lunedì 30 aprile 2018

“Gli animali non sono premi”: animalisti contro il torneo di morra di Ulassai



Basterebbe un regolamento comunale, come ha già previsto il Consiglio di Stato, in difesa degli animali spesso utilizzati come omaggi durante gare, feste e iniziative varie. E invece succede ancora che pecore, maiali, capre, galline e bovini vengano ancora offerti in premio in occasione di eventi comunali. Succede ad esempio a Ulassai, dove la Pro Loco ha organizzato per lunedì 30 aprile la prima edizione del torneo ‘Sa Murra Ulassese’ e ha messo in palio un vitello, due capre, un maialetto per i  primi quattro vincitori.
“Una mercificazione vergognosa dei corpi di esseri non umani – ha sottolineato Paola Re, attivista animalista che da tempo porta avanti una campagna in difesa degli animali sfruttati per sagre e feste – invece la politica tetragona di certi enti locali continua a ignorare che gli animali sono esseri senzienti, meritevoli di rispetto e soprattutto di una dignità. Come se non bastasse lo strazio che devono sopportare in fiere, mercati, allevamenti, negozi in cui sono esposti e messi in vendita come oggetti, devono anche essere dati in premio a un torneo. Eppure basterebbe un regolamento per la tutela degli animali dettato dal buon senso, per altro difeso dalla sentenza 6317/2004 del Consiglio di Stato”. 
L’appello della Re, inviato alle redazioni sarde e all’amministrazione di Ulassai e agli uffici della Regione Sardegna, è quello di tornare sulla decisione di usare gli animali come premio: “Mi rivolgo al Comune di Ulassai perché credo che un’istituzione non debba permettere una pratica così squallida sul suo territorio. I divieti non sono mai l’esempio migliore per insegnare e lo stato di polizia non è il migliore stato possibile; il buon senso dovrebbe prevalere in ogni comportamento sociale ma ciò accade raramente, e alla A.T. Pro Loco Ulassai non è accaduto, quindi un’istituzione deve fare il suo dovere anche vietando, soprattutto in questo caso in cui lo scopo è quello di tutelare esseri non umani indifesi di cui, è bene ricordare, il sindaco di Ulassai Gian Luigi Serra è responsabile in prima persona”.
Non solo animali: tra i premi del torneo di murra ci sono anche spiedi, girarrosti, formaggi e salumi: “Resta poco da dire se non che sarebbe necessario un cambio di rotta e invogliare il pubblico a mangiare cibo vegetale. Gli animali non sono ingredienti ma esseri senzienti e, oltre a non essere dati in premio, non dovrebbero essere massacrati e sgozzati per finire infilzati e fatti a pezzi in certi strumenti agghiaccianti”.
da qui

Quando ero ignorante - Natalino Balasso

sabato 28 aprile 2018

Ognuno di noi vive circondato da trecentomila oggetti - Martín Caparrós



Ci ho pensato ieri, quasi senza volerlo, quando ho attaccato alla parete del bagno di casa mia un gancio autoadesivo di pura latta: non avevo la minima idea, né la minima possibilità di farmi un’idea, della sua origine. Non avevo modo di sapere chi l’avesse fatto, dove fosse stato fabbricato, come fosse stato il lavoro e quale fosse stato il suo percorso da qualche angolo della Cina fino al cinese del negozio all’angolo. Come quasi tutto quello che usiamo, quel gancio arrivava dal nulla, ed è una cosa che non ci stupisce neanche.
Per migliaia di anni, le cose che avevamo avevano una storia – più o meno – conoscibile. Il proprietario di un martello sapeva che lo aveva fatto Lope, quello della bottega dell’isolato a fianco, il figlio di Trini, la cugina dello zio Pedro. Ora no: e poi abbiamo così tante cose che se ne conoscessimo la storia non avremmo tempo di fare altro.
Viviamo nella civiltà delle migliaia di cose. Negli Stati Uniti (dove fanno conti del genere) un recente studio ha stabilito che in una casa media ci sono 300mila oggetti, “dalle graffette fino all’asse da stiro”. Nel Regno Unito un bambino di dieci anni ha in media 238 giocattoli, anche se gioca con dieci o dodici. E la ricerca di una compagnia di assicurazioni britannica dice che passiamo in media dieci minuti al giorno a cercare cose che perdiamo: in una vita possono essere 200 giorni persi alla ricerca di qualcosa. Quasi nulla, se paragonati ai duemila che passiamo comprando cose.
Abbiamo migliaia di cose e ci sono miliardi di persone che non hanno quasi nulla: noi, il 12 per cento della popolazione che vive in Europa e negli Stati Uniti, consumiamo il 60 per cento dei beni del mondo – inghiottiamo il mondo – mentre il 33 per cento più povero, africano e asiatico, consuma il 3 per cento. Qualche anno fa sono andato a scrivere del Movimento dei sem terra in un angolo dell’Amazzonia.
Una donna di nome Gorette mi ha prestato la sua capanna, e io ho creduto che la miglior descrizione della povertà fosse raccontare quello che mancava: “Nella capanna di Gorette ci sono un machete, quattro piatti di latta, tre bicchieri, cinque cucchiai, due pentole di ottone, due amache, un recipiente pieno d’acqua, tre lattine di latte in polvere zuccherato, sale e latte in polvere, una lattina di olio piena, due lattine di olio vuote, tre asciugamani, una scatola di cartone con qualche vestito, due calendari di qualche negozio con dei paesaggi, un frammento di specchio, due spazzolini, un mestolo, mezzo sacchetto di riso, una radio che non prende quasi niente, due giornali del movimento, il quaderno di scuola, un recipiente di plastica per portare l’acqua dal pozzo, un catino di plastica per lavare i piatti e una bambola di pezza con un vestito rosso e una strana cuffietta. Questi sono i suoi averi nel mondo, insieme a tre tronchi per sedersi, un paio di infradito, una lampada a cherosene e niente più”.
Abbiamo vissuto così per millenni: con poche cose davvero necessarie, ottenute a fatica, che conoscevamo e apprezzavamo. Adesso le cose non significano nulla: si possono buttare, sostituire, non vale la pena aggiustarle o ripararle perché è più facile e più economico comprarne altre. E niente ci piace più di comprare altre cose.
Contro questo inquinamento ultimamente hanno fatto la loro comparsa i “minimalisti”: persone che sostengono che non abbiamo bisogno di così tanta spazzatura per vivere bene, e che la saggezza sta nel non averla.
Il paradosso è che il sistema economico mondiale ha bisogno che noi abbiamo bisogno di sempre più cose, perché vive della loro produzione. Sono le delizie del capitalismo globale, che è come un aereo: se non romba a ottocento chilometri all’ora si schianta. Se dicessimo basta, se ci organizzassimo per fare un uso razionale delle risorse, milioni di persone – operai, imprenditori, impiegati, imprenditori, venditori, imprenditori – avrebbero gravi problemi. O magari inventeremmo qualcosa: a volte succede.
(Traduzione di Francesca Rossetti)
Questo articolo è uscito su El País.

venerdì 27 aprile 2018

senza telefonino, di Alberto Pellai


QUAL È L’ETÀ GIUSTA PER DARE IL CELLULARE IN MANO AD UN FIGLIO - Alberto Pellai
Una delle domande che mi vengono fatte più spesso dai genitori nel corso delle mie conferenze è: “Qual è l’età giusta per dare il cellulare in mano ad un figlio?”.
Sarebbe bello avere una risposta giusta per questa domanda. Sarebbe bello se una società scientifica si fosse sbilanciata in questo senso dicendoci: “Ecco l’età giusta, in cui il cellulare in mano a tuo figlio non è più un problema”.
Chiaramente l’età giusta non esiste. Ma esiste una domanda che ci può guidare: “Mio figlio è pronto a gestire la complessità associata all’uso di un cellulare, specie se Smartphone?”.
E’ in grado di distinguere ciò che è adatto a lui da ciò che non lo è? E’ capace di difendersi da eventuali attacchi e aggressioni verbali che potrebbe ricevere dai suoi amici di whatsApp. Sarebbe in grado di dire ad una persona che gli invia messaggi contenenti parolacce o bestemmie o addirittura materiale pornografico: “Non mandarmi mai più cose di questo tipo. Il tuo comportamento online è davvero problematico. Se lo fai un’altra volta ti cancello dai miei contatti”?
E ancora: vostro figlio è capace di spegnere il suo cellulare quando serve averlo spento, invece che acceso? Per esempio, sa spegnerlo in autonomia quando si mette a studiare? Sa metterlo in un’altra stanza quando pranza e cena con il resto della famiglia? Sa lasciarlo fuori dalla stanza da letto quando va a dormire? E quando gioca con gli amici, il cellulare sa gestirselo bene oppure interferisce con tutte le sue attività sociali? E ancora, quando è a scuola, a Messa (per chi ci va), all’allenamento sportivo sa metterlo da parte, spegnerlo, eventualmente anche non portarselo al seguito?
Infine, quando gioca con i vari videogames di cui ha scaricato le App sul suo smartphone, vostro figlio è in grado di darsi un tempo limite, di dirsi “Non più di 15-30 minuti, poi basta per oggi”?
Ecco, se vostro figlio è in grado di fare tutto questo, allora è pronto per avere in mano un cellulare. Se non è in grado, può avere in mano un cellulare, ma di tutti i temi relativi ai quesiti che vi ho proposto, dovrete sentirvi corresponsabili in prima persona. Il che significa che avrete molto da fare e per molto tempo, in termini di educazione al benessere digitale e all’uso appropriato dello smartphone nei prossimi anni (sì avete letto bene: anni, non mesi o settimane, perché per fare un buon uso di questo strumento occorre molto lavoro educativo da parte di noi genitori).
A casa nostra, abbiamo deciso che il cellulare sarebbe entrato nella vita dei nostri figli al termine della terza media. Al momento perciò lo possiede solo il primogenito, che è sedicenne. La nostra seconda figlia, 13enne, ha i propri gruppi whatsApp nel cellulare della mamma. Pur avendo preso una decisione così controcorrente, al momento posso dirvi che siamo tutti vivi e che mi pare anche che nessuno soffra di isolamento sociale. Anzi la nostra casa è sempre affollata di amici e amiche dei figli, che spesso stazionano da noi anche per pranzo e cena. A volte anche per dormire. La cosa non ci dispiace. Anzi ci sembra molto importante per la loro crescita. Più che avere un cellulare tra le mani. E quando il primogenito ha avuto in mano il proprio cellulare, devo ammettere che c’è stato, comunque e nonostante fosse già quattordicenne, molto lavoro da fare rispetto ai temi che avete letto nella prima parte di questo messaggio. E il lavoro continua, anche ora che è 16enne.
Detto questo: ognuno può decidere per i propri figli quello che vuole. Ma il mio consiglio è che alla scuola primaria avere in mano un cellulare è davvero un’impresa titanica e impone capacità di autoregolazione e competenze così complesse, che ….. solo i supereroi sono in grado di gestire. Perciò se vostro figlio è un supereroe….. nessun problema e andate avanti così. Altrimenti, cominciate a pensarci un po’ su.
da qui

VIETARE IL CELLULARE AI MINORI CON UNA LEGGE: LO SMARTPHONE COME ALCOOL E TABACCO Alberto Pellai


Di recente l’emergenza mediatica intorno al fenomeno Blue Whale (una sfida online in base alla quale un giovanissimo si iscrive ad un percorso in 50 prove che progressivamente lo portano ad uno stato dissociativo e lo inducono al suicidio) ha generato un’enorme ansia tra i genitori. Per la prima volta le mamme e i papà di tutto il mondo si sono confrontati con una notizia che li metteva in allarme su quanto la vita online dei loro figli poteva metterli a rischio rispetto alla loro incolumità fisica. In realtà, da tempo gli esperti dell’età evolutiva cercano di sensibilizzare il mondo degli adulti ad una consapevolezza educativa e ad una presenza più attenta e coinvolta rispetto a ciò che i propri figli fanno nella e della loro vita online. “Emergenza educativa” è la definizione più spesso utilizzata per commentare fenomeni sempre più spesso presenti nelle cronache nazionali e che hanno per protagonisti bambini, preadolescenti e adolescenti.
Sexting, adescamento online, cyberbullismo: parole e fenomeni sconosciuti ai genitori di dieci anni fa rappresentano oggi temi di grande rilevanza per il progetto educativo di ogni famiglia e rispetto ai quali ogni genitore deve dotarsi di competenze educative e preventive, da mettere in gioco con i propri figli, spesso a partire già dalla seconda infanzia. Perché, anche se il proprio figlio ancora non ha uno smartphone, ciò nonostante potrebbe trovarsi suo malgrado coinvolto in fenomeni di questa natura attraverso le tecnologie dei compagni di scuola e degli amici.
E’ alla luce della complessità crescente associata alla diffusione sempre più intensa e precoce delle tecnologie e in particolare degli smartphone tra i bambini della scuola primaria che ha fatto molto discutere la proposta di legge presentata in Irlanda che prevede il divieto di vendita di smartphone a minori di 14 anni e la sanzione per i genitori che permettono ai propri figli di navigare online in solitudine e senza accompagnamento e presidio educativo  (la multa in caso di trasgressione ammonterebbe a 100 euro). Una cosa simile era già avvenuta in una città giapponese, Kariya, dove con ordinanza del sindaco era stato imposto il divieto di utilizzo dello smartphone dopo le 21.00 ai 13.000 minori di età compresa tra i 6 e i 15 anni ivi residenti.
Negli Stati Uniti una mozione popolare, promossa dal gruppo Parents Against Underage Smartphones (Genitori contro gli smartphone ai minorenni) sta raccogliendo sempre più firme e aderenti che chiedono la possibilità di mettere a votazione nel 2018 il divieto di vendita a bambini e preadolescenti di devices elettronici. Per la prima volta, anche i Pediatri sembrano attivarsi in modo ufficiale su questo fronte fornendo indicazioni e linee-guida cui tutti i genitori dovrebbero imparare ad attenersi. Nel 2016 l’American Academy of Paeditrics (Accademia americana di pediatria) ha determinato che un’ora rappresenta il limite massimo di utilizzo giornaliero per smartphone e tablet tra i 2 e i 5 anni e ha fornito regole familiari inderogabili sull’uso dello stesso dai 6 anni in su.
Ciò che si evidenzia è una preoccupazione generalizzata verso l’impatto che le tecnologie possono avere sulla salute e il benessere dei piccolissimi e per la prima volta, dopo l’entusiasmo generalizzato ed epidemico che ha portato alla presenza indiscrimanata di questi strumenti in ogni casa e nelle mani di soggetti di ogni età, sembra esserci una sorta di “passo indietro” da parte dei genitori stessi, ma anche degli specialisti dell’età evolutiva. Ora si pensa alle tecnologie con lo stesso approccio precauzionale che è stato utilizzato per comportamenti a rischio (la cui pericolosità sulla salute umana è ad ogni modo provata da decenni di evidenze scientifiche e di ricerca) quali i comportamenti alcol-correlati e tabacco-correlati.
Rispetto alla pericolosità associata all’uso di smartphone e navigazione online in età precoce non possiamo ancora avere una mole di dati ricerca tale da portarci ad indicazioni preventive  certe e generalizzate, ma è indubbio che l’enorme quantità di effetti indesiderati e collaterali derivati dalla loro presenza nella vita di bambini e giovanissimi è sotto gli occhi di tutti.
La prevenzione nei prossimi anni sarà lo strumento fondamentale per evitare che la generazione dei nativi digitali si trovi intrappolata in una serie di patologie derivanti da un uso smodato e sregolato, che può rivelarsi auto-lesivo ed etero-lesivo, delle infinite strumentazioni tecnologiche di cui si trovano dotati fin dall’età più precoce.


giovedì 26 aprile 2018

Scusa se ti rispondo in ritardo - Julie Beck


La caratteristica distintiva di una conversazione è l’attesa di una risposta. Se non ci fosse sarebbe un monologo. Quando parliamo di persona, o al telefono, le risposte arrivano quasi subito: quando smettiamo di parlare, l’altra persona risponde in media dopo appena duecento millisecondi.
Negli ultimi decenni la comunicazione scritta ha recuperato terreno fino ad avvicinarsi molto alla velocità di una conversazione (almeno fino a quando non installeranno dei microchip pensiero-testo nei nostri cervelli). Per scrivere un messaggio ci vogliono più di duecento millisecondi, ma li chiamiamo “istantanei” per un motivo: ogni messaggio, infatti, potrebbe avere una risposta più o meno immediata.
Sappiamo anche, però, che non è obbligatorio rispondere immediatamente a ogni messaggio. Questi strumenti di comunicazione sono concepiti per essere istantanei, ma possono essere facilmente ignorati. Come, del resto, facciamo. I messaggi non ricevono risposta per ore o giorni, le email si accumulano nella casella di posta così a lungo che la frase “Scusa se ti rispondo in ritardo” è passata dall’essere un messaggio sincero a una frase fatta.
Non c’è bisogno di tecnologie avanzate per ignorarsi a vicenda: basta un minimo sforzo per evitare di rispondere a una lettera, a un messaggio vocale o al campanello quando citofona qualcuno. Come spiega Naomi Baron, una linguista dell’American University che studia il linguaggio e la tecnologia, “in passato abbiamo offeso le persone in mille modi diversi”. La differenza è che ora “i mezzi di comunicazione, che teoricamente sono asincroni, funzionano sempre di più come se fossero sincronici”.
Per questo abbiamo la sensazione che tutti possano rispondere immediatamente, se ne hanno voglia, e ci prende l’ansia se non lo fanno. Ma il paradosso dei nostri tempi è che quest’ansia è il prezzo da pagare per la comodità. Le persone sono felici di accettare questo scambio per avere la possibilità di rispondere solo quando hanno voglia.
Quando sei davanti a una persona osservi l’ombra delle tue parole sul suo volto
Nonostante sappiamo che tutti hanno delle buone ragioni per non rispondere a un messaggio o a un’email (sono occupati, non hanno ancora visto il messaggio, stanno riflettendo sulla risposta), non sempre è facile tenerne conto in una società in cui tutti sembrano incollati al telefono. Secondo un sondaggio del centro di ricerca Pew, il novanta per cento di chi ha un telefono lo porta spesso con sé, mentre il 76 per cento lo spegne raramente o mai. I giovani coinvolti in uno studio del 2015 hanno controllato il telefono una media di 85 volte al giorno. Se a questo si aggiunge che è sempre più accettabile usare il telefono mentre siamo con altre persone, non ci vorrà molto prima che le persone vedano ogni messaggio ricevuto.
“Così si crea un mondo in cui le persone pensano di ricevere subito una risposta ai loro messaggi, ma poi non succede. E questo non fa che aumentare l’ansia”, spiega Sherry Turkle del Massachusetts institute of technology.
La cosa è ansiogena perché la comunicazione scritta oggi è concepita per scimmiottare le conversazioni. Permette un veloce dialogo botta e risposta, ma senza il contesto fornito dal linguaggio del corpo, le espressioni del viso e il tono. È più difficile, per esempio, capire se qualcuno ha trovato antipatiche alcune parole, oppure provare a spiegarsi meglio. Quando sei davanti a una persona, invece, “osservi l’ombra delle tue parole sul suo volto”, dice Turkle.
Nel racconto Cat personpubblicato con successo a dicembre 2017 sul New Yorker, una giovane donna ha una relazione romantica fallimentare con un uomo incontrato nel cinema in cui lavora. Nel racconto i due si vedono solo una volta, ma imparano a conoscersi attraverso messaggi di testo. Quando la relazione si conclude in modo caotico, emerge non solo che la realtà può distruggere le aspettative sentimentali, ma anche quanto la comunicazione digitale sia incapace di farci conoscere davvero l’altra persona.
Non sempre è facile capire cosa vuol dire una persona con un’emoji
In un’intervista, Kristen Roupenian, l’autrice del racconto, ha detto di essersi ispirata “alle fragili prove che usiamo per giudicare le persone che incontriamo al di fuori della nostra cerchia di amici, che siano in rete o meno”. Infatti, anche con le persone che già conosciamo spesso ci affidiamo a forme di comunicazione senza contesto. Questo mette un’aspettativa enorme sulla parole (e le emoji) che usiamo. E ogni messaggio, così come le pause tra i messaggi, assume un’importanza enorme.
“I messaggi di testo diventano segni sulla pietra da analizzare e sui cui scervellarsi”, sostiene Turkle. Non sempre è facile capire cosa vuol dire una persona con un’emoji o con una pausa di tre giorni tra un messaggio e l’altro. Ognuno di noi ha un’opinione diversa su quanto sia giusto aspettare prima di rispondere. Come faceva notare sull’Atlantic Deborah Tannen, linguista dell’università Georgetown, i segnali che mandiamo con il modo in cui comunichiamo online possono essere fraintesi con facilità:
Gli esseri umani sono sempre impegnati a creare significato e a interpretare significato. Quando spediamo un messaggio possiamo scegliere tra varie opzioni (quale strumento usare e come usarlo, per esempio) e ognuna di questa assume un significato diverso. Ma visto che le tecnologie e il modo in cui funzionano cambiano in continuazione, anche i nostri amici più intimi e i parenti li usano in modi diversi. I metamessaggi sono sottintesi e possono essere fraintesi o non colti affatto”.
Quest’opacità dei metamessaggi genera ogni anno migliaia di altri messaggi di testo, perché le persone chiedono ai loro amici d’interpretare esattamente quello che la persona a cui sono sentimentalmente interessate voleva dire con una certa sfumatura, o se il silenzio di una settimana significa che sono state vittime di ghosting, ovvero che sono state lasciate da un partner che semplicemente smette di rispondere e sparisce (il New Yorker ha fatto una parodia di questa analisi testuale collaborativa in un video in cui un gruppo di donne si ritrovano, come in un consiglio di guerra, per rispondere alla domanda “era una relazione”?).
Strumenti concepiti per aumentare la chiarezza – come la conferma di lettura o la piccola bolla coi tre puntini di iMessage che ti avvisa quando qualcuno sta scrivendo – spesso non fanno altro che aumentare l’ansia, perché mostrano in modo incontestabile quando qualcuno ti sta ignorando, oppure quando ha cominciato a rispondere ma poi ha deciso di concludere più tardi.
Il fatto che le persone sappiano quanto sia stressante aspettare una risposta a un messaggio istantaneo non significa che, a loro volta, non ignoreranno quelli che hanno ricevuto da altri. A volte le persone non rispondono per far capire apertamente che sono infastidite, o che non vogliono continuare una relazione. Secondo Turkle, aspettare molto tempo prima di rispondere è un modo per stabilire un ruolo dominante nella relazione, per trasmettere il messaggio di essere troppo occupato o importante per rispondere.
Spesso, invece, le persone stanno solo cercando di gestire la quantità di messaggi e notifiche che ricevono. Nel 2015 lo statunitense medio riceveva 88 email di lavoro al giorno, secondo la società di ricerche di mercato Radicati, ma ne spediva solo 34. Il motivo? Chi ha tempo per rispondere a 88 email al giorno? Forse una persona non risponde perché ha capito che l’interruzione che impone una notifica influisce negativamente sulla sua produttività, e quindi ignora il telefono per poter lavorare un po’.
Mi sorprendo a ignorare o a ritardare messaggi anche importanti, e altri ai quali desidero e voglio rispondere. Ho dovuto creare un’etichetta rossa per le email “Devi rispondere” per combattere il mio personale problema di “risposta tardiva”. Mi capita regolarmente di leggere messaggi di testo, pensare “a questo risponderò dopo” e poi dimenticarmene completamente. La memoria di lavoro, la lista mentale di cose da far fare al cervello, non può contenere troppe cose, e quando alle notifiche si aggiungono le liste della spesa e di cose da fare al lavoro, comincia a perdere colpi.
“Un sacco di volte succede che le persone portino avanti cinque conversazioni contemporaneamente, ma non si può pensare che siano intime e presenti allo stesso modo in tutte e cinque i casi”, dice Turkle. “E quindi smistano, stabiliscono delle priorità, dimenticano delle cose. Il nostro cervello non è uno strumento perfetto per gestire i messaggi”.
Ci sentiamo a nostro agio chiedendo alle persone solo alcune briciole del loro tempo
Eppure, nonostante i messaggi istantanei possano essere ansiogeni, le persone li preferiscono. Gli statunitensi passano più tempo a mandare messaggi che a parlare al telefono, e i messaggi di testo sono la forma di comunicazione più frequente per gli statunitensi che hanno meno di cinquant’anni.
Nonostante l’invio di messaggi di testo sia diffuso in tutto il mondo, Baron, dell’American University, ritiene che la preferenza per una comunicazione facile da ignorare è un tratto tipico degli statunitensi. “Gli americani, nelle loro comunicazioni, sono in generale molto più maleducati di altri”, spiega. “La seconda questione riguarda un profondo senso di autoaffermazione. Penso che siamo diventati una sorta di maniaci del potere, non solo del controllo”.
In una ricerca eseguita da Baron tra il 2007 e il 2008 sugli studenti di molti paesi –compresi gli Stati Uniti – le cose che gli intervistati dicevano di amare di più rispetto ai loro telefoni erano spesso legate al controllo. Una statunitense ha dichiarato che la cosa che preferiva era la possibilità di “comunicare quando lo desidero (e il fatto di poter smettere quando non la desidero più)”.
“Quello che ho osservato in questo paese, e non so se è una caratteristica nazionale, è che le persone aspettano di rispondere finché non credono di avere la risposta perfetta”, spiega Turkle. “E credo che per questo paghiamo un prezzo molto alto”.
Nella ricerca di Baron, le persone dicevano anche di sentirsi controllate dai loro telefoni, lamentandosi di quanto fossero dipendenti, e come la connettività costante li facesse sentire obbligati a rispondere.
Ma i messaggi di testo e le email non creano un senso di dovere paragonabile a quello delle chiamate telefoniche o delle conversazioni faccia a faccia. Quando ai giovani viene chiesto perché non amino telefonare, sostengono che si tratta di qualcosa di “invasivo” e parlano della loro riluttanza a imporre un peso su qualcun altro. La messaggistica istantanea crea una copertura per negarsi in modo credibile a chi non ha voglia di rispondere. La cosa può provocare sollievo in chi vuole negarsi e frustrazione in chi lo sta cercando.
Ma più di tutto, l’era della messaggistica istantanea ha reso possibile la capacità di sostenere delle conversazioni secondo le regole che preferiamo. Possiamo rispondere subito, possiamo rimandare di due o tre giorni, oppure possiamo non rispondere del tutto. Possiamo gestire varie conversazioni contemporaneamente. “Scusa, ero fuori con alcuni amici” è una frase che possiamo usare se rispondiamo in ritardo. Oppure possiamo rispondere anche mentre siamo fuori con amici: “Scusa, devo rispondere subito a questa persona”.
Mano a mano che queste cose diventano normali, ci sentiremo a nostro agio solo chiedendo alle persone alcune briciole del loro tempo, per timore che ci obblighino a dargli la nostra piena ed esclusiva attenzione.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato da The Atlantic. Leggi la versione originale.
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lunedì 23 aprile 2018

Prima che sia troppo tardi - Paolo Mottana


·         È evidente che ci stiamo rubando la vita, in parte per scelta in parte per coazione in parte per inconsapevolezza.

·         Tutto congiura a strapparci il tempo, a strapparci il corpo, a strapparci il piacere di stare con gli altri. Sempre più soli, sempre più autistici, sempre più prigionieri del nostro mondo straripante di tecnologie inutili (o utili solo a essere meglio sfruttati, da altri o da noi stessi), sempre più atrofizzati e immobili, oppure sempre più di corsa, sempre più sovraffollati di impegni, sempre più disperati, ammalati e esauriti.
·         Non c’è tempo da perdere. Ora o mai più. Non è facile, ovviamente ma dobbiamo provare a capovolgere l’ingranaggio, a incepparlo, a rallentarlo. Dobbiamo fare marcia indietro e sbarazzarci del milione di minchiate da cui ci circondiamo sotto la pressione inarrestabile del marketing dell’idiozia.
·         È dura, lo so. Io per primo sono dipendente da migliaia di apparenti comodità che mi stanno letteralmente prosciugando denari, spremendo il tempo e azzerando la vita sociale concretamente intesa.

·         Provo a indicare misure graduali di disintossicazione e riappropriazione della vita:
  1. ·         Non comprare più alcun oggetto tecnologico che ci “faciliti” la vita. Ricominciamo a riprendere le nostre abilità manuali.
  2. ·         Gradatamente ridurre l’uso delle tecnologie. Buttare quelle inutili(strumenti folli per il lavaggio dei denti o la macinazione dei cibi ecc.). Iniziare diete graduali: un’ora senza guardare il cellulare, poi 2, poi 3. Poi lasciare a casa il cellulare per mezza giornata e così via. Spegnere il computer in progressione.
  3. ·         Ridurre tutte le applicazioni.
  4. ·         La televisione non come abitudine ma come scelta.
  5. ·         Riprendere gradatamente a scrivere su carta. Ogni tanto osare scrivere una lettera a mano. Poi aumentare.
  6. ·         Leggere leggere leggere e rileggere.
  7. ·         Quando si hanno impegni non indispensabili provare a pensare cosa di bello si potrebbe fare in alternativa: andare a trovare un amico o un amante (chiedendo anche a lui di rinunciare al suo impegno, perché sicuramente lo avrà).
  8. ·         Quando si rinuncia al sesso o alla compagnia per un impegno, una volta ogni tanto fare il contrario. Rinunciare all’impegno per il sesso o per la compagnia. Poi sempre più spesso.
  9. ·         Vedersi fisicamente. Ogni volta che ci si può vedere fisicamente senza l’ausilio della tecnologia farlo, per quanto faticoso possa apparire.
  10. ·         Esercitarsi a non fare. Prima dieci minuti. Poi una mezzora. Poi un’ora e così via.
  11. ·         Rivendicare il diritto di dormire, se possibile in compagnia.
  12. ·         Mangiare con calma e bene. Ogni volta che è possibile. Rivendicare il diritto a mangiare con calma.
  13. ·         Aumentare gradatamente il tempo che si passa con figli, amici, amanti, mogli e mariti. Non essere di fretta. Ricavare il tempo cancellando impegni. Specie quelli non strettamente necessari. Migliorare i propri criteri intorno all’assolutamente necessario. Quasi nulla di quello che facciamo è davvero strettamente necessario, se non è per autentica passione.
  14. ·         Evitare compagnie di gente troppo indaffarata. Danno il cattivo esempio.
  15. ·         Evitare compagnie di gente troppo ambiziosa. Fomentano nervosismo.
  16. ·         Evitare compagnie di gente troppo tecnologica. Oltre ad annoiare terribilmente inducono complessi di inferiorità del tutto fasulli.
  17. ·         Cercare persone accoglienti e che sanno dedicarci il tempo necessario.
  18. ·         Essere accoglienti e dedicare il tempo necessario a chi ci piace.
  19. ·         Durante una festa provare a ballare balli lenti, come una volta, solo per il gusto del contatto lento e prolungato. Rimandare il dionisiaco a più tardi.
  20. ·         Decelerare, decelerare, decelerare e, ogni tanto, fermarsi.
  21. ·         Decongestionare, decongestionare, decongestionare e, ogni tanto, non aver più nulla da fare.
  22. ·         Fare atti di bellezza a casaccio, già si sa.
  23. ·         Più abbracci, più coccole, più ospitalità ecc.
  24. ·         Fare cose impreviste solo perché arriva la voglia di farle, sacrificando impegni o attività programmate con ambiziosi, indaffarati o con apparati tecnologici.
  25. ·         Rifiutare impegni non voluti.
  26. ·         Fermarsi in macchina perché abbiamo visto un posto che ci piace, a prescindere.
  27. ·         Scendere dal treno perché abbiamo visto un posto che ci piace, non al volo se possibile.
  28. ·         Scendere dall’autobus non troppo tardi come nel dottor Zivago, quando c’è del desiderio in ballo.
  29. ·         Andate avanti da soli che tanto avete capito e “ancora uno sforzo”!





mercoledì 18 aprile 2018

L'acqua del rubinetto è sicura. Eppure beviamo quella in bottiglia - Viola Rita



L'ITALIA è al terzo posto al mondo, dopo Messico e Thailandia, per consumo di acqua in bottiglia. Un dato che balza agli occhi e che mostra come le nostre scelte possano essere talvolta legate ad una precauzione eccessiva o ad una sfiducia non motivata, visto che l'acqua del rubinetto è quasi sempre buona o ottima, come confermano aziende e le Asl all'interno della rete di controllo idrico. L'eccesso di zelo può essere legato ad un retaggio quasi atavico, dato che nell'immaginario collettivo l'acqua è da sempre rappresentata come simbolo di vita, freschezza e purezza assoluta. E per questo esigiamo una qualità molto elevata, ancor più che per gli alimenti. Tuttavia, l'acqua del rubinetto, cifre alla mano, generalmente non è meno sicura di quella in bottiglia, come spiega Luca Lucentini, direttore del Reparto di Qualità dell'acqua e salute dell’Istituto Superiore di Sanità. Ecco le sue caratteristiche e come ridurre ulteriormente i rischi, già molto bassi.

LEGGI - Io mi bevo l'acqua del rubinetto

• SIAMO AL SICURO
In Italia, siamo fortunati, sottolinea Lucentini, dato che in più dell'85% dei casi attingiamo ad acque sotterranee e solitamente molto protette. L'attuale normativa europea, ben applicata nel nostro paese, inoltre, prevede un controllo costante, con milioni di analisi all'anno, di 50 parametri chimici e microbiologici. “La conformità si registra in più del 99% delle misurazioni – spiega Lucentini – mentre i rari casi in cui non vi è conformità riguardano la presenza di elementi chimici, come l'arsenico, naturalmente contenuti nella falda acquifera e legati alle caratteristiche del nostro territorio, ad esempio all'origine vulcanica di alcuni suoli". Tali elementi non pongono un rischio diretto e immediato per la salute, ma rappresentano degli indicatori di un problema da tenere sotto controllo: anche in passato, prosegue l'esperto, sono state registrate contaminazione chimiche circoscritte, quali l'arsenico, il fluoro e il boro. "Vi sono poi criticità locali legate a parametri cosiddetti emergenti - aggiunge l'esperto - che sono sfuggiti agli ordinari controlli: in alcune falde idriche del Veneto in rari casi sono stati rilevati composti perfluoroalchilici (Pfas), utilizzati ad esempio a livello industriale, un dato che deve spingere alla scelta di una diversa strategia di prevenzione per rafforzare la fiducia di bere aque del rubinetto in tutta sicurezza".

Ma le contaminazioni più pericolose per la salute sono invece quelle microbiologiche, tipiche dei paesi in via di sviluppo, il cui rischio in Italia è pari a zero, chiarisce Lucentini, un punto di forza che spesso sottovalutiamo ma che rende la nostra acqua di rubinetto una risorsa importante e sicura.

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• NEGLI APPARTAMENTI
Un elemento su cui porre attenzione riguarda la rete idrica interna delle proprie abitazioni. Colore, odore, sapore, limpidità dell'acqua sono le caratteristiche visibili ed essenziali e, se si rilevano cambiamenti, si può sospettare la presenza di qualche elemento che non va, chiarisce l'esperto. “L'altro rischio – seppure molto basso, sempre sotto l'1% - è rappresentato dalla presenza di piombo (un elemento incolore, insapore e inodore) nell'acqua, un rischio significativo per la salute, dato che è neurotossico per le gestanti (per il feto) e per il neonato”, illustra Lucentini. “Episodi di contaminazione
 possono verificarsi in palazzi piuttosto vecchi, costruiti prima degli anni '60, soprattutto nei centri storici. Se il proprio appartamento è di antica costruzione è bene informarsi sull'età del proprio edificio e su eventuali interventi di manutenzione”. Qualora non vi fossero informazioni e si avesse un dubbio in tal senso, il Ministero della Salute ha diramato le indicazioni per effettuare autonomamente l'analisi, con la cosiddetta stagnazione completa.

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• I FILTRI DELL'ACQUA
Insomma, possiamo stare tranquilli. “La scelta di utilizzare appositi apparecchi per filtrare l'acqua del rubinetto – spiega ancora Lucentini – è personale e dipende dal gusto, dato che lo scopo principale è refrigerare l'acqua, renderla frizzante, eliminare l'odore o il sapore di cloro,
 ridurre la durezza (calcio e magnesio), ma non migliora la qualità, che è già ottima”. Al contrario, sottolinea l'esperto, bisogna stare attenti ai dispositivi che aromatizzano l'acqua. “In questo caso, si rischia di assumere calorie in più – aggiunge l'esperto –. Questi apparecchi sono molto diffusi in America ed iniziano ad essere utilizzati anche in Europa e in Italia” .

Ad eccezione di specifiche condizioni di salute, piuttosto rare, la presenza di calcare, ovvero la durezza dell'acqua non rappresenta un problema, anzi. “È un falso mito quello per cui questa caratteristica non sia buona per la salute – chiarisce Lucentini – al contrario, alcune evidenze hanno mostrato come all'aumentare di questa proprietà diminuisca anche il rischio di malattie cardiovascolari potenzialmente fatali. Mentre l'associazione fra la durezza dell'acqua di rubinetto e i calcoli renali non è provata in alcun modo”.

• IL WATER SAFETY PLAN
Tuttavia, la qualità della nostra acqua di rubinetto, già elevata, potrebbe esserlo ancora di più. “La normativa italiana (e quella europea) prevede il controllo di 50 parametri – spiega Lucentini–, ma ve ne sono altri che potrebbero essere presi in considerazione per una ancora maggiore sicurezza”. Per questa ragione, dal 2004 l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha realizzato e diffuso un piano di sicurezza dell'acqua, il Water Safety Plan, di cui l'esperto ha parlato nel libro, appena presentato a Milano, “L’acqua del rubinetto. Water Safety Plan: innovazione e sicurezza”, curato da Alessandro Russo e Michele Falcone, rispettivamente presidente e direttore generale del 
Gruppo Capgestore del servizio idrico integrato della Città metropolitana di Milano. Questo piano consiste in un monitoraggio attraverso sonde, più esteso e capillare, che va dalla sorgente fino al rubinetto, seguendo vari step intermedi delle reti acquifere.

Per fare un paragone, prosegue l'esperto, è un po' come avviene nelle moderne feste dei bambini, in cui il gruppo di piccoli partecipanti viene seguito passo passo dagli adulti, dall'arrivo nel luogo del festeggiamento, al gioco, fino alla conclusione e al ritorno dei genitori, onde evitare qualsiasi rischio. “Ad esempio, l'avvento di un incendio e il conseguente uso ingente di schiume può determinare il rilascio di elementi contaminanti, che non rientrano nei 50 parametri analizzati di legge - specifica Lucentini - oppure possono esservi sotto-prodotti della disinfezione delle acque non rilevati. Semplici analisi effettuate in continuo possono fornire una sorta di "elettrocardiogramma" del sistema idrico, segnalando precocemente possibili modifcihe della torbidità dell'acqua, la sua conducibilità (ovvero il tenore salino), il pH o l'eventuale presenza di elementi atipici". In Italia, più di 10 regioni hanno iniziato ad applicare questo piano, che presto diventerà obbligatorio a livello di normativa europea.

• BERE FA BENE
Ma l'importante è bere una buona quantità di acqua, almeno circa due litri al giorno (sia del rubinetto, sia quella in bottiglia, se la si preferisce), anche per "avere le idee chiare", conclude l'esperto: “uno degli organi più ricchi d'acqua del nostro corpo è il cervello – conclude Lucentini – e se non si beve abbastanza possono manifestarsi anche sintomi quali difficoltà di concentrazione, irritabilità e mal di testa”.

lunedì 16 aprile 2018

Tombe fenicie a villa Certosa, in un video la ‘confessione’ di Berlusconi - Pablo Sole




Il 24 luglio 2009 l’avvocato e deputato Niccolò Ghedini è furente. Deve fronteggiare le polemiche divampate dopo la pubblicazione delle registrazioni che la escort Patrizia D’Addario ha effettuato durante i suoi intimi incontri con Silvio Berlusconi. A far imbestialire il penalista non sono tanto i racconti del suo assistito sulle nottate in bianco nel ‘lettone di Putin’, e nemmeno il peana sui benefici dell’autoerotismo che l’allora primo ministro rifila all’accompagnatrice. Ghedini è furente per una questione di tombe. Fenicie. Trovate, racconta sempre l’allora premier alla D’Addario, a Villa Certosa e mai denunciate. “Un’altra storia miserabile – taglia corto l’avvocato -. Mai il presidente Berlusconi potrebbe aver parlato del ritrovamento di trenta tombe fenicie nel suo parco, perché mai nulla di simile si trova o è stato rinvenuto nell’area di villa Certosa”. Anche perché, se così fosse stato, il premier avrebbe dovuto denunciare tutto alla Soprintendenza ai beni archeologici e consegnare i reperti, a meno di incappare in un reato. Rimane il fatto che a parlarne è stato proprio l’ex Cavaliere, illustrando alla D’Addario le meraviglie della magione di Porto Rotondo.
“Sotto qua abbiamo scoperto trenta tombe fenicie… del 300 avanti Cristo”, si vanta Berlusconi. L’allora soprintendente ai Beni archeologici di Sassari Rubens D’Oriano casca dalle nuvole e azzarda: “Vista la natura del luogo, magari hanno dato comunicazione ad organismi superiori per motivi di sicurezza nazionale”. E invece nulla, tanto che l’Osservatorio internazionale archeomafie presenta un esposto-denuncia alla Procura della Repubblica di Roma, al comando generale dei carabinieri e al ministero dei Beni culturali. Che strada abbia preso quella denuncia, non si sa.
La notizia fa il giro del mondo, ripresa da Cnn, Washington Post, El Pais e The Times. Tiene banco per qualche settimana e poi sparisce. Fino a quando, nel dicembre scorso, il fotoreporter Antonello Zappadu viene in possesso di un video girato a villa Certosa nel 2007. Pubblica il filmato sul suo sito ma, incredibilmente, il documento passa sotto silenzio.Si vede un signore che illustra con orgoglio le bellezze della magione a un gruppo di adolescenti curiosi. Quel signore è Silvio Berlusconi, i giovani che lo ascoltano frequentano la scuola media di Olbia e a villa Certosa, racconta Zappadu, li ha portati l’allora (e attuale) sindaco Settimo Nizzi, già medico personale in terra sarda dell’ex Cavaliere prima di essere eletto in Parlamento con Forza Italia.
E che racconta Berlusconi, indicando un macigno granitico nel bel mezzo di villa Certosa? Questo: “Hanno trovato una tomba in un cui erano sepolte due ragazze, dell’apparente età di 16 anni e avevano i loro monili. Abbiamo conservato orecchini – dice toccandosi i lobi – bracciale e anello. Bellissimi, di pasta di vetro, di epoca fenicia”.
Il filmato è stato realizzato con il cellulare da uno degli studenti e dura qualche decina di secondi. “Nel 2007 non era certo comune avere un telefonino con cui si potevano fare filmati di una certa qualità – dice oggi Zappadu – quindi è possibile che Berlusconi pensasse ad una fotografia, non a un video. Quindi ha parlato tranquillamente dei reperti”. Gli stessi che due anni dopo non saranno “mai esistiti né ritrovati”, protagonisti di una “storia miserabile” e responsabili dell’idrofobia dell’avvocato Ghedini. Che forse oggi, a distanza di quasi dieci anni, sarà costretto a tornare nuovamente sull’argomento e smentire il suo assistito. Fino ad allora ci si può solo attenere alle dichiarazioni spontanee del ‘Cicerone-Berlusconi’, che a cascata generano alcune domande. Innanzitutto sul comportamento che tenne l’ex Cavaliere, in qualità di premier. E soprattutto: dove sono oggi quei reperti? Perché il prestigioso ritrovamento – “Se fosse vero sarebbe uno scoop”, dichiarò nel 2009 il docente universitario Piero Bartoloni – non è stato denunciato alle autorità come impongono le leggi? E tutto senza dimenticare che già solo la detenzione di reperti archeologici, anche a distanza di anni dal loro ritrovamento, si configura in sostanza come una perpetuazione del reato. Come dire: la prescrizione, per Berlusconi a volte salvifica, in questo caso non è contemplata.