Ho saputo che nel campo estivo che frequenterà mio figlio di sette anni ci sarà anche un bambino down. Come posso prepararlo a giocare con lui? –Giada
La prima cosa da fare è non definirlo un bambino down. “Papà, che vuol dire
handicappato?”, mi ha chiesto mio figlio pochi giorni dopo il nostro trasloco
in Italia. “È un modo antiquato e poco rispettoso di dire bambino con
disabilità”. “Ma è anche un insulto?”, ha continuato. “Certa gente purtroppo lo
usa per insultare gli altri, sì, per dirgli che sono poco intelligenti. Ed è un
modo profondamente violento di parlare”. Questo breve scambio di battute è
diventato l’occasione per spiegare a mio figlio l’importanza delle parole che
scegliamo quando parliamo degli altri.
Gli ho insegnato che dire “un bambino down” non è corretto, perché bisogna
dire “un bambino con la sindrome di down”. “Una disabilità non definisce una
persona. Non si dice un bambino gamba-rotta, ma un bambino con la gamba rotta,
no? E allora non bisogna dire neanche un bambino autistico, ma un bambino con
l’autismo”. È una semplice parolina in più, che però fa una grande differenza.
Me ne sono reso conto quando anni fa ho sentito una mamma dire che in
classe di sua figlia c’era un down. Non un bambino, quindi, ma un essere di
natura diversa, identificato dalla sua malattia. A tuo figlio puoi certamente
spiegare cos’è la sindrome di down e puoi fargli notare che i bambini, pur
essendo in qualche modo tutti diversi l’uno dall’altro, sono comunque tutti
bambini. L’importante è cercare di parlargliene con le parole giuste.
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