza mondiale, e` sufficiente riportare questa minoranza nella media per raddoppiare la ricchezza media del resto della popolazione: e sarebbe perfino troppo.
Ma non occorre neppure pensare a soluzioni cosi` estreme: e` sufficiente un modesto incremento della tassazione sui grandi patrimoni per migliorare sensibilmente le condizioni di vita delle fasce di popolazione che vivono in poverta` estrema.
Agire politicamente per una migliore distribuzione dei beni comincia con la possibilità di averne di propri da mettere a disposizione di chi ne ha bisogno.
7.    Un potere ostile moltiplica le regole e le forme di tassazione e di controllo per impedire agli esseri umani di vivere secondo la propria natura originaria in spontaneità e collaborazione immediata  con gli altri.
Riappropriarsi di queste forme di vita autogestite e spontanee e` un modo di opporsi ad un potere pervasivo, malvagio e stupido.
Un ampliamento deciso della propria autonomia economica, anche attraverso la riscoperta di piccole forme di baratto solidale, e` la strada maestra della felicita`, della libertà` e della dignità`.
8.     I luoghi da cui molti fuggono perchè appaiono incompatibili con i modi di vita innaturali che ci vengono imposti presentano proprio per questo le condizioni di una natura meno devastata che altrove e ci restituiscono la bellezza del sentirci parte di un tutto vitale e di un pianeta vivo.
Le montagne sono il luogo privilegiato di questo patrimonio naturale in grado di ricomprenderci come figli suoi.
Ritornare alla natura, per quel che se ne e` salvato, ha tutto il valore di un no dichiarato ai paesaggi dolorosi da osservare che hanno devastato irrimediabilmente il territorio nel quale vivono le nostre città trasformandolo già da ora in un panorama post-umano.
9.     La montagna può essere anche il luogo fisico dove la rete della propaganda di massa arri va a estendere i suoi tentacoli con qualche difficoltà`.
I collegamenti intermittenti dei cellulari, delle reti internet, la ricezione più difficoltosa delle notizie manipolate che si sforzano di mantenerci nel flusso di un lavaggio cerebrale continuo non sono una limitazione, ma una ricchezza.
Ci consentono più facilmente quella osservazione critica delle notizie che e` la prima e non rinunciabile condizione della nostra libertà mentale, oppure facilitano la decisione di non dare alcun tipo di ascolto ai canali che evidentemente ci manipolano.
10. Vivere con naturalezza guardando le fabbriche e le superstrade centinaia di metri sotto di noi assomiglia molto al rifugiarsi in un nido d’aquila, rifiutando il destino del pollo di allevamento al quale qualcuno voleva incatenarci.
Camminare sul crinale di una montagna in silenzio e in pace con tutti, amare l’azzurro del  cielo e il mondo lontano sono ciascuno il gesto semplice di una rivoluzione silenziosa.

Del resto non siamo neppure obbligati a proporre alcuna rivoluzione a coloro che non sono interessati: il cielo azzurro che entra nei nostri polmoni attraverso il libero respiro può anche essere il premio, limitato, senza alcuna ingiustizia, a coloro che l’hanno cercato e scelto.



venerdì 16 gennaio 2015

E l’asina disse – Paolo De Benedetti

Di Paolo De Benedetti avevo letto La teologia degli animali, ora è la volta di un altro libro, che mi ha consigliato Giovanni, (qui il suo blog).
È un libretto piccolo e profondo, dove si racconta e si ricorda lo spazio e il senso degli animali nel mondo.


Non ci stancheremo mai abbastanza di ripetere che gli animali non sono soltanto un banco di prova della nostra gentilezza d'animo, ma hanno una dignità propria che la Bibbia sottolinea più volte; e che l'indifferenza verso gli animali è già di per sé un sentimento, o meglio un non sentimento, incompatibile con l'animo di un vero cristiano o di un vero ebreo, cioè di uno che sa quanto sia indivisibile l'amore e quanto sia indivisibile la vita e quanto sia indivisibile l'amore dalla vita.
Paolo De Benedetti

Il Talmud prescrive di non mettersi a tavola prima di aver dato da mangiare ai propri animali, come sanno bene le mie gatte. Nella tradizione rabbinica gli animali hanno l’anima, l’angelo custode, e pregano; gli alberi è come se parlassero,..

…Dove gli uomini sono cattivi, ma ugualmente Dio manda il sole e la pioggia, ciò è merito degli animali, che Dio vuole salvi insieme agli uomini. Dio promette pace anche con le pietre del campo e le bestie selvatiche. In sostanza, tutto il creato è nostro “prossimo”, da amare come tale. Dice un rabbi che se hai in mano una pianta da piantare e arriva il messia, vai prima a piantare la pianta, e poi vai a riceverlo

domenica 11 gennaio 2015

Asini cantati in poesia

Un prato, un asinello – Franco Marcoaldi

È un sogno che coltivo da tempo
immemorabile: prendermi
un asinello e piazzarlo sopra
il prato. Giusto per omaggiarlo:
sgravato da ogni impegno,
privato di ogni soma, dolcissimo
asinello da sempre maltrattato.
Dell’asino mi incantano la mitezza
e la pazienza, l’occhio umido
e dolce illuminato a tratti
da lampi di furbizia,
l’endurance millenaria
travestita da mestizia.
Un giorno a Addis Abeba
ce n’erano a decine che privi
di padrone correvano
da soli con fare indaffarato.
Svolgevano – mi dissero – la funzione
del postino: mai un pacco
andato perso, tutto recapitato.
Io non avevo dubbi: ché l’asino
è preciso, assennato,
intelligente; e svolge sempre
al meglio l’impegno che l’attende.
Per questo nei miei sogni penso
a un asinello che a nome della specie
sia premiato: non dovrà fare niente,
se ne starà tranquillo a rimirare
il mondo sopra un immenso prato.


Preghiera per andare in paradiso con gli asini - Francis Jammes

Quando tempo sarà di ritornare a voi, mio Dio,
vorrei splendesse un giorno di siepi polverose.
Sceglierei, come in terra, una strada ove andare
a mio talento, divagando, verso
il vostro paradiso straripante
di stelle in pieno giorno.

Col mio bastone andrò lungo la via maestra
e agli asini dirò, miei grandi amici:
io sono Francio Jammes e vado in Paradiso,
ché non c’è inferno al paese di Dio.
Dirò: del cielo azzurro
soavi amici venite, accompagnatemi,
povere bestie che girando il muso
o con colpi di orecchie vi schermite
dalle mosche avide, da frustate e api.

Che vi compaia innanzi a tutte quelle bestie
che amo perché abbassano la testa
dolcemente, e fermandosi congiungono
dignitosi e strazianti i piccoli piedi.
Mi seguiranno migliaia di orecchie:
di chi portò pesanti bigonce appese ai fianchi
o tirò il carrozzone ai saltimbanchi
o trabiccoli in latta e pennacchi,
e altri che gravarono acciaccati bidoni,
asine che zoppicarono, più gonfie di palloni,
e altri che coprivano cenciosi mutandoni
per vie di piaghe gocciolanti, livide,
in un cerchio di mosche testarde.
Con questi asini, Dio, fate che a voi ritorni.
E che in pace profonda angeli ci conducano
verso ruscelli ombrosi, e ridano ciliegie
più lisce della guancia alle fanciulle,
fate che in quel reame delle anime,
curvo sull’acqua sacra io stia come gli asini
a contemplare l’umile, la dolce povertà
nell’amoroso cerchio della vostra eternità.

 Sarchiapone e Ludovico - Totò

Teneva diciott'anne Sarchiapone,                           
era stato cavallo ammartenato,
ma... ogne bella scarpa nu scarpone
addeventa c' 'o tiempo e cu ll'età .
Giuvinotto pareva n'inglesino,
uno 'e chilli cavalle arritrattate
ca portano a cavallo p' 'o ciardino
na signorina della nobiltà.
Pronto p'asc'i sbatteva 'e ccianfe 'nterra,
frieva, asceva 'o fummo 'a dint' 'o naso,
faville 'a sotto 'e piere, 'o ffuoco! 'A guerra!
S'arrevutava tutt' 'a Sanità.
Ma... ogni bella scarpa nu scarpone
c' 'o tiempo addeventammo tutte quante;
venette pure 'o turno 'e Sarchiapone.
Chesta è la vita! Nun ce sta che ffà .
Trista vicchiaja. Che brutto destino!
Tutt' 'a jurnata sotto a na carretta
a carrià lignammo, prete, vino.
"Cammina, Sarchiapò ! Cammina, aah!".
'0 carrettiere, 'nfamo e disgraziato,
cu 'a peroccola 'nmano, e 'a part' 'o gruosso,
cu tutt' 'e fforze 'e ddà sotto 'o custato
'nfaccia 'a sagliuta p' 'o fà cammenà.
A stalla ll'aspettava Ludovico,
nu ciucciariello viecchio comm' a isso:
pe Sarchiapone chisto era n'amico,
cumpagne sotto 'a stessa 'nfamità.
Vicino tutt' 'e ddute: ciuccio e cavallo
se facevano 'o lagno d' 'a jurnata.
Diceva 'o ciuccio: "I' nce aggio fatto 'o callo,
mio caro Sarchiapone. Che bbuò fà ?
lo te capisco, tu te si abbeluto.
Sò tutte na maniata 'e carrettiere,
e, specialmente, 'o nuosto,è 'o cchiù cornuto
ca maie nce puteva capità.
Sienteme bbuono e vide che te dico:
la bestia umana è un animale ingrato.
Mm' he a credere... parola 'e Ludovico,
ca mm' è venuto 'o schifo d' 'o ccampà.
Nuie simmo meglio 'e lloro, t' 'o ddico io:
tenimmo core 'mpietto e sentimento.
Chello ca fanno lloro? Ah, no, pe ddio!
Nisciuno 'e nuie s' 'o ssonna maie d' 'o ffà.
E quanta vote 'e dicere aggio 'ntiso:
"'A tale ha parturito int' 'a nuttata
na criatura viva e po' ll'ha accisa.
Chesto na mamma ciuccia nun 'o ffà !".
"Tu che mme dice Ludovico bello?!
Overo 'o munno è accussi malamente?".
"E che nne vuo sapè , caro fratello,
nun t'aggio ditto tutta 'a verità.
Tu si cavallo, nobile animale,
e cierti ccose nun 'e concepisce.
I' so plebbeo e saccio tutt' 'o mmale
ca te cumbina chesta umanità ".
A sti parole 'o ricco Sarchiapone
dicette: "Ludovì , io nun ce credo!
I' mo nce vò , tenevo nu padrone
ch'era na dama, n'angelo 'e buntà.
Mm'accarezzava comm'a nu guaglione,
mme deva 'a preta 'e zucchero a quadrette;
spisse se cunzigliava c' 'o garzone
(s'io stevo poco bbuono) ch' eva fà ".
"Embè ! - dicette 'o ciuccio - Mme faie pena.
Ma comme, tu nun l'he capito ancora?
Si, ll'ommo fa vedè ca te vò bbene
è pe nu scopo... na fatalità.
Chi pe na mano, chi pe n'ata mano,
ognuno tira ll'acqua al suo mulino.
So chiste tutte 'e sentimente umane:
'a mmiria, ll'egoismo, 'a falsità.
'A prova è chesta, caro Sarchiapone:
appena si trasuto int' 'a vicchiaia,
pe poche sorde, comme a nu scarpone,
t'hanno vennuto e si caduto ccà.
Pe sotto a chillu stesso carruzzino
'o patruncino tuio n'atu cavallo
se ll' è accattato proprio stammatina
pe ghi currenno 'e pprete d' 'a città ".
'0 nobbile animale nun durmette
tutt' 'a nuttata, triste e ll'uocchie 'nfuse,
e quanno avette ascì sott' 'a carretta
lle mancavano 'e fforze pe tirà .
"Gesù , che delusione ch'aggio avuto!"-
penzava Sarchiapone cu amarezza.
"Sai che ti dico? Ll'aggia fa fernuta,
mmiezo a sta gente che nce campo a ffà ?"
E camminanno a ttaglio e nu burrone,
nchiurette ll'uocchie e se menaie abbascio.
Vulette 'nzerrà 'o libbro Sarchiapone,
e se ne jette a 'o munno 'a verità.


Aveva diciotto anni Sarchiapone
era stato cavallo spavaldo
ma ogni bella scarpa uno scarpone
diventa col tempo e con l'età.
Giovanotto sembrava un inglesino
uno di quei cavalli ritratti
che portano a cavallo per il giardino
una signorina della nobiltà.
Pronto per uscire, sbatteva le zampe in terra
mordeva il freno, usciva fumo dalle nari
scintille sotto i piedi, il fuoco! La guerra!
Si rivoltava tutto il rione Sanità.
Ma ogni bella scarpa uno scarpone
col tempo diventiamo tutti quanti,
e venne pure il turno di Sarchiapone.
Questa è la vita! Non c'è niente da fare.
Triste vecchiaia. Che brutto destino!
Tutta la giornata sotto a un carretto
a caricare legname, pietre, vino.
Cammina Sarchiapò, cammina!
Il carrettiere, infame e disgraziato
col bastone in mano dalla parte grossa
con tutte le forze lo dava sotto al costato
davanti alla salita per farlo camminare.
Nella stalla l'aspettava Ludovico
un somarello vecchio come lui:
per Sarchiapone questi era un amico,
compagno sotto la stessa infamità.
Vicini tutti e due, asino e cavallo
si facevano le lagne della giornata.
Diceva il somarello: "Io ci ho fatto il callo
mio caro Sarchiapone, che vuoi fare?
Io ti capisco, tu ti sei avvilito.
Sono tutti una masnada i carrettieri,
e specialmente il nostro è il più cornuto
che mai ci potesse capitare.
Ascoltami bene quello che ti dico:
la bestia umana è un animale ingrato.
Mi devi credere, parola di Ludovico
che mi è venuto lo schifo di vivere.
Noi siamo meglio di loro, te lo dico io
abbiamo il cuore in petto e il sentimento.
Quello che fanno loro? A no per Dio!
Nessuno di noi si sogna mai di farlo.
E quante volte ho sentito dire:
"La tale ha partorito in nottata
una creatura viva e poi l'ha uccisa.
Questo una mamma asinella non lo fa!"
"Tu cosa mi dici Ludovico bello?
Davvero ilo mondo è così cattivo?
"E cosa vuoi sapere, caro fratello
e non ti ho detto tutta la verità!"
Tu sei un cavallo, nobile animale
e certe cose non le concepisci.
Io sono plebeo e conosco tutto il male
che ti combina questa umanità"
A queste parole il ricco Sarchiapone
disse: "Ludovì, io non ci credo!
Io non voglio, io avevo una padrona
che una dama, un angelo di bontà.
Mi accarezzava come fossi un bambino
me dava lo zucchero a quadretti
spesso si consigliava col garzone
su come fare se stavo poco bene!"
Embè, disse l'asino, mi fai pena.
Ma come, non l'hai ancora capito?
Se l'uomo fa vedere che ti vuole bene
è per uno scopo, una fatalità.
Chi da una parte, chi dall'altra
ognuno tira l'acqua al suo mulino.
Sono questi tutti i sentimenti umani:
l'invidia, l'egoismo la falsità.
La prova è questa, caro Sarchiapone:
appena sei invecchiato
per pochi soldi, come uno scarpone.
ti hanno venduto e sei finito quà.
Sotto a quello stesso carrozzino
il padroncino tuo ha attaccato
un'altro cavallo, proprio stamattina
e ci corre fra le pietre della città.
Il nobile animale non dormì
tutta la notte, triste, con gli occhi umidi,
e quando dovette uscire sotto al carretto
gli mancavano le forse per tirarlo.
Gesù che delusione che ho avuto!
pensava Sarchiapone con amarezza.
Sai che ti dico? La voglio fare finita
in mezzo a questa gente cosa vivo a fare?
E camminando sul bordo del burrone
chiudette gli occhi e si buttò di sotto.
Volle chiudere il libro, Sarchiapone
e se ne andò nel mondo della verità!
da qui

qui recitata da Totò:




A Un Asino – Giosuè Carducci

Oltre la siepe, o antico pazïente,
De l'odoroso biancospin fiorita,
Che guardi tra i sambuchi a l'orïente
Con l'accesa pupilla inumidita? 

Che ragli al cielo dolorosamente?
Non dunque è amor che te, o gagliardo, invita?
Qual memoria flagella o qual fuggente
Speme risprona la tua stanca vita? 

Pensi l'ardente Arabia e i padiglioni
Di Giob, ove crescesti emulo audace
E di corso e d'ardir con gli stalloni? 

O scampar vuoi ne l'Ellade pugnace
Chiamando Omero che ti paragoni
Al telamonio resistente Aiace? 



In lode dell’Asino – Giordano Bruno

O sant'asinità, sant'ignoranza,
Santa stolticia e pia divozione,
Qual sola puoi far l'anime sì buone,
Ch'uman ingegno e studio non l'avanza;
Non gionge faticosa vigilanza
D'arte qualunque sia, o 'nvenzione,
Né de sofossi contemplazione
Al ciel dove t'edifichi la stanza.
Che vi val, curiosi, il studiare,
Voler saper quel che fa la natura,
Se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura;
Ma con man gionte e 'n ginocchion vuol stare,
Aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura,
Eccetto il frutto de l'eterna requie,
La qual ne done Dio dopo l'essequie.