martedì 31 luglio 2018

Una classe di bambini rom in visita alla regina di Svezia (1) - Valeriu Nicolae


“Stiamo andando a incontrare la regina di Svezia!”. Il signore dell’aeroporto guarda Rică come fosse l’incarnazione bruna dell’ultimo modello di Boeing Dreamliner. Rică mostra un sorriso a trentadue denti. Anche Pavel sorride. Entrambi hanno poco più di 14 anni ma me dimostrano 12. Sono belli come il sole, ma è evidente che non sono proprio dei romeni etnicamente puri.
L’uomo sembra preoccupato. Poi guarda me. Mi sorride. Mi stringe la mano e si complimenta per quello che faccio. Mi dice che legge i miei articoli. La cosa mi imbarazza. Passiamo rapidamente il controllo passaporti. I bambini spalancano gli occhi increduli per la gente che incontrano, per l’eleganza del posto. Poi se la svignano e si piazzano davanti a una finestra a guardare gli aerei. Rimangono appiccicati al vetro per almeno mezz’ora.
Il viaggio in aereo è un’avventura. Rică e Pavel sono eccitati per quanto va veloce l’aereo ed entusiasti alla vista delle nuvole. A un certo punto si addormentano. Li sveglio poco prima di atterrare a Stoccolma. Sono impressionati e incuriositi da tutto e mi fanno decine di domande, alle quali devo per forza rispondere.
Ad aspettarci c’è una decina di bambini biondi che sventolano una bandiera della Romania e una della fondazione World’s children’s prize, che ha organizzato il nostro viaggio. Vogliono farsi le foto insieme a noi. Pavel scherza e mi dice che probabilmente mi hanno confuso con il cantante Florin Salam.
Viaggiamo per una novantina di minuti sull’autostrada, a bordo di un furgoncino Mercedes che ha il cambio automatico, come mi fa notare Rică in continuazione. I bambini fanno a gara a indovinare i modelli e le marche delle macchine che vedono per strada. Gli racconto della Volvo e parliamo di automobili. Pavel si annoia e chiede della musica, ma rimane un po’ deluso quando scopre che qui che non hanno il manele.
Passiamo vicino a Stoccolma e il panorama li lascia a bocca aperta.
Arriviamo a Mariefred. La cittadina sembra uscita da una favola. È pieno di oche e di anatre e Rică, che ha vissuto gran parte della sua vita nel parco di Vacareşti, alla periferia di Bucarest, rimane abbastanza stupito del fatto che nessuno pensi a organizzare una grigliata. Sul lago, più lontani, si vedono anche parecchi cigni, ma la cosa lo lascia indifferente. Le anatre, invece, sono proprio sul sentiero dove camminiamo noi.
Anche il palazzo sembra ritagliato dai cartoni animati, come osserva Pavel. Mi chiedono se nel canale che circonda il castello ci sono gli squali e i coccodrilli. Perfino l’albergo dove alloggiamo sembra finto: è una casetta di legno, con l’interno arredato come una vecchia casa svedese e tutte le comodità del caso, il tutto concepito con grande raffinatezza.
Dopo aver mangiato quanto tre famiglie svedesi, i bambini si addormentano profondamente. Ci svegliamo alle sei e mezza di mattina. Alla colazione finiscono tutto il pane e rimangono colpiti da quanti tipi di marmellate e succhi di frutta abbiamo a disposizione, anche se sono un po’ delusi perché sono tutte naturali.
Una scuola normale
Andiamo a visitare una scuola e lì ho uno shock assoluto. Circa centocinquanta bambini ci aspettano come fossimo la reincarnazione degli Abba. I piccoli hanno già parlato di noi in classe e sanno quello che facciamo. Ci fanno un sacco di domande, poi giochiamo a pallone, a basket, a ping pong e infine cantiamo. A dire il vero canta solo Pavel: quello che facciamo io e Rică non si può definire tale.
I bambini svedesi parlano inglese in modo incredibile. Chiedo se si tratta di una scuola privata o per ricconi. Mi rispondono che è una scuola di quartiere, assolutamente normale.
I servizi e le strutture sono stupefacenti. Sala da musica, atelier per la lavorazione del legno, studio d’arte, laboratorio di cucito. Ogni ventisei bambini ci sono due insegnanti e due assistenti. Gli scolari stanno in calzini, tutti seduti per terra. Lavorano su pc portatili, utilizzando ogni sorta di gioco educativo. Hanno perfino un ambulatorio medico che farebbe invidia alle migliori cliniche private di Bucarest.
Anche la mensa potrebbe passare per un ristorante di buon livello da noi in Romania. Ci sono due tipi di bevande: acqua e latte. Il menù include verdure, pesce, zuppe e un piatto cinese. Non hanno dolci, ma in compenso c’è la frutta.
In serata torniamo a Mariefred. Veniamo fermati da decine di bambini e adulti che vogliono congratularsi con noi. Le anatre non ci chiedono niente, ma da come sono andate le cose finora non ci sorprenderemmo se anche loro volessero scattarsi un selfie con noi. Le nostre avventure in Svezia non finiscono qui, ve ne parlerò anche nel prossimo pezzo.
(Traduzione di Mihaela Topala)

lunedì 30 luglio 2018

Congo, via libera all’estrazione di petrolio in aree protette - Marco Magnano (*)



Il governo della Repubblica Democratica del Congo ha deciso di modificare i confini dei parchi Virunga e Salonga per favorire le multinazionali del petrolio. È l’ultima mossa di Kabila?

Ancora una volta la ricchezza della Repubblica Democratica del Congo è la sua condanna. Il governo del Paese, sul cui territorio si trovano enormi risorse naturali e minerarie, ha infatti deciso di ridisegnare i confini di due parchi nazionali tutelati anche dall’Unesco, quelli di Salonga e Virunga, riducendone le porzioni protette e autorizzando le trivellazioni per l’estrazione di petrolio. La notizia non è completamente nuova: già a maggio, e prima ancora la scorsa estate, l’idea di declassificare le aree protette era stata al centro dell’attenzione.
I parchi di Salonga e Virunga sono tra i luoghi più delicati del Paese e per certi versi dell’intera Africa centro-meridionale: il primo, infatti, tutela la seconda maggiore foresta pluviale al mondo, mentre il secondo ospita moltissime specie a rischio di estinzione grave o critico. Particolarmente simbolico è il caso del gorilla di montagna, studiato e reso celebre dalla zoologa statunitense Dian Fossey, uccisa proprio nel parco di Virunga nel 1985 da bracconieri contrari alla protezione dell’area: la African Wildlife Foundation ritiene che oggi nel mondo sopravvivano circa 1.000 esemplari, e di questi almeno 600 vivono nel parco di Virunga.
Per aggirare lo status di World Heritage assegnato ai parchi dall’Unesco per protegge tra le altre cose dall’esplorazione estrattiva, il ministro degli Idrocarburi della Repubblica Democratica del Congo, Aime Ngoi Muken, ha deciso di ridisegnarne i confini per consentire la deforestazione e l’estrazione in un’area pari a circa 4.500 km quadrati. Secondo il quotidiano economico statunitense Bloomberg, la reale portata di questa decisione riguarderà invece oltre 16.000 km quadrati, con conseguenze ecologiche ancora più ampie. L’estrazione di petrolio, infatti, minaccia di distruggere l’habitat di molte specie animali e vegetali, oltre a inquinare la rete fluviale del Congo e del Nilo, corsi d’acqua decisivi per l’economia di grandi porzioni dell’Africa. Inoltre, nel parco della Salonga, che sorge appunto nel bacino del fiume Congo ed è la seconda foresta pluviale dopo l’Amazzonia, è stata scoperta la più grande ed estesa torbiera del mondo, un magazzino importantissimo di anidride carbonica. «Se – spiega John Mpaliza, ingegnere informatico e attivista per la pace nel suo Paese – andassimo lì a tagliare, a bruciare, a trivellare, a quel punto si libererebbe una grandissima quantità di anidride carbonica. Ci stiamo facendo del male da soli».
Tuttavia, quando si parla del Congo la questione non è soltanto ambientale, ma vede sovrapporsi diversi piani. Il Congo, infatti, è terra di sfruttamento e di guerra non solo per l’intervento delle società petrolifere, ma anche per il gas, il legname, le attività estrattive di oro, coltan e diamanti, così come per le numerosi piantagioni, tutte aree che creano ricchezze che finiscono in mano alle multinazionali e nei conti esteri dei miliardari locali. Una situazione che non può che alimentare violenze e scontri a ogni livello e in ogni luogo, dalle città ai parchi. Mpaliza racconta che «si parla di oltre 8 milioni di vittime, due milioni di donne hanno subito violenza come arma di guerra in questi vent’anni e nello stesso periodo 175 ranger sono stati uccisi nel parco della Virunga. C’è un piano chiaro per far sì che quel parco non abbia più la protezione di cui gode oggi».
Quali attori internazionali beneficeranno di questa decisione?
«Mentre mi informavo per avere un dettaglio delle forze in gioco, ho trovato informazioni contraddittorie. Per esempio, due anni fa la Norvegia è diventata il primo Paese al mondo a vietare la deforestazione, ma oggi, insieme alla Francia, viene definita “all’attacco delle foreste congolesi”. Siamo sempre al punto di partenza: ci sono delle forze economiche importanti del mondo occidentale che hanno bisogno di legno, hanno bisogno di tagliare, ma soprattutto ci sono le multinazionali del petrolio.
Nel parco del Virunga hanno scoperto circa 3.000 miliardi di barili di petrolio, quindi tutte le grandi compagnie occidentali, i cartelli europei e americani, sono già preparati. Anzi, hanno iniziato prima che noi lo sapessimo».
Le politiche estrattive segnano il Paese sin dall’epoca coloniale, ma negli ultimi vent’anni sono ulteriormente cresciute. Il punto è che non si tratta soltanto di un fatto ambientale, ma forse ancora di più politico. In che momento politico ci troviamo nel Paese?
«Abbiamo un presidente, ormai illegittimo da due anni, che doveva organizzare le elezioni entro il 19 dicembre 2016, ma che poi, grazie a un accordo, era riuscito a spostarle al dicembre 2017, ma non si sono mai tenute. Adesso per richiesta degli Stati Uniti sembrerebbe che il 23 dicembre prossimo ci possano essere le elezioni, ma le condizioni sono veramente inaccettabili: siamo l’unico Paese al mondo che decide di usare i computer per il voto, ma in un Paese in cui l’elettricità in molte zone non esiste. È chiaro come andranno a finire queste elezioni».
Non è possibile che Kabila quindi stia cercando di chiudere la propria esperienza alla guida del Paese vendendo tutto ciò che si può vendere e lasciare poi le ricadute negative sul suo successore?
«Siamo convinti che sia la situazione sia esattamente quella. Prima delle concessioni per il petrolio ha fatto lo stesso per il cobalto, che è stato venduto a una grande multinazionale svizzera e soprattutto alla Cina. Il Congo è il primo produttore mondiale di cobalto, che serve per le batterie delle auto elettriche, ma ormai ha svenduto tutte le grande miniere ma così come per tanti altri minerali. La questione della foresta è importante, perché probabilmente Kabila ha pensato che per i congolesi fosse meno interessante rispetto alla questione dei minerali, perché la foresta è una foresta immensa, ma si dimentica che comunque a livello internazionale questa foresta è anche una protezione per tutti noi. È per questo che l’Unesco deve fare in modo che si faccia un passo indietro. Prima di tutto però dobbiamo essere noi congolesi ad agire, con l’aiuto ovviamente della comunità internazionale».
La transizione politica in Gambia lo scorso anno, così come la pace tra Etiopia ed Eritrea, sono segni del fatto che l’Africa sia tutt’altro che ferma. Per il Congo che si avvicina qualche figura che potrebbe marcare un cambiamento?
«Nessuno pensava mai che tra Etiopia ed Eritrea, così all’improvviso, si trovasse la pace. Però in Congo la situazione è diversa: non siamo in guerra contro qualche Paese in particolare, siamo attaccati e occupati. Noi non abbiamo un unico nemico, abbiamo Paesi vicini che vengono usati come base dalle multinazionali ma anche dai Paesi occidentali, per cui non si riesce ad avviare un percorso di pace con un solo interlocutore.
La strada che ci potrebbe portare verso la pace è quella di una transizione senza Kabila. Non chiediamo che sia la comunità internazionale a venirlo a prendere e portare via, noi siamo in grado, ma c’è bisogno che quando il popolo si alza, anche loro dicano qualcosa. Senza Kabila noi potremmo probabilmente mettere le basi per una ripartenza democratica. Insomma, la soluzione interna è quella privilegiata, ma con in qualche modo l’aiuto della comunità internazionale che continua a osservare».
Lei ha contribuito a far conoscere la situazione congolese attraverso numerose iniziative, tra cui le marce per la pace in Italia e in Europa. L’ultima si è tenuta in primavera: ce ne saranno altre?
«Quando partiamo con una marcia spero sempre che sia l’ultima. L’ultima fatta in primavera è arrivata proprio davanti alla sede dell’Onu a Ginevra ed era stata richiesta dagli studenti. Adesso si sta cercando di capire che cosa succederà da qui al 23 dicembre, ma personalmente non credo ci saranno le elezioni, quindi è probabile che siano necessarie altre azioni di pace da portare avanti. Ma anche qualora le cose cominciassero ad andare bene, comunque noi non possiamo abbassare la guardia, avremo sempre qualcosa da fare per spingere la comunità internazionale, l’opinione pubblica italiana, europea e mondiale a guardare in quella direzione, perché lì la gente continua a morire».
 (*) ripreso da «Riforma.it» che è «Il quotidiano on-line delle chiese evangeliche battiste, metodiste e valdesi in Italia».


venerdì 27 luglio 2018

Sono d’accordo con i centri di espulsione - Massimo Angelini



Bene: prendendo spunto da una lettera di padre Mauro Armaninomi sono convinto che i centri di identificazione e le piattaforme di sbarco ci vogliono, ci vogliono per tutti, perché è giusto identificare i veri motivi per i quali si va in un altro paese: per lavorare o per delinquere? Cos’è questa storia della libera circolazione delle persone, neanche fossero merci?
Bisogna bloccare alla frontiera gli italiani, i tedeschi, gli statunitensi che vanno in Thailandia, a Cuba, in Brasile, trattenerli in un centro temporaneo di identificazione, e prima di farli entrare (o rispedirli a casa) bisogna sapere se vanno a lavorare oppure a portare un turismo rispettoso o se invece ci vanno per fottere bambine e bambini. Ci vogliono centri di identificazione alle frontiere della Svizzera, di Lussemburgo, delle Isole Cayman e di tutti i covi fiscali per trattenere qualche giorno chi porta denaro e, prima di farlo entrare, sapere se è frutto di riciclaggio o evasione. Ci vogliono alle frontiere dei paesi centrafricani per essere certi di non fare entrare avventurieri, bracconieri, trafficanti.
Ci vogliono alle frontiere di tutti i paesi in via di occidentalizzazione(sissignori: non sono paesi in “via di sviluppo” ma di occidentalizzazione) per bloccare – giorni o settimane, solo quanto sia necessario e non di più – chi arriva dall’Europa, dalla Russia, dagli Stati Unti, dalla Cina, dal Giappone e, senza farsi sviare dagli abiti e dai modi così belli e puliti, controllare che non sia un mediatore o un trafficante di denaro, di droga, di persone, di armi, di terreni, di risorse, di scorie e rifiuti tossici, di minerali e materiali preziosi(senza i quali i cellulari e i computer con i quali scriviamo veleno sul mondo rapinato dai quali sono estratti non funzionerebbero) uno speculatore finanziario, un giocatore di risiko sulla pelle del mondo più povero, un monopolista, uno spacciatore di semi sterili o di iniziative pseudoumanitarie, un corruttore di governi, un accaparratore di giacimenti di pesce o di petrolio (che chi ci abita non potrà più pescare o estrarre perché non gli appartengono più, come la terra su cui poggia i piedi, e ringrazi la nostra democrazia umanitaria che permettiamo che ci cammini sopra)…
Il ragionamento è chiaro e ora la faccio breve: sono d’accordo con i centri di identificazione, mi piacciono, li desidero in ogni aeroporto, comprese le Maldive e le Seychelles: è ora di finirla di fare circolare liberamente i delinquenti, i nullafacenti palestrati e gli stupratori.

Migranti in Sardegna: il problema è la percezione, non la realtà - Carlo Valdes



Il tema dell’immigrazione ormai appartiene anche al dibattito regionale. È frequente leggere nei giornali o sul web frasi che imputano al crescente numero di migranti il peggioramento della qualità della vita nelle città sarde. Ma a parer mio c’è una differenza importante tra percezione e realtà, e i dati ci dicono due cose. Primo, in Sardegna non esiste attualmente alcuna emergenza migranti. Secondo, non esiste un’emergenza sicurezza associata agli sbarchi degli ultimi anni.
Occorre ragionare con ordine, partendo dai numeri della presunta emergenza migranti
Il numero di sbarchi nel Porto di Cagliari (primo porto sardo per numero di sbarchi e unico porto della regione per cui vengono pubblica i dati dal Ministero dell’Interno) è in forte diminuzione. Dal primo gennaio 2018 a oggi i migranti sbarcati nel porto cittadino sono stati 150, a fronte di un numero di sbarchi totali sul territorio italiano di quasi 18mila persone. Il porto di Cagliari ha raccolto, quindi, meno dell’1 per cento del totale. Le proporzioni sono anche più piccole rispetto a quelle dell’anno precedente, quando il numero di migranti sbarcati a Cagliari nei 12 mesi era stato di meno di 4mila persone (contro un totale nazionale di quasi 120mila). A questo si aggiunga che secondo la rilevazione di fine giugno il numero di migranti in accoglienza nella regione è oggi di 3.818 persone, pari solamente al 2 per cento del totale nazionale. Anche questo numero è in diminuzione: nell’ottobre 2017 (primo mese per cui erano stati resi pubblici i dati sul sito del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione) il numero di migranti in accoglienza in Sardegna era pari a 5.435 persone, il 42 per cento in più rispetto a oggi.
Anche sul fronte della sicurezza la percezione sembra essere decisamente più ingombrante della realtà
I dati più recenti che abbiamo sono del 2016, anno in cui, nel mese di ottobre, l’emergenza migranti in Italia aveva toccato il suo picco più alto. Ci si potrebbe chiedere se in quell’anno sia stato registrato un aumento del numero di stranieri denunciati o arrestati dalle Forze di polizia in Sardegna. Sommando le voci che nell’immaginario comune sono associate all’immigrazione (violenze sessuali, furti, rapine, danneggiamenti e traffico di stupefacenti) non è stato registrato un aumento dei casi. Anzi, il numero di stranieri arrestati o denunciati è diminuito del 15 per cento tra 2015 e 2016. Una persona poco accorta potrebbe puntare il dito contro singole fattispecie che nel 2016 hanno registrato aumenti, come le violenze sessuali o il traffico di stupefacenti. Ma occorre prudenza: primo, le violenze sessuali imputate a stranieri erano più alte nel 2010 (quando non esisteva un’emergenza migranti). Secondo, le denunce relative agli stupefacenti avevano già registrato valori simili nel 2011 e ben più alti nel 2014. Queste riflessioni ci suggeriscono che, al netto di fisiologiche oscillazioni nei dati, in Sardegna non esiste attualmente alcun legame tra l’aumento del numero di sbarchi e il tasso di criminalità.
Fatte queste considerazioni, a mio avviso sembra quindi che la preoccupazione a livello regionale sia sostanzialmente determinata dai toni eccessivamente alti della politica nazionale. Continuando così, questa preoccupazione infondata potrebbe diventare un tema centrale nei futuri confronti elettorali regionali, capace di togliere attenzione ai veri temi su cui i cittadini sardi dovrebbero pretendere risposte. Primi tra tutti l’elevatissimo livello di disoccupazione giovanile, i flussi migratori in uscita e, più in generale, la necessità di un rilancio dell’economia. Sono queste le emergenze vere. E sono ancora irrisolte.
Carlo Valdes (economista)
(I dati sono aggiornati al 23 luglio 2018)

giovedì 26 luglio 2018

Cagliari, il supermercato è «collaborativo» - Eleonora Fanari


Tra le stradine colorate di un piccolo paese sardo del campidano meridionale conosciuto per i suoi murales e la sua arte germogliano nuove idee per una Sardegna più autonoma e sostenibile. Da San Sperate, uno dei centri agricoli più produttivi della Sardegna, parte il progetto di un «Emporio equosolidale e collaborativo», un’idea che ha come obiettivo principale quello di privilegiare l’economia locale offrendo dei prodotti di qualità e sostenibilità a un prezzo accessibile a tutti i suoi soci. L’iniziativa, che è stata presentata pubblicamente il 31 maggio 2018 a Cagliari, ha subito riscontrato un alto interesse tra i numerosi presenti all’evento, molti dei quali sono oggi nuovi soci del progetto.
«L’idea è di costituire una cooperativa nella quale i soci possano approvvigionarsi di prodotti di qualità, provenienti da filiere etiche, a prezzi sostenibili», ci spiega Massimo Planta, ideatore del progetto e presidente dell’Associazione Terre Colte (un’organizzazione che si occupa del recupero e della valorizzazione di terreni in stato o a rischio di abbandono), che discute sulla necessità di mettere in discussione l’attuale sistema economico-sociale che ignora, trascura e minimizza qualità e sostenibilità in nome di un continuo profitto. «L’esigenza è di dare una risposta valida e concreta al problema della distribuzione che caratterizza il modello commerciale classico, che si riduce ad arricchire la grande distribuzione organizzata a discapito dei produttori locali».
Il modello innovativo seguito dal gruppo sardo prende ispirazione da una prima esperienza di Emporio Collaborativo, nata nel 1973 negli Stati Uniti, che grazie al documentario Food Coop di Thom Boothe sta oggi facendo il giro d’Europa. Ha iniziato con La Louve di Parigi, nata proprio su iniziativa del regista del documentario, per poi espandersi a Bruxelles con la Bees Coop e arrivare in Italia con Camilla a Bologna e la Coop a Parma.
IL PROGETTO SARDO, che è nato da una riunione di Sardegna che cambia (declinazione territoriale di Italia che Cambia) mira all’apertura, entro il 2019, di un primo «supermercato autogestito e collaborativo» nell’isola, per incentivare lo sviluppo dell’economia locale sarda e stimolare a ripensare la Sardegna come realtà potenzialmente autonoma dal punto di vista economico.
Tutto ciò, come ci spiega Tiziana Diana, membro del progetto, è possibile grazie alla collaborazione dei soci, che dietro il versamento di una quota di sottoscrizione associativa e in cambio di qualche ore di volontariato al mese, saranno in grado di abbattere i costi di gestione del supermercato e approvvigionarsi di prodotti di qualità da loro stessi selezionati. Infatti, secondo i dati esaminati da un recente rapporto pubblicato da Oxfam nel giugno 2018, dal titolo «Maturi per il Cambiamento», circa il 40% del costo dei prodotti che paghiamo nei nostri supermercati viene utilizzato per coprire i costi di gestione del supermercato stesso, che ricorre a politiche di sfruttamento necessarie per mantenere dei costi contenuti e spesso anche più convenienti. Il rapporto denuncia i forti squilibri e lo sfruttamento all’interno delle filiere produttive, mettendo in rilievo la posizione dell’Italia, che viene considerato uno dei paesi sfruttatori nella raccolta stagionale di frutta e verdura, soprattutto nei confronti delle donne. Il 75% delle lavoratrici delle aziende ortofrutticole italiane intervistate dall’organizzazione ha dichiarato di essere sottopagata e di rinunciare a pasti regolari. «Tutti amiamo il cibo. Cucinare i nostri piatti preferiti o pranzare in compagnia sono alcuni dei piaceri più semplici. Ma troppo spesso i cibi che gustiamo hanno un costo inaccettabile: la sofferenza delle persone che li producono», scrive Winnie Byanyima, direttore esecutivo di Oxfam International.
I membri del progetto cagliaritano, che da quattro sono presto divenuti una trentina, spiegano che la cooperativa vuole prima di tutto eliminare queste ingiustizie sociali, tagliando i vari passaggi della Grande distribuzione organizzata. «La scelta di privilegiare filiere corte e locali, unite al lavoro volontario messo a disposizione dai soci, che si occuperanno per 3/4 ore al mese di tutte le mansioni inerenti la gestione e il funzionamento, rappresenteranno l’unica leva per garantire un abbassamento dei prezzi, permettendo ai soci di poter acquistare prodotti di qualità a prezzi contenuti», spiega Tiziana.
SECONDO LE MAPPE DI ITALIA CHE CAMBIA, sono numerosi gli esempi di cambiamento e innovazione nel territorio suqueste tematiche. «La food coop è come un’isola felice», commenta Federica Carrus, una delle nuove facce del progetto, «in quanto è uno spazio che risponde a un’esigenza quasi dimenticata, ma di cui l’uomo ha un profondo bisogno: la creazione di una comunità». Il progetto non vuole fermarsi al supermercato, ma intende costituire una vera rete di attività collaterali, sia sulla tutela e valorizzazione dell’ambiente che sull’innovazione economica e sociale, favorendo la connessione, la collaborazione ma soprattutto l’interazione sociale con la comunità.
CIÒ CHE CONTA VERAMENTE, a parte i prezzi e la giusta remunerazione del lavoro ai produttori, è il senso di responsabilità che ciascuno sviluppa verso la propria comunità. Un’esperienza non solo vantaggiosa, ma anche formativa per tutti coloro che vi parteciperanno. Un progetto per sensibilizzare a comportamenti di consumo critico e responsabile e per regalare alla Sardegna un’alternativa e una speranza in più a tutti coloro che scelgono di «ricominciare da noi».

lunedì 23 luglio 2018

ho sbagliato, sono un imbecille

una storia raccontata da Matteo Bussola


Sono su un treno regionale, sto andando a una presentazione del mio libro, fuori una pioggia obliqua cade contro i finestrini. Il treno ferma a una stazione di cui non leggo il nome, alla stazione sale un ragazzo disabile, lo portano su in tre. Il ragazzo è in carrozzina e ha il busto piegato in avanti da un'evidente malformazione. Lo spazio del vagone riservato alle carrozzine è occupato da due ingombranti valigie, il controllore dice a voce alta: "Di chi sono questi bagagli?!" senza ottenere risposta, allora urla: "DI CHI SONO QUESTI BAGAGLI?!" e d'un tratto un uomo sui cinquanta si volta da due sedili più avanti, il controllore lo vede e gli intima: "Li sposti subito, per piacere.". L'uomo sui cinquanta si alza, va a prendere le valigie ma lamentandosi col controllore che insomma, è un'indecenza, sul treno i suoi bagagli nel vano apposito non ci stanno e ora lui dove li mette. Il ragazzo disabile, mentre legano la sua carrozzina con le cinghie, fissa l'uomo senza dire niente, non capisco se la sua disabilità gli impedisca di parlare o se sia, semplicemente, stanco, di quel tipo di stanchezza di chi è purtroppo abituato ad assistere a reazioni come quella. Il controllore si avvicina all'uomo, gli dice che, dato che i vani sono piccoli, se vuole può mettere i suoi bagagli sui due sedili vuoti avanti a sé. È a quel punto che l'uomo si lascia sfuggire la frase, a bassa voce.
*Perché questi non se ne stanno a casa invece di andare in giro*, dice.
Lo sentiamo io e una signora sui settanta seduta di spalle. Io mi sto sforzando di fare respiri profondi perché sto seriamente pensando di alzarmi e andare a mettergli le mani addosso. La signora sui settanta invece si alza, si volta, si piazza davanti all'uomo, gli dice: "Lei si dovrebbe vergognare, perché non se ne sta a casa lei invece di andare in giro e costringerci a sentire le sue sciocchezze!"
L'uomo guarda la signora da sotto in su, ha l'espressione di un bambino che è appena stato sgridato dalla madre.
Sto per intervenire e rincarare la dose quando: "Ha ragione", dice l'uomo all'improvviso. "Mi scusi, scusatemi tutti, sono stanchissimo e ho proprio esagerato."
Un istante dopo l'uomo si alza, va verso il ragazzo disabile, si ferma davanti a lui.
"Scusami davvero", dice, "sono un imbecille."
Il ragazzo alza gli occhi.
"Tranquillo", gli dice. "Da quello se vuoi si può guarire".
L'uomo sembra sorpreso dalla risposta, il viso gli si apre in un sorriso, il ragazzo sorride anche lui. Si presentano, cominciano a parlare.
Il ragazzo si chiama C., è un ingegnere informatico.
L'uomo si chiama S., è un metalmeccanico pendolare.
Abitano a neanche dieci chilometri e non si erano mai incontrati. Oggi invece si sono *visti*, che mi pare una cosa assai più importante.
Io guardo fuori dal finestrino, ascolto le loro storie a intermittenza, penso che questa situazione sarebbe potuta finire in tanti modi diversi e invece ho appena assistito a un piccolo miracolo. E mi viene in mente che per avvicinare gli esseri umani sarebbero sufficienti quasi sempre tre sole cose: un calcio in culo al momento giusto - da chi si assume la responsabilità di dartelo -, la capacità di chiedere scusa, un sorriso ricambiato.
Basterebbe poco, davvero.
Basterebbe ricordarselo.

sabato 21 luglio 2018

ISRAELE VUOLE CHE IL VILLAGGIO DI KHAN AL-AHMAR SIA RASO AL SUOLO PER TAGLIARE FUORI GERUSALEMME DALLA CISGIORDANIA - Mariam Barghouti




Radendo al suolo la Palestina, un villaggio alla volta
Israele vuole che il villaggio di Khan al-Ahmar sia raso al suolo per tagliare fuori Gerusalemme dalla Cisgiordania.


E’ stato un po’ ironico vedere un piccolo gruppo di coloni israeliani entrare nella grande tenda di solidarietà posizionata all’ingresso di Khan al-Ahmar lo scorso mercoledì. Erano venuti, hanno detto, per mostrare “solidarietà” ai beduini palestinesi che protestavano contro un ordine di demolizione.
Dal 2017, l’intero villaggio beduino è stato minacciato di demolizione dalle autorità israeliane. In precedenza quel giorno, i soldati israeliani hanno attaccato gli abitanti del villaggio e gli attivisti che avevano inscenato una protesta, ferendone 35.
Khan al-Ahmar, un villaggio di 180 persone, si trova a circa 15 km a nord-est di Gerusalemme e rientra nella cosiddetta area C della Cisgiordania occupata, come definita dagli accordi di Oslo. L’area è stata inondata da oltre 300.000 israeliani che vivono in 125 insediamenti illegali ed è sotto il controllo amministrativo israeliano. Secondo gli Accordi di Oslo, le Autorità Palestinesi avrebbero dovuto subentrare nella gestione dell’area, ma, ovviamente, Israele non ha mai permesso che ciò accadesse.
Di conseguenza, è ora lo stato israeliano che controlla i terreni nell’area C e che decide sui permessi di costruzione. Khan al-Ahmar esisteva prima che lo stato di Israele fosse creato nel 1948. Negli anni ’50, i beduini palestinesi espulsi dal deserto del Negev dall’esercito israeliano si trasferirono in Cisgiordania e si insediarono nel villaggio, espandendolo.
Lo stato israeliano ha ora deciso che tutti i suoi edifici sono illegali e devono essere demoliti. Khan al-Ahmar si trova tra due insediamenti illegali israeliani in espansione – Kfar Adumim (fondato nel 1979) e Maale Adumim (fondato nel 1975) – e sul cosiddetto “corridoio E1” tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania, che lo stato israeliano vorrebbe controllare per tagliare l’accesso palestinese alla città.
Sono stati i coloni di questi due insediamenti che si sono presentati a Khan al-Ahmar mercoledì per mostrare “supporto” alla protesta, come se la loro esistenza non avesse nulla a che fare con il problema che i residenti dei villaggi palestinesi stavano affrontando.
La prospettiva di sfollamento e miseria ha fatto sì che il popolo di Khan al-Ahmar accetti l’aiuto di chiunque lo offra. Se qualcuno può impedire ai bulldozer israeliani di radere al suolo le loro case, allora lasciatelo venire.
Il loro villaggio è essenzialmente un insieme di case sparse su poche colline che circondano un’autostrada che collega Gerusalemme est con gli insediamenti israeliani nella West Bank. Non ha strade asfaltate, nessun sistema fognario, niente elettricità e fino a poco tempo fa non aveva una scuola. Alcuni anni fa, la comunità locale, con il supporto internazionale, costruì una scuola con fango e gomme.
A est e a sud di Khan al-Ahmar, ci sono i due insediamenti israeliani che non assomigliano affatto a tutto questo. I coloni israeliani hanno raccolto i frutti dell’occupazione, erigendo insediamenti prosperi forniti di tutti i servizi e comodità. Sembrano città, sempre ben illuminate e pulite, con acque reflue e acqua corrente ben funzionanti; hanno diverse scuole, cliniche e ovviamente la sicurezza fornita dall’esercito israeliano.
Ai residenti di Khan al-Ahmar è stato negato l’accesso ad ognuno dei servizi di cui godono i loro vicini israeliani. I loro figli non possono andare nelle loro scuole, e prima della costruzione della scuola di fango, dovevano camminare per diversi chilometri per ottenere un’istruzione.
Da quando il villaggio ha iniziato a resistere ai tentativi da parte dello stato israeliano di spingerli fuori dalla loro terra, è diventata una comunità pesantemente sorvegliata.
Mercoledì scorso, uomini e donne sono stati picchiati dai soldati israeliani di fronte ai loro bambini.
Il dodicenne Jibril Jahalin ha cercato di raccontare la violenza, con la sua voce che si spezzava dietro una risata che era più forzata che genuina. “Hanno continuato a colpire tutti”, mi ha detto. Più tardi quella notte, suo cugino – Mohammad Jahalin, di 14 anni, è rimasto a preparare il tè per gli attivisti che erano venuti a sostenere la comunità e si erano fermati durante la notte.
Mentre faceva bollire l’acqua, mi ha detto: “Sai, cerco di non avere paura, ma non so cosa ci succederà. Dove andremo, cosa faremo? Ho paura”. E come Jibril, anche lui ha cercato di sorridere della sua paura.
Khan al-Ahmar non è l’unica comunità beduina che sta affrontando la decimazione dallo stato israeliano. Il modo di vivere e le tradizioni dei beduini sono gravemente minacciati. Dopo la colonizzazione e la militarizzazione delle terre palestinesi, che mise fine alla libertà di movimento dei beduini e dei palestinesi in generale, le comunità beduine palestinesi furono costrette a stabilirsi e oggi affrontano una sistematica campagna di espulsione.
Tra il 2008 e il 2014, circa 6.000 beduini sono stati sfollati con la forza nella zona C dopo che lo stato israeliano ha raso al suolo le loro case. Proprio l’anno scorso, il villaggio beduino di al-Araqib è stato distrutto per la 119° volta dalle forze israeliane, anche se i suoi abitanti hanno la cittadinanza israeliana.
Dopo l’attacco a Khan al-Ahmar da parte dell’esercito israeliano la scorsa settimana, un tribunale israeliano ha posto un congelamento temporaneo sull’ordine di demolizione per “indagare” sulla proprietà della terra. Ma le corti israeliane si sono dimostrate molte volte negli ultimi decenni a lavorare per preservare il progetto coloniale israeliano.
La storia di Khan al-Ahmar è solo un esempio degli sfollamenti forzati sistemici e illegali e della sostituzione di palestinesi con israeliani in Palestina. I palestinesi sono stati rimpiazzati da una varietà di politiche israeliane calcolate.
A Gerusalemme, i residenti devono affrontare la revoca dei loro documenti di identità e residenza a Gerusalemme se vengono ritenuti “sleali” allo stato di Israele. In Cisgiordania, solo nel 2016, Israele ha utilizzato pratiche discriminatorie per allontanare 1.283 palestinesi dalle loro case.
A Gaza, l’assedio israeliano di 11 anni ha spinto molti palestinesi a cercare una vita migliore al di fuori della striscia – alcuni a saltare su barche con rifugiati siriani che tentano di attraversare il Mediterraneo verso l’ Europa.
Da quando Trump è entrato in carica, un incoraggiato Israele ha approvato più di 14.000 unità di insediamenti supplementari in Cisgiordania.
Solo poche ore dopo le violenze di mercoledì, il dodicenne Jibril ha tenuto alta la sua bandiera palestinese e mi ha detto: “Siamo forti, combatteremo [le forze israeliane]”. Poi ha guardato a terra e ha aggiunto, “ma in realtà, voglio solo giocare.”
I palestinesi hanno il diritto di vivere in dignità e giustizia. I bambini palestinesi hanno il diritto ad una normale infanzia. E continueremo a lottare in modo che forse la prossima generazione di bambini palestinesi non debba preoccuparsi di perdere le loro case e di non avere istruzione, così non dovranno sventolare le bandiere durante le proteste, inalare gas, essere picchiati e imprigionati sotto una spietata occupazione.
Continueremo a stare con gli abitanti di Khan al-Ahmar perché la loro resistenza è parte della più grande lotta contro l’intera struttura del brutale colonialismo israeliano.

Un maiale non sarà mai come Trump - Rita



Roger Waters chiude il concerto di Roma con la scritta "Trump è un maiale", così leggo oggi sui quotidiani.

Un maiale non sarà mai come Trump. Un maiale - ma quale, poi? Non esiste "il maiale" come concetto, esistono semmai tanti individui distinti, ognuno con la sua personalità e identità - è semplicemente se stesso; o meglio, dovrebbe essere se stesso, ma nella nostra realtà non gli viene permesso, viene privato di tutto, del diritto di essere lui, di essere felice, di razzolare sull'erba e nel vento, di fare amicizie ed esplorare, di avere esperienze; nella nostra realtà viene fatto nascere come schiavo e a pochi mesi viene macellato. 
Direi proprio che no, non è Trump. Trump è il Potere e un maiale, ai nostri giorni, non ha nemmeno il potere - inteso come possibilità, potere di - di essere, di uscire, di vedere, di conoscere. Per non parlare delle scrofe, delle maiale che, chiuse dentro le gabbie di contenzione, non hanno nemmeno la possibilità di alzarsi in piedi e di accudire i propri piccoli.
I maiali non sono sporchi. Lo sono invece i capannoni in cui vengono rinchiusi e poi allevati al fine di trasformarli in prodotti.

Mi indigno per una parola? Per una frase fatta? Sì, perché le parole non sono neutre, rafforzano e disegnano la nostra realtà, dandole la forma e i confini che chi detiene il Potere decide per altri. Le parole descrivono una realtà spesso falsa, ingannatrice, menzognera, come quella che vorrebbe che i maiali fossero animali stupidi, laidi, sporchi, aggressivi, dotati di solo istinto mangereccio e sessuale. 
E tutte queste falsità vengono reiterate per giustificare la pratica di schiavizzare, discriminare o respingere qualcuno, che siano i maiali o gli immigrati o le donne.


giovedì 19 luglio 2018

Sulle macerie degli ospedali la ribellione dei territori - Claudia Zuncheddu



Nell’era dei diritti negati e del tramonto delle più grandi conquiste sociali dello scorso secolo di cui la Legge 833 del 78, che ha permesso il superamento delle disuguaglianze in materia di assistenza sanitaria, si pone il problema di come contrastare l’onda distruttiva neoliberista portata avanti nelle ultime legislature dal centro destra e dal centro sinistra al governo della Sardegna.
La Legge 833 continua a vivere sulla carta benché su di essa si sia scatenata una guerra  subdola tendente a ridimensionarla e ad abrogarla. Osservatori esterni rilevano che l’aspettativa di vita dei sardi si sia notevolmente ridotta in questi ultimi tempi. Nell’Isola e nelle sue isole minori oggi è più facile morire, basta non garantire i servizi sanitari. Si incomincia sempre dai cittadini più fragili e indifesi: dai sofferenti mentali.
E’ questa la guerra voluta dagli ultimi governi locali, romani e dai poteri multinazionali in nome di un pareggio di bilancio e/o di un Pil che notoriamente non è mai stato indice di benessere per i popoli. Su questi temi la stampa riporta tutti i giorni bollettini di guerra. Chiudono reparti e ospedali, nel nome della razionalizzazione, dal nord al sud, dal Paolo Merlo di La Maddalena al San Marcellino di Muravera, da Est a Ovest, da Lanusei a Iglesias e Carbonia.
La sanità cagliaritana è al collasso. Crescono le liste d’attesa e i disservizi. La chiusura dei bar in ospedali storici e le sedie che spariscono nelle sale d’attesa, com’è accaduto nel nostro prestigioso Oncologico e al Marino, sono cattivi presagi. Per non parlare della carenza di disinfettanti in sale mortuarie dove l’unica certezza è l’alto traffico di salme.
Intanto nel Consiglio Regionale, nel corso del dibattito sul Piano di riordino della rete ospedaliera sarda è spuntato, paradossalmente, un emendamento con cui si proponeva il coinvolgimento dell’Area Metropolitana nelle decisioni inerenti la “variazione d’uso dell’Ospedale Binaghi, da sanitario in altro…”.Un nuovo affare politico-urbanistico per i soliti noti.
Senza scomodare lo stato di degrado e la carenza di personale medico e paramedico del Santissima Trinità, la morte del Microcitemico, del San Giovanni di Dio. Come in tutte le guerre, anche dalle macerie della sanità pubblica, c’è pure chi costruisce le proprie fortune. La resistenza a questa situazione si sta manifestando con la ribellione in crescita nei territori. I cittadini si organizzano in comitati spontanei e molti di essi per unire le forze confluiscono in coordinamenti come la Rete Sarda Difesa Sanità Pubblica, da anni in prima fila nelle lotte per salvare gli ospedali pubblici sardi e il diritto alle cure di qualità e gratuite per tutti.
E’ su quest’onda che si organizza anche il neonato Comitato “NO alla chiusura della Chirurgia Plastica e Centro Ustioni dell’Ospedale Brotzu”. Nasce dal disorientamento di cittadini da tempo assistiti nel reparto altamente qualificato del Brotzu ed oggi abbandonati in quanto in dismissione. La Struttura Complessa negli anni è divenuta un centro di eccellenza ed unico presidio nella specialità della Chirurgia Plastica Ricostruttiva e Cura delle Ustioni per il Sud Sardegna e non solo. Tutto ciò nonostante il continuo e programmato stillicidio del personale sanitario e la mancata indizione del concorso di Direttore di struttura Complessa… ruolo rimasto misteriosamente vacante sino ad oggi, in attesa che maturassero i tempi chissà per cosa e per chi.
Per incomprensibili logiche il prestigioso reparto cesserà di esistere al Brotzu determinando danno e disagio ai numerosi assistiti. I padroni della Sanità hanno deciso di trasferire il reparto dal Brotzu al Policlinico Universitario, dalla Via Peretti alla 554, così pare. Brevi distanze ma grandi differenze di appartenenza nonché di gestione economica dei colossi ospedalieri. Un travaso anomalo di titoli forse di competenza di altri poteri e sicuramente un’operazione con deficit di trasparenza.
Per chi arriva da tutta la Sardegna con malformazioni, lesioni da traumi stradali, ustioni, tumori, tra cui molti insidiosi melanomi, il problema non è di distanze ma di opportunità di continuare ad essere assistiti da quel centro con le sue professionalità.
In realtà chi può avrebbe già decretato la chiusura del reparto con la sua storia e le sue eccellenze. L’unico trasferimento reale da un ospedale all’altro, secondo il comitato degli ammalati riguarderebbe solo nomina di “Direttore di struttura Complessa…”. Per cui in questo mondo paranormale, di maghi e di demoni, più che di un trasferimento di reparto con le sue eccellenze, si tratterebbe dello scippo di una nomina di primariato.
L’operazione tra l’Azienda Sanitaria (Brotzu) e l’Università (Policlinico) sarebbe solo un diabolico escamotage di potere dove in definitiva chi non ha padroni e padrini ha la peggio. Il 1 Agosto mentre il Policlinico festeggerà la nuova acquisizione avvolta dal mistero, il Brotzu celebrerà le esequie del suo prestigioso reparto.


Il trionfo della crudeltà e della stupidità - Marco Revelli




Domenica il mondo è andato giù di nuovo. In modo più radicale, però, più definitivo, se possibile, rispetto al 4 marzo (il mondo della sinistra, intendo). Per un fattore simbolico, in primo luogo, con la scomparsa della cosiddetta “zona rossa” (che ancora, pallidamente, a marzo s’intravvedeva sia pur slabbrata), e le roccaforti della Toscana, dell’Umbria, dell’Emilia – Massa, Pisa, Siena, e poi Imola dove nacque il socialismo, e Treni siderurgica… – consegnatesi senza colpo ferire all’avversario di sempre. Gomene d’ancoraggio tagliate dal colpo di scure di Matteo Salvini e dei suoi bravi. E poi perché questo secondo crollo viene dopo più di tre mesi di gestazione del nuovo governo. Tre mesi in cui tutti i protagonisti si sono esibiti en plein air, illuminati dalla luce cruda dei riflettori mediatici. La gente ora sapeva benissimo chi votava. Sapeva di votare la “cattiveria” di Salvini, la sua politica della “crudeltà” (lo vota proprio per quello). Sapeva di votare la guerra alle navi che salvano, di “premiare” quelli che ne invocano la messa al bando e magari, nei casi estremi, che ne richiedono l’affondamento. Sapeva di approvare quell'”inversione morale” che già Minniti aveva sdoganato lo scorso anno e che ora diventa pratica conclamata del governo del cambiamento. Anzi, la cifra del cambiamento. In questa seconda “prova” il voto ha assunto il profilo dell’antica “festa crudele”.
C’è un insegnamento drammatico in tutto questo. Ed è che la “narrativa” intorno a cui si è strutturata in questi tre mesi l’opposizione al nascituro governo che oggi imperversa, non solo non ha funzionato. Ma si è rovesciata nel suo contrario: carburante nel motore “populista”. Per ottanta giorni e passa i pallidi dirigenti del Pd ma soprattutto la stampa mainstream – il “partito di Repubblica”, potremmo dire – non hanno smesso un secondo di irridere, stigmatizzare, denunciare il pressapochismo, il dilettantismo, l’impreparazione e la presunta goffaggine, la “mancanza di cultura di governo” (o di cultura tout court) dei “vincitori-non vincitori”, sfoderando sorrisetti di superiorità, senz’accorgersi che così non li si delegittimava ma al contrario li si rafforzava. Che ogni derisione dei congiuntivi mancati di Di Maio gli portava sporte di voti. Che ogni sarcasmo sul curriculum di Conte lo nobilitava anziché diminuirlo. Perché in fondo siamo un popolo senza congiuntivi. E anche senza curriculum. Dovremo inventarci una narrativa diversa – opposta – a quella snob del partito dei media perbene, se vorremo opporci all’onda nera che sale, con una resistenza “popolare”.
C’è poi un altro “insegnamento” (o monito) in questa seconda fine del mondo. Ed è la conferma di quello che Luciano Gallino chiamava il “trionfo della stupidità” (la quale, purtroppo, un peso ce l’ha negli eventi storici, e anche grande nei momenti topici). Mai come ora possiamo constatare quanta stupidità politica ci sia stata nella scelta del Pd di non tentare tutto il possibile per impedire la saldatura dell’asse Cinque Stelle-Lega: l’unica strategia politica adeguata allo scenario aperto dal voto di marzo. Cancellata con un tweet e una comparsata da Fabio Fazio del devastatore Matteo Renzi: quello che ha impresso l’immagine del suo volto come una maschera funeraria sul corpo del suo partito e dell’intera sinistra rendendola respingente per chiunque. E dall’altra parte quanta stupidità politica alligni tra gli strateghi dei 5Stelle (vero Toninelli?), per non permettergli di capire che lo spazio lasciato alla retorica del disumano di Salvini è mortale per loro. Li espone alla cannibalizzazione da parte dell’alleato-nemico. Ho ancora in mente l’immagine provocante del neo-capogruppo Pd al Senato Marcucci a pochi giorni dal voto di marzo, proclamare sogghignando “Non vedo l’ora di vedere Salvini giurare al Quirinale”, secondo la suicida strategia renziana del pop corn, cose da inseguirlo per strada con i forconi. O il neoministro alle Infrastrutture Toninelli recitare alla radio il vangelo secondo Matteo (Salvini) sulle navi salvagente delle Ong riclassificate come fuori-legge, e invitare le motovedette libiche a occuparsi loro dei naufraghi in quelle acque territoriali per riportarli a terra, come se non sapesse cosa accade in quei campi di tortura… Reintrodurre almeno un po’ d’intelligenza nella politica sarà impresa lunga e ardua, dopo questa regressione epocale.
Ma c’è qualcosa che va oltre, o sotto, la superficie della riflessione razionale sulla politica in questo voto impietoso (così privo di pietas) e distrattamente feroce. Qualcosa che va oltre i nostri stessi confini, che coinvolge un’Europa preda di nuovi nazionalismi fuori tempo insieme a un Occidente avvelenato da nuovi egoismi fuori misura che sanno di guerra. E che ha probabilmente a che fare con ciò che la discorsività democratica non dice, perché questo inedito contagio del male affonda le radici in un livello più profondo, e torbido. O incandescente. Un brillante politologo latino-americano, Benjamin Arditi, in un saggio sul populismo come “periferia interna” della politica democratica ha evocato la categoria freudiana della “terra straniera interiore” inclusa entro i confini dell’Ego, nella quale il populismo pescherebbe le proprie pulsioni: oscure paure, frustrazioni rimosse, perdita di naturalità e di coscienza di sé, tutto il non detto dell’edificante narrazione liberal-democratica. Una sorta di inconscio individuale, ma soprattutto collettivo (più junghiano che freudiano), che proietta sullo “straniero” vero, sul corpo “alieno” che viene da fuori, i propri terrori ancestrali che da sempre il nostro originario genera e che ora, caduto lo scudo protettivo del benessere e dell’ascensore sociale, si sfoga.
Il piacere di condividere lo stesso sentimento di ostilità e di vero e proprio odio nei confronti di una figura “aliena”, che circola come una corrente elettrica sfrigolando sottopelle nelle nostre declinanti società, assomiglia molto a quello che animava le “società istantanee che nascono in occasione di un linciaggio” descritte da Sartre a proposito dell’antisemitismo: la folla con cui in contesti sociali fortemente gerarchizzati, si costruivano effimere “comunità egualitarie”, cementate provvisoriamente da scariche di passioni comuni che permettevano, per il breve istante dell’odio, al cocchiere antidreyfusardo descritto da Proust di assimilarsi al duca che conduceva in carrozza in nome del comune disprezzo per l’ufficiale giudeo. Così come il contagio virale dell’odio a cui assistiamo in questi giorni, in questi mesi, ricorda da vicino quello descritto da Horkheimer e Adorno a proposito della persecuzione degli ebrei, con il suo contagioso e travolgente “appello all’idiosincrasia”: al riflesso inconscio e incosciente che si esprime nella reazione di pancia, ripetendo, per così dire, “i momenti della preistoria biologica: segnali di pericolo a cui si rizzavano i capelli e il cuore si fermava nel petto”, con “l’io che si apprende con queste reazioni” di cui non è interamente padrone, “come nell’accapponarsi della pelle, nell’irrigidirsi dei muscoli e degli arti” alla vista dell'”alterità” che incarna a sua volta, nei tratti somatici o nell’atteggiamento, la propria estraneità a un codice di disciplinamento e di coazione della propria natura a cui ci si è un tempo sacrificati.
E’ una sfida – questa dell’ “idiosincrasia razionalizzata” – che parla della nostra alienazione umana (di un disagio radicale dell’esistenza), prima che della nostra incapacità politica. Che nel suo ripetere ossessivo “perché a loro sì e a me no”, rievoca una rimossa rinuncia a sé – a un’antica naturalità cancellata dal disciplinamento del lavoro razionalizzato e dal dominio – di cui si richiede con odio all’altro, con la sua negazione sacrificale, un risarcimento tardivo. Esattamente come nel meccanismo descritto da Sarte ritorna, aggressivo, il fantasma di un’eguaglianza reale perduta, forse un tempo creduta, ma ora non più sperata. In entrambi i casi, ritorna profetica l’affermazione di Walter Benjamin secondo cui dietro ogni ritornante fascismo c’è una rivoluzione fallita. E forse, prima di metterci a ricostruire una sinistra così sinistrata, avremmo bisogno tutti di un buon trattamento mentale, se vogliamo esorcizzare queste baccanti feroci che minacciano di squartare la nostra democrazia.
[Versione ampliata dell’articolo Il voto come un’antica festa crudele. Vince la cattiveria, pubblicato sul Manifesto del 27 giugno 2018]

mercoledì 18 luglio 2018

i famosi 35 euro a persona


…i discussi 35 euro a persona, fuoco di tante polemiche. Contrariamente a ciò che ancora troppo spesso si crede – è scritto nel dossier – soltanto 2 euro e 50 centesimi vanno direttamente alle persone accolte (che comunque spendono sul territorio per soddisfare le prime basilari necessità). Il restante, ovvero oltre il 92% del finanziamento, viene usato dal privato che gestisce centri. Fondi pubblici che vengono spesi per l’accoglienza che, se di qualità, ritornano alla comunità ospitante. Un dato evidente – spiega il rapporto – se si pensa che l’accoglienza straordinaria dovrebbe portare quando ben gestita a quasi un miliardo di euro in tutta Italia per creare direttamente nuovi posti di lavoro, senza contare un indotto stimabile in un altro miliardo di euro ogni anno. Solo le spese per il personale direttamente connesso all’accoglienza straordinaria possono creare in Italia, escludendo l’indotto, oltre 36.000 posti di lavoro qualificati…

La storia nascosta delle donne - John Pilger



Come tutte le società coloniali, l’Australia ha i suoi segreti. Il modo in cui trattiamo gli Indigeni, è ancora un segreto. Per molto tempo, il fatto che molti australiani provenissero da quella che si chiamava “non una buona famiglia”era un segreto. L’espressione “non di buona famiglia” indicava gli antenati detenuti, quelli come la mia trisnonna, Mary Palmer che era stata messa in carcere qui, alla Fabbrica Femminile di  Parramatta nel 1823.
Secondo le sciocchezze inventate da numerose zie – che avevano affascinanti ambizioni borghesi, Mary Palmer e l’uomo che aveva sposato, Francis McCarthy, erano una signora e un gentiluomo che erano vittoriani sia per le loro proprietà che per i loro decoro. Maria, invece, era il membro più giovane di una “banda” di giovani donne ribelli, per lo più irlandesi, che operavano nell’East End di Londra. Conosciute come “Le Furfanti” tenevano alla larga la povertà con i ricavi della prostituzione e di piccoli furti. “Le Furfanti” prima o dopo venneroarrestate e processate e impiccate, tranne Mary che fu risparmiata perché era incinta.
Aveva soltanto sedici anni quando venne ammanettata nella stiva di una nave a vela, la “Lord Sidmouth”, diretta nel Nuovo Galles del Sud (Australia) “fino al termine della sua vita naturale”, disse il giudice.
Il viaggio per mare durò cinque mesi, un purgatorio di nausee  e di disperazione. So che stava così, perché alcuni anni fa, ho scoperto uno straordinario rituale, nella Cattedrale di St Mary, a Sydney.
Ogni giovedì, in sagrestia, una suora sfogliava le pagine di un registro di detenuti irlandesi Cattolici e c’era Mary, descritta come: “non più alta di quattro piedi (1,21 metri), molto magra e butterata di segni del vaiolo”.
Quando la nave di Mary attraccò nella baia di Sydney, nessuno la richiese come domestica o sguattera. Era una detenuta di “terza classe” e fatta della sostanza infiammabile dell’Irlanda”. Il suo neonato era sopravvissuto al viaggio per mare? Non lo so.
La mandarono lungo il fiume Parramatta alla Fabbrica Femminile che si era distinta come uno dei luoghi dove gli esperti penali vittoriani stavano verificando nuove ed eccitanti teorie. Il mulino azionato a mano mediante una ruota era stato introdotto nell’anno in cui arrivò Maria, il 1823. È stato uno strumento di punizione e di tortura.
La rivista The Cumberland Pilgrim (il Cumberland è una contea nella regione del New South Wales, in Australia, ndt) descriveva la Fabbrica Femminile come “spaventosamente orribile… gli spazi di ricreazione ricordavano la Valle dell’Ombra della Morte”.
Maria arrivò di notte e non aveva nulla su cui dormire: soltanto assi di legno, e pietre e paglia, e lana sporca piena di zecche e ragni. Tutte le donne erano costrette all’isolamento. La loro testa veniva rasata e venivano chiuse a chiave al buio totale e con il ronzio delle zanzare.
Non c’era una divisione in base all’età o al reato. Mary e le altre donne venivano chiamate “le indocili”. Con un misto di orrore e di ammirazione, il Procuratore Generale dell’epoca, Roger Terry, descriveva come le donne “avevano respinto con una scarica di pietre e bastonate” i soldati inviati a sedare la loro ribellione. Più di una volta, hanno sfondato i muti di arenaria e hanno assaltato la comunità di Parramatta. Anche i missionari, mandati dall’Inghilterra per “riparare” l’anima delle donne, venivano quasi ignorati.
Sono così orgoglioso di lei.
C’era, poi, il “giorno  del corteggiamento”. Una volta a settimana, a dei “signori soli” (chiunque potessero essere) veniva data la possibilità di scegliere per primi, seguiti dai soldati, e poi da detenuti.
Alcune delle donne trovavano dei vestiti eleganti  e si agghindavano subito, come se un uomo che le esaminava potesse fornire loro una via d’uscita dalla loro difficile situazione. Altre voltavano le spalle, nel caso che l’aspirante compagno fosse un “tizio anziano rozzo” che arrivava da una zona rurale sottosviluppata.
Durante questo incontro, la “matrona” urlava “i  lati positivi” di ogni donna, che erano una rivelazione per tutti.
In questo modo i miei trisnonni si conobbero. Credo che fossero bene abbinati.
Francis McCarthy era stato trasportato dall’Irlanda per il reato di “avere pronunciato imprecazioni proibite contro il suo signore inglese”. Questa era l’accusa  rivolta ai Tolpuddle Martyrs. *
Sono così orgoglioso di lui.
Mary e Francis si sono sposati nella Chiesa di St Mary, in seguito diventata Cattedrale di St Mary, il 9 novembre del 1923, insieme al altre quattro coppie di detenuti. Otto anni dopo, fu loro garantito il permesso di scarcerazione  e a Mary il “perdono condizionato”, da parte di un certo Colonnello Snodgrass, Capitano Genrale del Nuovo Galles del Sud,  con la condizione che non poteva più lasciare la colonia.
Mary ha dato alla luce dieci figli che hanno trascorso le loro difficili vite amati e rispettati a detta di tutti, fino al loro novantesimo anno.
Mia madre conosceva il segreto di Mary e Francis. Il giorno del suo matrimonio, nel 1922, e disobbedendo alla sua famiglia, lei e mio padre vennero tra queste mura per rendere omaggio a Mary e alle “intrattabili”. Mia madre era fiera della sua “stirpe non buona” .
Talvolta mi chiedo: “dove è, oggi, questo spirito? Dov’è lo spirito delle intrattabili tra coloro che sostengono di rappresentarci e tra quelli di noi che accettano, in silenzio servile, il conformismo sociale che è tipico di gran parte dell’era moderna nei cosiddetti paesi in via di sviluppo?”. Dove sono quelli tra di noi pronti a “pronunciare giuramenti illegittimi” e ad affrontare i despoti e i ciarlatani nei governi che glorificano la guerra, che si inventano nemici stranieri, che criminalizzano il dissenso e che maltrattano i rifugiati vulnerabili che arrivano su quelle coste e vigliaccamente li chiamano “clandestini”.
Mary Palmer era “clandestina”. Francis McCarthy era “clandestino”. Tutte le donne che sono sopravvissute alla Fabbrica Femminile e che si sono battute contro l’autorità, erano “clandestine”.
Il ricordo del loro coraggio, della loro capacità di ripresa e resistenza, dovrebbero essere lodate, non calunniate, nel modo in cui facciamo oggi. Infatti, soltanto quando riconosceremo l’unicità del nostro passato – del nostro passato indigeno – e il nostro passato di detenuti orgogliosi – la nostra nazione raggiungerà la vera indipendenza.

Intervento al 200° anniversario della creazione della Fabbrica Femminile di Parramatta, a Sydney, una prigione dove le donne detenute ‘intrattabili’ provenienti per lo più dall’Irlanda e dall’Inghilterra, venivano mandate nella colonia australiana della Gran Bretagna all’inizio del 19°secolo.

Fonte: zcomm.org. Traduzione di Maria Chiara Starace (© 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons  CC BY NC-SA 3.0) per znetitaly.org