lunedì 29 gennaio 2018

Il riso che doveva salvare il mondo - Silvia Ribeiro

Non potete non riconoscere i risultati degli studi scientifici! Ve lo ricordate l’appello di 110 premi Nobel per promuovere il golden rice Ogm che, con un’alta percentuale di vitamina A, avrebbe risolto per sempre il problema mondiale della malnutrizione? Da quell’appello sono trascorsi quasi due anni ma né gli scienziati, né la Syngenta che lo ha brevettato, sono riusciti a produrre una linea stabile di “riso dorato” che soddisfi i benefici che gli erano stati attribuiti. C’è di più: gli esperimenti sul campo realizzati lo scorso anno in India, la costruzione transgenica trasferita in una delle migliori varietà [di riso] del paese, ha danneggiato in maniera significativa la produttività e la qualità del riso. Il riso che ne è risultato atrofizza le coltivazioni, presentava sì la pro-vitamina A, ma la resa è diminuita drasticamente, con piante nane, foglie pallide, pochissimi grani e radici laterali anormali. Non sempre l’esperienza “scientifica” concreta si piega alle ragioni della propaganda, nemmeno di quella più insigne.

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Il cosiddetto “riso dorato” è uno dei miti più costosi dell’industria biotecnologica, utilizzato per tentare di cambiare il rifiuto generalizzato nei confronti degli OGM. Lo presentano come l’archetipo del “transgenico buono” perché è un riso che presenta un precursore della vitamina A, la cui mancanza è una significativa carenza per molte persone che soffrono di malnutrizione e che, in casi estremi, può portare alla cecità. I suoi promotori non sono riusciti a provare che nella pratica serva realmente ad apportare la vitamina A. Inoltre, nel 2017, in India gli scienziati hanno dato conto di un esperimento sul campo che ha dimostrato come l’inserimento nel riso di questa costruzione transgenica, abbia fatto calare il rendimento e la qualità della coltivazione tanto che il raccolto è risultato inutilizzabile.
Il cosiddetto “riso dorato” è stato abbondantemente usato come arma di propaganda. Nel 2016, una lettera – per nulla scientifica – firmata da un centinaio di Premi Nobel è stata forse l’esempio più significativo della manipolazione fatta dall’industria dei transgenici con questo riso. La lettera è piena di falsità, che dovrebbero far vergognare quelli che l’hanno firmata e quelli che continuano a citarla come se fosse un documento serio.
Non sorprende questo tipo di campagne da parte dell’industria agro-biotecnologica, dove ci sono imprese come la Monsanto, nei cui confronti sono stati provati anche casi di corruzione al fine di far approvare i suoi prodotti, ad esempio in Indonesia. Ciò che in questo caso sorprende, è che il “riso dorato” sotto l’aspetto funzionale non esiste, poiché né gli scienziati che lo promuovono, né la Syngenta che lo ha brevettato, sono finora riusciti a produrre una linea stabile di “riso dorato” che soddisfi i benefici che gli si attribuiscono.

A questo va aggiunto che, nel 2017, in esperimenti sul campo realizzati in India, la costruzione transgenica trasferita in una delle migliori varietà [di riso] di questo paese, ha danneggiato in maniera significativa la produttività e la qualità del riso. Un team di scienziati ha realizzato uno studio introducendo i tratti transgenici per ottenere “riso dorato” con la varietà Swarna, una delle varietà più produttive dell’India. Il riso che ne è risultato, presentava la pro-vitamina A, ma la resa è diminuita drasticamente, con piante nane, foglie pallide, pochissimi grani e radici laterali anormali.
Dopo dettagliate analisi, il team ha concluso che l’atrofia delle piante era dovuta all’interferenza della costruzione transgenica del “riso dorato” con la produzione delle auxine, ormoni vegetali propri del riso che ne favoriscono la crescita.
A questo proposito, la Dott.ssa Allison Wilson, in un articolo sull’Indipendent Science News dell’ottobre 2017, ritiene che con impatti imprevisti di tale gravità, sia ora di dire addio a questo costoso e fallimentare esperimento.
Quelli che promuovono i transgenici assicurano che, se non si è riusciti a commercializzare questo riso, è stato per l’opposizione delle organizzazioni ambientaliste verso i transgenici, che avrebbe impedito ai bambini del terzo mondo di accedervi. La realtà, afferma Wilson, è che dopo due decenni e malgrado un’enorme quantità di risorse, tempo e sostegno finanziario, inusitati per qualsiasi ricercatore pubblico, risulta chiaro che “sono i problemi intrinseci allo sviluppo degli OGM” che ne hanno impedito la commercializzazione. Secondo il Dott. Jonathan Latham, direttore del Bioscience Resource Project e citato nello stesso articolo, “il “riso dorato” della Syngenta ha causato un collasso metabolico [nel riso dell’India]…Le classiche critiche verso l’ingegneria genetica nello sviluppo delle coltivazioni si basano da un lato sul fatto che il DNA estraneo introdotto altera le sequenze genetiche originarie e dall’altro sul fatto che ci saranno delle interferenze imprevedibili del normale metabolismo delle piante. L’esperienza con il “riso dorato” esemplifica alla perfezione entrambi i difetti”.
Questo è il problema fondamentale dell’ingegneria metabolica, afferma Wilson. Sembra essere più facile alterare artificialmente il metabolismo delle piante -per esempio affinché producano il precursore della vitamina A- anziché controllare che, allo stesso tempo, non si verifichino alterazioni impreviste, con effetti negativi sullo sviluppo delle coltivazioni.
Il denominatore comune degli esperimenti con l’ingegneria genetica, i transgenici e il cosiddetto “editing genomico” è l’approccio straordinariamente e intenzionalmente ristretto nel valutare sia i problemi che si presume vogliano risolvere che i mezzi per raggiungere tale obiettivo.
Per esempio, ci si concentra solo sulla carenza di vitamina A, isolandola dalla situazione generale di povertà e malnutrizione (che provoca molte altre carenze) di coloro che ne soffrono. Nelle Filippine -paese in cui si coltiva il “riso dorato”- , le campagne per migliorare l’alimentazione, tornando a integrare verdure e riso tradizionali nella dieta, hanno dato eccellenti risultati nel coprire in modo duraturo la carenza di vitamina A, con un costo di gran lunga inferiore. Non è nemmeno più considerato un problema di salute pubblica.
La “soluzione tecnologica” proposta dall’industria e dai biotecnologi, ignora per di più (oppure, ovviamente, in maniera intenzionale) la complessità dei genomi e le loro interazioni all’interno degli organismi e nella coevoluzione con gli agrosistemi e gli ecosistemi, producendo aberrazioni, come è successo con una delle più produttive varietà di riso dell’India.
Per tutto questo, è assurdo che in Messico, imprenditori-biotecnologi come F. Bolívar Zapata, Luis Herrera Estrella e A. López Munguía, utilizzino il mito del “riso dorato” come esempio per difendere la semina, in Messico, di mais transgenico. Non convincono nessuno -o forse qualche disinformato - però fanno un buon servizio a Monsanto e Syngenta (https://tinyurl.com/y8auu5qq).

martedì 23 gennaio 2018

Serifou non ricorda più le sillabe - Lino Di Gianni

Serifou ha dimenticato tutte le sillabe, nelle vacanze di Natale. Succede sempre così, con le cose delicate. Basta interrompere le attenzioni e qualcosa si arresta. Il suo amico Moussa invece, molto più giovane, adesso è lanciato nella lettura delle frasi, e non si stanca di mettere a posto le schede, per riguardarle. Quando uno non sa leggere, tutte le parole nuove deve tenerle a mente.
Serifou ha due bambini da seguire, una di nove anni con grosso handicap di udito. Lui l’ha portata qui per farla operare, per avere una vita migliore per tutta la famiglia, per curarsi le ossa della gamba che hanno una grave malattia.
Nelle ore in cui c’è Serifou arrivano anche molti altri rifugiati, sono contenti di venire, dicono. Io cerco di capire chi legge sillabe, chi legge parole, chi ha la mente agile. Ad esempio un ragazzo molto giovane, completamente analfabeta, lo sguardo pesante e indolente, nel tentare di ricordare le lettere dell’alfabeto. Uso il gioco del Tris per vedere le capacità logiche, e incredibilmente batte tutti segnando i suoi tre simboli alla lavagna: ha elaborato una strategia per cui si procura, contemporaneamente due possibilità di vincita. E vince contro tutti, anche contro di me.
Mi piace vedere quando chiedo a qualcuno di far da maestro a un suo compagno: si parlano in Bambarà e si prendono molto sul serio.
Nelle due ore successive, gruppo totalmente diverso, livello più elevato di studi, qualcuna laureata, qualcuna scuole superiori: diverse donne della Romania che tentano di conciliare i lavori di cura della famiglia con i loro spazi di studio.
Mi sembrano chiuse, tra di loro, queste persone dei paesi dell’Est: forse hanno paura di essere invischiate in amicizie che non desiderano. Eppure si sente che per loro la cultura e la conoscenza della lingua sono ancora valori importanti, anche per non essere inchiodate al ruolo di operaie nel settore più nocivo della locale fabbrica di motoscafi di lusso, quello delle resine. O di parrucchiere oppure di badanti.
Queste donne corrono da tutte le parti, si sposano giovani e fanno figli, e con la volontà stanno dietro a tutto, vere impalcature e sistema nervoso delle migrazioni. Qualcuna dice per amore, qualcuna per cercare lavoro, ma quando hanno un figlio è per lui che faticano e sperano.

lunedì 22 gennaio 2018

Lunga vita alle cose.Tremano i mercanti - Francesco Gesualdi

La notizia è del 28 dicembre ed è di quelle destinate a fare storia, non tanto per la sua rilevanza penale, quanto per i suoi risvolti culturali, economici, ambientali. Di scena è la Procura di Nanterre che ha deciso di aprire un fascicolo a carico di Epson, Brother, Canon e HP, multinazionali di apparecchiature informatiche sospettate di obsolescenza programmata.
Una pratica largamente in uso in tutto il mondo ma che in Francia è proibita dal 2015, con pene che possono arrivare fino a due anni di reclusione. E dire che nel 1932, tale Bernard London aveva proposto di renderla obbligatoria per legge, come strategia per rilanciare i consumi durante gli anni della grande depressione.
Dal latino obsolescens, traducibile come invecchiamento, perdita di funzionalità, l’obsolescenza programmata consiste nel progettare oggetti con tempi di vita predeterminati. Una vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti dei consumatori lanciata per la prima volta da un gruppo di imprese produttrici di materiale elettrico che per assicurarsi la vittoria non esitò ad allearsi in un cartello denominato Phoebus. L’atto di nascita avvenne il 23 dicembre 1924 in un sontuoso hotel di Ginevra dove si incontrarono i dirigenti delle principali imprese mondiali di lampadine. Constatato che le vendite languivano a causa di lampadine capaci di durare fino a 2.500 ore, decisero di accordarsi su modelli che non durassero oltre le 1.000 ore. Un patto di ferro che impegnava ogni impresa a  test preventivi di cattiva qualità prima del lancio di ogni nuovo prodotto.
Il caso fece scuola e l’obsolescenza programmata si estese a molti altri settori, ciascuno con le proprie strategie di usura e di scoraggiamento alla riparazione. Ora utilizzando metalli ad arrugginimento precoce, ora cerniere di facile inceppamento, ora batterie di breve durata nascoste in alloggiamenti sigillati. Quanto alle stampanti, l’associazione francese Hop, da cui la Procura di Nanterre ha preso spunto, ha denunciato che la turlupinatura più frequente si annida nei microprocessori. Molti di loro arrestano il sistema dopo un numero di fotocopie troppo basso, quando nelle cartucce c’è ancora il 20 per cento di inchiostro.

Il 9 giugno 2017 anche il Parlamento Europeo si è espresso contro l’obsolescenza programmata ed ha invitato la Commissione Europea ad adottare tutte le misure che servono per incoraggiare le imprese ad uniformarsi a criteri di robustezza, riparabilità e durata. Una scelta motivata non solo dalla volontà di evitare ai consumatori inutili spese, ma soprattutto di evitare al pianeta inutili saccheggi e contaminazioni. Vari studi hanno dimostrato che allungando la vita degli oggetti si possono ottenere sensibili riduzioni di rifiuti solidi e di anidride carbonica.
Uno dei settori che genera prodotti a vita particolarmente breve è quello dell’elettronica.Fra telefonini, stampanti e computer ogni anno nel mondo si producono oltre 40 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, per la maggior parte classificabili come rischiosi. Una categoria di rifiuti che come denuncia la Laudato sii alimenta un vasto traffico illegale verso i paesi del Sud del mondo. Ma nessun governo ha mai mobilitato il proprio esercito per arrestarlo. Si stima che ogni anno oltre 11 milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi salpino illegalmente verso le coste africane e asiatiche, dando luogo a immense discariche a cielo aperto. Una delle più grandi è quella di Agbogbloshie, un’estensione di due ettari posta alla periferia di Accra, capitale del Ghana. La piana, cosparsa di televisori, computer, stampanti e ogni altro tipo di carcassa elettronica, è contornata da una vasta baraccopoli in cui si consuma una tale violenza da essere stata battezzata Sodoma e Gomorra. Molti dei 40.000 abitanti della baraccopoli, bambini compresi, passano le loro giornate nella discarica cercando di recuperare ogni sorta di minerale possibile. E siccome la tecnica per liberare i minerali dalla plastica è il fuoco, tutta l’area è avvolta da una cappa di fumo ripieno di diossina e ogni altro veleno che genera tumori in ogni dove. Da Taranto ad Accra: così il consumo di cose si trasforma in consumo di persone.
Tanti sono i cambiamenti da introdurre per consentire a ogni abitante del pianeta di poter vivere dignitosamente del proprio lavoro svolto in condizioni di dignità, sicurezza e sostenibilità. Ma un modo è anche quello di combattere l’obsolescenza, che prima di essere un attacco alla vita delle cose è un attacco alla felicità delle persone, condannati come siamo alla frustrazione perenne di chi è costantemente incalzato da nuove sollecitazioni. Del resto già nel 1917, Charles Kettering, direttore di prim’ora della General Motors, ci aveva avvertito: “La chiave della prosperità economica è la creazione organizzata dell’insoddisfazione”. Ma l’infelicità è un prezzo troppo alto da pagare sull’altare della crescita. E’ tempo di cominciare a liberarci dall’insoddisfazione cronica pretendendo oggetti fatti per durare ed essere riparati. Ci guadagneremo in salute, sostenibilità ed occupazione.

domenica 21 gennaio 2018

Il prezzo dell’oro amazzonico - Francesco Gesualdi

Il 19 gennaio Papa Francesco sarà a Puerto Maldonado, città a sud del Perù sulle sponde di Madre de Dios, un corso d’acqua proveniente dal versante est delle Ande e affluente del fiume Beni dopo un viaggio di oltre mille chilometri per la foresta amazzonica. Va ad incontrare la Chiesa locale e le popolazioni dell’Amazzonia.

Di vitale importanza per il clima globale e custode di biodiversità e altri valori inestimabili, la ricchezza dell’Amazzonia è anche causa del suo declino. Dagli anni sessanta del secolo scorso le imprese possono penetrare al suo interno e portarsi via ciò che desiderano. Fra esse quelle minerarie ansiose di prendersi ferro, carbone, bauxite e molti altri minerali di cui il sottosuolo amazzonico era e continua ad essere ricco. Anche nella foresta attorno a Puerto Maldonado arrivarono le imprese estrattive attratte dalla presenza di oro. E se inizialmente il loro interesse era limitato ai giacimenti a maggior concentrazione, col tempo capirono che il prezioso minerale si trovava diffuso in tutta l’area, per recuperarlo bastava setacciare la zona. Un compito arduo e costoso, ma le imprese sapevano come fare per garantire i profitti per se e scaricare i costi sulle spalle di altri. Proposero alla popolazione locale di trasformarsi in cercatori d’oro con l’impegno a rivendere alle imprese proponenti tutto ciò che trovavano. Così nacque la figura del minatore artigiano, imprenditore di se stesso che per mettere insieme qualche grammo di oro è disposto allo sfruttamento di se stesso e dei propri figli considerato che il 20% dei cercatori d’oro sono minori.

La notizia della nuova formula occupazionale si sparse per tutto il Perù e Puerto Maldonado venne presa d’assalto da migliaia di forestieri attratti dalla fortuna dell’oro. La legge imporrebbe ad ogni minatore di iscriversi in un apposito registro, ma sono sconsigliati dal farlo perché non conviene alle imprese. Per loro l’economia illegale è più vantaggiosa: possono evadere il fisco ed evitare ogni altro obbligo sociale e ambientale richiesto dalla legge. In conclusione a Puerto Maldonado si è strutturato un sistema di reclutamento in nero che impone ai malcapitati perfino di rinunciare al proprio nome. Per cancellare ogni traccia di sé, si fanno chiamare col soprannome imposto dal caporale: smilzo, cileno, gatto selvatico e qualsiasi altro nomignolo che la fantasia può partorire. Loro ci mettono il lavoro, l’organizzazione l’attrezzatura, le sostanze chimiche e quant’altro serve alla perlustrazione.
  
Padre Xavier Arbex, che da anni si dedica ai minatori irregolari, parla di condizioni indicibili non solo per gli orari estenuanti e per il rischio di malattie e infortuni, ma per la possibilità di perdere la vita stessa. Non pochi, infatti, scompaiono, inghiottiti dalla foresta, forse solo per avere minacciato di autodenunciarsi alle autorità competenti. Purtroppo al dramma sociale si aggiunge quello ambientale per lo sversamento nei fiumi e nel terreno di montagne di olio esausto usato dalle imbarcazioni, di montagne di mercurio usato per l’amalgama dell’oro, di montagne di detriti prodotti durante l’esplorazione: un paio di tonnellate per ogni grammo di oro. Ed è proprio la questione ambientale a generare conflitti con le imprese minerarie non solo in Amazzonia, ma nell’intero Perù, considerato che l’attività estrattiva è diffusa in tutto il paese.

Secondo produttore al mondo di argento, zinco, rame e sesto di oro, il Perù conta 50mila concessioni minerarie estese su 21 milioni di ettari, il 14% del suolo nazionale. E se contribuiscono al 15% del prodotto interno lordo e al 60% delle esportazioni, il loro contributo all’occupazione è piuttosto modesto mentre è alto l’impatto ambientale per l’avvelenamento delle acque con metalli pesanti e la contaminazione dell’aria con polveri sottili. Ogni anno in Perù si contano centinaia di conflitti e di proteste popolari contro le imprese minerarie non solo per gli attentati alla salute, ma anche per i contenziosi legati alla terra. In un paese in cui i titoli di proprietà sono molto aleatori, le imprese hanno buon gioco a produrre documenti artefatti che permettono di sottrarre abusivamente terra ai contadini.

L’industria mineraria è in ripresa in tutta l’America Latina e ovunque si registrano i contraccolpi di un’attività organizzata per il beneficio di pochi a danno di molti. Spesso gli unici a recepire il grido di dolore dei poveri sono i gruppi ecclesiastici, che per svolgere un’azione più incisiva a sostegno del ripristino dei diritti calpestati, si sono coordinati in una rete continentale denominata Red Iglesia y minéria. In vista della visita del Papa in America Latina, la Rete gli ha inviato una lunga missiva in cui riepiloga gli abusi sociali e ambientali sofferti dalla popolazione a causa dell’attività mineraria. La speranza è che la sua presenza e il suo magistero possano suscitare senso di responsabilità nelle imprese e nei governi.

sabato 20 gennaio 2018

I piedi nella sabbia, a sud della Libia - Mauro Armanino

C’è lei, la sabbia, di cui siamo creature. C’è lei, la polvere, che si rifugia nelle borse, nelle scarpe e soprattutto negli occhi di coloro che poco sanno del grande SUD. C’è lei, l’acqua salata, delle lacrime e del mare che le inghiotte come fa la notte col tramonto della civiltà che si spegne accanto al pozzo. L’ultimo, battezzato ESPOIR è controllato dai militari che spiano i punti di ristoro dei viaggiatori di sabbia. I pozzi armati sono l’ultimo ritrovato nel variegato panorama del deserto. L’acqua è detenuta perché illegale.
Ci siamo noi, sconosciuti fino a qualche mese fa, al SUD della LIBIA, e d’improvviso ricercati per interposta persona. Terra di mezzo per la ‘spartenza’ di quanti, incoscienti e pazzi e profeti, si azzardano a indossare la sabbia, la polvere e infine il mare come padrini dell’umana arroganza. Corteggiano i muri, disabitati, delle rive che si ‘sguardano’ senza vedersi. Ci sono loro, nomi, volti, storie e follie da esportare agli stolti che pensano di salvarsi senza lacrime di perdono. Hanno sepolto i loro documenti per non tornare indietro.
Ci sono le bandiere degli eserciti e delle multinazionali dell’estrazione della fecondità della terra. Strade che le carovane hanno dimenticato e quelle che i mercanti e i contrabbandieri inventano ogni notte. Si fanno prove quotidiane di occupazione coi droni armati e le piste di atterraggio per le operazioni militari. Ci sono i bambini che giocano con la vita senza contare i giorni del calendario buttato viaCi sono le elezioni truccate e confermate dagli osservatori internazionali. Ci sono i rifugiati riportati indietro dalla prigioni della Libia.
Ci sono loro, i vulnerabili scoperti dal servizio della CNN sugli schiavi africani che tanto ha scandalizzato. Come se nessuno sapesse o fosse per pura fatalità che migliaia di persone erano imprigionate e vendute e comprate dal mondo umanitario che solo quello attende. Arrivano i nostri coi viaggi di salvezza in aereo e meno male che c’è il Niger, appena sotto il Sud della Libia. Dare lavoro alle ONG e pagare gli onerosi affitti per le case adibite a spazio di transito o meglio di attesa. Tra non molto si troveranno in un altro paese.
C’è la stabilità garantita e fragile dell’assedio che il vento organizza ogni mattina. Le frontiere sono l’invenzione più spudorata della civiltà occidentale. I valli romani al confronto sono giardini recintati per passare le ferie in tranquillità. Oggi sono un grande business perché si creano, si vendono e soprattutto si difendono dai viaggiatori senza biglietto di ritorno. A sud della Libia c’è la frontiera dell’Italia e dell’Europa che conta i secoli del passato e i giorni del futuro. La civilizzazione e la demografia vanno assieme.
Ci sono coloro che viaggiano senza sapere. Messi da parte durante i controlli della polizia e della dogana. Migranti, li chiamano, o potenziali irregolari, illegali, criminali che osano sfidare il destino e dare l’assalto al cielo. Li derubano dopo averli prima perquisiti e poi detenuti in attesa di espulsione. Cose d’altro mondo e inconcepibili solo fino a qualche anno fa. Tutto si è deciso altrove coi soldi e le politiche che hanno fabbricato la clandestinità. Cittadini si diventa ma uomini e donne si nasce per diritto di abitabilità terrena.
Qui, a Sud della Libia, stiamo coi piedi per terra, anzi, nella sabbia. Vi facciamo credere di aver vinto la battaglia senza colpo ferire. Soldi, ricatti, commerci e minacce. Immaginatelo pure e venite a controllare i vostri piani di sviluppo coloniale. Avrete l’impressione che tanto, alla fine, vi ringrazieremo per le vostre elemosine umanitarie. Manderete fotografi, giornalisti e ministri per tagliare il nastro di una conquista senza vincitori. Quando meno lo aspettate torneranno tutti, gli assetati del deserto, i perduti nella polvere e i sepolti nel mare. Verranno portando in silenzio la dignità che ci avete rubata.
Niamey, gennaio 017

venerdì 12 gennaio 2018

Marco Astorri. La plastica del futuro



Una plastica biodegradabile per pulire il mare dal petrolio - Edoardo Quartale

Marco Astorri, imprenditore bolognese, è ideatore di Minerv Biorecovery, una plastica naturale e biodegradabile, presentata lo scorso giugno a Bologna in occasione del G7 Ambiente. Una nuova tecnologia potenzialmente in grado di mitigare alcuni dei danni ambientali causati dall’uomo, come lo sversamento di idrocarburi in mare. Della scoperta ne ha parlato lo stesso Astorri lo scorso 18 novembre ad Ancona, nel corso dell’evento “21 Minuti Avant-garde. Un’economia sostenibile”, organizzato dalla Fondazione Paoletti.  

“Un progetto cominciato un paio di anni fa, e come tutte le cose rivoluzionarie nato un po’ per caso” - spiega Astorri, che continua - Era il 2015 e stavamo sviluppando l’utilizzo di questo biopolimero in un altro ambito, quello della cosmesi, per cercare di sostituire le particelle di plastica presenti nei cosmetici. Abbiamo così iniziato a sviluppare delle molecole particolari di biopolimero, cercando di capire se fossero in grado di risvegliare alcuni batteri presenti in natura da sempre, soprattutto nei mari. Questi batteri, che di fatto mangiano gli idrocarburi, tra cui il petrolio, non sono tuttavia in grado di risvegliarsi così facilmente. Minerv riesce invece a riattivare questi batteri accelerando l’intero processo e a ripulire il mare dai danni da sversamento nell’arco di circa venti-trenta giorni”.  

Insomma un italiano ha reinventato la plastica, e lo ha fatto proprio nel territorio dove un altro italiano, Giulio Natta, aveva inventato la plastica per come la conosciamo oggi più di sessant’anni fa. Una plastica che non solo non è fatta di petrolio, ma che il petrolio se lo mangia. Un prodotto naturale al 100%, ottenuto a partire da scarti agricoli di realtà limitrofe all’azienda. Bio-on rappresenta infatti un esempio importante di economia circolare nel panorama italiano ed europeo.  
“Siamo partiti dalle barbabietole, per poi scoprire che si poteva fare la stessa cosa con la canna da zucchero, con gli scarti delle patate e della frutta. Scarti non più utilizzabili per l’industria alimentare che venivano dispersi nell’ambiente - spiega Astorri, che continua - Abbiamo dunque sviluppato un processo industriale completamente green, che ha visto l’abbandono della vecchia chimica pesante”. Astorri è infatti convinto che la natura rappresenti il futuro della chimica moderna: “Il fatto che dal dopoguerra l’uomo abbia fatto un uso sbagliato della chimica è un incidente di percorso. Bisogna dunque fare un passo indietro e tornare ad utilizzare gli elementi che la natura ci offre e trasformarli attraverso la chimica”.  

Un’invenzione che appena brevettata ha visto da subito un grande successo. Le aziende petrolchimiche hanno iniziato a bussare alla porta di Bio-on e solo nel 2016 sono state concesse 13 licenze.  

Su questa scoperta si aprono infatti scenari incoraggianti che vanno dalla pulizia dei porti, tra i luoghi costieri più inquinati, alla bonifica dei disastri in mare, dalla pulizia dei terreni all’eliminazione della plastica in mare, con risvolti positivi anche dal punto dell’alimentazione. Si perché oggi sappiamo che la plastica è entrata a far parte della catena alimentare e gli studi più recenti hanno fatto emergere un dato allarmante: entro il 2050 negli oceani si avrà più plastica che pesci. “‘Bio Recovery’ vuol dire proprio questo, rimediare ai disastri dell’uomo con qualcosa di naturale” conclude Astorri.  
da qui

giovedì 11 gennaio 2018

H2A. L'acquedotto in amianto - Giuliano Bugani e Daniele Marzeddu

Basta con le deroghe per la macellazione religiosa!

Il D.M. 11 giugno 1980 (pubblicato nella G.U. n. 168 del 20 giugno 1980) autorizzò una specifica deroga alla normativa di derivazione comunitaria (direttiva n. 74/577/CEE sull’obbligo di stordimento prima della macellazione e legge n. 439/1978 di recepimento) in favore della macellazione rituale islamica (halal) ed ebraica (kosher).
Il quadro normativo è stato modificato dal decreto legislativo n. 333/1998 e, soprattutto, dal regolamento (CE) n. 1099/2009 del Consiglio (art. 4, comma 4°) che consente una deroga generalizzata all’obbligo di stordimento preventivo in caso di macellazione rituale, in quanto le disposizioni “non si applicano agli animali sottoposti a particolari metodi di macellazione prescritti da riti religiosi, a condizione che la macellazione abbia luogo in un macello”.
Il dialogo con le comunità religiose islamiche ed ebraiche non ha portato, finora, a passi concreti.
Il risultato è visibile in questo video realizzato dall’associazione Animal Equality Italia.
Inutili crudeltà, spesso una punta di sadismo.
E’ ora che qualsiasi deroga sia definitivamente accantonata.  Basta.
Quanta crudeltà nel nome abusato di Dio…
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

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Attenzione: Video soggetto a limiti di età

mercoledì 10 gennaio 2018

La citta' di Shenzhen, Cina elettrifica tutti i suoi 16,359 autobus - Maria Rita D'Orsogna



Shenzhen, Cina
Un’altra citta ' di cui sappiamo poco.

Fa parte della provincia di Guandong, nel delta del fiume Pearl, e immediataamente a nord di Hong Kong.

Fino al 1979 aveva ... 30mila abitanti.  Poi nel 1980 viene designata come zona speciale economica -- Special Economic Zone -- proprio per la sua vicinanza con Hong Kong.

Nel 2010, trenta anni dopo popolazione ed economia esplodono -- siamo a più di 10 milioni di persone. In questo momento e' una delle città con il più alto tasso di crescita del mondo.

E adesso hanno un'altra inziativa -- elettrificare tutto il suo sistema di autobus. E non nel 2020, nel 2030 o quando sara' tempo.

Adesso, gia' fatto.

La citta' infatti ha *completato* l'elettrificazione di tutta la sua flotta di autobus pubblica: tutti i suoi 16,359 sono elettrici, come pure meta' dei suoi taxi. Entro il 2020 saranno tutti elettrici anche tutti i suoi taxi.

L'impresa ha significato non solo comprare nuovi autobus solari, ma anche di disegnare il sistema di centraline di ricarica attorno la citta' per avere un sistema ottimale di approvigionamento di energia.
E infatti hanno costruito anche 510 stazioni di ricarica e 8,000 punti specifici per gli autobus dove una singola ricarica impiega 2 ore per essere completata.  Transitano qui circa 300 autobus al giorno. 

E cosi quelli di Shenzhen evitano l'emissione di 1.35 milioni di tonnellate di CO2 ogni giorno in atmosfera, la citta' e' piu' silenziosa, e i risparmi sono evidenti.

A parte il minor inquinamento, gli autobus solari a Shenzhen usano solo un quarto dell'energia degli autobus fossili.

Perché non si può fare anche a Torino? A Roma? Ad Ascoli Piceno? A Palermo? 

martedì 9 gennaio 2018

Pastorale emiliana 2 – La vendetta - Giovanni Iozzoli


Eccolo, ci mancava un ingrediente decisivo. Arrivano sulla scena quei sindacati complici che firmano un accordo, separato e truffaldino, per soccorrere il padrone e dividere i sommersi dai salvati.
Alla vicenda della Castelfrigo mancava solo questo elemento tradizionale – la corruzione sindacale – per avvicinarsi compiutamente alla Chicago anni Trenta: mafiosi capi di cooperative, narcotrafficanti addetti alle risorse umane, lavoratori schiavizzati, spremuti e buttati sul lastrico e adesso, finalmente, scendono in campo anche i sindacalisti venduti.
Così, se Sergio Leone dovesse decidere di reincarnarsi, tra qualche anno potrà girare un nostalgico “C’era una volta a Castelnuovo Rangone” dove non mancherà nessuno degli stereotipi classici della crime story – senza lieto fine, ovviamente, perché nella terra del maiale niente finisce lietamente: anche se l’assassino è pubblicamente smascherato, continua imperterrito a produrre crimine e impunità.
L’epica lotta dei forzati del prosciutto si avvia verso il suo sentiero finale, con orgoglio, consapevolezza, ma anche con un retrogusto amaro: la Cisl e l’azienda hanno tirato fuori un accordo, tenuto segreto per un mese, che tutela – assai debolmente – 52 dei 127 licenziati; si tratta esattamente del perimetro dei suoi iscritti, oltre a tutti quelli che non avevano partecipato ai due mesi di mobilitazione precedente.
Un’attenta cernita.
Del resto, il padrone non è tipo da nascondere la mano, era stato abbastanza esplicito già tempo addietro: sceglietevi la tessera giusta o ne pagherete le conseguenze. La faccenda ha destato scandalo persino sulla stampa locale – troppo smaccata la provocazione, troppo infame il comportamento cislino – finanche il sindaco di Castelnuovo ha dovuto mimare qualche timida ripulsa.
Se il “paccotto” di Natale si confeziona con modalità così luride, dove va a finire l’auspicata “mediazione sociale”, l’appello “al dialogo e alla ragionevolezza”, la ricerca di “soluzioni condivise”?
Ma la vicenda Castelfrigo cos’è, se non la riproposizione su scala minore del modello Pomigliano e del metodo Marchionne, a suo tempo pienamente metabolizzato e legittimato dentro la società italiana? Perché il più grande gruppo industriale italiano avrebbe il diritto di spacchettare oscenamente i diritti e i destini dei suoi dipendenti, mentre nel più modesto comparto carni tutto ciò dovrebbe essere evitato? Perché questa, stringi stringi, è stata la “rivoluzione di Marchionne”, quella a suo tempo salutata come l’avvio di una nuova era: chi sciopera, chi ha la tessera non gradita o anche solo chi è potenzialmente individuato come disturbatore, è pregato di accomodarsi fuori. E alla Castelfrigo, oggi, spaccarsi la schiena e i polsi nelle celle frigorifere (per un contrattino interinale di tre mesi) è diventato un privilegio che si paga con la sottomissione, la presa di distanza dai reprobi, la resa unilaterale davanti al padrone. Questa è l’Italia sordida che abbiamo lasciato dilagare, in questi anni.
Flashback: da più di vent’anni, nel cuore dell’economia modenese, la filiera agroalimentare e il rinomatissimo “distretto carni”, le aziende hanno permesso l’insediamento di cooperative spurie, spesso gestite da malavitosi, grazie alle quali, con un complicato sistema di appalti e subappalti, si può risparmiare il 50% del costo del lavoro e praticare una generalizzata evasione fiscale e contributiva. In questo modo le imprese, grandi marchi o loro importantissimi terzisti, hanno dimostrato in pratica, a mo’ di teorema, che il discrimine tra economia criminale ed economia capitalistica ordinaria, sostanzialmente non esiste.
Le mafie non sono un “cancro”, come dice la retorica legalitaria: sono una variante, un’opzione, una potenzialità in più del meccanismo economico.
Tutto ciò negli anni si è consolidato, in questo assai poco ridente angolo di provincia modenese, in forma organizzata e capillare di “sistema”, distribuendo miseria a chi lavora e consentendo margini di competitività ad imprese che per reggere la concorrenza globale farebbero ogni schifezza, anche riempire i polpettoni di carne operaia, se servisse.
Da un paio d’anni, i nuovi schiavi dei prosciuttifici hanno cominciato ad alzare la testa e ribellarsi. Si tratta di lavoratori spesso stranieri, eternamente precari, ogni anno più poveri e ricattabili sulla base dei furiosi cambi appalto che fanno sparire e ricomparire magicamente i formali datori di lavoro. La loro presa di parola, il coraggio della lotta, non era cosa né facile né scontata. E se già in altre aziende, vedi la Alcar, il conflitto aveva prodotto visibilità, è stato alla Castelfrigo che una lotta operaia ha fatto finalmente irruzione nell’agenda politica e costretto tutto il territorio a interrogarsi, con corpose ricadute nazionali.
E anche questo recente accordo truffa, tirato fuori tra Natale e Capodanno, non consentirà di seppellire né la vertenza, né le questioni che essa ha evocato. Finalmente il muro d’omertà diffuso, che aveva sostanzialmente salvaguardato il caporalato criminale per tutelare “le eccellenze produttive locali”, ha cominciato a sgretolarsi. Gazzettieri, amministratori, politicanti, magistrati e semplice opinione pubblica: tutti hanno dovuto toccare con mano che dietro i marchi scintillanti dei banconi degli ipermercati, si poteva leggere una storia durissima e vergognosa di sfruttamento paraschiavistico; la vetrina della qualità gastronomica italiana era chiazzata di sangue – e non in senso metaforico.
Dopo un paio di mesi di incessante mobilitazione davanti ai cancelli dell’azienda di Castelnuovo Rangone, con il protagonismo reale di una compagine determinatissima e disperatamente vitale, che è riuscita a inventarsi giorno per giorno un’enorme volume di iniziative, i centri di potere locali non hanno potuto più ignorare il problema; troppo insistente l’irruzione operaia, troppo clamore, troppi reportage, troppe vergogne nascoste per lunghi, lunghissimi anni, dietro le mura di capannoni che sbandierano il “made in Italy” come garanzia di qualità. Piano piano sono arrivati i pronunciamenti, le prese di distanza, gli ordini ispettivi e istituzionali e le denunce.
Come un novello Candide, il ceto politico da sempre al governo da queste parti, ha manifestato indignazione per una realtà che tutti conoscevano da almeno vent’anni. La verità è che queste terre avevano lungamente alimentato una “congiura del silenzio” degna dell’Aspromonte: l’impresa è sacra, la competizione è selvaggia, il fatturato è inviolabile – chi parla di diritti e contratti è un disfattista, un estraneo imbucato, uno che non afferra la modernità delle filiere, un troglodita.
Questi straordinari ragazzi ghanesi, albanesi, maghrebini, cinesi (sì, evviva, ci sono anche i cinesi in testa alle mobilitazioni, ed è un segnale di novità) che hanno dato corpo questa lotta, inseguendo il padrone persino nei suoi sacri spazi privati, hanno prodotto in sé un mutamento di coscienza straordinaria: la lotta di classe è una scuola politica, culturale e umana che non ha eguali. Ogni santo giorno hanno animato la loro assemblea, accumulato competenze, concesso interviste, discusso da pari a pari con i sindacalisti professionisti a cui non hanno delegato nulla. Mesi che valgono come anni per lavoratori che se – come è scritto nei protocolli firmati ai tavoli regionali – dovessero trovare una nuova collocazione in aziende del territorio, dentro realtà meno piratesche e compromesse, resteranno comunque sentinelle vigili contro il nuovo schiavismo che avanza. Quadri operai, non merce.
Si è detto, senza retorica, che questi proletari, in massima parte stranieri, hanno insegnato molto agli italiani. Però attenzione: anche loro hanno imparato qualche lezione, pure quelli che vivono qui da un quarto di secolo e pensavano di sapere tutto.
Lezione 1
In Italia, oltre alla “cooperative spurie” esistono i “sindacati spuri”. Non si tratta di semplice corruzione (anche se in questi casi, mazzette e marchette non sono mai sgradite). O meglio: stiamo parlando di una corruzione più profonda, ontologica, viene da dire; un sindacato che fa esattamente il contrario di quello che dovrebbe fare, una perversione dei fini che mette in contrasto il nome e la cosa: come se il WWF si mettesse a organizzare safari. Questa espressione, “spuria”, tipica di un italiano desueto e burocratico, significa letteralmente (leggiamo dal Garzanti): “di natura non definita, bastardo”. Naturalmente la natura dei sindacalisti Cisl appare ben definita!
Lezione 2
In Italia non basta aver ragione, non serve che il sindaco o il Governatore della tua Regione o i giornali e la Rai, la Commissione Lavoro di Montecitorio o persino il Santo Padre e l’Onu, ti diano ragione. La vera ragione sta in bilico, ben nascosta dentro il rapporto di forza; la democrazia è solo una favola per anime semplici: patrimonio, fatturato, batterie di avvocati e complicità che contano, questo decide se le ragioni si incarnano in cambiamenti o restano pezzi di carta. Castelfrigo ha subito gravi danni di immagine e forse perso un po’ di commesse. Ma la vicenda dell’accordo separato, conferma che l’arroganza del padrone può anche fare a meno del consenso. È una rivendicazione di autonomia del comando d’impresa, una maligna dichiarazione di indipendenza che racconta bene la brutale ideologia esibita dai padroni oggi: dite pure quello che vi pare, io rispondo con i milioni. Se la vicenda Castelfrigo finirà con qualche sentenza in Tribunale e un po’ di risarcimenti, sarà l’ennesima vittoria delle ragioni d’impresa: la violazione della Costituzione è monetizzabile e con i soldi si compra tutto
Lezione 3
La vicenda Castelfrigo ha effettivamente smosso l’agenda politica e fatto uscire i paguri dal loro guscio. Ma l’ostinazione a non “spingersi troppo oltre”, a rimanere “sul terreno democratico”, una certa fissazione legalista, la scelta in definitiva di non praticare i blocchi dei cancelli, ha impedito che si sperimentasse l’ultimo miglio della lotta, quello in cui, esperite tutte le fasi di pubblica sensibilizzazione, il rapporto di forza diventa nudo e crudo, e si fa la cernita tra amici interessati, tartufi e solidali. I lavoratori hanno il diritto e il dovere di non abbandonare nessuna delle armi in loro possesso, se vogliono vincere.
Lezione 4
Non bisogna confidare nel fatto che i pronunciamenti istituzionali a favore di questa battaglia siano irreversibili: in Italia non esiste la nozione di “irreversibilità”, tutto è riassorbibile, niente passa davvero in giudicato. Peraltro siamo sotto elezioni, i politici italiani sono bestie impudiche e senza ritegno (soprattutto quelli nelle due versione piddine double face – PD e MDP). Le lotte sociali sono viste con sostanziale fastidio, come elementi di disturbo del traccheggiamento quotidiano a cui sono abituati; appena esse rifluiscono, le priorità tornano quelle tradizionali: prima il mercato poi tutto il resto.
Lezione 5
I padroni sanno cos’è la lotta di classe e soprattutto conoscono bene la solidarietà di classe. Confindustria non ha mollato un centimetro, ha considerato i padroni di Castelfrigo “colleghi che sbagliano” da non abbandonare, il fronte imprenditoriale è rimasto stoicamente compatto: si può e si deve difendere l’indifendibile! – molleranno prima loro, si son detti, con le loro pezze al culo e gli affitti in arretrato, piuttosto che noi, pilastri benemeriti del territorio. Una lezione di coerenza, per i proletari.
Lezione 6
Quando Diego – insieme a Chen, Frank e tutti gli altri – sostiene che alla Castelfrigo “stanno scrivendo un pezzo di storia sindacale” sta dicendo la verità, al di là di quali saranno gli esiti finali della vertenza. Il presidio andrà avanti, orgogliosamente, fino a quando tutti i lavoratori esclusi non saranno ricollocati in aziende della provincia (ci sono impegni assunti in tal senso dalla Lega delle Cooperative e da attori importanti del comparto, tutti ansiosi di cancellare l’onta e le polemiche di queste settimane e di ricacciare la polvere sotto al tappeto). Ma adesso è il momento di andare avanti, di non mollare, di spostarsi davanti ai cancelli delle altre decine di Castelfrigo che ammorbano il tessuto economico. Il rischio è che escano dal portone le cooperative “spurie” e rientrino dalla finestra gli appalti interni, tramite Srl “fatte in casa”- con la medesima finalità: non stabilizzare i lavoratori e comprimere il loro costo vivo. Bisogna proseguire, col coltello in mezzo ai denti. Perché è lì, dentro quei contratti farlocchi, dentro quegli stipendi miserabili, dentro lo spezzettamento della base occupazionale, dentro la sacrosanta disaffezione al lavoro, che cova e marcisce l’eterna crisi italiana: nella svalorizzazione cronica del lavoro, nel suo deprezzamento, nella sua marginalità, nel suo scadimento qualitativo e professionale.
Quella è la vera cancrena italiana – il lavoro che un tempo fu ricchezza, civilizzazione, mobilità sociale, oggi è maledizione, povertà, cristallizzazione delle gerarchie. Si blatera tanto di ricette economiche e strategie di uscita dalla crisi. Viene da sorridere. Se si vogliono capire le ragioni della crisi, basta dare un’occhiata alla paga oraria in Castelfrigo. Là dentro è scritto l’arcano della crisi. E più si affannano a erodere i salari, a precarizzare le prestazioni, più la crisi, sghignazzando oscena, si avvita su se stessa. L’unica misura anticiclica oggi la potrebbero mettere in campo i proletari scioperando e strappando ricchezza.
Intanto il presepe emiliano traballa e scricchiola sempre di più. La figura operaia, simbolo dell’iconografia para-socialista che per alcuni decenni aveva dato corpo all’ideologia emiliana – l’operaio integrato, l’operaio in ascesa sociale, l’operaio professionale e dalla tuta immacolata, l’operaio con il figlio dottore, l’operaio cooperatore, civico, sentinella del territorio affacciato sulla soglia della sezione, a fronte strada –, quella figura operaia, dicevamo, sta solo nei ricordi sbiaditi e malinconici degli anziani, protagonisti inconsapevoli dell’epopea del compromesso sociale. Il microcosmo della lotta alla Castelfrigo ha squadernato brutalmente, in modo quasi didascalico, la moderna composizione del lavoro produttivo.
I nuovi operai sono figure picaresche, tragicamente povere, sbattute come foglie al vento tra i diversi gironi di un mercato del lavoro pericoloso e inafferrabile. I più esposti e precari, come i forzati delle cooperative spurie, sperano in una stabilizzazione che li consegni a vita alla schiavitù di una busta paga sicura – e per molti è un miraggio chimerico; gli altri, quelli con un impiego e un contratto un po’ più solido, si tengono stretti la ciotola, bestemmiando, ringhiando, pagando bollette, mutui e rette sanguinose che devono garantire il destino di giovani e vecchietti di famiglia, abbandonati dalla ritirata del Welfare.
Annaspano tutti insieme, sgomitando, a tentoni in mezzo alle nebbie padane – giorno per giorno, mese dopo mese, prestito su prestito, nella pallida speranza che Grillo, Salvini, Gesù Cristo o chissà chi altro, riesca a parlare al loro livore, alla paura del futuro, alle loro speranze deluse.
Altro che miti socialisti. L’Emilia Romagna, proprio dentro le sue vetrine produttive, sta covando silenziosamente i virus più infidi e pericolosi. C’è qualcuno a sinistra, che trova il coraggio di rimettere le mani dentro questi laboratori tossici?

lunedì 8 gennaio 2018

Giornalisti a senso unico sui progetti di centrali solari termodinamiche in Sardegna - GRIG



Due-parole-due su due articoli smaccatamente a favore dei progetti di centrali solari fotovoltaiche promossi in Sardegna dal Gruppo Angelantoni e dalla San Quirico Solar Power s.r.l.
Si tratta di Energia dal sole: il governo boccia la centrale sarda (Il Sole 24 Ore, 27 dicembre 2017) di Jacopo Giliberto, già portavoce dell’allora Ministro dell’ambiente Corrado Clini, e di Solare termodinamico contestato in Sardegna (2050, blog di La Repubblica, 28 novembre 2017) di Valerio Gualerzi.
Ambedue si occupano prevalentemente di tematiche ambientali ed energetiche e, da giornalisti, ci si aspetterebbe che rispondessero nei loro articoli alle famose domande Chi? Come? Dove? Quando? E perché?
Invece, dicono e omettono quello che a loro pare opportuno per sostenere la loro tesi.
In pratica, chi si oppone a quei progetti di centrali solari termodinamiche è quantomeno uno scellerato, anche quando l’impianto è connesso a una centrale a biomassa (che di solare ha ben poco).
Visto che fra le associazioni, i comitati, le amministrazioni pubbliche che motivatamente si sono espressi contro questi progetti non è stato dato trovare scellerati, nè farabutti, né psicolabili e nemmeno persone in conflitto d’interessi (ma guarda un po’), facciamo solo un paio di considerazioni:
1) il dato fondamentale della “fotografia” del sistema di produzione energetica sardo è che oltre il 46% dell’energia prodotta “non serve” all’Isola e viene esportato (dati PEARS, 2016).         Qualsiasi nuova produzione energetica non sostitutiva di fonte già esistente (p. es. termoelettrica) può esser solo destinata all’esportazione verso la Penisola e verso la Corsica: oltre i collegamenti esistenti (SaPeI, capacità 1.000 MW, e SaCoI, SarCo, Corsica, capacità 300 MW + 100 MW) non si può andare.  E già ora non si può andare oltre. Visto che la realizzazione di impianti da fonte rinnovabile non comporta la sostituzione automatica degli impianti “tradizionali” (anzi), visto che attualmente non la si può immagazzinare, dell’energia prodotta in eccesso che ne facciamo?      E’ pura speculazione per ottenere incentivi pubblici e certificati verdi o no?
2) per quale cavolo di motivo questi progetti di impianti industriali non sono stati proposti in aree industriali, attualmente ampiamente disponibili in Sardegna, già infrastrutturate e senza ulteriore consumo di suolo?    Si facciano ‘sta domanda, accertino e si diano una risposta;
3) anziché prendere per oro colato l’affermazione di parte industriale secondo cui “sotto gli specchi sarebbero continuate le attività di pascolo e di agricoltura tradizionale”, perché non han dato una sbirciatina alla considerevole mole di pareri di parte pubblica e degli agricoltori che lì vivono e operano, che escludono questo preteso e inesistente connubio virtuoso?    I terreni delle aziende agricole recalcitranti sarebbero espropriati: dovrebbero tutti tacere?
Un po’ di obiettività non guasta, anche da parte dei giornalisti.

domenica 7 gennaio 2018

pubblicità per il Gruppo d’Intervento Giuridico

Il Gruppo d’Intervento Giuridico onlus è un’associazione ecologista che si batte da oltre vent’anni contro speculatori immobiliari, inquinatori, amministratori pubblici ignavi o collusi in tutta Italia per difendere il tuo ambiente, la tua salute, la tua qualità della vita.
Senza guardare in faccia a nessuno.
Esposti, ricorsi, campagne di sensibilizzazione, interventi nei procedimenti amministrativi e nei processi penali, sono tante le azioni che conduciamo quotidianamente perché ildiritto all’ambiente e alla salute non siano solo parole.
Puoi fare davvero un bel regalo, iscrivendoti al Gruppo d’Intervento Giuridico onlus.
E’ facile, basta un versamento minimo di € 15,50 sul conto corrente postale n. 22639090 intestato a “associazione Gruppo d’Intervento Giuridico“ oppure un bonifico bancario del medesimo importo con il codice IBAN IT39 G076 0104 8000 0002 2639 090.     Il codice BIC/SWIFT è BPPIITRRXXX.     Poi comunicacelo all’indirizzo grigsardegna5@gmail.com, potremo così inviarti la tessera associativa più rapidamente.
Puoi fare davvero un bel regalo, sostenere la tua qualità della vita e la qualità della vita dei tuoi cari, se non è poco.

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

sabato 6 gennaio 2018

Finita l'era del petrolio, Exxon e Shell investono nella maggior produzione di plastica - Maria Rita D'Orsogna


Non sono mica scemi quelli dell’oil and gas.

Il prezzo del petrolio non e’ piu’ lo stesso di qualche anno fa, il mondo capisce che occorre passare al sole e al vento per la generazione di energia elettrica, il mercato delle automobili del futuro e’ rinnovabile e non fossile, l’astio verso big oil e’ planetario.

Il loro modello di business, e lo sanno anche loro, e’ destinato al fallimento.

E quindi devono invenatarsi un modo per andare avanti con il loro business.

Uno penserebbe: va bene, si ri-inventeranno come ditte fornitrici di energia solare, o eolico, o penseranno a come creare batterie, auto ad idrogeno o qualsiasi altra cosa che sia green.

E invece no.

E invece… invece decidono di investire nella plastica.

Cioe’ vogliono che aumenti la produzione e il consumo di plastica a livello mondiale in modo da sopperire alle perdite collegate al declino del prezzo e del consumo del petrolio e derivati.

Ovviamente questo non fara’ altro che aumentare l’inquinamento da plastica nel pianeta, dall’Artico all’Amazzonia. E proprio nel momento in cui ci si rende conto che occorre diminuire la produzione di plastica nel mondo.

Tutto questo arriva da uno dei piu’ grandi consorzi di produzione di plastica nel mondo: la American Chemistry Council. Confermano infatti che la Exxon e la Shell hanno deciso di investire ben $180 miliardi di dollari -- leggi 180 mila milioni di dollari – per la produzione di plastica con l’obiettivo di aumentarne la circolazione del 40%.

Sono cifre enormi.

La tendenza non e’ nuovissima, nel senso che le petrolditte negli scorsi anni di declino di introit da prodotti petroliferi e di costi della materia prima, hanno creato circa 300 nuove societa’ di plastica.
Ma adesso hanno messo la quinta e partono alla grande.

Fanno di tutto per aggrapparsi al passato e per non dover mettere in discussione il loro modello economico.

In questo momento i petrolieri producono il 99% della plastica che circola a livello mondiale, e questo solo per capire l’intimo legame che sussiste fra petrolio e plastica

E come per il tabacco e il tumore, come per il petrolio e i cambiamenti climatici, l’evidenza e’ schiacciante.

E lo sanno anche loro.

Gia’ degli anni ’70 i produttori di plastica (leggi i petrolieri) sapevano che i loro prodotti stavano inquinando mari, isole, fiumi e prati e hanno fatto finta di niente, investendo e facendo pressioni affinche’ non ci fossero leggi e sensibilizzaizone a contenere la plastica prodotta.

Appunto come tabacco e come petrolio. Esattamente lo stesso modello. E adesso cercano di continuare avanti, visto che la sensibilizzazione sul tema plastica non e' ancora arrivata a livelli cosi forti come per tabacco e petrolio. Cioe' cercano di spremere finche' possono.

La produzione di plastica e’ invece fuori da ogni limite. Non se ne parla tanto, ma negli scorsi dieci anni abbiamo prodotto piu’ plastica che nei precedenti cento anni e milioni e milioni di tonnellate finiscono nei nostri mari, per quanto ci si sforzi di reciclare o di riusare.

E siccome la plastica non e’ biodegradabile, almeno nel tempo normale delle nostre vite e per le generazioni immediate, ci stiamo dirigendo verso uno stato di inquinamento irreversibile.

Dall’Oceano Pacifico, all’Artico, da Citarum in Indonesia alle isole Marshall la plastica e’ dappertutto, e non ce ne serve altra a soffocare altri uccelli, altri pesci, altre vite.

Quante altre cose migliori si possono fare con $180 miliardi di dollari?