domenica 29 novembre 2020

La merce in forma vivente transitoria - Annamaria Rivera

Si dice «negazionisti» di coloro che negano o minimizzano la pandemia in corso. Ma lo stesso potrebbe dirsi delle numerose persone che, nonostante sia stato scientificamente provato il ruolo decisivo svolto dagli allevamenti intensivi e dai mattatoi industriali rispetto a ciò che viene detto «salto di specie», seguitano a cibarsi di carne; per non dire di coloro che perseverano perfino nell’acquistare e indossare pellicce animali. 

Queste/i ultime/i continueranno a farlo, probabilmente, anche dopo aver appreso dell’olocausto (uso volutamente questo termine) cui sono stati destinati in Danimarca i 17 milioni di visoni presenti negli allevamenti del Paese, uno dei principali esportatori mondiali di pellicce di queste disgraziate creature: assiepate, tra cumuli di escrementi, in spazi angusti per massimizzare il profitto; costrette a vivere in condizioni infernali durante il breve tempo sufficiente a raggiungere la giusta dimensione per essere uccise (perlopiù con l’azoto o il biossido di carbonio) e poi scuoiate; reificate a tal punto che è considerato normale e accettabile sacrificare la vita di ben sessanta di loro per ottenere un solo metro di pelliccia. E in tal modo soddisfare anzitutto l’industria della moda, il profitto e il mercato, ma anche la crudele frivolezza dei/delle consumatori/trici di una tale sinistra merce.

Tutto ciò non riguarda la sola Danimarca. Precedentemente, già agli esordi di giugno, il governo olandese aveva ordinato l’abbattimento di migliaia di visoni in nove allevamenti-mattatoi destinati alla «produzione di pellicce» Lo stesso era accaduto in Spagna, in particolare in Aragona, e anche l’Irlanda ne progetta l’abbattimento di massa. Inoltre, casi di Covid-19 tra questi mustelidi si sono verificati pure in Italia, Svezia e negli Stati Uniti: qui sono stati già uccisi almeno 15mila visoni.  

Certo, le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» e perfino a indossare le spoglie di taluni animali vanno ricercate in primo luogo sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, alimentare e della modaMa va considerato anche il versante soggettivo nonché quelli dell’ideologia, del costume, della cultura. I maltrattamenti, le torture, gli avvelenamenti, le mutilazioni che vengono inflitti agli animali da allevamento non sono percepiti come tali: sarebbe come chiedere a chi produce e a chi consuma una qualsiasi merce di commuoversi per la sua sorte.

 Come già scriveva Voltaire nella voce « Sensation» del Dictionnaire philosophique,  pubblicato dapprima in forma anonima nel lontano 1764, «se mille animali muoiono sotto i vostri occhi, voi non vi preoccupate affatto di sapere che fine farà la loro facoltà di sentire (…): voi considerate quegli animali come macchine della natura, nate per morire e far posto ad altre».

Ben più tardi, nel 1999, Florence Burgat (1999: 48) avrebbe scritto, a proposito dei corpi animali, che essi sono ormai trattati, percepiti, pensati «come una materia la cui forma vivente è transitoria».

Le condizioni di vita mostruose, il pessimo contesto igienico, di conseguenza lo stress cronico inflitto a questi come ad altri animali «da allevamento», per non dire della somministrazione abituale di dosi abnormi di antibiotici, ne indeboliscono gravemente il sistema immunitarioE’ dunque assai probabile che i mustelidi che hanno contratto il Covid-19 siano stati contagiati da operai e/o allevatori positivi al virus.

 

Ho prima usato, volutamente, il lemma olocausto a proposito dello sterminio riservato ai visoni, in particolare in Danimarca. Come scrivo da molti anni, v’è una certa continuità concettuale ed empirica fra la de-animalizzazione degli animali, nel contesto della produzione industriale serializzata, massificata, automatizzata, e la de-umanizzazione degli umani che fu compiuta, in modo altrettanto seriale e massificato, dalla macchina dello sterminio nazista.

Non per caso abshlachten («macellare») era il verbo adoperato dagli esecutori nazisti per nominare le stragi dei prigionieri nei lager, programmate e attuate secondo una rigorosa logica industriale. Se v’è una differenza, è che oggi, al contrario, si ricorre a un apparente eufemismo, assai rivelatore: l’allevare e il macellare in massa gli animali da reddito si dice «produrre della carne o della pelliccia» (Rivera 2000, p. 60).

In realtà, l’ideologia della centralità e della superiorità della specie umana su tutte le altre, che finisce per negare ai non-umani la qualità di soggetti di vita senziente, emotiva e cognitiva, è il modello o la matrice dello stesso razzismo nonché del sessismo. La dialettica negativa proposta da Theodor W. Adorno (1979/1951), secondo il quale il sé dell’umano si produce per mezzo dell’attiva negazione dell’altro-da-sé, in primo luogo del non-umano, riguarda anche il rapporto tra uomini e donne nonché tra noi e gli altri: per meglio dire, gli alterizzati e le alterizzate (Rivera, 2010, p.12).

 Non solo: il fatto di percepire, considerare e trattare gli animali al pari di cose o merci – di oggetti inerti, dominabili, sfruttabili, manipolabili, sterminabili – può essere considerato come il modello generale di tutti i processi di discriminazione, dominazione, reificazione che investono il mondo degli umani e del sociale. La «bestialità» attribuita a coloro che sono in posizione dominata o subalterna diviene così la garanzia dell’umanità di coloro che sono o soltanto si reputano in posizione dominante.

Tutto ciò è rappresentato esemplarmente dalle stragi di persone migranti che si consumano in particolare nel Mediterraneo, la rotta più migranticida dell’intero pianeta, resa sempre più tale anche per causa della «guerra» condotta dalle istituzioni contro le Ong dedite alle operazioni di salvataggio in mare. Basta dire che dall’inizio di quest’anno sono almeno 900 coloro che hanno perso la vita nel tentativo di raggiungere le coste europee. Per non dire dei tanti e delle tante – ben 11.000 –  che sono state riportate/i con la forza in Libia, nei cui lager subiranno trattamenti non molto dissimili da quelli inflitti agli animali da allevamento.

Né servirà a mutare le infami politiche italiane ed europee il sussulto di coscienza di persone comuni, giornalisti/e, intellettuali suscitato dalla tragica vicenda di Joseph, un bimbo di appena sei mesi, originario della Guinea, che era a bordo di una nave rovesciatasi al largo della Libia. Nonostante gli operatori della Ong Open Arms fossero riusciti a sottrarlo alle acque, egli morirà l’11 novembre scorso a causa dello scandaloso ritardo dei soccorsi “ufficiali”.

Che un evento così tragico e struggente come quello del piccolo Joseph non riuscirà a scalfire la fortezza-Europa ce lo insegna la vicenda di Ālān Kurdî, un bimbo di tre anni, figlio di rifugiati curdo-siriani che tentavano, nel 2015,  di raggiungere il nostro continente. La foto, assai simbolica, del suo cadavere riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, fece il giro del mondo ed emozionò un gran numero di persone. Ciò nonostante, nulla mutò sul piano delle politiche istituzionali relative ad accoglienza, immigrazione e asilo, né servì, quella foto, a incrinare il sistema-razzismo.

Analogamente, le terribili immagini di migliaia di cadaveri di visoni ammassati hanno fatto il giro del mondo, provocando pietas, sdegno e rabbia. Ma questi sentimenti saranno presto superati se non interverrà la consapevolezza politica della centralità della lotta contro lo specismo, matrice del razzismo e del sessismo, e sempre più ispirato dalla logica cinica del massimo profitto.

Riferimenti bibliografici

Adorno T.W, 1979 (1951), Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino.

Burgat F., 1999, «La logique de la légitimation de la violence: animalité vs humanité», in: F.Héritier (s.l.d.), De la violence II, Ed. Odile Jacob, Paris, pp. 45-62. 

Rivera A., 2000, «Una relazione ambigua. Umani e animali fra ragione simbolica e ragione strumentale», in A. Rivera (a cura di), Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo animale, pp. 11-71.

Rivera A., 2010, La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma.

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sabato 28 novembre 2020

La pericolosa illusione dei rimedi alternativi anti-COVID - Agnese Codignola

L’ultima, in ordine di tempo è l’ivermectina, un antielmintico – cioè uno sverminatore – usato in veterinaria e talvolta anche sugli umani, che sta spopolando in America Latina. Al punto che Perù, Argentina, Bolivia e Guatemala ne stanno producendo e distribuendo a centinaia di migliaia di dosi. Ma l’anti-vermi da banco non è solo: arriva dopo lo sciroppo del Madagascar Covid-Organic, venduto ad almeno due dozzine di paesi africani dall’intraprendente presidente malgascio. Dopo l’Ayush-64, uno dei rimedi ayurvedici propagandati dall’apposito ministero indiano, il cui budget è triplicato all’uopo. Dopo lo Xuebijing, promosso a pieni voti (sulla fiducia) dal Ministero della salute cinese insieme ad altri medicamenti della medicina tradizionale, perché se curano il raffreddore male non fanno. Dopo che le agenzie africane hanno stilato con l’OMS i protocolli per cercare di iniziare a studiare decine di cure tradizionali che stanno circolando senza alcuna regola nel continente. E dopo che molti paesi occidentali hanno abbracciato dissenatamente e senza basi scientifiche l’utilizzo dell’antimalarico idrossiclorochina, salvo poi fare una clamorosa retromarcia e rifilare quintali di farmaco ormai inservibile a paesi più indifesi.

C’è una storia parallela a quella del gigantesco sforzo in atto da parte della ricerca ufficiale, che faticosamente sta verificando decine di farmaci anti-COVID, escludendoli via via quasi tutti, e cercando di capire se, al di là degli annunci mirabolanti, ci si stia avvicinando davvero a un vaccino soddisfacente e sicuro. Una storia che assume venature politico-antropologiche molto evidenti: quelle dei rimedi purché siano, quelle delle risposte che molti governanti, soprattutto (ma non esclusivamente) populisti vogliono a ogni costo offrire ai loro cittadini, per rassicurarli e giocare ai salvatori. E non importa se si tratta di pericolose falsità che fanno leva sulla disperazione, sull’impossibilità di accesso alla sanità, sulla fiducia in questo caso mal posta nelle medicine tradizionali, concretizzata in “farmaci” che, nella migliore delle ipotesi, o non fanno nulla o sono attivi in patologie vagamente (talvolta molto, molto vagamente) analoghe – e l’analogia spesso non significa nulla in questo campo –, rimedi che in più espongono chi sia disposto a crederci a due tipi di rischi: quelli del mancato ricorso alle cure realmente efficaci (e qualcuna c’è come le eparine, i cortisonici e, in piccola parte, l’antivirale remdesivir, tutti da dare in momenti diversi e specifici della malattia)  e quelli delle tossicità note e meno note.

In attesa di capire se ci si stia avvicinando davvero a un vaccino soddisfacente e sicuro, spopolano soluzioni “creative” e inefficaci, spesso propagandate da politici e capi di stato.

L’OMS è preoccupata, e lancia continui appelli affinché i governi evitino, i malati non diano ascolto, i medici non si prestino. Ma i risultati sono praticamente nulli, soprattutto quando sono appunto i governi i primi sponsor. E la vicenda dell’ivermectina, da questo punto di vista, è esemplare.

Farmacologia clandestina
Come ha raccontato Nature, che come le altre riviste scientifiche continua a seguire anche questa farmacologia “clandestina”, l’antielmintico, che costa pochissimo, è usato da decenni negli animali, e talvolta nelle persone, ma è diventato ancora più popolare nello scorso mese di maggio, quando la Bolivia, tramite i suoi operatori sanitari, ha distribuito 350.000 dosi ad alcune popolazioni del nord del paese. Poche settimane dopo la polizia peruviana ha sequestrato 20.000 dosi della versione veterinaria vendute al mercato nero per gli umani, ma in luglio il governo dello stesso paese ha annunciato l’intenzione di produrne 30.000 dosi, per rispondere alla domanda interna.

Tutto questo senza che vi fosse alcuna dimostrazione di effetto anti Sars-CoV 2, se non in qualche sparuto studio su colture cellulari. In aprile uno studio australiano, uscito privo di revisione, suggeriva in effetti che alte dosi di ivermectina riducessero la replicazione virale in vitro. Subito dopo un altro, sempre non controllato, ipotizzava un abbassamento della mortalità nei malati, ma è stato presto ritirato, perché si basava non su dati reali, ma su dati virtuali, acquistati da una società al centro di una truffa, la Surgisphere. In seguito ne è stato avviato qualcun altro (su pochissime persone), e sembra che ci sia qualche indizio positivo, ma per ora non ci sono dati verificabili. Se ne vorrebbero condurre su popolazioni più ampie, ma tutti i ricercatori si scontrano con un ostacolo enorme: è difficilissimo trovare persone che non abbiano mai assunto ivermectina. Nel frattempo, già nel 2018 un’indagine ne segnalava tutti i rischi: dal tremore alla letargia, dal disorientamento fino al coma, soprattutto ad alte dosi.

Conseguenze anche più gravi potrebbe avere la diffusione di Covid-Organic, lo sciroppo malgascio pubblicizzato nientemeno che dal Presidente Andry Rajoelina, che secondo Science potrebbe portare all’annientamento di una delle ultime armi che ancora hanno qualche effetto contro la malaria, soprattutto in Africa.

L’uso di artemisina contro la COVID-19 in Africa potrebbe portare, in una drammatica reazione a catena, milioni di nuove vittime della malaria.

L’esordio è stato col botto: in aprile lo stesso Rajoelina ha annunciato che la mistura, realizzata dal Malagasy Institute of Applied Research o IMRA, ma la cui composizione esatta è ignota, avrebbe guarito due pazienti. La National Academy of Medicine of Madagascar ha preso subito posizione, invitando alla cautela, ma non è servito a niente: Tanzania e Repubblica Democratica del Congo hanno immediatamente annunciato, per bocca dei rispettivi presidenti, di volerne, di quello sciroppo, e parecchio. E in seguito altri paesi africani ne hanno fatto incetta.

Il problema è che in quello sciroppo c’è l’artemisina, principio attivo di una pianta, l’Artemisia annua, che è tra i pochissimi antimalarici ancora efficaci, in alcune parti del mondo. Al punto che non viene mai data, a tale scopo, da sola, proprio per scongiurare o almeno ritardare lo sviluppo di una resistenza. Facile immaginare che cosa potrebbe accadere se fosse presa da milioni di persone in tutta l’Africa: un disastro che lascerebbe dietro di sé milioni di nuove vittime della malaria.

L’idea di proporla come anti Sars-CoV 2 nasce da una ricerca cinese del 2005 sulla SARS, nella quale, in vitro, si era visto qualcosa, ma nulla di più. In realtà l’artemisina non è mai stata studiata su animali o nell’uomo per nessun coronavirus. E non si capisce perché, se funziona un po’ su un protozoo come quello della malaria, dovrebbe agire contro un virus: si tratta di due entità lontanissime, dal punto di vista biologico. L’Unione Africana, così come i CDC (centri per il controllo delle malattie) africani hanno chiesto numeri, dati, fatti, ma finora non hanno avuto risposte.

India e Cina
Un altro allarme arriva poi dall’India, dove lo stesso Ministro per la salute Harsh Vardhan ha iniziato a raccomandare già in primavera, per le forme più leggere di COVID, la medicina ayurvedica, sostenuto dai colleghi del Ministero per l’ayurveda, lo yoga e la naturopatia, lo Unani (medicina di ascendenza arabo-musulmana), il Siddha (medicina del Tamil Nadhu) e l’omeopatia o AIYSH, creato dal Governo Modi nel 2014, al quale sono stati triplicati i fondi, passati a 290 milioni di dollari. Anche in quel caso la Indian Medical Association (IMA), ha subito chiesto prove, parlando apertamente di frode alla nazione, ma non è servito a nulla. I pazienti devono fidarsi e sperare che misture a base di pepe caldo, ginseng e altre erbe facciano il miracolo, insieme alla miscela di 4 erbe chiamata Ayush64, brevettata fino dagli anni ottanta. Secondo il segretario dell’AIYUS Vaidya Rajesh Kotecha, ci sarebbero decine di studi di tutti i tipi su di esso: in vitro, sugli animali e nell’uomo. Peccato che si tratti di studi condotti con metodologie non riconosciute da nessuna comunità scientifica e, soprattutto, di dati estrapolati da studi condotti su altre malattie, non sulla COVID. Per esempio, riferisce Science, l’Ayush 64 sarebbe stato provato in 38 persone con sintomi influenzali, che prendevano già paracetamolo e altri farmaci. Se anche avesse funzionato, non è affatto detto che un antinfluenzale possa agire contro Sars-CoV2, ed è anzi improbabile, perché si tratta di virus molto, molto diversi.

Della situazione in India ha parlato anche Nature, che nei giorni scorsi ha pubblicato un drammatico articolo in cui ha denunciato l’approvazione, da parte della locale agenzia per i medicinali, di farmaci utilizzati per altri scopi (con il cosiddetto repurposing). Tra essi l’antivirale favipiravir, già rivelatosi fallimentare ed escluso in moti paesi, che ha invece avuto un via libera per l’uso in emergenza, senza che però da nessuna parte sia spiegato che cosa si intende, in India, per emergenza. Ora sarà prodotto da tre aziende che propongono 3 dosaggi diversi (200, 400 o 800 mg), e anche in questo caso non è stata resa nota la ragione, né le eventuali differenze di utilizzo, ma nel frattempo il farmaco è stato approvato anche in Russia e Cina. E poi c’è l’anticorpo monoclonale usato per la psoriasi itolizumab, approvato anche a Cuba, per il quale ci sarebbero i dati di una trentina di pazienti, mai resi noti alla comunità scientifica internazionale.

In questi mesi le agenzie governative cinesi hanno propagandato di tutto: due dozzine di tipi di pillole, decotti, tisane, polveri e sostanze iniettabili.

Non manca, in questo scenario, la Cina, che i suoi rimedi tradizionali li ha mandati anche in Italia nella scorsa primavera, insieme a medici e infermieri arrivati in aiuto della sanità lombarda, e che li raccomanda, anche in questo caso, attraverso il Ministero della salute e l’Amministrazione della medicina tradizionale. In questi mesi, riferisce Nature, le agenzie governative hanno propagandato di tutto: almeno due dozzine di tipi di pillole, decotti, tisane, polveri e perfino sostanze iniettabili, affermando che almeno tre di esse erano di provata efficacia.

Efficacia emersa, secondo China Daily, in studi come quello sul Jinhua Qinggan, granuli a base di erbe sviluppati contro l’influenza aviaria del 2009, che farebbero negativizzare il tampone in 2 giorni, o quello sullo Xuebijing, un mix di 5 erbe che agirebbe disintossicando e smuovendo la stasi dei fluidi corporei e, se dato insieme a farmaci meno tradizionali, ridurrebbe la mortalità dell’8%. Non sono noti i dettagli, naturalmente: bisogna crederci, e basta. Ma è noto che molti decotti contengono efedrina, una sostanza stimolante e anoressizzante ricavata dall’Ephedra, una pianta, che è stata vietata in Europa e negli Stati Uniti già negli anni novanta a causa di numerosi decessi cui è stata associata, e di una tossicità rilevante a carico del cuore e di altri organi. L’OMS, che nei primi mesi avvisava che queste terapie non erano efficaci e potevano essere pericolose, ha poi rimosso l’avviso, giustificandosi con il fatto che molti, in Cina, usano la medicina tradizionale, e non si può non tenerne conto.

L’infatuazione di Europa e USA per l’idrossiclorochina
Se nei paesi più poveri e dove l’accesso alla medicina è più complicato i politici si affidano più a meno a qualunque cosa e raggiungono vette inarrivabili, come quella della Corea del Nord – dove l’organo di stampa ufficiale Rodong Sinmun ha invitato le persone a restare a casa non per mancanza di presidi di protezione personale, ma perché il Sars-CoV 2, ufficialmente assente dal paese, potrebbe arrivare con il vento direttamente dal Deserto del Gobi cinese, trasportato dai granelli gialli di sabbia per oltre 1.900 km –, anche in quelli più sviluppati si sono visti e ancora si vedono eccessi che sarebbero spettacolari, se non avessero conseguenze drammatiche.

Per mesi l’ex presidente Donald Trump ha pubblicizzato l’uso dell’antimalarico idrossiclorochina, farmaco i cui pesanti effetti collaterali sono noti da decenni e che non aveva mai mostrato un’attività antivirale, pur essendo stato sperimentato, negli anni, su Zika, chikungunya, Ebola, Epstein-Barr, febbre suina e altro, come ricordava un’esauriente revisione uscita già in aprile sul Canadian Journal of Medical Association. Al contrario, talvolta ha peggiorato la situazione. Ma diversi capi di stato tra i quali Emanuel Macron – che per qualche settimana ha subito il fascino di Didier Raoult, un medico di Marsiglia assai discusso (che nega l’evoluzione darwiniana e il cambiamento climatico, per restare alle sue affermazioni più fantasiose), convinto propugnatore dell’antimalarico –, e Jair Bolsonaro, a un certo punto, hanno deciso che quella era la soluzione. E anche l’Italia ha riconvertito la produzione dello stabilimento farmaceutico militare di Firenze per aumentarne la sintesi, visto che coloro che la utilizzavano per alcune malattie reumatiche e il lupus rischiavano di restare senza. Il tutto prima che ci fossero prove. Le quali però, presto sono arrivate copiose, e hanno portato tutte le agenzie regolatorie (FDA, EMA e, a seguire, quelle nazionali) occidentali a esprimersi contro l’idrossiclorochina, che non fa nulla al Sars-CoV 2 ed è dannosa.

Nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e la scienza: è la politicizzazione e la ricerca del consenso nella corsa al farmaco anti-COVID.

Come faceva notare Science in un articolo dedicato alla politicizzazione della corsa al farmaco anti-COVID, nulla di tutto questo ha a che fare con la medicina e la scienza. E proprio con l’idrossiclorochina c’è stato un epilogo che fa capire come non ci siano grandi distinzioni tra paesi, quando si decide di accontentare l’elettorato, e non di seguire la scienza medesima, assumendosi l’onere di dire la verità.

L’azienda farmaceutica Bayer ne aveva donato 200 kg agli Stati Uniti, pari a 3 milioni di dosi. La Reuters, con un’inchiesta esclusiva, aveva scoperto che si trattava del Resochin, un prodotto mai approvato negli USA per gravi carenze nel processo di sintesi in due stabilimenti di India e Pakistan, mai certificati né tantomeno autorizzati.  A quel punto, poiché, nel frattempo, iniziavano anche a emergere i primi dubbi sull’efficacia, Trump si è scoperto molto generoso, con un paese amico: ha mandato al Brasile del re dei negazionisti Bolsonaro due milioni di dosi di idrossiclorochina (senza specificare, almeno ufficialmente, da dove proveniva). Resta da capire che fine abbia fatto il milione mancante, visto che non compariva nella lista dei farmaci che hanno salvato l’ex presidente.

Le stesse dinamiche, purtroppo, si stanno vedendo con la corsa al vaccino: governi che credono ai comunicati stampa delle aziende, lanciati da organi di stampa finanziari, senza aspettare la pubblicazione dei numeri completi nelle sedi opportune. Agenzie governative che si fidano di quelli – assai fumosi e opachi – relativi qualche decina di volontari scelti tra decine di migliaia di partecipanti senza un chiaro criterio. Ministeri che decidono di acquistare milioni di dosi senza aspettare i dati sulla sicurezza, e così via.  Ma lo spettacolo, si sa, deve andare sempre avanti. Anche e soprattutto in tempi di pandemia.

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venerdì 27 novembre 2020

tanto sono solo animali


L’eterna Treblinka degli animali -  Francesca de Carolis


Difficile allontanare dalla mente le immagini dello sterminio dei visoni di Danimarca, uccisi per via di una versione mutata del coronavirus trovata in alcuni di loro. 17 milioni di bestioline da allevamento per pellicce. Uccisi, quelli malati insieme a tutti quelli sani. Per eradicare il virus mutato…

 

‘Samfudssind’, bugia detta in danese

Leggo che in Danimarca la parola dell’anno è “Samfudssind”, che significherebbe “solidarietà pronta al sacrificio in nome degli altri e dell’interesse generale”. Solidarietà, si immagina degli allevatori, che sacrificano il proprio interesse privato in nome di quello generale. E le loro preziose pellicce da mercato andate in fumo…
Un pensiero, dal punto di vista degli animali, a proposito di questa “solidarietà pronta al sacrificio” di cui fanno le spese i loro corpi straziati, dopo la tremenda vita prigioniera di “animale da pelliccia”, che se appena appena ne conoscete le condizioni… se appena appena sapeste come comunque viene posta fine alla loro sciagurata vita… e tutto quello che non sappiamo, di visoni e non solo, perché non vediamo, e siamo ben lieti di questa nostra cecità… ché l’elenco sarebbe ben lungo…
Di fronte alle immagini dei visoni uccisi, c’è una parola che preme, e si fa fatica a pronunciare. Ma la pronuncio, anche perché in buona compagnia. Olocausto.

 

L’oscena analogia

Sì, ritorno a quella che è stata definita l’ “oscena analogia” fra l’olocausto e il trattamento che riserviamo agli animali. Che è pensiero di Isaac Singer, di Primo Levi, di Charles Patterson…
Patterson, che nel suo forse più famoso libro, “Un’eterna Treblinka”, scrive: “Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno”.
E Isaac Singer, che dell’Olocausto fu vittima insieme alla sua famiglia: “Dovreste andare a leggervi i rapporti sugli esperimenti che i nazisti effettuarono sugli ebrei nei loro laboratori e poi leggere i rapporti sugli esperimenti che vengono fatti oggi sugli animali. Allora vi cadranno le bende dagli occhi e sarà facile vedere la similitudine…. Tutto quello che i nazisti hanno fatto agli ebrei, noi lo facciamo agli animali. I nostri nipoti un giorno ci chiederanno: dov’eri durante l’olocausto degli animali?”.

 

L’olocausto degli animali

E ad essere sincera non riesco a non pensare, in questi giorni di affannata ricerca di vaccini, a quanti animali, prima di passare alla sperimentazione sull’uomo, siano sacrificati…
E via via scendendo lungo la scala delle nostre tante “necessità”… mi chiedo cos’è quella nebbia della mente che ci fa ignorare (a noi che vantiamo possibilità di accedere a informazioni come mai all’uomo è stato possibile) da quali lager arrivano quelle cotolette messe in fila negli scaffali dei supermercati… cosa palpitava dentro quelle pelliccette che fanno da bordo ai colli dei nostri piumini…
Evidentemente “informazione” non è necessariamente “conoscenza”… oppure proprio non ce ne importa nulla per via di quello che siamo convinti di poterci permettere nei confronti di chi riteniamo sia a noi inferiore e in nostro possesso. E la storia insegna quali trattamenti sappiamo riservare a chi, esseri umani compresi, riteniamo a noi inferiore…

 

In paradiso ad attenderci

E sempre interrogandomi sul nostro rapporto con gli altri animali, e cercando e leggendo, tempo fa sono incappata (forse ve ne ho già parlato) nel libro “In paradiso ad attenderci”, che è conversazione fra il sociologo Maurizio Scordino e il teologo e biblista Paolo De Benedetti. Dove la questione animale diventa anche questione teologica. Un libro che consiglio di leggere, perché anch’io sono convinta (fede o non fede) che se una possibilità di salvezza l’abbiamo, questa passa attraverso la conciliazione con tutti gli esseri viventi. Ma proprio tutti.
Pensatore profondissimo, De Benedetti, capace anche di “irriverenze”.
Certo l’uomo non ne esce benissimo. E c’è un punto, nel libro (che per altro tocca temi tanto complessi e importanti quanto poco discussi) nel quale ci si chiede “chissà quante cose sarebbero cambiate se Dio avesse salvato tutti gli animali, spazzando via la sola umanità”.
De Benedetti, secondo cui il dolore degli animali sarebbe più misterioso da comprendere rispetto a quello degli uomini, sa condire le sue parole con “quel po’ d’ironia jiddish che per sangue gli appartiene” e… : “Come spesso dico, anche a costo di sembrare irriverente, tutto deriva, diciamo così, da un guasto, da un difetto del processo creativo di Dio che, se avesse chiuso la propria officina il venerdì a mezzogiorno (l’uomo è stato creato nel pomeriggio…) tutto sarebbe andato benissimo. La prova la fornisce proprio la Bibbia, dove c’è scritto che quando Dio creò gli animali, le piante e il resto disse ‘che era cosa buona’, mentre quando creò l’uomo tacque”.

 

L’uomo, che degli animali dovrebbe essere custode e non padrone…

A proposito di custodia… non vi sembri fuori luogo, ma visto che a suo tempo ne abbiamo parlato… Vi siete chiesti come sta Papillon? L’eroico orso in cerca di libertà, infine catturato e “preso in cura” nel centro di Casteller? C’è una denuncia della LEAL, lega antivivisezionista, che ha diffuso alcune informazioni della relazione dei carabinieri del Cites (che si occupa di tutela delle specie di flora e fauna protette dalla Convenzione di Washington): M49 “ha smesso di alimentarsi e si scarica contro la saracinesca della sua tana”. Vi risparmio i gesti degli altri orsi prigionieri e del loro “severo stress psicofisico” per via dei maltrattamenti che si denuncia subiscono nella struttura che li dovrebbe accudire.
Il nostro delirio antropocentrico…
Ritorno a Paolo De Benedetti, che ci ricorda che la parola animale significa “che ha l’anima”, che è soffio di vita. E arriva a chiederci di credere nella resurrezione di tutto ciò che ha avuto la vita, perché “se ciò non avvenisse bisognerebbe riconoscere che la morte è più potente di Dio, che la morte vince in eterno la vita”.
“Non sempre serve dare una risposta a tutte le domande, a volte è sufficiente, se non meglio, porsele”, e m’interrogo dunque anch’io sull’anima degli animali, che spesso penso davvero meriterebbero un paradiso per tutto quello che scontano sulla Terra. E mi piace credere che lo avranno. Ma guardando a tanta sofferenza, a tanta morte che a piene mani intanto distribuiamo, e non solo agli altri animali, sempre meno certa rimango del fatto che ce l’abbiano gli uomini, un’anima… un’anima e un briciolo di cuore…

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Lo sterminio dei visoni e lo stupore assente - Luca Giunti


Ci risiamo. Di nuovo lockdown, di nuovo chiusi in casa, di nuovo weekend affollatissimo di escursionisti ansiosi dell’ultima passeggiata all’aria aperta prima dei divieti totali. Di nuovo servizi solitari in quota, dedicati alle incombenze di questa stagione: i monitoraggi, il controllo dei cacciatori (fino alla sospensione dell’attività venatoria stabilita dalla Regione), la verifica del rispetto delle ordinanze, che non sono solo quelle del Covid! Tanto tempo per pensare, per rimuginare, per provare a mettere in fila qualche considerazione che mi faccia capire un po’ di più cosa sta succedendo all’umanità.

Pensieri meno cattivi che a primavera, forse, ma lunghi e scuri come le ombre di questo autunno soleggiato e spietato. Lo spunto questa volta, fra i tanti possibili, arriva da un’amica che mi passa una notizia internazionale: in Danimarca si stanno abbattendo 15 milioni di visoni perché potenzialmente infettati dal virus Covid-19. Uno sterminio pianificato, che però – mi accorgo preoccupato – non mi indigna abbastanza. Com’è possibile? Cerco di approfondire notizia e sentimenti.

I visoni sono allevati per la produzione di pellicce. La Danimarca è il primo esportatore mondiale. I visoni portano sulle membrane cellulari recettori affini a quelli umani e quindi sono attaccabili dal Covid-19 (e da altri simili). In mezzo a migliaia di animali confinati in spazi ristretti il virus circola rapido e aumenta la sua velocità di variazione genica. Potrebbe “inventare” nuovi ceppi virali e trasmetterli agli umani, vanificando sul nascere le ricerche sui vaccini. Il governo danese ha segnalato all’OMS di aver già trovato una nuova mutazione in una dozzina di persone. È improbabile che sia più contagiosa di quella attuale ma la prudenza, si sa, non è mai troppa (il principio di precauzione è negli statuti della UE, ma viene applicato solo quando fa comodo). Meglio abbattere tutti i visoni.

Non è una novità, ed è questo che non mi fa stupire. Influenza aviaria, peste suina, SARS hanno comportato conseguenze uguali negli anni scorsi (tra gli altri, proprio sui visoni danesi nel 2003, nel 2009 e nel 2013). L’aviaria c’è ancora e ha appena imposto l’abbattimento di oltre 200.000 polli nei Paesi Bassi. Il Covid ne sta uccidendo milioni di altri, non solo direttamente come in Danimarca, ma di riflesso: non appena la domanda internazionale cala a causa della paura mondiale, gli allevamenti intensivi, soprattutto del Sudest asiatico, trovano più conveniente sterminare per soffocamento o annegamento migliaia di capi invenduti, ma vivi, piuttosto che nutrirli inutilmente. Animali ammassati e tenuti in condizioni insostenibili sono focolai costanti di vecchie e nuove zoonosi. Da sempre. Un esempio tragico è la tubercolosi. Deriva dai bovini e praticamente non esisteva prima della rivoluzione agricola e della sedentarizzazione di Homo sapiens, diciamo 12.000 anni fa. La TBC è stata debellata in Europa a forza di vaccinazioni di massa, ma uccide ogni anno oltre 100 milioni di persone nel mondo; i morti sono africani e asiatici, non occidentali: quindi il dato scompare dai nostri orizzonti quotidiani. A proposito di bovini, ci siamo dimenticati in fretta della “mucca pazza”. Anche in quel caso, umane forzature dei cicli naturali provocarono epidemia, psicosi, migliaia di capi uccisi in massa, crollo della domanda di carne, fallimenti di aziende, nuove leggi di sicurezza. Non impariamo mai!

E poi, lo scandalo dei visoni danesi dove sta? Nell’ucciderne tutti insieme 15 milioni anziché qualche centinaio alla settimana per la “normale” produzione di pellicce? Viene in mente una battuta in veneto dal terzo atto de I due gemelli veneziani di Carlo Goldoni: «Alla piegora tanto la fa che la magna el lovo, quanto che la scana el becher» («Per la pecora è uguale essere mangiata dal lupo che sgozzata dal macellaio»). Un altro esempio disturbante viene alla testa piegata dalle raffiche del vento valsusino: i fagiani allevati in batteria per essere rilasciati poco prima dell’apertura della caccia (quest’anno, in Piemonte, oltre 4.500 solo in 4 ATC e 2 CA), fucilati legalmente dopo poche ore di libertà “vigilata”.

Nessuna novità, dunque. Fenomeni noti, informazioni facilmente reperibili online, catene di cause-effetti conosciute, ben studiate e ben divulgate. La mia amica ha ragione a stupirsi della mia mancanza di stupore? Non so darmi una risposta convincente.

O riduciamo drasticamente i consumi di carne e di pelli, quindi gli allevamenti intensivi, i traffici e le merci che ne conseguono, le superfici agricole coltivate per alimentarli, gli scarti che a miliardi formano già le stratificazioni che verranno studiate dai geologi futuri. Oppure non abbiamo il diritto di indignarci per una aberrazione tra le tante. Stiamo vivendo non solo una catastrofe sanitaria ma una vera e propria crisi ecologica. Stiamo ricevendo indietro gli interessi degli sfregi che infliggiamo al pianeta. Siamo disposti a rinunciare alle nostre comodità, alle nostre economie, ai guadagni e a questi tipi di lavori? Non mi sembra. Siamo avviluppati senza scappatoie in un patto faustiano: tecnologia, consumi, benesseri vari, non sono gratis. Costano l’anima. Nostra, della Terra e dei visoni.

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giovedì 26 novembre 2020

Esportare rifiuti conviene, ma a chi?

 

Tunisia: l’Italia coinvolta nello “scandalo dei rifiuti” - Piera Laurenza

 

Un’azienda di rifiuti italiana è coinvolta in uno scandalo che ha suscitato l’interesse dell’opinione pubblica tunisina, dopo che un’emittente televisiva privata ha denunciato un traffico di rifiuti, ritenuto illegale, pari a circa 120 tonnellate.

In particolare, nella sera del 2 novembre, il canale “El-Hiwar Ettounsi”, nel corso del programma televisivo “Le quattro verità”, ha rivelato l’esistenza di un contratto tra un’azienda tunisina ed una società italiana, che prevede il trasferimento di 120 tonnellate di rifiuti l’anno dall’Italia alla Tunisia, in cambio di circa 48 euro per ogni tonnellata importata. I rifiuti in questione sono di varia natura, ma includono altresì rifiuti ospedalieri, il che viola le norme vigenti in Tunisia, sia nazionali sia internazionali. È stato un sito di informazione tunisino a rivelare che la ditta italiana coinvolta potrebbe essere di origine campana. In particolare, si tratterebbe della SRA Campania, con sede a Napoli. La parte tunisina coinvolta, invece, a detta della fonte, potrebbe essere Soreplast.

A seguito del servizio dell’emittente tunisina, il Ministero degli Affari locali e dell’Ambiente ha annunciato di aver disposto l’apertura di un’inchiesta, volta ad indagare sul contratto stipulato tra la parte italiana e tunisina, autorizzando altresì una “missione di monitoraggio”. Stando a quanto riferito da fonti tunisine, dall’Italia sarebbero state esportate in Tunisia 70 container con circa 120 tonnellate di rifiuti, mentre più di altri 200 container sono stati depositati presso il porto di Sousse, in attesa di essere smistati. Il Ministero tunisino non ha smentito l’esistenza del contratto denunciato, ma ha riferito di non aver concesso nessun tipo di licenza o autorizzazione alla società tunisina coinvolta e che adotterà le misure necessarie per far fronte a tale tipo di traffico. Parallelamente, il direttore delle Dogane tunisine, Haytem Zaned, ha dichiarato che i 70 container sono stati sigillati ed è probabile che verranno rispediti in Italia, mentre gli altri 212 si trovano ancora a Sousse.

L’affare era stato scoperto nel mese di luglio scorso dalle autorità doganali tunisine. Tuttavia, è soltanto dopo il servizio del 2 novembre che il caso ha ottenuto l’attenzione della società e del governo tunisini. In Tunisia, le attività di raccolta, trasporto e gestione dei rifiuti sono regolate da una serie di convenzioni internazionali, firmate dal Paese nordafricano, oltre a misure nazionali. In particolare, gli imprenditori e le aziende interessate devono ottenere l’approvazione dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti, sviluppare uno “studio di impatto ambientale” e presentarlo all’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPE). Tali agenzie, collegate al Ministero dell’Ambiente, sono responsabili dell’approvazione dei fascicoli presentati.

Per quanto riguarda gli accordi internazionali, la Tunisia ha firmato la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e il loro smaltimento, adottata a Basilea il 22 marzo 1989 e la Convenzione di Bamako sul divieto di importazione in Africa di rifiuti pericolosi e sul controllo dei movimenti transfrontalieri e la gestione dei rifiuti pericolosi nel continente. Infine, Tunisi ha anche firmato i codici europei dei rifiuti.

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La "migrazione" dei rifiuti dall'Italia alla Tunisia - Ferruccio Bellicini

 

Si allarga a macchia d’olio l’indignazione per la notizia, svelata durante la serata del 2 novembre dal canale televisivo privato “El-Hiwar Ettounsi” nel corso del programma “Le quattro verità”, di tonnellate di rifiuti, forse anche ospedalieri, arrivati sulle sponde del Paese nord africano, con partenza dall’Italia.

Mentre continua il tira e molla, con contatti di livello pressoché giornalieri fra il governo italiano e le autorità tunisine (l’ultimo un colloquio telefonico fra il Presidente tunisino Kaïs Saïed e Giuseppe Conte), per trovare soluzioni che possano arginare le partenze clandestine di esseri umani verso l’Italia, si é chiuso un occhio, e forse tutti e due, per un fenomeno che, quasi certamente, si protrae da tempo: il trasporto di rifiuti italiani verso la Tunisia.

Sulla legalità di questo business se ne stanno occupando il governo e la magistratura tunisini. Saranno questi ultimi a determinare se il tutto si é svolto nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali relative alla circolazione di rifiuti, sia urbani che tossici.

Come ha scritto in un articolo apparso il 5 novembre il sito sicurezzainternazionale.luis “in Tunisia, le attività di raccolta, trasporto e gestione dei rifiuti sono regolate da una serie di convenzioni internazionali, firmate dal Paese nordafricano, oltre a misure nazionali. In particolare, gli imprenditori e le aziende interessate devono ottenere l’approvazione dell’Agenzia nazionale per la gestione dei rifiuti (ANGED), sviluppare uno “studio di impatto ambientale” e presentarlo all’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPE). Tali agenzie, collegate al Ministero dell’Ambiente, sono responsabili dell’approvazione dei fascicoli presentati. Per quanto riguarda gli accordi internazionali, la Tunisia ha firmato la Convenzione di Basilea sul controllo dei movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e il loro smaltimento, adottata il 22 marzo 1989 e la Convenzione di Bamako sul divieto di importazione in Africa di rifiuti pericolosi e sul controllo dei movimenti transfrontalieri e la gestione dei rifiuti pericolosi nel continente. Infine, Tunisi ha anche firmato i codici europei dei rifiuti”.

Dal momento in cui la notizia é diventata di dominio pubblico in novembre, pur essendo il fatto stato segnalato dalla dogana tunisina lo scorso luglio, a causa di una discordanza fra quanto dichiarato dall’importatore, materiale plastico riciclabile, e il reale contenuto dei containers, si sono susseguiti in ordine sparso ma incessante, interrogazioni parlamentari, dichiarazioni di politici, ambientalisti, giornalisti, magistrati, e chi più ne ha più ne metta. Senza parlare dei social nei quali, fra l’altro, sono filtrate valutazioni pesudo-sociologiche, scomodando il colonizzatore (l’Italia) che avrebbe invaso di rifiuti il colonizzato (la Tunisia) o di una Tunisia diventata “ il bidone della spazzatura dell’Italia”.

Sabato 7 novembre le organizzazioni della società civile di Sousse hanno indetto una marcia di protesta in città per denunciare lo scandalo sull'introduzione di rifiuti dall'Italia in Tunisia. Condannando questa situazione, che avrebbe “trasformato la Tunisia in una discarica dei Paesi europei”, i manifestanti hanno gridato forte che “la colpa é della politica dei vari governi che, impegnandosi con continui prestiti contratti all'estero, hanno affogato il Paese in un mare di debiti, costringendolo ad accettare ogni compromesso.”

Fermo restando il diritto alla libertà di pensiero e parola rimangono i fatti: un affare privato, fra una società italiana ed una tunisina, del quale pero’ devono essere definiti i contorni per valutarne la legalità operativa. Le due società coinvolte sarebbero una italiana con sede a Napoli e una tunisina con sede a Sousse (Tunisia centro). Alcuni organi di stampa ne hanno anticipato i nomi, ma per ora si tratta di illazioni, non essendoci conferme ufficiali. Da alcune indiscrezioni si é saputo che la  società privata tunisina avrebbe chiuso i battenti nel 2012 per riprendere i suoi servizi solo di recente.

Secondo il portavoce del tribunale di primo grado di Sousse, a tal fine è stata aperta un'indagine giudiziaria. Parlando all’antenna radio Mosaic FM, ha detto che “questa indagine è stata aperta in seguito alla raccolta di alcuni dati: sono recentemente arrivati ​​in Tunisia 70 container di rifiuti dall'Italia, che ne trasportano 120 tonnellate. Più altri 200 container che sono bloccati da luglio nel porto di Sousse.”

Contemporaneamente, il direttore delle Dogane tunisine, Haytem Zaned, ha confermato che “i 70 container sono stati sigillati ed è probabile che verranno rispediti in Italia, mentre gli altri 212 si trovano ancora a Sousse.” Il 3 novembre il Ministero degli Affari Locali e dell'Ambiente ha annunciato l'apertura di un'indagine senza nominare le aziende coinvolte. Ha detto di “non aver concesso alcuna autorizzazione alla società tunisina e che "non esiterà a prendere tutte le misure legali appropriate di fronte a questo tipo di operazioni". L'azienda tunisina riceverebbe 48 euro per ogni tonnellata di rifiuti importata.

Secondo quanto pubblicato dalla testata online Webdo il 9 novembre, “il Presidente della commissione per la riforma amministrativa e la lotta alla corruzione, Badreddine Gammoudi, si è dichiarato non convinto dalle spiegazioni del Ministro dell'Ambiente e degli Affari Locali in materia di importazione di rifiuti dall'Italia. Il Ministro ha cercato di presentare un 'capro espiatorio' senza destare sospetti all'interno del suo dipartimento", ha detto dopo un'audizione. Gammoudi ha ribadito “la presenza di sconfinamenti nelle più alte strutture del Ministero dell'Ambiente, sottolineando che il caso è ormai un reato di corruzione e non un sospetto”. Secondo il deputato, “gli alti funzionari del suddetto ministero sono implicati in questo "crimine" per frode, complicità e coinvolgimento diretto nel processo.”

Anche gli ambientalisti tunisini hanno fatto sentire, forte, la loro voce. Adel Hentati, consigliere di molte ONG e specialista della protezione ambientale tunisina, ha confermato che “tra i rifiuti filmati ci sono scarti ospedalieri, la cui raccolta è regolata da normative specifiche vista la pericolosità che rappresentano.”

L'esperto non ha mancato di ricordare che “la maggior parte delle discariche in Tunisia sono controllate da aziende italiane” affermando che “il nostro Paese ha vissuto solo di recente queste pratiche scioccanti e denunciando il blackout operato dal Ministero dell'Ambiente.” “E’ un crimine ambientale punito dalla legge” ha ribadito, in una dichiarazione rilasciata all’agenzia di stampa AFP. Abdelmajid Dabbar, Presidente e fondatore della ONG “Tunisie ecologie”, strenuo difensore della flora e della fauna tunisine, da noi contattato, ci ha rilasciato la seguente dichiarazione: ” la nostra assciazione si é unita con un collettivo di oltre trenta altre associazioni iniziando una campagna mediatica per chiede alle autorità competenti di vietare che ogni tipo di rifiuto possa entrare in Tunisia.”

In un comunicato da loro diffuso, molto duro, si legge: “ chiediamo di perseguire le società implicate e i suoi rappresentanti in tribunale sulla base del diritto penale tunisino. Infatti, in base all'articolo 14 della legge n. 2015-26 del 7 agosto 2015, relativo alla lotta al terrorismo, questo gruppo di ONG resta fermo di fronte alla questione dell'importazione di rifiuti. Chiunque danneggi l'ambiente, in modo tale da compromettere l'equilibrio dei sistemi alimentari e ambientali, o delle risorse naturali, o da mettere in pericolo la vita degli abitanti o la loro salute, è colpevole di un reato di tipo terroristico”.

Certamente “l’affaire” non terminerà qui.

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Rifiuti italiani clandestinamente seppelliti in Tunisia - Natale Salvo

 

Un traffico clandestino ed illegale di rifiuti, provenienti dall’Italia e, in particolare dalla Campania, e che include rifiuti speciali pericolosi quali quelli ospedalieri, è stato scoperto in Tunisia.

282 containers pieni di rifiuti italiani sono stati bloccati e sequestrati nel porto di Sousse, dalla Dogana tunisina. Sui documenti di trasporto appariva, falsamente, che i containers contenessero « rifiuti di plastica riciclabile ».

Il portavoce della Dogana tunisina, Haythem Zannad, ha dichiarato che « grazie alla sua organizzazione che i rifiuti non sono stati sepolti in Tunisia ».

A darne per prima notizia, lo scorso 2 novembre, l’emittente televisiva “El-Hiwar Ettounsi”, per come ha riportato l’indomani il giornale online francofono Kapitalis.

La Convenzione di Bamako vieta di spedire rifiuti in Africa: ma l’Italia ci prova lo stesso!

« Un’azienda tunisina [la Soreplast, secondo quando riportato dalla stampa, NdR] importava ogni anno dall’Italia quasi 120.000 tonnellate di rifiuti, violando la legislazione nazionale e internazionale, come la Convenzione di Bamako, che vieta l’importazione di rifiuti in Africa », spiega l’inchiesta giornalistica.

« In cambio – spiega la fonte -, la società tunisina avrebbe ricevuto 48 euro a tonnellata » dall’azienda italiana coinvolta.

In proposito, il “Forum tunisino per i diritti economici e sociali” (FTDES) ha richiesto, alle autorità competenti, di « obbligare il partner italiano [cioè la società SRA Campania] ad accettare la riesportazione di questi rifiuti ».

La scoperta sarebbe avvenuta grazie alla solerzia della Dogana tunisina, che ha voluto vederci chiaro sui documenti di trasporto e sull’effettivo contenuto dei containers. Evidentemente la stessa cura non sarebbe stata impegnata alle frontiere italiane.

A prima vista potrebbe apparire una notizia di normale criminalità. Ma in Tunisia non la pensano così.

Sembra infatti che la Dogana tunisina « sarebbe stata oggetto di pressioni da parte di politici e funzionari, che si dicevano vicini al proprietario della società tunisini ».

Scandalo in Tunisia, silenzio sulla stampa di regime italiana

La deputata Nesrine Laâmari (Réforme nationale) ha sostenuto chiaramente – per come riporta sempre Kapitalis – che la ditta campana « era stata incaricata dal governo italiano di smaltire questi rifiuti ».

Tra le prime reazioni politiche, a seguito del sollevarsi dell’indignazione generale, ancora Kapitalis precisa che « il Ministero degli Affari Locali e dell’Ambiente ha annunciato, giovedì 12 novembre 2020, che il capo del governo, Hichem Mechichi, ha deciso di licenziare Fayçal Bedhiafi, Direttore Generale dell’Agenzia Nazionale per la Gestione dei Rifiuti (Anged) ».

La stampa di regime italiana non ha dato notizia dei fatti. Per ritrovarla sui nostri notiziari, occorre scomodare siti web minori come Unimondo, grazie ad un post di Ferruccio Bellicini, e MeteoWeek, con un articolo di Chiara Ferrara.

Dal traffico illecito di rifiuti, l’Italia “fattura” 20 miliardi annui

Ivan Cimmarusti su “Il Sole 24 ore”, comunque, già lo scorso giugno, in un’inchiesta, scriveva di « un business criminale che solo in Italia vale 20 miliardi di euro annui per smaltite nelle megadiscariche senza regole dell’area sub-sahariana”.

Il giornalista, nell’articolo, spiegava: « Camorra, mafie estere, faccendieri italiani e spedizionieri magrebini senza scrupoli hanno fiutato l’affare miliardario. Perché nei fatti il ciclo illecito dei rifiuti ha un vantaggio per l’impresa che non intende sostenere spese cospicue. Facciamo un esempio. Una tonnellata di plastiche e gomme per essere regolarmente smaltita può costare tra 200-250 euro. Seguendo la via illegale la spesa non supera 100-150 euro ».

L’assurdità di tali avvenimenti verterebbe sul fatto che le società italiane che commerciano illegalmente i rifiuti sarebbero regolarmente autorizzate. Sarebbero sufficienti, quindi, effettivi controlli incrociati, anche finanziari, tra i dati di chi produce i rifiuti, di chi li trasporta e si chi li smaltisce per giungere a scoprire gli illeciti.

Ma, probabilmente, fa comodo anche all’Italia, ed ai politici italiani, che continui il traffico clandestino di rifiuti con l’Africa.

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Italia-Tunisia, lo scandalo dei rifiuti che non esiste

 

L'Italia è sotto i riflettori in Tunisia, dopo che nei giorni scorsi l’emittente “Al Hiwar al Tunisi” ha trasmesso un reportage sull'importazione di rifiuti italiani da parte di una società tunisina. Il programma “Le quattro verità”, nella puntata dello scorso 2 novembre, ha "denunciato" l'esistenza di un contratto tra un’azienda tunisina ed una società italiana che, secondo l'emittente, includerebbe il trasferimento di 120 tonnellate di rifiuti l’anno dal nostro Paese alla Tunisia. Il caso ha attirato l'attenzione dell'opinione pubblica tunisina e ha spinto a parlare di scandalo dei rifiuti tra i due Paesi. I dati complessivi sull'importazione e l'esportazione dei rifiuti raccontano però una storia molto più complessa. Non è un segreto che l'Italia sia costretta a portare fuori dal Paese una mole importante di rifiuti. Ma non si tratta di un'abitudine soltanto italiana. Secondo quanto riporta uno studio dell'Agenzia europea dell'Ambiente (Eea) sull'economia circolare pubblicato nell'ottobre del 2019, solo "dall’inizio dello scorso anno, l’Ue ha esportato circa 150 mila tonnellate di rifiuti di plastica al mese".

Invece, prendendo come riferimento i rifiuti speciali (cioè quelli prodotti soprattutto da industrie e aziende), scopriamo che l'Italia nel 2018 ne ha esportati per un volume pari a circa 3,5 milioni di tonnellate. Secondo il rapporto Ispra 2020 sui rifiuti speciali, i maggiori quantitativi di questi ultimi nel 2017-2018 sono stati destinati alla Germania, complessivamente 957mila tonnellate (il 27,5 per cento del totale). A seguire troviamo Austria (322mila tonnellate) e Francia (267mila tonnellate). L'Italia però è anche un Paese che importa un'elevata quantità di rifiuti speciali, per un volume che nel 2017-2018 è stato pari a 7,3 milioni di tonnellate. Si tratta soprattutto per il 78,7 per cento di rifiuti metallici, spiega l'Ispra. Proprio dalla Germania, nel 2017-2018, abbiamo importato oltre 2,1 milioni di tonnellate di rifiuti speciali. A seguire troviamo la Svizzera (1,07 milioni) e la Francia (un milione circa di tonnellate di rifiuti). Tra i Paesi da cui importiamo rifiuti speciali troviamo la stessa Tunisia (4.913 tonnellate).

C'è poi tutta la problematica dei rifiuti urbani. Solo per fare un esempio rilevante, quelli prodotti nella Regione Lazio nel 2017 sono stati pari a 2,97 milioni di tonnellate (oltre 50mila tonnellate in meno rispetto all'indagine di Ispra relativa all’anno 2016). Si tratta di una parte significativa dei rifiuti urbani nazionali, dal momento che quelli prodotti nel Lazio costituiscono circa la metà di quelli prodotti al Centro Italia (46 per cento) e il 10 per cento di quelli prodotti sull’intero territorio nazionale. Nel 2017, oltre l’80 per cento dei rifiuti indifferenziati nel Lazio (circa 1,3 milioni di tonnellate) è stata inviata a impianti di trattamento meccanico-biologico regionali, che con processi meccanici e biologici modificano i rifiuti, generando prodotti che in seguito devono trovare una collocazione definitiva. Circa 174 mila tonnellate delle rimanenti sono state trattate, sempre all’interno della Regione, in impianti a trattamento meccanico, mentre circa 90 mila tonnellate di rifiuti indifferenziati sono poi state inviate in parte fuori Regione, in parte all’estero. In Austria, ad esempio, sono state mandate 50 mila tonnellate di rifiuti, tutte dal Comune di Roma, tutte legalmente...

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mercoledì 25 novembre 2020

Quando e come finisce una pandemia - Gina Kolata

 


Gli storici distinguono due momenti conclusivi per le pandemie: la fine sanitaria, quando crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando sparisce la paura dovuta alla malattia.

“Oggi, chiedersi ‘quando finirà tutto questo’ significa essenzialmente domandarsi quando arriverà la conclusione sociale”, spiega il dottor Jeremy Greene, storico della medicina dell’università Johns Hopkins. In altre parole, può accadere che la fine non arrivi perché l’epidemia è scomparsa, ma perché la popolazione si è stancata di vivere nel panico e ha imparato a convivere con la malattia.

Allan Brandt, storico di Harvard, è convinto che questo meccanismo si stia riproponendo a proposito del covid-19. “Come evidenzia il dibattito sulla riapertura, le discussioni a proposito della cosiddetta fine della pandemia non sono determinate dai dati medici e sanitari, ma dal processo sociopolitico”. La conclusione di una pandemia “è una questione complicata”, conferma Dora Vargha, storica dell’università di Exeter. “Se guardiamo al passato non troviamo una narrazione precisa. Per chi finisce la pandemia? Chi lo stabilisce?”.

Combattere paura e ignoranza
Un’epidemia della paura può verificarsi anche in assenza di un’epidemia medica. Susan Murray del Royal College of Surgeons di Dublino l’ha verificato in prima persona nel 2014, quando lavorava in un’ospedale rurale in Irlanda. Nei mesi precedenti in Africa occidentale oltre undicimila persone erano morte a causa dell’ebola, una grave malattia virale estremamente contagiosa e spesso letale. In quel momento l’epidemia era in fase calante e in Irlanda non si erano verificati casi di contagio, ma la paura nell’opinione pubblica era palpabile.

“In strada e nei reparti le persone erano terrorizzate”, ha ricordato di recente Murray in un articolo pubblicato dal New England Journal of Medicine. “In autobus o in treno avere il colore della pelle sbagliato bastava per attirarsi gli sguardi severi degli altri passeggeri. Era sufficiente un colpo di tosse e tutti si allontanavano immediatamente”. A Dublino gli operatori sanitari si preparavano al peggio, nel terrore di non avere un equipaggiamento protettivo adatto. Quando un giovane proveniente da un paese colpito dall’ebola si presentò al pronto soccorso, nessuno voleva avvicinarsi. Gli infermieri si nascondevano e i medici minacciavano di lasciare l’ospedale.

Murray ricorda di essere stata l’unica ad avere il coraggio di occuparsi del paziente, pur limitandosi a cure palliative a causa dello stato avanzato del tumore che l’aveva colpito. La conferma che l’uomo non aveva contratto l’ebola arrivò un’ora prima della sua morte. Tre giorni dopo l’Organizzazione mondiale della sanità dichiarò conclusa l’epidemia di ebola.

“Dobbiamo essere pronti a combattere la paura e l’ignoranza con lo stesso impegno con cui combattiamo il virus”, ha scritto Murray, “altrimenti la paura infliggerà danni enormi alle persone più vulnerabili, anche in luoghi dove non viene registrato nemmeno un caso di contagio. Un’epidemia della paura può avere conseguenze terrificanti, soprattutto se abbinata a problematiche legate alla razza, al privilegio e alla lingua”.

Negli ultimi duemila anni l’umanità è stata colpita ripetutamente dalla peste, una malattia che ha provocato la morte di milioni di persone e alterato il corso della storia. Ogni epidemia di peste ha immancabilmente creato una paura maggiore rispetto alla precedente.

Tre ondate di peste
La 
peste bubbonica, soprannominata “morte nera”, è causata dall’Yersinia pestis, un batterio che si trova nelle pulci dei roditori, ma può essere trasmesso anche da persona a persona attraverso le goccioline respiratorie, e dunque non può essere eradicata semplicemente uccidendo i ratti.

Mary Fissel, storica dell’università Johns Hopkins, ricorda che nella storia dell’umanità si sono verificate tre grandi ondate di peste: la peste di Giustiniano nel sesto secolo, l’epidemia medievale nel quattordicesimo secolo e la pandemia a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

La pandemia medievale cominciò nel 1331, in Cina. La malattia, insieme a una guerra civile devastante, uccise metà della popolazione della Cina, per poi viaggiare lungo le rotte commerciali verso l’Europa, il Nordafrica e il Medio Oriente. Tra il 1347 e il 1351 la peste provocò la morte di un terzo della popolazione europea. A Siena, in Italia, metà degli abitanti perse la vita.

“Non è possibile a lingua umana a contare la oribile cosa”, scrisse il cronista del quattordicesimo secolo Agnolo di Tura, “che ben si può dire beato a chi tanta oribilità non vidde. E morivano quasi di subito, e infiavano sotto il ditello e l’anguinaia e favellando cadevano morti”. A Siena i cadaveri venivano ammassati in fosse comuni.

A Firenze Boccaccio scrisse che “non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre”. Alcuni si nascondevano in casa, mentre altri rifiutavano di riconoscere la minaccia e ritenevano che l’unica soluzione fosse “il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d’ogni cosa all’appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi”. La pandemia alla fine si concluse, ma la peste tornò a perseguitare il genere umano. Una delle epidemie peggiori esplose in Cina nel 1855 e si diffuse in tutto il mondo, uccidendo più di dodici milioni di persone solo in India. Le autorità sanitarie di Bombay bruciavano interi quartieri nel tentativo di liberarsi della peste, “ma nessuno sapeva se servisse davvero a qualcosa”, ricorda lo storico di Yale Frank Snowden.

Non è chiaro perché l’impatto della peste bubbonica si sia affievolito. Alcuni esperti sostengono che le temperature più rigide potrebbero aver ucciso le pulci portatrici della malattia. Ma questo aspetto, secondo Snowden, non avrebbe influito sulla trasmissione respiratoria. In alternativa la causa potrebbe essere un cambiamento nei ratti. Nel diciannovesimo secolo, infatti, i vettori della peste non erano più i ratti neri, ma quelli grigi, più forti, aggressivi e in grado di vivere lontano dagli esseri umani. “Di sicuro nessuno li voleva come animali domestici”, scherza Snowden. Un’altra ipotesi è che il batterio si sia evoluto diventando meno letale. O forse a smorzare gli effetti della malattia sono state le azioni degli esseri umani, come la pratica di incendiare i villaggi.

La peste, in ogni caso, non è mai scomparsa. Negli Stati Uniti la malattia è endemica tra i cani della prateria, roditori che vivono nel sudovest, e può essere trasmessa agli esseri umani. Snowden racconta che un suo amico è stato contagiato durante un soggiorno in un albergo in New Mexico: l’ultimo ospite della stanza in cui alloggiava aveva un cane le cui pulci avevano trasportato il bacillo. Casi di questo tipo sono rari, e oggi la peste può essere curata con gli antibiotici. Eppure qualsiasi notizia di un nuovo caso scatena il panico.

Un’epidemia conclusa
Tra le malattie arrivate alla loro conclusione medica c’è il vaiolo, ma si tratta di un caso eccezionale per diversi motivi. Innanzitutto esiste un vaccino efficace che protegge l’individuo per tutta la vita. Inoltre il virus che provoca la malattia, il Variola maior, non ha un ospite animale, dunque la scomparsa del vaiolo tra gli esseri umani ha debellato definitivamente la malattia. Infine i sintomi sono talmente specifici da essere facilmente associabili al virus, facilitando quarantene efficaci e un tracciamento dei contatti affidabile. In ogni caso quando il vaiolo era ancora una minaccia, i suoi effetti sono stati devastanti. Le epidemie di vaiolo hanno martoriato la popolazione umana per almeno tremila anni. Gli individui infetti sviluppavano una febbre alta, poi eruzioni cutanee che si riempivano di pus e provocavano cicatrici profonde una volta seccate. La malattia uccideva il 30 per cento delle persone infette, solitamente dopo immani sofferenze.

Nel 1633 un’epidemia di vaiolo tra i nativi americani “sconvolse tutte le comunità indigene nel nordest e sicuramente agevolò l’insediamento degli inglesi in Massachusetts”, spiega lo storico di Harvard David S. Jones. William Bradford, leader della colonia di Plymouth, ci ha lasciato un resoconto degli effetti del vaiolo sui nativi, raccontando che le pustole scoppiavano “incollando” la pelle dei malati ai giacigli. “Quando il paziente viene voltato, un intero lato del corpo è scorticato. Si copre di sangue, è uno spettacolo spaventoso”. L’ultima persona a contrarre il vaiolo in modo naturale è stato Ali Maow Maalin, cuoco di un ospedale in Somalia, nel 1977. Maalin guarì, ma nel 2013 morì di malaria”.

Le influenze dimenticate
L’influenza del 1918 è proposta spesso come esempio dei danni inflitti da una pandemia e dell’utilità della quarantena e del distanziamento sociale. Prima di svanire, l’influenza uccise tra i cinquanta e i cento milioni di persone in tutto il mondo. Il virus colpiva gli adulti giovani e di mezza età, lasciando orfani i bambini e privando le famiglie del sostentamento, oltre a flagellare le truppe inviate al fronte nel pieno della prima guerra mondiale. Nell’autunno del 1918 lo stimato medico William Vaughan fu inviato a Camp Devens, nei pressi di Boston, per occuparsi di un’influenza particolarmente dannosa. Vaughan vide “centinaia di giovani con indosso l’uniforme del loro paese presentarsi nei corridoi dell’ospedale in gruppi di dieci o più persone. Vengono adagiati sulle brande fino a quando ogni posto disponibile è occupato, ma continuano ad arrivarne altri. Presto il loro volto assume un colorito bluastro e sviluppano una forte tosse con sangue nel catarro. La mattina i cadaveri vengono ammassati nell’obitorio, impilati come ceppi di legno”. Secondo Vaughan il virus dimostrava “l’inferiorità delle invenzioni umane rispetto alla natura nella distruzione della vita umana”.

Dopo aver travolto l’intero pianeta, l’influenza perse vigore fino a diventare una variante dell’influenza lieve che si ripresenta ogni anno. “Forse quello fu un fuoco che si esaurì dopo aver arso tutta la legna facilmente accessibile”, ipotizza Snowden. In quel caso ci fu anche una conclusione sociale. La prima guerra mondiale era finita e le persone erano pronte per un nuovo inizio e desiderose di lasciarsi alle spalle l’incubo della malattia e del conflitto bellico. Fino a pochi mesi fa l’influenza del 1918 era solo un ricordo sbiadito.

Da allora l’umanità ha vissuto altre pandemie d’influenza, spesso gravi anche se mai paragonabili a quella del 1918. L’influenza di Hong Kong del 1968, per esempio, provocò la morte di un milione di persone in tutto il mondo, tra cui centomila negli Stati Uniti. In quel caso le vittime furono soprattutto anziani. Oggi il virus circola ancora come influenza stagionale, ma quasi nessuno ricorda più il suo impatto iniziale e la paura che ne conseguì.

Come finirà il covid-19?
Secondo gli storici è possibile che nel caso del covid-19 la conclusione sociale della pandemia arrivi prima di quella medica. Le persone potrebbero stancarsi delle restrizioni al punto da “dichiarare” conclusa la pandemia anche se il virus dovesse continuare a colpire la popolazione e prima che siano disponibili un vaccino a una cura.

“Penso che vada considerato l’aspetto dello sfinimento e della frustrazione dal punto di vista della psicologia sociale”, sottolinea la storica di Yale Naomi Rogers. “Potrebbe arrivare un momento in cui le persone diranno ‘ora basta, merito di tornare alla mia vita normale’”.

In un certo senso sta già succedendo. I governatori di alcuni stati americani hanno cancellato diverse restrizioni permettendo la riapertura di saloni di bellezza e palestre, ignorando gli avvertimenti degli esperti sanitari. Con il peggioramento delle condizioni economiche dovuto al virus, un numero sempre maggiore di persone sentirà di averne abbastanza. “Sta emergendo questo genere di conflitto”, conferma Rogers. Le autorità sanitarie puntano alla conclusione medica, ma alcune persone hanno in mente soprattutto la conclusione sociale. “Chi avrà il compito di dichiarare conclusa la pandemia?”, si domanda Rogers. “Quando sosteniamo che ‘non è ancora finita’, cosa intendiamo esattamente?”. Secondo Brandt non ci sarà nessuna vittoria improvvisa. Definire la conclusione della pandemia attuale “sarà un processo lungo e difficile”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano statunitense The New York Times.

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