venerdì 29 aprile 2016

Giuseppe Li Rosi in difesa del grano (no ogm)







(a Cagliari, nel novembre 2010, lo so perché ero nel pubblico)


qui un articolo interessante

inizia così:
TORNANO i grani antichi in Sicilia. Tornano a riempire i campi, ricostruiscono paesaggi, arricchiscono la biodiversità di un'agricoltura che da decenni ha ridotto a poche specie super selezionate il frumento dell'isola che fu uno dei granai dell'Impero romano. Ufficialmente sono solo 500 ettari, ma c'è chi parla di 3.000. I contadini che stanno passando al biologico e al recupero delle sementi locali crescono di anno in anno, si associano, mettono in piedi filiere alimentari e fanno cultura, oltre che coltura.

"Ho convertito 100 ettari dell'azienda familiare a grano locale" confessa Giuseppe Li Rosi, uno dei più convinti sostenitori del ritorno all'antico in agricoltura, "e sono il custode di tre varietà locali, Timilia, Maiorca e Strazzavisazz". I custodi seminano queste rarità botaniche, dedicando almeno 10 ettari a ogni coltura, si impegnano nella ricerca storica e a mantenere la purezza del seme. Li Rosi, contadino da generazioni, è anche il presidente dell'associazione Simenza, cumpagnia siciliana sementi contadine, che mette insieme settanta produttori "ma altri cento sono pronti a entrare", assicura Giuseppe. La sperimentazione, oltre alla conservazione, è all'ordine del giorno nella Cumpagnia: si coltivano campi anche con miscugli di sementi, un procedimento diametralmente opposto alla tecnica moderna, che ricerca l'uniformità, lo standard in nome della quantità...

giovedì 28 aprile 2016

Cemento sulle coste, Regione choc: “Abbiamo sanato in maniera illegittima” - Pablo Sole


“Scusate, abbiamo scherzato. Dice l’ufficio legale della Regione che dobbiamo rispettare le norme, perfino quelle nazionali. Pare quindi che non potessimo sanare, come abbiamo regolarmente fatto finora, le centinaia di metri cubi di cemento che privati e società hanno riversato sulle coste. Nemmanco facendo pagare le due lire di sanzione che abbiamo sempre irrogato. Poi, dice sempre l’avvocatura regionale che avremmo dovuto chiedere il parere vincolante della Sovrintendenza ai beni paesaggistici: ce ne siamo scordati. Ma da oggi basta, si cambia: applicheremo le leggi”.
Ecco cosa vien fuori a tradurre dal burocratese l’ordine di servizio (leggi) che il 15 luglio 2015 Alessandro Pusceddu, direttore del Servizio tutela paesaggistica di Cagliari e Carbonia-Iglesias, trasmette agli uffici. È un documentodirompente, un’ammissione di colpa che alza il velo su anni e anni di abusi sanati senza colpo ferire. Da Carloforte a Muravera: tutto consentito. Sulle coste il cemento, nelle casse della Regione qualche euro: fatti salvi un paio di casi, per l’ufficio tutela del paesaggio le colate di cemento non hanno mai causato alcun danno (in caso contrario: o sarebbero arrivate le ruspe, o il conto sarebbe stato ben più salato) e quindi con pochi spiccioli il discorso è chiuso. Lo testimonia il ‘prezziario’ applicato con grande benevolenza a chi, aggrappandosi ai vari condoni e al buon cuore degli uffici regionali, ha costruito in area vincolata di tutto un po’: piscine, immobili nuovi di pacca e perfino capannoni industriali.
Il parere dell’area legale citato da Pusceddu è del 27 marzo 2015 (leggi) ed è stato secretato in vista di potenziali contenziosi. Per due mesi non accade nulla: il documento viene trasmesso agli uffici dal Dg della Pianificazione urbanisticaElisabetta Neroni solo il 13 maggio. Ma servono ancora sessanta giorni perché in viale Trieste si accorgano dell’esistenza di quel documento, quando Pusceddu firma appunto l’ordine di servizio e tra le altre cose scrive, quasi fosse un principio sconosciuto caduto improvvisamente dal cielo: “Dalla lettura del parere […] emerge che la Regione non può derogare alle norme procedimentali stabilite dalla legislazione nazionale in materie di competenza esclusiva dello Stato, quali il paesaggio”. Da qui, poche righe dopo, l’incredibile ammissione: “La procedura finora seguita dal Servizio si discosta da tali principi”. Una brevissima frase dalla portata sconcertante, anche perché Pusceddu è a capo del Servizio tutela da oltre quattro anni e mezzo (nonostante il Piano anticorruzione della Regione consideri quella posizione ad alto rischio e quindi imponga che il dirigente venga sostituito ogni tre anni).
C’è poi un ulteriore elemento che lascia esterrefatti: è dal 2006 che l’ufficio legale della Regione tenta di far capire al Servizio tutela che sanare cubature e altri abusi diversi dal semplice restauro conservativo nelle aree vincolate, è semplicemente illegittimo. Lo scriveva appena dieci anni fa l’avvocato Graziano Campus (leggi), citando non solo la Corte Costituzionale ma anche diverse sentenza emesse l’anno prima dalla Corte d’appello di Cagliari e l’ha ribadito nel marzo dello scorso anno il direttore generale dell’area legale Sandra Trincas: le opere non sono sanabili, il ministero può annullare l’autorizzazione e il parere della Sovrintendenza è vincolante. Tutto chiaro? Non proprio, visto che poche settimane dopo Alessandro Pusceddu firma la sanatoria nientemeno che per il petrolchimico Eni di Sarroch. Abusivo, chiaramente.


mercoledì 27 aprile 2016

L'impronta mal distribuita

"Attualmente produciamo 36 miliardi di tonnellate all’anno di anidride carbonica, mentre il sistema naturale è in grado di assorbirne attorno a 20. Tutti gli anni abbiamo un bilancio negativo di oltre 16 miliardi di tonnellate che accumulandosi in atmosfera fanno aumentare la temperatura terrestre con gravi conseguenze sul clima".
"l’umanità vive al di sopra delle sue possibilità perché ha un livello di consumi" -in termini energetici, e non solo alimentari- per soddisfare i quali sarebbe necessario una superficie produttiva equivalente a 20 miliardi di ettari, che è del 66% più alta di quella disponibile (pari a 12 miliardi di ettari); se suddividessimo questi 12 miliardi di ettari per i 7 miliardi di persone che abitano il pianeta, "scopriremmo che ogni abitante ha a propria disposizione 1,7 ettari. Questa è l’impronta ecologica sostenibile"; "in realtà la superficie richiesta dall’umanità è 20 miliardi di ettari, per cui l’impronta ecologica reale è pari a 2,8 ettari a testa".

Ma non basta: "Lo stile di vita degli italiani richiede 4,6 ettari a testa, un’impronta superiore a quella sostenibile di due volte e mezza". 

Ecco alcuni dei dati contenuti nel dossier "L'impronta mal distribuita", a cura del Centro nuovo modello di sviluppo. Potete sfogliarlo qui sotto, oppure scaricarlo a questo link.


venerdì 22 aprile 2016

Glifosato, le prime analisi in Italia, è una roulette russa – Valentina Corvino


Sconosciuto fino a un anno fa, oggi il glifosato è al centro di una querelle scientifica e politica. Mentre si attende di sapere da che parte sarà l’Europa, tra la posizione dello Iarc (Agenzia dell’OMS), che lo ha classificato come “probabile cancerogeno per l’uomo”, e quella dell’Efsa, che invece lo ha assolto, in molti Paesi si allarga la schiera di chi è contrario all’uso del pesticida. Stiamo parlando dell’erbicida più usato al mondo, sintetizzato per la prima volta nel 1950. Da allora viene irrorato con numeri impressionanti: il volume di glifosato spruzzato è sufficiente a trattare tra il 22 e il 30% dei campi coltivati nel mondo. Mai nessuna sostanza è stata irrorata su una superficie mondiale tanto vasta.
Ma quanto glifosato, dai campi, finisce sulle nostre tavole? Il Test-Salvagente, in edicola da domani 23 aprile, ha condotto le prime analisi italiane per scoprire il livello di contaminazione in corn flakes, farine, biscotti, fette biscottate e pasta. Il risultato? Una roulette russa in cui né le aziende né i consumatori possono stare tranquilli. Per una stessa marca, infatti, sono stati trovati lotti in cui è stato rintracciato l’erbicida accanto a lotti che non lo contenevano. I residui, sempre inferiori ai limiti di legge, testimoniano una contaminazione diffusa, quasi ubiquitaria.
Discorso diverso e ben più allarmante sull’acqua che beviamo tutti i giorni. Il Test-Salvagente ha analizzato 26 campioni provenienti da diverse città italiane e in due casi l’Ampa, un derivato del glifosato che con l’erbicida condivide la tossicità e gli effetti a lungo termine sulla salute umana, è risultato superiore ai limiti di legge. Nessuna Regione italiana – denuncia il mensile dei consumatori – analizza la presenza di glifosato e del suometabolita Ampa nelle acque potabili, nonostante le raccomandazioni comunitarie.
Spiega Riccardo Quintili, direttore de il Test-Salvagente: “L’Europa non sacrifichi agli interessi di pochi uno dei suoi principi fondamentali, quello di precauzione che stabilisce che di fronte a un possibile pericolo per la salute si debba vietare un prodotto o una sostanza. È il caso, chiaro, del glifosato, un pesticida che rischia di avvelenare anche i simboli del made in Italy”.
Un timore che sembra interessare anche l’industria e il nostro ministro per le Politiche Agricole, alimentari e forestali, Maurizio Martina, che proprio al mensile dei consumatori ha anticipato il piano “glifosato zero” sulle produzioni italiane.

martedì 12 aprile 2016

Il petrolchimico abusivo benedetto dall’Ufficio tutela del paesaggio. “Ma almeno piantate due alberi” - Pablo Sole

In effetti l’impatto paesaggistico “è percettibile”. Ma fate così: intonacate lo spaccio aziendale e date una tinteggiata. Ma coi colori della terra: bene il borgogna, male il grigio topo. Rifinite tutto montando gli infissi (in legno) e se proprio vi vien bene, “laddove fosse possibile” piantate due alberi.
Prescrizioni del genere, il Servizio tutela paesaggistica della Regione le impone quasi tutti i giorni a chi si rivolge agli uffici di viale Trieste per ‘aggiustare’ il tiro in caso di abusi edilizi. Solo che in questo caso il destinatario si chiama Eni e l’opera abusiva è semplicemente un impianto petrolchimico. Costruito a due metri dalla battigia. Si parla dell’ex Polimeri Europa di Sarroch, venduto poi alla Sarlux (Gruppo Saras) nel dicembre del 2014. Rivelatrice la sanzione comminata all’ente di Stato: 270mila euro, anche in comode rate. È tutto nero su bianco in un documento riservato in possesso di Sardinia Post (guarda).
Il mastodonte costruito sul mare
In pillole, giusto per farsi un’idea di quanto sia esteso l’impianto, basta ricordare solo alcune strutture per cui è stata chiesta la sanatoria: 47 serbatoi da migliaia di litri per lo stoccaggio di sostanze come etilene e benzene, centinaia e centinaia di metri di condotte, una centrale termoelettrica e perfino un sottopasso che taglia la statale 195. Con un piccolissimo problema: nessuna licenza edilizia – come fatto presente a suo tempo dal Comune di Sarroch – e nessun nullaosta paesaggistico. Tutto abusivo, appunto. Questo non ha impedito all’Eni (a cui abbiamo chiesto un commento, senza riscontro) di incassare il via libera del Servizio tutela paesaggistica, nonostante il mancato coinvolgimento della Sovrintendenza ai beni paesaggistici – il cui parere è vincolante – e in contrasto con diverse sentenze del Consiglio di Stato.
Una pratica vecchia di trent’anni, un condono concesso a tempo di record
Quando nel dicembre del 2014 l’Eni decide di vendere il mega impianto di Sarroch alla Sarlux, si scontra subito con un piccolo inghippo: sullo stabilimento pesa una richiesta di condono edilizio presentata appena trent’anni prima e la pratica è ancora aperta. Semplicemente, il Comune di Sarroch non hai chiesto conto all’Eni e il Cane a sei zampe non ha mai chiesto conto al Comune. Dal 1985 ad oggi, tutto è andato avanti come se nulla fosse ma con le trattative per la vendita il problema è tornato prepotentemente a galla: nessun notaio potrà ufficializzare il passaggio di consegne alla Saras se prima non viene definita l’istruttoria di condono. E nel frattempo, dal 2004, occorre appunto anche il parere del Servizio tutela paesaggistica. A quel punto – siamo nel dicembre del 2014 – un problema vecchio di trent’anni si risolve senza colpo ferire nel giro di qualche settimana: il 16 dicembre l’Eni chiede il nullaosta al Servizio tutela paesaggistica e appena 48 ore dopo incassa il certificato di “futura sanabilità” dal Comune di Sarroch. Sette giorni dopo l’accordo con Saras è chiuso e viene annunciata l’acquisizione degli impianti. Vale a dire sei mesi prima del nullaosta paesaggistico della Regione, che arriva il 27 maggio 2015 insieme con la sanzione di 270mila euro.
Quanto costa sanare un petrolchimico in Sardegna
Sulle prime, l’entità della sanzione potrebbe sembrare importante. Ma non lo è affatto se si esamina la lista delle opere per cui Eni chiede il nullaosta paesaggistico:  in sostanza, pressoché l’intero impianto. Sintetizzando dai documenti ufficiali, compaiono tra le altre cose: la costruzione di uffici tecnici, officine, magazzini e manutenzione strumenti; il cambio di destinazione d’uso del “fabbricato ex frati cappuccini (uffici)” e del “fabbricato ex carmelitani (centro di addestramento, cancelleria e spaccio)”; la costruzione di una centrale termoelettrica. E ancora, come accennato poco sopra: “N. 47 serbatoi; sottopasso SS 195 al km. 18,4; torcia N. Paraffine; torri di raffreddamento; pipe rack e pipe way; modifiche impianto reforming; ampliamento cabine elettriche; sala pompe; Formex-Btx; bunker bombole laboratorio chimico; modifiche impianto policondensazione; serbatoio sferico S 341”. Omettiamo il resto delle opere, ma la lista è ancora lunga (guarda qui). Sarebbe poi curioso sapere quanto ha incassato (e soprattutto se ha incassato) il Comune di Sarroch per l’oblazione dovuta sul versante urbanistico. Anche in questo caso siamo in attesi di riscontri.
Il Servizio tutela della Regione: “L’impianto non ha pregiudicato il paesaggio”
“Riteniamo che gli interventi nel loro complesso non abbiano arrecato pregiudizio ai valori paesaggistici tutelati dal vincolo”. Così gli uffici regionali preposti alla tutela del paesaggio giustificano il nullaosta. Spiegando poi che le opere “non hanno alterato negativamente le caratteristiche paesaggistiche dei luoghi circostanti, poiché realizzate e incidenti in un’area destinata ad attività industriali e da queste già compromessa sin dagli anni ’60-’70”. Una tesi in totale contrasto con il Consiglio di Stato, che in buona sostanza ha affermato più e più volte un principio generale molto semplice: il fatto che l’area vincolata sia degradata non può giustificare la sua ulteriore distruzione.
Sovrintendenza non ti conosco. E negli uffici della Regione si aggira uno spettro… 
Quel che lascia perplessi su tutto l’iter che porta al nullaosta, è il mancato coinvolgimento della Sovrintendenza ai beni paesaggistici, posto che l’impianto sorge letteralmente a mezzo metro dal mare e sull’intera area, dal 1985 grava appunto un vincolo paesaggistico. “Ma non dovevamo mandare niente alla Sovrintendenza – sostiene il responsabile del procedimento per l’Ufficio tutela, Antonio Vanali -. Lo ha stabilito una circolare ad hoc emanata oltre dieci anni fa per dirci come andava gestito l’iter e questa non contemplava il passaggio alla Sovrintendenza, quindi non l’abbiamo coinvolta”.

domenica 10 aprile 2016

Stefano Caccavari e l’Orto di Famiglia fermano la discarica più grande d’Europa

«Dall'accampamento dei Filistei uscì un campione, chiamato Golia, di Gat; era alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo…»   (1 Samuele 17,4-7)                 
«Davide disse a Saul: Nessuno si perda d'animo a causa di costui. Il tuo servo andrà a combattere con questo Filisteo. »   (1 Samuele 17,32)                     
«Appena il Filisteo si mosse… Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s'infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra…»   (1 Samuele 17,48-51)

Golia è la più grande discarica per rifiuti solidi e speciali d’Europa, la Battaglina, e Davide, per chi ancora non lo conoscesse, è Stefano Caccavari giovanissimo imprenditore.

Ci troviamo a San Floro un comune collinare in provincia di Catanzaro a pochi chilometri dal Golfo di Squillace, circondato da boschi, campi e frutteti, famoso per la lavorazione tradizionale dei fichi secchi e oggi per l’Orto di Famiglia. È proprio in questo territorio, nei comuni di Borgia, San Floro e Girifalco, precisamente su due falde acquifere, che nel 2014 sarebbe dovuta sorgere l’“Isola ecologica Battaglina”, una discarica gigantesca, la seconda più grande d’Europa, ricordiamo che secondo alcuni la più grande d'Europa è Malagrotta situata nella Riserva naturale Litorale romano,  240 ettari di superficie dove ogni giorno vengono scaricati quasi 5000 tonnellate di rifiuti. Stesso contesto per la c.d. “Battaglina”, in un’area individuata, tanto per parlare, a prevalenza boschiva, con il conseguente disboscamento per la realizzazione delle “vasche”, e come se ciò non bastasse con un sistema idrico superficiale e classificata zona sismica di categoria 1.

“Calabria grande e amara” titolava un saggio del 1964 di Leonida Rèpaci, anche in quest’occasione  “amara” sarebbe stata la conclusione naturale, quasi prevedibile, come per molte altre realtà di questa terra,  se non ci fosse stata la caparbia opposizione dei cittadini di San Floro, Girifalco, Borgia, Amaroni, Cortale, Settingiano e Caraffa, guidati dal comitato No Bat e sostenuti da Legambiente, che sono riusciti a fermare il “gigante d’immondizia”.

Tra loro il giovane Stefano Caccavari, 28 anni compiuti a marzo di quest’anno, e la sua lucida e coraggiosa reazione a un “mostro” che li avrebbe spazzati via, tirare fuori “dalla bisaccia” non già un sasso, ma un pugno di terra. Ha considerato la vocazione del suo territorio, agricola, e partendo dalla riflessione che quasi tutte le famiglie a San Floro mantengono la tradizione di farsi un piccolo orto dietro casa ha, insieme allo zio Franco, preso un pezzo della sua terra ed ha coltivato i primi dieci orti di famiglia, il progetto si chiama proprio così Orto di Famiglia. 
«Dare la possibilità alle persone di avere un piccolo pezzo di terra,» racconta Stefano «dove i lavori agricoli vengono fatti da noi e le famiglie che prendono in affitto l’orto vengono direttamente a raccogliere i loro prodotti, qui l’innovazione», non bisogna aspettare di andare in pensione per realizzare il sogno dell’orto o fare gimcane micidiali, tra impegni di lavoro e famiglia, per trovare il tempo da dedicare alla terra. Qui trovano tutto pronto e tutto “vero biologico”, verdure di stagione senza concimi chimici e nessun pesticida, nei campi di Stefano, i parassiti vengono combattuti con l’utilizzo di insetti predatori.

Un anno e mezzo fa erano in dieci, stagione dopo stagione sono oltre 160, all’Orto di Famiglia si cresce continuamente facendo agricoltura, aggregando persone che sanno fare e costruendo una comunità che non solo vive il territorio, ma ne diventa custode.

«Dove le persone non fanno nulla per tutelare e proteggere il territorio che vivono, il territorio è destinato a scomparire», se ci pensate è proprio così, come dice Stefano, «se nessuno reagisce ai problemi esterni i territori sono destinati a morire, perché arriva chi  vuole colonizzare, conquistare e fa la discarica» e aggiungo io, magari fosse solo la discarica e la morte del territorio, il business criminale dei rifiuti tossici in discariche abusive in molte zone di questo territorio, è una vera sciagura. Come se “i criminali”, le loro famiglie, i loro parenti, i loro amici, non mangiassero, non respirassero, non vivessero come noi, per una “palata di soldi” dimenticano la palata di terra che toccherà anche a loro sulla bara quando tutto sarà contaminato. Ma questa è la capacità intellettiva, il grado di sviluppo dell’intelligenza che in molti, troppi, sembra essersi involuto.

L’Orto di Famiglia è una risposta concreta a queste vergogne: 
- Riappropriarsi del territorio, curarlo, avere passione è anche una molla a difenderlo. 
E poi vogliamo mettere il “mangiare sano”, mangiare prodotti coltivati da noi stessi e nel rispetto della natura. Infatti nel “giardino” di Stefano da un’iniziale semplice “raccolta” delle verdure, gli ortisti oggi hanno imparato e voluto coltivare loro stessi il proprio orto. Se amiamo qualcosa siamo capaci di tutto per proteggerla! Oggi  Stefano Caccavari è impegnato in un nuovo progetto: il primo mulino social.

La chiusura dell’ultimo mulino a pietra, in provincia di Crotone,  ha significato per Stefano la fine per macinare il suo grano con una tecnica tradizionale, e già, perché ho trascurato di dirvi che lui e la sua famiglia hanno diversi ettari di grani antichi, «dal grano duro al grano tenero, dal mais alla segale, lo facciamo esclusivamente per mangiare sano e difendere la tradizione.» scrive «E’ il nostro territorio, è la nostra vocazione agricola, è la voglia di mangiare come 100 anni fa che ci spinge ad andare avanti, e adesso è l’ora di avviare il nostro mulino biologico a pietra naturale per macinare esclusivamente i nostri Grani Antichi.» 

Così inizia per Stefano la nuova avventura, recuperare le antiche macine in pietra naturale “la ferté” dell’ultimo mulino e dare vita al primo Mulino social a pietra made in San Floro. Si tratta di macine antiche, prodotte nel 1800, di una pietra speciale e durissima, la famosa pietra francese chiamata “le Fertè”.  

Per la raccolta fondi il 18 febbraio ha lanciato una campagna adesioni su Facebook e la rete ha risposto con entusiasmo sostenendo energicamente il progetto. Chi volesse può ancora partecipare o prenotare il kit di Farina Bio composto da 20 Kg di farina macinata a pietra. 

Progetti semplici e importanti, idee nate per ribellione, come la discarica, la chiusura di un antico mulino, o la salvaguardia della biodiversità, che permettono si di entrare in contatto con la natura e il naturale, di riscoprire il piacere di un’alimentazione sana, ma soprattutto sono un modello per la salvaguardia e il rilancio di un territorio. 

L’Orto di Famiglia, che Stefano a raccontato in uno degli incontri nel salone di Confindustria di Reggio Calabria, “aperto” da Angelo Marra, presidente del Gruppo Giovani imprenditori Confindustria, ai giovani corsisti dei CFP di Reggio, è la risposta al corso organizzato e promosso dall’associazione Pensando Meridiano
 - I giovani hanno bisogno di modelli positivi da imitare.
Le azioni di Stefano sono un esempio replicabile universalmente, perché come recita una massima:
“Semina un pensiero e raccoglierai un'azione, semina un'azione e raccoglierai un'abitudine, semina un'abitudine e raccoglierai un carattere, semina un carattere e raccoglierai un destino.”
Sulle “ricadute” delle azioni che facciamo avevo iniziato a parlarvene qui, ci sono grandi azioni che si devono ripetere per l’importanza delle conseguenze e azioni miserabili che andrebbero schiacciate per la bassezza dei loro effetti.
Il 23 marzo scorso il deposito dell’azienda agricola di Stefano Caccavari è stato distrutto da un incendio, «La Calabria è dolce e amara, ma noi andiamo avanti. Questa notte l’Orto di Famiglia è stato oggetto di un atto vandalico.», sono parole di Stefano rilasciate a “il Quotidiano del Sud”, « La nostra casetta di legno, spazio di aggregazione e di convivialità, è stata data alle fiamme da ignoti… Orto di Famiglia non è semplicemente un’azienda agricola ma è una comunità di persone che, coltivando la nostra terra, si sono posti a guardia e a difesa del territorio e che non si lascerà minimamente intimorire dall’accaduto. Chi lavora la terra mette sempre in conto gli imprevisti. Noi andiamo avanti utilizzando la cenere dell’incendio per concimare i nostri terreni».
da qui

Ecco cosa succede quando rispondi a un messaggio spam - James Veitch

mercoledì 6 aprile 2016

Il mondo che vorrei e il referendum - Daniele Previtali

In questi giorni si parla tanto del Referendum abrogativo del 17 aprile, non molto (e male) in Tv (ovviamente), mentre sui social bisogna dire che c’è una discreta attenzione. Quasi ogni giorno si diffonde in modo virale qualche articolo o immagine che porta le ragioni dei favorevoli e dei contrari al blocco delle trivellazioni in mare entro le dodici miglia dalla costa. Premettendo che sono tra i favorevoli al blocco (quindi voterò Sì), vorrei portare il mio punto di vista cercando di svincolarmi il più possibile dalle fonti lette finora. Perché sento questa necessità? Perché purtroppo leggo il diffondersi di posizioni basate su una visione molto parziale del mondo in cui viviamo e soprattutto sull’idea per cui Noi poco possiamo fare e dovrebbe essere il governo a far svoltare il paese verso le Rinnovabili.
Innanzitutto va chiarito che il tema del referendum non è “continuiamo o smettiamo di usare il petrolio”, bensì semplicemente “vogliamo o no permettere ancora le trivellazioni vicino le nostre coste”? Molti sui social hanno lamentato che non ci sono sufficienti informazioni per giungere ad una scelta consapevole, io sostengo non solo che ci sono, ma anche che non sono neanche necessarie, basta osservare come va il mondo e pensare alle conseguenze di entrambe i possibili risultati. Nel caso vinca l’astensionismo è facile, tutto rimarrà come è ora. Cosa accadrebbe nel caso vinca invece il Sì? Anche chi è sfavorevole alle trivellazioni pensa che non cambierebbe nulla. Analizziamo alcune delle contestazioni:

1) Il capo del governo dice che si perderebbero solo posti di lavoro. Bene, ragioniamoci… Sappiamo che il petrolio non è infinito, prima o poi finirà, forse non saranno gli attuali lavoratori a perdere il lavoro ma prima o poi chi ci lavora lo perderà. Inoltre il lavoro in un settore inquinante come l’estrazione petrolifera non è proprio cosa da incentivare. Quindi la domanda diventa: per aumentare stabilmente l’occupazione, ci interessano davvero dei posti di lavoro in un settore senza futuro? A Renzi interessa davvero creare benessere o solo aumentare un numeretto per poi far cadere comunque nel disagio queste famiglie fra qualche anno? Ci interessa in sostanza il “lavoro a qualunque costo” o il “lavoro utile”? Perché secondo Renzi noi dovremmo essere contenti anche se l’occupazione aumentasse grazie ad una maggiore produzione di armi, mentre sfido chiunque a dirmi di essere contento se l’occupazione italiana aumenta grazie a guerre e morti in altri paesi. Qualsiasi persona veramente interessata al bene del suo paese dovrebbe ragionare in questi termini e non in questo modo limitato e senza futuro. A me interessa il “lavoro utile”, cioè quello che produce effetti lunghi e positivi per la società e non danneggia l’ambiente. Siccome non voglio pensare che dietro alle affermazioni di Renzi ci sia altro, posso affermare con certezza che un individuo come lui, con tale limitatissima capacità di pensiero analitico, dovrebbe ricoprire incarichi ben meno importanti. Ma d’altra parte la metà degli italiani non riesce ad andare oltre una semplice relazione di causa-effetto (spesso neanche quella), per cui è normale che ragionando così si ottiene consenso.
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2) Molti sostengono che anche bloccando le trivellazioni vicino la costa lo si farà altrove e che comunque oltre le dodici miglia già ci sono. Chi fa questo ragionamento guarda il dito e non la luna. Io mi chiedo: vogliamo o no cominciare da qualche parte? Oppure crediamo davvero che debbano essere i governi a fare i loro passi verso un modello sostenibile? Chi ragiona così, per analogia possiamo paragonarlo ad una persona che getta l’immondizia per terra fuori casa in quanto “tanto tutti i vicini lo fanno”, dicendo che è inutile tenere pulito il proprio pezzettino finché ci sono altri che sporcano. Cosa rispondere se non che hanno una visione davvero limitata del mondo, di come può cambiare e dell’importanza che ognuno di noi ha? Queste persone sono ancora stretti nella morsa della delega, pensano che debbano essere gli altri a cambiare le cose mentre noi siamo solo attori passivi.
3) Poi ci sono gli ipocriti che danno degli ipocriti a chi vorrebbe un mondo migliore, insomma quelli che dicono che il petrolio ci serve e che quindi non possiamo non trivellare perché sennò finiamo come col nucleare francese. Cosa rispondere? A parte che il nucleare è stato ed è ancora follia pura, le alternative ci sono e come! Certo, finché si pomperà petrolio nessuno avrà interesse ad adottarle seriamente, questo è lapalissiano. Ma per il semplice motivo che i nostri vicini usano fonti inquinanti non vuol dire che dobbiamo farlo anche noi. Perché secondo voi i paesi produttori di petrolio stanno investendo nel Solare Termodinamico? Mica sono stupidi, sanno che il petrolio finirà e quando accadrà vogliono essere pronti. E noi che facciamo? Se diamo retta a questa categoria di persone faremo una brutta fine. Il Solare Termodinamico è molto funzionale, sfrutta la concentrazione della luce del sole per scaldare un liquido che portato ad altissime temperature (diverse centinaia di gradi) viene usato per alimentare le turbine e produrre energia elettrica. E con l’energia elettrica possiamo fare tutto, cucinare, far andare mezzi di trasporto, ogni cosa. Questa tecnologia costa pochissimo, ha un impatto ambientale praticamente nullo, si adatta bene alle nostre latitudini, funziona anche di notte e con cielo nuvoloso e potrebbe essere distribuito in tanti piccoli impianti connessi in modo da rendere il sistema più robusto e funzionale. Perché non lo adottiamo? Perché buttiamo soldi in inutili opere e permettiamo ancora le trivellazioni nel Mediterraneo con il rischio di distruggere l’intero ecosistema in caso di incidente? Ci siamo dimenticati del disastro del Golfo del Messico di qualche anno fa? Per chi guardava l’Isola dei Famosi mentre milioni di barili di petrolio venivano sverzati in mare per 106 giorni, consiglio di consultare Google.
Conclusione: se vogliamo cambiare le cose dobbiamo usare ogni mezzo. Questo referendum è certamente solo un piccolo tassello, guardiamo la realtà, di certo non ci sarà alcun passaggio netto dal petrolio alle rinnovabili, ma se anche ognuno di noi inizia a fare la sua parte allora possiamo cambiare veramente. Oltre a votare il 17 aprile, iniziamo ad adottare uno stile di vita sempre meno dipendente dal petrolio, facciamo in modo di diminuire la richiesta, riduciamo gli sprechi, evitiamo la plastica, ottimizziamo l’uso dell’automobile, evitiamo di acquistare o tenere nell’armadio tanti vestiti inutili (per produrli serve molta energia, regaliamoli!), preferiamo il cibo crudo e riduciamo carne e latticini (che ci fa anche bene alla salute), installiamo stufe a legna (non pellet) per il riscaldamento di casa, eliminiamo (o almeno riduciamo) tabacco e alcolici, favoriamo il riuso di oggetti usati invece di acquistarne sempre di nuovi, acquistiamo cibo e prodotti da aziende che puntano sulla riduzione delle fonti fossili, non acquistiamo prodotti che arrivano da lontano (ad esempio la frutta tropicale), cerchiamo di autoprodurre in casa il più possibile usando ingredienti locali, favoriamo il turismo a basso impatto ambientale (ovvero in agriturismi o ecovillaggi che attuano pratiche di sostenibilità)… Possiamo fare davvero tanto, dobbiamo Evolverci cari amici, è inutile che ci giriamo intorno, il mondo e l’umanità hanno bisogno di un cambiamento, Gaia ce lo chiede, e se i nostri vicini non lo fanno facciamolo noi, è questo che conta. Gli interessi dei governi e delle multinazionali possono avvenire solo se Noi rimaniamo inermi. Il vero cambiamento è questo, ma sfruttiamo tutti gli strumenti che abbiamo, per cui intanto il 17 aprile diciamo con forza che su un pezzettino di mondo non si trivella più!

venerdì 1 aprile 2016

Con il petrolio ci si sporca spesso e volentieri - Gruppo d'Intervento Giuridico


Si è dimessa il Ministro dello sviluppo economico Federica Guidi, ma non è un pesce d’aprile.
Non passerà alla storia per la statura politica, ma per aver parlato un po’ troppo di affari petroliferi con il compagno, un certo Gianluca Gemelli, zuppo d’interessi legati al petrolio lucano e indagato dalla magistratura insieme a funzionari E.N.I. e funzionari pubblici. Qualcuno è pure finito ospite delle patrie galere.E questo Governo Renzi passerà alla storia per aver favorito spudoratamente gli interessi dei petrolieri, anche a scapito della democrazia.
Per esempio, facendo carte false per non far andare a votare gli italiani sulreferendum contro la durata illimitata delle concessioni estrattive a mare già esistenti entro la fascia delle 12 miglia marine dalla costa (17 aprile 2016).
E per disinformarli.
Sapete perché ‘sta gente vuol mantenere la durata illimitata delle concessioni estrattive sotto costa, introdotta dal decreto Sblocca Italia?
Perché dismettere un impianto comporta costi molto alti per le società concessionarie: meglio estrarre il minimo per il maggior tempo possibile.
Questo modus operandi, inoltre, ha anche un’ulteriore spiegazione economica: le franchigie. Le società petrolifere, infatti, non pagano le royalties se estraggono meno di 20 mila tonnellate di petrolio a terra e meno di 50 mila tonnellate a mare. Ovviamente vendono, però, il petrolio senza alcun pensiero. E se le soglie sono superate, scatta un’ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata.
Così il 7% delle royalties di legge viene pagato solo dopo le prime 50 mila tonnellate di greggio estratto e neppure per intero. In Italia, inoltre, sono esentate dal pagamento le produzioni in regime di permesso di ricerca. Ecco perché per chi estrae è fondamentale quella “durata di vita utile del giacimento“, indicata dal decreto Sblocca Italia.

Se previste nel progetto originariamente approvato, le società concessionarie possono realizzare nuove trivelle a mare anche entro la fascia delle 12 miglia marine dalla costa, alla faccia del divieto stabilito dalla legge (art. 6, comma 17°, del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.) e alla faccia delle balle raccontate dalla propaganda astensionista filo-governativa.
Insomma, per capirci, con il petrolio ci si sporca spesso e volentieri.
Per un po’ di ambiente e un bel po’ di democrazia in più votiamo e facciamo votare SI’ al referendum del prossimo 17 aprile 2016!
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus