giovedì 31 marzo 2022

Che fine ha fatto la crisi climatica? - Guido Viale

 

La guerra in Ucraina ha avvicinato tutti all’olocausto nucleare, alla fine del mondo. Ce lo fa immaginare: sia a coloro che lo prendono sul serio, considerandolo un rischio sempre più imminente, sia a coloro che lo sfidano, sicuri che la sua mostruosità sia sufficiente, se non ad allontanarne lo spettro, sicuramente a impedirlo, sia gli incoscienti – e sono i più – che non lo prendono in considerazione perché guardano il dito (la singola guerra) e non la luna (la sua possibile proiezione sull’intero pianeta).

Ma questa guerra ci sta avvicinando molto anche all’olocausto climatico, il punto di non ritorno che gli scienziati dell’ONU (l’IPCC) hanno fissato di qui a non molto di più di otto anni, se non si interviene massicciamente per allontanarlo. E se l’olocausto nucleare è una possibilità – molto più concreta di quanto siamo abituati a pensare – quello climatico è una certezza scientifica. Ma quanti lo sanno? E quanti, essendone informati, ci credono? E quanti pensano di poterlo evitare perché la tecnologia – quella che ci ha trascinati fino a questo punto – ci metterà al riparo dal suo verificarsi?

La guerra ci avvicina all’olocausto climatico non solo per la COsollevata dalle macchine di morte – bombe, aerei, carri armati – sotto cui restano schiacciati tanto i soldati russi che la popolazione e i combattenti ucraini, ma anche per tutto quello che questa guerra – molto più di tutte quelle precedenti – ha rimesso in moto. A beneficio di tutti coloro che la lotta contro la crisi climatica l’hanno sempre osteggiata e che oggi dettano legge nei governi, nella finanza, nelle imprese, nei media.

Il problema numero uno sembra essere procurarsi il gas che continuiamo a comprare dalla Russia, finanziando la sua guerra di aggressione, perché, senza di esso, l’economia mondiale (e non solo quella italiana o quella tedesca) rischia il collasso per un effetto domino intrinseco alla globalizzazione. Ma non c’è solo il gas; ci sono anche, per sostituirlo almeno in parte, carbone e petrolio, con le loro emissioni. C’è poi la necessità di compensare le importazioni alimentari dall’Ucraina e dalla Russia (quasi tutte destinate agli allevamenti) con un aumento delle produzioni interne. Quindi, largo agli OGM, ai fitofarmaci e ai fertilizzanti sintetici, all’avvelenamento del suolo e delle acque per spremere una Terra sempre più soffocata e farle sputare quello che è sempre meno in grado di fornire nella condizione di cattività a cui la condanniamo. Tutti processi che moltiplicano le emissioni di gas di serra e rendono impossibile riassorbirle nel suolo. Quanto alle popolazioni delle nazioni più povere, che a quei mezzi già ricorrono con poche limitazioni e non hanno modo di reagire al blocco delle esportazioni russe e ucraine, o all’aumento del loro prezzo, le aspetta la fame. Moriranno a milioni.

E soprattutto, largo alle armi e alla produzione di armi! Largo al “riarmo” dell’Ucraina, della Nato, dell’Italia. Come se fossero disarmate! Si tratta di prodotti “usa e getta” che consumano risorse, energia, ore di lavoro e vite umane, che producono quantità smisurate di gas di serra e che sono concepiti per essere “smaltiti” nel più breve tempo possibile: o in guerre che essi stessi alimentano, rendendo necessario sostituirli; o in depositi, pericolosi e inquinanti, a perdere; o vendendole a qualche dittatura dei paesi più poveri. Ma sempre per far posto a prodotti tecnologicamente più aggiornati. Per non parlare delle armi chimiche e biologiche, pensate – e prodotte – per avvelenare per sempre popoli e territori.

E con le armi, largo allo spirito bellico alimentato da tutti i media dell’Occidente (come della Russia) e dal suo commander in chief: il presidente degli USA e vero capo della Nato, al seguito dei suoi predecessori che volevano decidere chi doveva comandare in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, Yemen e hanno trasformato per questo metà del mondo in lande senza governo e senza legge.

La guerra in Ucraina non ha dunque solo oscurato, nei media e nella coscienza di tutti, l’imminenza della crisi climatica e ambientale. Di fatto ne sta accelerando l’esplosione proprio con la scelta di prolungare il più possibile la durata di quella guerra, rifornendo di armi le truppe combattenti dell’Ucraina, che non si sa bene chi siano (lo sanno bene solo la Nato e – forse – Zelensky), prima ancora di cercare – e costruire – un tentativo di mediazione accettabile. Ua proposta e un promotore credibile che se ne faccia portatore, che possa essere accettabile, anche se non soddisfacente, per entrambe le parti in causa (che sono molte più di due), con qualche rinuncia per ciascuna di esse.

Coloro che hanno fatto la scelta di appoggiare, se non condividere, la politica del governo, dell’Unione Europea e della Nato dovrebbero tenerne conto: stanno seppellendo, oltre ai cadaveri prodotti da un inutile prolungamento della guerra, anche la lotta contro la crisi climatica.

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mercoledì 30 marzo 2022

Amazzonia, la foresta rischia l’estinzione - Serena Tarabini

Il fatto che la foresta amazzonica sia in drammatico declino non rappresenta una novità; da tempo inoltre simulazioni eseguite al computer mostrano la prossimità di un degrado consistente della sua biomassa. Ma da studi più dettagliati sta emergendo un rischio ancora più concreto e ravvicinato. Un capolinea da cui non sarà più possibile tornare indietro.

È quanto emerge da un’analisi condotta su immagini satellitari raccolte nell’arco di 30 anni, che dimostra come, a partire dall’inizio del secondo millennio la foresta amazzonica abbia perso il 75 % della sua stabilità, con forti ripercussioni sulla possibilità di riprendersi dai fattori di stress. In altre parole, l’Amazzonia sta per perdere completamente la capacità di conservarsi in quanto foresta. Un trend del genere, se non interrotto, porterebbe l’Amazzonia a cambiare la sua identità naturale, trasformandosi in pochi anni in qualcosa di simile a una prateria, con tutte le conseguenze del caso sul ciclo globale del carbonio, e quindi sul surriscaldamento terrestre. Un processo catastrofico che gli scienziati non sono ancora in grado di prevedere quando potrebbe avere inizio, ma che una volta innescato, sarà irreversibile.

LO STUDIO, A CURA DI TRE RICERCATORI dell’Università di Exter, nel regno Unito, è stato pubblicato il 7 marzo sulla rivista Nature Climate Change, ed il messaggio è chiaro fin dal titolo. «Consistente perdita di resilienza dell’Amazzonia dagli anni 2000». Gli studiosi, fra i quali spicca l’esperto di Modellistica dei sistemi Terrestri Niklas Boers, hanno scelto di analizzare quella parte di foresta amazzonica che meno mostra segnali di sofferenza, ovvero quella ove la frazione di latifoglie sempreverdi, le più efficienti in termini fotosintetici, è superiore all’80%. Si tratta di uno studio prezioso anche perché va oltre le apparenze, ricercando i segnali premonitori di profondi cambiamenti in corso internamente. Difatti la ricerca parte dal presupposto che lo stato generale di un sistema non è rappresentativo della sua capacità effettiva di riprendersi da uno stress o a un trauma, ma che servano indicatori che rispondano in modo più sensibile a fattori destabilizzanti. Ecco quindi che si è andati ad analizzare i tempi di risposta alle perturbazioni di breve termine, ad esempio le variazioni metereologiche, scoprendo che i tempi di reazione della foresta sono sempre più lunghi. Una perdita di resilienza che riflette l’indebolimento di quei meccanismi a feed back negativo, stabilizzanti, che devono contrastare quelli a feedback positivo, destabilizzanti, la cui origine, come è già ampiamente dimostrato, risiede principalmente negli incendi e nella deforestazione; siano questi fattori dovuti all’intervento umano diretto o alla siccità generale, l’effetto finale è la diminuzione della traspirazione fogliare e quindi dell’umidità, con conseguente riduzione delle precipitazioni e della vitalità delle foreste.

NON È UN PROBABILMENTE UN CASO che, come evidenziato sempre nello stesso studio, la resilienza amazzonica si stia indebolendo più rapidamente in quelle parti della foresta pluviale più a contatto con l’attività umana. In questo caso si crea un circolo vizioso: gli alberi sono fondamentali per il ciclo dell’acqua, quindi il loro abbattimento allo scopo di creare pascoli e piantagioni di soia asciuga l’ambiente, determinando una condizione di maggiore aridità che a sua volta provoca la perdita di altri alberi, e così via, fino a quando la situazione è talmente compromessa che il degrado accelera e non può più essere fermato: si tratta del cosiddetto punto di svolta. Questo si intende con meccanismo di feedback positivo, che di positivo in termini valoriali non ha nulla.

I meccanismi di feedback positivo e i punti di svolta sono l’incubo degli studiosi del clima, poiché sono irreversibili su scale temporali umane, e proprio in questi ultimissimi anni se ne sono presentati diversi.

NEL 2021, LA STESSA TECNICA STATISTICA utilizzata sull’Amazzonia ha rivelato i segnali premonitori del crollo della Corrente del Golfo e di altre principali correnti atlantiche, ovvero una quasi completa perdita di stabilità avvenuta nel corso nell’ultimo secolo. L’arresto di queste correnti avrebbe conseguenze catastrofiche in tutto il mondo, interrompendo le piogge monsoniche e mettendo in pericolo le calotte glaciali artiche e antartiche. Un altro studio pubblicato sempre nel 2021ha mostrato che anche una parte significativa della calotta glaciale della Groenlandia è vicina un punto di non ritorno: i dati relativi allo spessore del ghiaccio misurato in un arco di 140 anni preludono a una possibile ondata di scioglimento che riducendo l’altezza della calotta glaciale, la espone all’aria più calda che si trova a quote più basse, provocando un ulteriore scioglimento: al momento è molto probabilmente già destinato a sciogliersi una quantità di ghiaccio che porterebbe a un innalzamento del livello del mare di 1-2 metri.

L’ULTIMO RAPPORTO DELL’IPCC reso pubblico alcuni giorni fa ha puntato l’attenzione proprio su questo: il fatto che singoli eventi localizzati sono più che mai vicini a produrre effetti su larga scala.

Fra questi, il processo che riguarda l’Amazzonia secondo Boers è uno di quelli che sta avvenendo più velocemente. E la perdita definitiva di resilienza avrebbe effetti drammatici: «Osservare una tale perdita è preoccupante. La foresta pluviale amazzonica immagazzina enormi quantità di carbonio che potrebbero essere rilasciate in caso di morte anche parziale».

I dati mostrano anche che il punto di svolta non è ancora stato raggiunto, quindi, a detta dei ricercatori stessi, c’è ancora speranza. «La riduzione della deforestazione», concludono, «è ancora più cruciale, in quanto non serve solo a proteggere le parti della foresta direttamente minacciate, ma anche per conservare la preziosa resilienza della foresta pluviale amazzonica nel suo complesso».

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martedì 29 marzo 2022

Ma dove si possono o non si possono realizzare impianti di produzione energetica da fonte rinnovabile? - Stefano Deliperi

 

Una delle problematiche ambientali più attuali è certamente l’ubicazione degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, con particolare riferimento alle centrali eoliche e alle centrali solari fotovoltaiche.

Se da un lato il superamento dell’utilizzo delle tradizionali fonti di origine fossile (idrocarburi, gas naturale) sarà possibile, allo stato tecnologico attuale, solo mediante un progressivo maggior ricorso all’energia prodotta da fonti realmente rinnovabili (difficilmente così potrà considerarsi l’energia da biomassa, stante la pesante deforestazione che attualmente ne costituisce la base), d’altro canto dovrà esser incentivato e promosso il fondamentale risparmio energetico, nonché – soprattutto – la salvaguardia e la conservazione dei beni ambientali e di rilievo naturalistico.

In primo luogo, sono i piani paesaggistici (artt. 135, 143 e ss. del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.) a poter disciplinare il territorio e a indicare aree non idonee alla ubicazione di impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili, essendo strumenti di pianificazione sovraordinati e immediatamente cogenti per qualsiasi altro piano di settore o urbanistico-territoriale (art. 145, comma 3°, del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.).

Analogo effetto possono avere i piani di gestione dei S.I.C., Z.P.S., Z.S.C. costituenti la Rete Natura 2000, ai sensi della direttiva n. 92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat naturali e semi-naturali, la fauna e la flora e la direttiva n. 09/147/CE sulla salvaguardia dell’avifauna selvatica (l’art. 5, comma 1°, lettera l, del D.M. Ambiente 17 ottobre 2007 vieta la “realizzazione di nuovi impianti eolici” nelle Z.P.S.).

La delega contenuta nell’art. 5 della legge 22 aprile 2021, n. 53 (legge di delegazione europea) sull’attuazione della direttiva n. 2018/2001/UE sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili prevede esplicitamente l’emanazione di una specifica  “disciplina per l’individuazione delle superfici e delle aree idonee e non idonee per l’installazione di impianti a  fonti  rinnovabili  nel rispetto delle esigenze di tutela  del  patrimonio  culturale  e  del paesaggio, delle aree agricole e forestali, della qualita’ dell’aria e dei corpi idrici, nonche’ delle specifiche competenze dei Ministeri per i beni e le attivita’ culturali e per il turismo, delle politiche agricole alimentari e forestali e dell’ambiente e  della  tutela  del territorio e del  mare,  privilegiando  l’utilizzo  di  superfici  di strutture edificate, quali capannoni industriali e parcheggi, e  aree non  utilizzabili   per   altri   scopi”.  

Disciplina a oggi colpevolmente non emanata, pur dovendo veder la luce con uno o più decreto del Ministro della Transizione Ecologica entro il prossimo 15 giugno 2022 (art. 20 del decreto legislativo n. 199/2021). Da allora, entro i successivi sei mesi, ciascuna Regione e Provincia autonoma dovrà licenziare un conseguente provvedimento di individuazione delle aree idonee e delle aree non idonee.

Nell’attuale periodo temporale, sempre ai sensi dell’art. 20 del decreto legislativo n. 199/2021, con cui è stata recepita la direttiva n. 2018/2001/UE in base alla legge delega n. 53/2021, i progetti relativi a impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili sono esaminati sul piano ambientale caso per caso sulla base della normativa vigente, visto che “non possono essere disposte moratorie ovvero sospensioni dei termini dei procedimenti di autorizzazione”, mentre sono considerate immediatamente aree idonee

a) i siti ove sono gia’ installati impianti della stessa fonte e in cui vengono realizzati interventi di modifica non sostanziale ai sensi dell’articolo 5, commi 3 e seguenti, del decreto legislativo 3 marzo 2011 n. 28;

b) le aree dei siti oggetto di bonifica individuate ai sensi del Titolo V, Parte quarta, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152;

c) le cave e miniere cessate, non recuperate o abbandonate o in condizioni di degrado ambientale” (art. 20, comma 8°, del decreto legislativo n. 199/2021).

Non hanno, quindi, vigenza i provvedimenti con cui diverse Regioni avevano individuato aree non idonee, avvalendosi della facoltà riconosciuta dall’art. 12, comma 10°, del decreto legislativo n. 387/2003 e s.m.i. (per esempio, la Regione autonoma della Sardegna con il Piano energetico regionale della Sardegna 2015-2030 – Individuazione delle aree non idonee all’installazione di impianti energetici alimentati da fonti rinnovabili, deliberazione Giunta regionale n. 59/90 del 27 novembre 2020).

Al momento attuale, pertanto, è necessaria una buona pianificazione paesaggistica (sono ancora troppo poche le Regioni e le Province autonome che vi hanno compiutamente provveduto, vds. Atto ricognitivo MIC, nota DG ABAP prot. n. 42795 del 21 dicembre 2021) ovvero un buon piano di gestione di un’area della Rete Natura 2000 e un corretto procedimento di valutazione di impatto ambientale (artt. 20 e ss. del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.) per evitare scempi ambientali spesso inutili e controproducenti.

Stefano Deliperi è il portavoce del Gruppo d’Intervento Giuridico odv

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lunedì 28 marzo 2022

Il ricatto della transizione - ReCommon

 

Il viaggio di ReCommon a Gela e Stagno tra gli impianti Eni: i dubbi sull’occupazione e i timori per l’ambiente

“Non butto soldi dalla finestra investendo in un business ormai in crisi irreversibile”. Che Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’Eni, non gradisse il business del petrolchimico si era capito fin dai suoi esordi alla guida della multinazionale italiana. Queste parole, infatti, furono pronunciate al cospetto degli investitori in uno dei suoi primi discorsi, nell’agosto del 2014, paventando la chiusura di quattro dei sei stabilimenti attivi nel nostro Paese. La posizione di Descalzi fece scattare la reazione dei sindacati, con scioperi e picchetti che durarono per mesi, fino a costringere Eni a un parziale dietrofront. Da allora, solamente una raffineria è stata chiusa, quella di Gela, ma quest’anno la stessa sorte potrebbe toccare anche agli impianti di Stagno in Toscana e Porto Marghera in Veneto.

La prima raffineria a pagare il prezzo della crisi è stata quella di Gela, in Sicilia, che nel 2014 ha chiuso i battenti. Oggi al suo posto c’è un impianto molto più piccolo, che invece di petrolio tratta biomasse: “La bioraffineria più innovativa d’Europa” si legge sul sito di Eni. Ma cosa ha significato questa riconversione per l’area di Gela? Rischi per l’occupazione e promesse di sostenibilità ed economia circolare, per un impianto che trasforma principalmente olio da palma proveniente dall’Indonesia. Intanto cittadini di Gela continuano a fare i conti con l’incidenza di alcune patologie, tra cui malformazioni neonatali, più alte della media, per le quali però il Tribunale locale non ha stabilito alcun nesso con le emissioni del petrolchimico.

Le bonifiche rimangono per lo più ferme come si evince dal sito del ministero della Transizione ecologica e nell’ottobre del 2021 la Procura di Gela ha sequestrato Eni Rewinds spa, la filiale di Eni che dovrebbe occuparsene, a causa del mancato ripristino delle falde acquifere, ancora fortemente contaminate. Seppur geograficamente molto lontane tra loro, le vicende di Gela non sembrano così distanti da quelle del comune di Stagno, situato nella parte centrale dell’area Sin (sigla che sta per Sito d’interesse nazionale) di Livorno, dove esiste un altro petrolchimico di Eni. Anche qui alcuni studi hanno registrato incidenze anomale di alcune malattie: secondo il rapporto Sentieri del 2019 nell’area ci sono eccessi di mortalità per tutti i tumori. Mentre nello stesso anno Medicina Democratica ha evidenziato come i dati sulle malformazioni neonatali siano più alti che a Taranto. L’area del SIN è per il 95% di pertinenza dell’Eni, ma le bonifiche, sempre a leggere i dati del ministero, sono ferme allo zero.

Le attività del petrolchimico potrebbero cessare a breve e anche per Stagno il Cane a sei zampe ha proposto una bioraffineria come quella di Gela, oltre che un impianto di trasformazione di plastiche (e CSS) in metanolo o idrogeno, che potrebbe beneficiare dei fondi del Pnrr. Quest’ultimo in particolare ha scatenato le proteste della popolazione e dei comitati locali, come quello di Collesalviamo l’ambiente, contrari alla realizzazione di un nuovo impianto impattante in un’area già fortemente inquinata. I lavoratori della raffineria continuano a chiedere che Eni faccia chiarezza e renda noto il piano industriale per Stagno. Intanto i sindacati denunciano che la scorsa settimana, in occasione della visita di alcuni alti dirigenti Eni allo stabilimento, l’azienda ha rimosso ogni bandiera e simbolo sindacale, definendolo “uno schiaffo a tutti i lavoratori e alla cittadinanza”. Nel frattempo, l’Eni ha preferito investire 3 miliardi per rilevare raffinerie negli Emirati Arabi, forse più redditizie.

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domenica 27 marzo 2022

L’importanza della distribuzione diretta dei farmaci - Mario Fiumene

Mentre in commissione Affari sociali all’interno dell’Indagine conoscitiva in materia di «distribuzione diretta» dei farmaci per il tramite delle strutture sanitarie pubbliche in Sardegna ed in Provincia di Oristano in particolare la situazione è drammatica a causa delle poche giornate di apertura che i Servizi Farmaceutici territoriali delle ASL dedicano proprio alla distribuzione diretta. La causa di tale situazione pare sia determinata dal numero ridotto di farmacisti, la carenza è iniziata dal 2016. pare irrisolta.

Spieghiamo cosa si intente per distribuzione diretta: La distribuzione dei farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale avviene normalmente mediante la rete delle farmacie aperte al pubblico (farmacie pubbliche e private) convenzionate con il SSN (Distribuzione convenzionata).
Una quota di medicinali viene distribuita (Legge del 16/11/2001, n. 405, art. 8) anche attraverso le farmacie ospedaliere e i servizi farmaceutici delle ASL (Distribuzione diretta). In tal caso, le aziende sanitarie e le aziende ospedaliere acquistano i farmaci, e li distribuiscono, mediante le proprie strutture, direttamente ai pazienti per il consumo al proprio domicilio. Questa modalità riduce notevolmente la spesa farmaceutica delle ASL.

I medicinali erogabili attraverso la distribuzione diretta da parte delle strutture pubbliche sono inclusi nel cosiddetto PHT Prontuario della Distribuzione diretta o della presa in carico e della continuità terapeutica ospedale – territorio. Secondo le indicazioni riportate nel DM 31 luglio 2007, articolo 1, comma 1, per distribuzione diretta si intende “la forma di erogazione dei farmaci al paziente, per il consumo al proprio domicilio, alternativa alla tradizionale acquisizione degli stessi presso le farmacie, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, della legge n. 405/2001. Attraverso la distribuzione diretta si migliora la continuità assistenziale ospedale-territorio,

il monitoraggio, l’appropriatezza di uso, aderenza e facilità di accesso è maggiormente garantita attraverso l’erogazione di farmaci in Distribuzione diretta in particolare per i farmaci soggetti a prescrizione limitativa specialistica Registro AIFA – con accesso ricorrente del paziente alla struttura. I criteri di selezione di questi farmaci sono quelli della criticità terapeutica, del controllo periodico del paziente presso la struttura specialistica, che determina le condizioni per una maggiore appropriatezza diagnostico-assistenziale, una verifica della compliance del paziente e uno strumento di monitoraggio del profilo di beneficio/rischio e di sorveglianza epidemiologica dei nuovi farmaci.

I costi della Distribuzione diretta sono notevolmente ridotti: i costi diretti sia quelli indiretti stimano un costo medio che è 2 volte minore rispetto ad altre forma di distribuzione. Tale leva economica generata dalla Distribuzione diretta risulta vitale per la sostenibilità del sistema e per garantire l’innovazione terapeutica”.

Si vuole evidenziare che all’interno della Missione 6 – Reti di prossimità, strutture di telemedicina per l’assistenza sanitaria territoriale – è stata prevista l’attivazione di n. 1.288 Case della Comunità, con centrali operative per le cure domiciliari e la telemedicina. La Distribuzione diretta si inserisce perfettamente in questa nuova visione: è un modello che prevede la consegna al domicilio del paziente o direttamente presso le Case di Comunità o Ospedali di Comunità di farmaci erogati in Distribuzione diretta.

Va considerato, a tal proposito, il ruolo del personale infermieristico delle Cure Domiciliari che spesso si fa carico di recapitare i farmaci a casa dell’assistito. A tal proposito sarebbe opportuno riconoscere agli Infermieri delle Cure Domiciliari un grado di competenza superiore” come nei progetti già operativi per la sclerosi multipla, le SLA, patologie neoplastiche, cure palliative e per malattie rare.

Attualmente il cittadino viene continuamente monitorato dal clinico e dai farmacisti coinvolti all’interno delle equipe multidisciplinari, spesso con il coinvolgimento dei MMG e dei PLS. Non c’è miglior modo di favorire la compliance del paziente e l’aderenza alla terapia che quello di essere seguito costantemente dal personale che si reca al domicilio: in questo avranno un ruolo importante gli Infermieri di Famiglia/ Comunità. E tutto questo è ad oggi garantito dalla distribuzione diretta del farmaco per il tramite delle strutture pubbliche, favorendo l’alleanza terapeutica tra sanitari e paziente.

In sostanza si sottolinea che non c’è miglior modo di favorire la compliance del paziente e l’aderenza alla terapia che quello di seguire costantemente il paziente per il tramite delle stesse strutture eroganti il farmaco. E tutto questo è ad oggi garantito dalla distribuzione diretta del farmaco dalle strutture pubbliche. Ciò che è certo è che, se professionisti dipendenti dalla pubblica amministrazione insistono sull’utilità della Distribuzione diretta e ne sottolineano la qualità a garanzia dei pazienti più fragili pur facendosi carico di una mole di lavoro decisamente impegnativa è perché ci credono fermamente avendo constatato e valutato i risultati positivi che hanno compensato i loro sforzi.

La soddisfazione consiste soprattutto nell’avere contribuito negli ultimi venti anni a fare in modo che la distribuzione diretta abbia potuto garantire e stia garantendo l’accesso ai farmaci innovativi e alla sostenibilità del sistema. Sarebbe opportuno porre rimedio alla situazione attuale che in Sardegna limita la distribuzione diretta dei farmaci, con un aggravio di spesa, un grave disagio agli utenti e un aggravio di lavoro a carico del personale dell’assistenza territoriale.

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sabato 26 marzo 2022

Diritto alla salute fuori dal mercato - Edoardo Turi


Di fronte alla prevedibile recrudescenza e stabilità dei casi di Covid e dei decessi, anche con le drastiche misure emanate da Governo, Regioni e Comuni, a volte contraddittorie, e la debole partenza della campagna vaccinale, è necessario uno sguardo critico su quanto avviene in Italia e nel mondo, senza sottovalutare le differenze tra paesi a capitalismo avanzato, economie emergenti e paesi poveri. Il punto di vista  è quello della critica dell’economia politica e  delle classi sociali subalterne, da tempo abbandonato dalle forze che si richiamano al movimento operaio e democratico e da molti  ecologisti, influenzati dall’egemonia del pensiero neo liberale, dimenticando che ‘’liberista’’ è un eufemismo inventato dal Ministro, senatore e filosofo B. Croce per cercare di scindere il pensiero liberale dalle sue conseguenze economiche, il che non gli impedì di votare la fiducia a Mussolini dopo il delitto Matteotti.

L’epidemia ha colpito da un punto di vista e sanitario e sociale in modo diseguale, accentuando diseguaglianze preesistenti, in una lotta all’interno del capitale tra chi sopravvivrà arricchendosi (web economy) e settori che soccomberanno, come avvenne nella peste del ‘400.Si è detto che la pandemia ha messo in luce le debolezze del sistema economico, sociale e sanitario, uno “stress test” (Cavicchi, La sinistra e la sanità, Castelvecchi,2021). Le epidemie non sono nuove per l’umanità che convive con malattie infettive da millenni per scelte operate dall’uomo: allevamento animale (morbillo), commerci (peste), guerra (spagnola), cfr. J. Diamond, Armi, acciaio e malattie, Einaudi,1998; F.M.Snowden, Epidemics and society, Yale University Press,2019.

La rivoluzione industriale dall’800 ha modificato l’epidemiologia delle patologie umane con comparsa di malattie cronico-degenerative (cuore, polmoni, diabete, tumori) effetto di nocività da lavoro, inquinamento ambientale e consumi errati, parallelamente ecco il ridursi di malattie infettive per miglioramento di condizioni di vita nel mondo a capitalismo avanzato (acqua potabile, trattamento liquami, abitazioni e alimenti salubri, farmaci, diagnostica, vaccini, servizi sanitari). Nel Sud del mondo le malattie infettive sono ancora un flagello, mescolandosi anche con le malattie cronico-degenerative per la coesistenza di arretrati sistemi di salute ambientale e fattori di rischio moderni legati alla produzione industriale inquinante e senza regole.

Il capitale ha avuto nel tempo interesse a ridurre le malattie infettive che interferiscono pesantemente con produzione e consumi, mentre le malattie cronico-degenerative convivono con essi, sviluppandosi in tarda età, non immediatamente mortali, occasione di profitti con farmaci e diagnostica. L’epidemia da Covid nasce ancora una volta dalla combinazione di sfruttamento ambientale (megalopoli), salto di specie (pipistrelli, già noti per la rabbia aerotrasmessa negli speleologi) e globalizzazione (D.Quammen, Spillover, Adelphi, 2014).Le società industrializzate negli ultimi trent’anni hanno man mano diminuito i propri servizi di prevenzione e controllo, spesso privatizzando, come in parte è avvenuto con la normativa europea di sicurezza sul lavoro e igiene degli alimenti, puntando tutto su vaccinazioni e farmaci, perché a più alta redditività per il capitale. L’Italia taglia la spesa su sanità e sociale, per i vincoli UE con il fiscal compact in Costituzione, e si trova con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) indebolito, privilegiando la logica del “Sistema”(parola spesso usata da molti al posto di Servizio, come erroneo sinonimo, ma teorizzato dalle centrali della cultura economica egemonica anche in sanità, Università Bocconi e Cattolica, come complementarietà tra il SSN pubblico, e il privato, in un’ottica di Sistema, come decantato dal pensiero unico dominante). La spesa sanitaria è il 70% dei bilanci regionali e il personale incide al 60%, in quanto settore ad alta intensità di lavoro umano: anche i dipendenti privati, dunque, di cui non ci si deve dimenticare quando si parla di lotta alle privatizzazioni. Qui si è tagliato, con un “falso in bilancio”, spostando la spesa da personale a “acquisizione di beni e servizi”: accreditamento erogatori privati, esternalizzazioni, convenzioni di medici e pediatri di base, specialisti ambulatoriali (tutti medici non dipendenti del SSN), consulenze. Più del 50% della spesa sanitaria.

Il privato aumenta i profitti attraverso regole meno severe di quelle del pubblico sulle assunzioni, riappropriandosi di quanto drenato con il prelievo fiscale dirottandolo altrove (finanza, immobiliare), con ampio ricorso a partite IVA, tempi determinati, lavoratori atipici, licenziamenti. Le mutue integrative, soluzione prospettata purtroppo in molti CCNL, non di rado con improvvise clausole capestro tipo franchigia, non previste al momento del contratto e senza nessun controllo da parte dello Stato come avviene invece in alcuni paesi UE con sistema misto come la Francia, sono un metodo per finanziare la sanità privata con soldi che non vanno in busta paga ai lavoratori al posto degli aumenti salariali. Le assicurazioni integrative per prestazioni non previste dai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza), nei fatti sostitutive, sottraggono ulteriori risorse con la defiscalizzazione, togliendole a salari e pensioni. È una soluzione proposta dal privato per non diminuire i finanziamenti in sanità cosa che ne avrebbe penalizzato gli introiti.

L’epidemia ha confermato questa impostazione: privati molti posti letto Covid, interventi chirurgici spostati nel privato con precise tariffazioni perché l’ospedale pubblico è in gran parte destinato al Covid, test sierologici e tamponi, attività domiciliari per pazienti Covid e vaccinazioni al privato (Unità Speciali Continuità Assistenziale-USCA, ricorso a lavoro precario). Le Regioni hanno autorizzato i tamponi nel privato e oggi con le vaccinazioni non sembrano fare né diversamente né meglio e comunque in modo diseguale. Si è puntato su mega HUB appariscenti e dai costi e personale non conosciuti (rigettate le identiche “Primule” del Commissario D. Arcuri e dell’architetto S. Boeri): il lavoro più difficile come  quello per over 80 a domicilio, disabili gravissimi, vulnerabili per patologie,  spetta alle ASL, sempre con l’ausilio di privati (erogatori accreditati per l’assistenza domiciliare  e le citate USCA in mano ai medici di base convenzionati). Tutto pur di non assumere operatori e rafforzare i Centri vaccinazioni esistenti, soprattutto nelle immense periferie urbane, l’osso appenninico e il meridione. Mentre dilagano lobby e corporazioni, scatenando una guerra tra poveri sui vaccini, e si preferisce l’introduzione dell’obbligo vaccinale ai lavoratori a campagne di educazione sanitaria di massa, necessarie anche sulle misure di contenimento dell’epidemia o lo studio di modalità tecniche e organizzative per poter riprendere le attività in sicurezza (scuola, trasporti, luoghi di lavoro di svago).

Errori gravissimi dell’UE e dello Stato (contratti, prezzi secretati) gravano sull’approvvigionamento dei vaccini compromettendo la campagna che dovrà riguardare 50 milioni di persone in Italia entro la fine dell’estate (immunità di comunità) e che dovrà essere ripresa con vaccini aggiornati alle mutazioni virali ogni anno, come per l’influenza stagionale, finché- si spera – il virus non muti in forma meno aggressiva. L’epidemia diverrà probabilmente endemica. Mentre manca ancora un sistema informativo nazionale uniforme su malattie infettive e vaccinazioni.

Il Sud del mondo sembra invece abbandonato al suo destino, se non si sospenderanno i brevetti come proposto nella Campagna “Nessun profitto sulla pandemia”, tutti i popoli vittime, anche se in modo diverso, della guerra commerciale e geopolitica su vaccini di Big Pharma, USA UE, Russia e Cina.

Recovery Plan/Next Generation UE al 50% prenderà queste strade in un vero assalto alla diligenza dei privati, il resto servirà a coprire l’indebitamento da usurai  che comunque resterà. Una “rimutualizzazione” di un SSN committente, che compra prestazioni da privato a costi aumentati e non produce direttamente, anche nell’epidemia è subalterno al privato. Per affrontare l’epidemia il SSN è impreparato anche perché con l’imbuto di tamponi, laboratori, difficoltà al tracciamento dei contatti e vaccinazioni, che richiedono centinaia di operatori, non si è pensato in questi mesi a specifici servizi di prevenzione e cura Covid con organico dedicato e di ruolo, come si fece in passato per TBC e HIV. È necessario che alla mortalità aggiuntiva da Covid non si aggiunga quella per il blocco dell’attività sanitaria ordinaria come sta avvenendo anche ora. Il SSN deve attrezzarsi a convivere con una malattia endemica anche con il vaccino, per non chiudere il Paese, con danni a salute, lavoratori esposti al rischio (iniziando con il classificare correttamente nel gruppo di rischio biologico 3 il Sars-Cov-2 poiché trasmissibile alla popolazione), istruzione e reddito dei cittadini. Il” lavoro agile” è un privilegio di classe per alcuni, senza regole, che scarica i costi sui lavoratori penalizzando l’utenza.

È necessario proporre subito una ripubblicizzazione della sanità con un programma di assunzioni, ad oggi insufficienti, concorsi regionali per profili e discipline, graduatorie a scorrimento e reinternalizzazioni, compresa la medicina di base, di cui va ripensata la formazione collocandola in ambito universitario superando il numero chiuso. Quanto è accaduto ha visto complici le Regioni, prima interpreti di tagli alla spesa, poi traduttrici autonome di confuse indicazioni di Governo e Ministero della salute: assaggio di regionalismo differenziato già anticipato da un governo di centro sinistra con la modifica del titolo V della Costituzione, lasciando al palo il Sud. La guerra delle ordinanze, il costo diverso dei tamponi e le diverse modalità di vaccinazione ne sono il simbolo. Non il centralismo, ma un giusto rapporto Stato-Regioni-Comuni, negli organismi istituzionali preposti, come previsto dall’art. 114 della Costituzione, per garantire uniformità di diritti.

Nel SSN c’è poi un problema democratico aggravato dagli accorpamenti di gigantesche Aziende Sanitarie, con Distretti enormi, l’incapacità dei Comuni di rappresentare le comunità locali nei confronti delle Regioni e direzioni delle aziende sanitarie anacronisticamente simbolo di una verticalizzazione autoritaria. Inversione di tendenza rispetto a decentramento amministrativo e partecipazione democratica, bandiere della sinistra, che dopo anni di governo, non può accusare altri. Le Case della salute, che G. Maccacaro primo pensò nel 1975 come realtà partecipative in USL e Distretti piccoli, rivedute dopo molti anni nel 2004 dalla CGIL, per una trasformazione della medicina territoriale come risposta alla presa in carico della cronicità in ASL e Distretti di grandi dimensioni, presenti in poche Regioni, sono spesso proposte come soluzione a tutto, ma senza adeguate risorse e progettualità e nel Recovery Fund sono dimenticate senza nessuna valutazione e sostituite con Case della comunità. Ma serve un movimento di lotta a partire dall’epidemia che apra su queste istanze conflitti e vertenze, scuotendo la pigra sinistra.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 49 di Marzo-Aprile 2022: “Si scrive concorrenza, si legge privatizzazione

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La volontà del Legislatore - Gruppo d’Intervento Giuridico


Quando s’interpreta una norma si fa riferimento anche alla volontà del legislatore (art. 12 delle preleggi cod. civ.).

Il 22 marzo 2022 su disposizione della magistratura è stato arrestato e posto agli arresti domiciliari l’on. Valerio De Giorgi, consigliere regionale sardo, già Presidente della Commissione consiliare permanente “Bilancio”, eletto con Fortza Paris e subito dopo transitato nel Gruppo Misto, componente Sardegna Forte,  ispettore della Guardia di Finanza.

Insieme a lui un collaboratore (Marco Pili) e un costruttore (Corrado Deiana).

Fra le ipotesi penalmente rilevanti contestate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari vi sarebbe un emendamento al c.d. piano casa introdotto dal voto in Consiglio regionale nel 2020 su proposta dell’on. De Giorgi, ma ispirato proprio dall’impresario Corrado Deiana, che così avrebbe avuto la possibilità di edificare un immobile con maggiore volumetria a Quartucciu (CA).

Il nuovo piano casa, divenuto legge regionale Sardegna n. 1/2021, sarebbe stato poi in gran parte cassato dalla Corte costituzionale per le innumerevoli illegittimità con la sentenza n. 24/2022.

In cambio quattro appartamenti e otto posti auto a familiari stretti del consigliere regionale.

Ecco, in questo caso, in attesa di sentenza definitiva passata in giudicato, la volontà del legislatore sembrerebbe rappresentata da quattro appartamenti e otto posti auto.

Ipotesi da tenere a mente, quando ci si trova davanti a norme improntate alla più cruda e becera speculazione immobiliare.

Gruppo d’Intervento Giuridico odv

 

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venerdì 25 marzo 2022

SCOPRI IN CHE MODO VENGONO ALLEVATI I CONIGLI “DA CARNE” - Essere Animali

 

Il coniglio domestico allevato deriva dal coniglio selvatico ancora presente nel bacino mediterraneo. Questi animali vengono allevati per produrre carne ma anche per confezionare pellicce. Le principali razze da carne sono: Nuova Zelanda, California, Gigante e Borgogna, mentre quelle da pelliccia sono Angora, Rex e Orylag.
Tuttavia la moderna conigli-coltura basa l’allevamento sugli ibridi commerciali, animali che derivano dall’incrocio di due o più razze e successiva selezione, in modo da fissare i caratteri e scegliere i soggetti migliori.

Tutto questo è ovviamente funzionale all’allevatore che ne trarrà vantaggi riguardo:
• maggiore prolificità
• migliore indice di conversione alimentare (più parti commestibili)
• migliore precocità di sviluppo
• maggiore resistenza alle malattie

Le Gabbie

Molto simile all’allevamento delle galline in batteria, possono essere a più piani o a un piano unico.
La dimensione di ogni gabbia è di circa 20 x 35cm o 30 x 25cm alte 30cm, nelle quali vengono stabulati 1 o 2 animali. Il pavimento, come il resto della gabbia, è costruito da reti metalliche che permettono la caduta delle deiezioni; questo fondo crea disagi e fastidi alle zampe.
La vigente normativa in materia di benessere animale non disciplina dimensioni delle gabbie e densità per individuo. La realtà indica però che durante la fase d’ingrasso vengono stipati 12-15 animali per m2, misure che permettono ai conigli il solo girarsi su se stessi e l’alzarsi a malapena sulle zampe posteriori.

Riproduzione

Nelle latitudini europee, i conigli allo stato selvatico hanno un ciclo stagionale di riproduzione ben definito: la maggior parte delle gravidanze avviene tra febbraio e agosto, con un picco a maggio.
Negli allevamenti dove l’etologia degli animali è stravolta si attuano ritmi di riproduzione con accoppiamenti che vanno dai 10-12 giorni dal parto per gli intensivi ai 30-40 per gli allevamenti estensivi o rurali. A livello intensivo il numero di parti per fattrice all’anno è di circa 7-9, la durata della gravidanza è di 31 giorni, una femmina può arrivare a partorire fino a 14 conigli a parto. In media i riproduttori sia femmine che maschi vengono macellati all’età di 2 anni.

Inseminazione Artificiale

La quasi totalità degli allevamenti ingravida gli animali in modo artificiale. Questa è un’operazione totalmente snaturata e autoritaria che consiste nel posizionare la femmina all’interno di un tubo di plastica e immettere tramite siringhe o sonde (tubi di plastica) nelle vie genitali femminili il seme di un maschio scelto, preventivamente prelevato, raccolto tramite vagine artificiali o cateteri.

Lo Svezzamento

È il passaggio dall’allattamento all’alimentazione solida e consiste nella separazione della madre ai suoi cuccioli. Si effettua di norma a 28-30 giorni di età, la madre viene allontanata dalla nidiata che rimarrà nella stessa gabbia fino a 55-60 giorni prima di venire spostati e ricollocati in gruppi di 2-3 individui per gabbia.

Ingrasso e Finissaggio

È il periodo di tempo che va dallo svezzamento alla macellazione. In genere la fase di ingrasso dura 30 giorni e parte 2 mesi circa dalla nascita, mentre quella di finissaggio (termine tecnico che indica l’accrescimento del tessuto adiposo) conclude quando i conigli raggiungono il peso di 2,5 Kg chiamato brutalmente maturità commerciale.
A questo punto gli animali vengono trasportati al macello a soli 11/12 settimane (3 mesi), se fossero lasciati vivere i conigli arriverebbero a circa 10 anni di età.

Trasporto e Macellazione

Raggiunta la data X i conigli vengono prelevati dalle gabbie, posizionati in altri contenitori di plastica, caricati su un camion e trasportati verso il macello. Questo particolare momento è altamente stressante e angoscioso per gli animali.
Arrivati al mattatoio, nei lunghi istanti prima di morire, vedranno macellare i loro simili.
L’uccisione avviene tagliando la gola con un piccolo coltello dopo aver stordito l’animale per elettronarcosi, scariche elettriche in testa.

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giovedì 24 marzo 2022

Il dominio dei SUV - Giancarlo Cinini

 

 

Il dominio dei SUV è una questione culturale e di mercato, oltre che tecnica, ed è un problema ecologico e di sicurezza per le nostre città.

El g’ha el Süv, lü l’è el baüscia milanes”, recitava – più di dieci anni fa – il ritornello della canzone di una pubblicità. Sfotteva i SUV che intasavano già le città, e i baüscia alla guida che li compravano per status, sbruffoni di taglia imprenditoriale diretti a Courmayeur. “Inquina? Fatti tuoi!”. Quella pubblicità vendeva però a sua volta un SUV, certo più compatto ed economico degli altri, e costruito dalla Skoda, ma era pur sempre una sorta di SUV. Il campo delle alternative si era già ristretto.

Che nelle strade delle città europee circolassero automobili sempre più massicce ce n’eravamo accorti da tempo. La canzone sollevava, a modo suo, la questione ecologica o di un rapporto più complicato con lo spazio dei centri urbani. Stereotipizzava anche l’aggressività dei suoi conducenti, un’arma di cui però si riappropriarono presto le pubblicità dei SUV “canonici”: la BMW, nel 2019, lanciò il suo lussuoso X6, descrivendolo come un capobranco con “attributi da maschio dominante”.  

Negli anni la categoria del SUV (Sport Utility Vehicle, in italiano Veicolo di Utilità Sportiva) ha spopolato e si è allargata in gamme diverse, finché ogni casa automobilistica non ha avuto una sua berlina suvizzata. In questa corsa nessuno si è sottratto: persino la Ferrari, marchio a cui non è mai importato di fare né un’utilitaria né una berlina di lusso. Queste auto più alte, più massicce e spesso dal design dinamico o aggressivo, si sono imposte in un mercato automobilistico in crisi profonda. Oggi la forma SUV costituisce quasi la metà delle nuove auto vendute in Europa. Com’è stato possibile?

Oggi la forma SUV costituisce quasi la metà delle nuove auto vendute in Europa. Com’è stato possibile?

La necessità di ridurre le emissioni avrebbe lasciato infatti immaginare auto più leggere oppure più aerodinamiche. “D’altra parte, è anche vero che i dispositivi di sicurezza chiedevano spazio a bordo e altrettanto faceva l’elettronica”, spiega Sophian Fanen, giornalista francese autore dell’inchiesta SUV qui peut. “Poi la transizione verso l’auto elettrica, con le sue grosse batterie montate al di sotto, ha imposto auto più alte. Ma tutto ciò non basta per spiegare questo ingigantimento”. Tra il crescente bisogno di sicurezza degli automobilisti e la necessità di incassare dei produttori, la suvizzazione dell’auto è diventata un complesso fatto culturale ed economico, estetico, che negli ultimi vent’anni ha plasmato le forme dell’auto.

Il ventennio suvista
I fuoristrada che potevano muoversi anche su strade normali esistevano già, ed erano già popolari: la Land Rover della regina Elisabetta, per esempio, la Ford Bronco di O.J. Simpson o la Lada Niva prodotta nella città di Togliatti, URSS. Nel 1994 però compare in Europa la Toyota RAV4: è una novità perché è un 4×4 più compatto, costruito sulla piattaforma rinforzata di una berlina, ma pur sempre dalle forme di una jeep. Negli anni seguono la Mercedes e poi BMW. Ancora tuttavia i SUV sono un acquisto di nicchia. Diventano però un lemma da dizionario, tanto che l’Enciclopedia dell’Auto di Quattroruote del 2003 alla voce SUV spiega che “si tratta di veicoli per il tempo libero che si stanno diffondendo anche in Europa” e che negli Usa già superano le vendite “delle automobili”. 

Da lì a poco il mercato europeo si orienterà verso queste nuove forme. Ne racconta un esempio il designer Patrick Le Quément, designer già a capo del design Renault dal 1987 al 2009: “nel 2006 il nuovo presidente della Renault, Carlos Ghosn fece un discorso davanti al personale design, con la sua perentorietà abituale. Disse: smetteremo di fare queste auto, faremo il più gran numero di SUV”. Ghosn era stato a capo di Nissan con cui Renault aveva già un’alleanza industriale. “Questa piccola storia è interessante perché Nissan faceva il grosso delle sue vendite negli Stati Uniti. Tutto lì era cominciato con i pick-up e altri veicoli abbastanza mostruosi, estremamente pesanti ma non per forza spaziosi”, commenta Le Quément. In effetti circolavano da tempo jeep da strada e i costruttori che cercavano di conquistarsi un posto nel mercato statunitense facevano vetture più massicce, con grossi motori. “E consumi terribili”, aggiunge Le Quément. “Erano all’opposto dei criteri del design europeo, in particolare di Francia e Italia dove c’è sempre stato l’elogio della leggerezza. Ma poco per volta i produttori hanno cominciato a lanciare queste auto sul mercato europeo”. Alla fine di quel 2006 proprio Nissan lancia Qashqai: è il primo SUV di mezza taglia del tutto votato alle strade delle città europee, non somiglia più a una jeep e lo chiamiamo crossover (anche se non ci sono definizioni chiare del termine). 

“All’epoca”, aggiunge Fanen, “il mercato europeo dell’auto era diviso tra piccole auto, berline, diciamo classiche o di lusso, e soprattutto monovolume: era l’epoca dell’auto di famiglia. Dopo la scintilla di RAV4 e Qashqai, le persone sembravano sempre più interessate a questi 4×4 da città. La maggior parte delle persone in effetti vive in città o nei dintorni e non prende un’auto per andare nella foresta. Eppure ha funzionato”.

All’inizio i SUV erano all’opposto dei criteri del design europeo: in particolare di Francia e Italia c’è sempre stato l’elogio della leggerezza. Poi hanno preso piede ovunque.

Negli anni la categoria SUV si è diversificata e la sua forma si è imposta anche nelle taglie medie o piccole, così anche da un’utilitaria o una berlina nascevano versioni più muscolose. Non da meno i marchi di lusso: ecco i grandi SUV di Rolls Royce, Bentley e delle sportive Lamborghini e Ferrari. La forma SUV si adatta bene anche come auto di potere, e difatti Macron nel 2017 ha scelto un SUV come nuova auto presidenziale. A ridosso della rielezione di Mattarella si vagheggiava lo stesso per il Quirinale.

Nel tempo, dunque, un’esplosione: secondo Jato Dynamics, agenzia che raccoglie dati del settore, nel 2007 i SUV costituivano l’8% del mercato auto europeo, dieci anni dopo il 29%, il 33% nel 2018, il 40,3% nel 2020. L’anno scorso il 45,5%. Vicino al 52,3% degli Stati Uniti. 

L’ultima sigaretta
E però al tempo stesso il mercato dell’auto è in profonda crisi, anche a causa della pandemia e della “crisi del potere di acquisto della popolazione”, come scrive Andrea Coccia, giornalista e autore di Contro l’automobile, in un articolo su Slow News. In Francia nel 2020 “sono state immatricolate 1.650.188 automobili private (…) il peggior dato dal 1975”, aggiunge Coccia. Il crollo è generale: tra i dati raccolti da Coccia leggiamo che in Germania le auto immatricolate nel 2020 sono diminuite del 19,1% rispetto all’anno precedente e in Italia del 27,9%. Di mezzo, c’è stata la crisi dei chip per le componenti elettroniche, la pandemia e la saturazione di un mercato già affollato: la crisi sembra epocale. 

Serve un “piano storico” come quello annunciato in una solenne conferenza da Macron nel maggio del 2020, dentro gli stabilimenti dell’industria di componenti auto Valeo a Étaples. Otto miliardi di aiuti per la filiera produttiva francese e per il sostegno all’acquisto. Uno degli obiettivi è che i francesi acquistino più automobili e in particolare più automobili pulite; dice Macron: “non tra due, cinque o dieci anni: ora”. In questo piano, 600 milioni sono stanziati per costituire un fondo d’investimento condiviso tra stato e produttori. Si tratta insomma di “tenere in vita”, scrive ancora Coccia, “l’industria automobilistica, rilanciando il modello classico, quello delle sovvenzioni statali, continuando a incentivare l’utilizzo dell’automobile e la sua produzione”. 

Nel frattempo, 2021, secondo l’ACEA (Associazione dei costruttori europei di automobili) le vendite di nuove auto sono scese ulteriormente, meno 2,4%. Così, anche se il mercato italiano nell’ultimo anno è cresciuto, il governo ha stanziato con decreto quasi 8 miliardi di aiuti

I SUV che ruolo hanno in questo processo di Restaurazione? Nel mercato europeo e globale costituiscono quasi la metà delle nuove vendite, secondo l’International Energy Agency. Certo, nel 2021 i SUV sono meno di quelli venduti pre-crisi nel 2019, ma comunque sono già più venduti rispetto al 2020. Ma non è solo il successo a trainare il mercato.

Produrre SUV costruiti a partire da berline è per l’industria un modo di massimizzare i ricavi, in attesa della transizione verso i veicoli elettrici che sarà lenta e costosa.

I SUV sono infatti costruiti a partire da piattaforme di berline. Perciò i costi di produzione sono ridotti e però, sottolinea Fanen, “sono considerati di più alta gamma rispetto alle berline. Dunque, i gruppi automobilistici fanno una berlina, ne fanno una versione più muscolosa e la vendono a migliaia di euro in più”. Secondo le stime, nel 2020 in Europa il prezzo di un SUV era superiore mediamente del 59% rispetto a quello di una berlina. “Per l’industria è un modo di incassare il massimo dei soldi perché si sa bene che la transizione verso i veicoli elettrici sarà lenta e costosa. Insomma, il SUV è l’ultima sigaretta prima della morte del mercato dell’auto per come lo conosciamo e della morte di un secolo a benzina”. 

Dal lato dei produttori si tratta insomma di cavalcare l’onda del successo dei SUV per fare upselling, come mi conferma lo stesso Andrea Coccia, cioè vendere agli automobilisti auto di fascia superiore e incassare. Ma, ancora, questo successo è l’esito anche di altre ragioni e di fenomeni non solo economici. “Nel mondo delle auto ci si batte per tentare di salvare qualche punto di vendita e quello dei SUV è un approccio calcolato, una strategia di marketing”, secondo Le Quément, che aggiunge: “come spesso accade, i fattori che intervengono nella questione sono anche altri e numerosi”. 

L’ideologia sociale del SUV
Negli Stati Uniti nel 2021 sul podio delle tre auto più vendute ci sono tre pick-up, quasi due milioni di vendite. Tutti e tre superano i cinque metri e due dei tre sfiorano i sei; se pesati assieme superano le sei tonnellate. “L’origine del fenomeno SUV”, scherza Le Quèment, “è proprio questa relazione tra certi mezzi mastodontici e i cowboys americani, che se ne vanno in giro con le pistole in tasca”. Certo, le auto europee nel tempo si erano già ingrandite per ragioni importanti come la sicurezza stradale, evoluzione che si osserva di generazione in generazione. “Ma qui siamo in un contesto di aggressività e queste macchine sono divenute sempre più aggressive, non solo nella loro taglia, ma soprattutto attraverso la loro espressione stilistica. L’evoluzione è dunque fisica ma anche culturale”. 

L’automobile è sempre stata simbolo dell’individualità. Così scriveva André Gorz, filosofo, sulla rivista Le Sauvage nel 1973:


L’automobilismo di massa materializza il trionfo dell’ideologia borghese al livello della pratica quotidiana: instilla e fa crescere in ognuno di noi la convinzione illusoria che ogni individuo può prevalere e avvantaggiarsi alle spese di tutti. È l’egoismo aggressivo e crudele del guidatore che ogni minuto assassina simbolicamente “gli altri”, che non li percepisce più se non come fastidi materiali e ostacoli alla propria velocità.



Gorz la chiama 
l’ideologia sociale della macchina. Sono passati cinquant’anni eppure oggi ci stupiamo lo stesso fronte all’inasprimento visibile della potenza individuale, muscolare, di queste nuove auto. Forse perché negli anni Novanta la diffusione di grandi macchine significava monovolume vendute come veicoli per famiglie e non corazze individuali. Però nella prospettiva di Gorz i SUV, cinquant’anni dopo, non sarebbero altro che l’ennesima materializzazione di quella rivalsa e di quell’egoismo, portato alle sue estreme conseguenze estetiche. “La maggior parte di questi veicoli cercano potenza, ma anche, direi, violenza”, commenta Le Quément. “Quando guardiamo alla nuova concept car di lusso della BMW siamo di fronte a una degenerazione di questa espressione dell’aggressività verso gli altri utilizzatori della strada”.

Si tratta anche di un arrocco: le dimensioni del SUV danno a chi lo guida un’evidente percezione di sicurezza e di maggior controllo, di “sentirsi protetti dentro. Anche se non è esattamente vero perché in Europa un SUV non è tecnologicamente più protetto, ma ha le stesse norme di una piccola vettura”, precisa Sophian Fanen. “Solo è più grande e ha dunque più probabilità di fare danni agli altri”. La ricerca di protezione nasconde dei risvolti più profondi. Il ventennio dei SUV in Occidente è coinciso con una stagione di inquietudine, segnata simbolicamente dagli attentati a New York, e dunque un periodo di ossessione per la sicurezza. Il sociologo Yoann Demoli in Sociologie de l’automobile nota come dopo la guerra del Golfo negli Stati Uniti si fosse diffusa la moda dell’hummer, veicolo di origine marziale. “Pensiamo anche ai militari nelle stazioni”, aggiunge Sophian Fanen. “Questo mondo è percepito come una minaccia e il SUV mi pare che in un certo senso materializzi questa paura. Non è ovviamente qualcosa a cui pensa chi compra, anche se c’è un immediato senso di protezione stradale”. Tuttavia esistono elementi estetici che possono essere chiavi simboliche per leggere questa ricerca di sicurezza. Uno di questi è la linea di cintura: puntate il dito alla parte bassa dei finestrini e scorretelo in orizzontale, è la linea che delimita la carrozzeria. “Nel design dell’auto è un elemento chiave. Più questa linea si alza”, prosegue Fanen, “più i finestrini si riducono e abbiamo un senso di chiusura, come una gabbia contro gli squali, ma al tempo stesso diventiamo minacciosi per l’esterno”.

Il SUV è l’ultima sigaretta prima della morte del mercato dell’auto per come lo conosciamo, e della morte di un secolo a benzina.

“In questo contesto ansiogeno anche i finestrini diventano neri”, aggiunge Le Quément. “Alcune di queste auto somigliano così a dei blindati, dei tank in grado di resistere. Dunque, la nozione di protezione è un elemento chiave per comprendere questa storia. Ma penso esista un ulteriore legame con un altro fenomeno. Siamo in un’epoca di dismisura e lo constatiamo dalla concentrazione delle ricchezze”. La necessità di manifestare ricchezza e potere attraverso i mezzi di trasporto è storia secolare, e la storia stessa dell’auto lo dimostra. “Quando l’automobile è stata inventata, essa doveva concedere a pochi ricchi borghesi un privilegio completamente nuovo: quello di spostarsi più velocemente rispetto a tutti gli altri”, scrive André Gorz, nell’Ideologia sociale della macchina. Nonostante la successiva massificazione con la Ford T in America e il boom economico in Europa, l’auto, secondo Gorz, resta nella sua essenza qualcosa di simile a un castello o una villa costiera, un lusso inventato “per il piacere esclusivo di una minoranza di ricchissimi”. Dunque nella vendita delle auto è da sempre implicata una volontà di ostentazione della ricchezza e del potere, veri o pretesi.

Patrick Le Quément, che dopo aver segnato il design automobilistico si dedica oggi al design navale, sposta per un momento questo discorso su un’altra manifestazione di ricchezza. “Pensiamo agli yacht. Stanno costruendo lo yacht di Jeff Bezos in Olanda, il più grande a vela. Forse ne conoscete la storia: il comune di Rotterdam inizialmente sembrava aver ipotizzato di smontare parte di un ponte perché questo yacht è così smisurato che non ci passa. Al suo confronto lo storico yacht dei reali inglesi, il Britannia, è piccolo”. Per fare un paragone lo yacht di Bezos è grande il doppio del vascello Victory con cui Lord Nelson e l’equipaggio di 850 soldati combatterono Napoleone nella battaglia di Trafalgar. “Negli anni anche le imbarcazioni dei grandi ricchi sono raddoppiate nelle dimensioni. Credo che l’automobile segua dal punto di vista culturale questa evoluzione della società: la postura è mostrare quanto sono potente, anche attraverso queste forme di dismisura”.

Come fare un design aggressivo
Roland Barthes nel 1957 dedicava una parte di Miti d’oggi alla déesse, la dea: così si pronunciava il nome della Citroën DS 19. L’indiscutibile design carismatico per Barthes faceva della DS “un oggetto perfettamente magico”, caduto dal cielo, aggiungerà in un’intervista in TV. Per il critico possedeva un “gusto della leggerezza, dal senso magico”, che prendeva forma nel suo aerodinamismo, nell’esaltazione del vetro e dell’aria, nella superficie liscia come attributo di perfezione, trasmutando da un “mondo di elementi saldati a un mondo di elementi giustapposti”. Barthes scrive anche che in questo nuovo e già mitico Nautilus “la velocità si esprime in segni meno aggressivi, meno sportivi, come se passasse da una forma eroica a una forma classica” per poi notare che fin lì invece “le automobili superlative erano appartenute piuttosto al bestiario della potenza”. 

Sembra l’opposto di quanto vediamo oggi. Patrick Le Quément si chiede in un recente articolo se esistano ancora automobili capaci di attrarre lo sguardo di qualcuno come Barthes. Val la pena però di capire l’aggressività e la ricerca di protezione siano espresse nelle forme. “Nel design dell’auto c’è sempre stata una parte di aggressività, basta guardare una Lamborghini”, spiega Le Quément. “È il cosiddetto wedged design, per cui la linea di cintura cade in avanti. Quando le guardiamo, auto di questa forma danno l’impressione di essere in pieno movimento, come un ghepardo”. Con l’avvento dei SUV coupé questo design ha conquistato anche quella categoria. “Tagliare il retro fa sì che la silhouette diventi propulsiva. Un altro dettaglio sono le calandre sono sovradimensionate. Ora, se sparisce il motore sulle auto elettriche, le calandre diventano inutili, ma per preservare questo aspetto minaccioso certi costruttori mettono elementi, come prese d’aria finte, le cui linee hanno l’espressione arrabbiata di certi cartoni animati giapponesi”.

La suvizzazione dell’auto non riguarda soltanto i SUV: anche le altre auto tendono a ingrandire le proprie forme.

Ma accentuare queste forme è diventato anche una necessità. Le auto infatti si somigliano sempre di più per dimensioni. Se un primissimo e banale limite è la larghezza della strada, un’auto grande può solo allungarsi, ma un auto piccola può invece anche allargarsi. “Ciò che è interessante”, spiega il designer, “è che le auto piccole, medie e grandi si stanno avvicinando in termini di larghezza, rispetto a 30 anni fa. E i costruttori si stanno tirando una palla sul piede perché la massa delle auto di categoria diversa è molto vicina, quasi identica, e le auto si somigliano nella loro silhouette. Dunque per distinguere l’auto più costosa ne si accentua l’espressione, sempre più forte man mano che si sale di gamma”.

La suvizzazione dell’auto non riguarda soltanto i SUV: anche le altre auto tendono a queste forme. Esattamente come c’era stata un’affermazione del monovolume non solo tra le ampie auto familiari, ragione per cui è esistita anche la piccola Twingo, oggi osserviamo un generale tendenza verso questo design. Conclude Le Quément: “Credo sia una volontà di iscriversi in una moda. Conta il marketing e le persone del marketing sono degli inseguitori. Credo non esista più l’eleganza dell’automobile, non è più il soggetto della ricerca: si tratta di impressionare sulla strada. Con l’idea dell’auto che arriva e si impone e noi lasciamo il passo”.

Il paesaggio pubblicitario
Nella costruzione di questo immaginario, la pubblicità è un punto chiave e lo è anche nel stimolare le vendite. Perciò, in quanto cardinale, è dispendioso: Andrea Coccia nel suo Contro l’automobile ha esaminato la quantità di soldi che i produttori investono nella pubblicità dell’automobile. Nel 2017, per esempio, al mondo quaranta miliardi sono stati usati per la pubblicità delle auto, dieci solo in Europa. 

All’inizio dell’articolo si citava una pubblicità di un SUV BMW (2019) che parlava di attributi da maschio dominante. Non è l’unico riferimento a questa virilità. Un’altra pubblicità dello stesso marchio dichiara con le stesse parole quanto ha descritto poco sopra Le Quément. Si dice infatti che la nuova colorazione speciale del SUV, ispirata alla velenosissima rana freccia: “segnala subito a chi la guarda: attenzione! Pretendo rispetto!”. E ancora: “non vi avvicinate troppo!” Il racconto ondeggia tra la descrizione naturalistica e i dettagli automobilistici, mostrando come si fa a “dominare: sulla strada e nel mondo animale”. 

Di certo, non tutte le pubblicità sono così esplicite. Altrove si proclama: “tu sei il capitano”, l’auto allora prende velocità, eccitata, in un sentiero selvaggio, un canyon, viene sfidata in corsa da un elicottero o da un cavallo, attraversa una foresta, la Foresta Nera, un cervo, si inerpica su un crinale di montagna, mentre volteggiano dei paracadutisti, i gabbiani, siamo arrivati al mare, un fiordo e lì possiamo parcheggiare sugli scogli. L’invito è a vivere in un altro modo. “È sorprendente: vendiamo le auto su un’idea di grandi spazi e traversate. Uscire di strada: in molte pubblicità vediamo le auto che lasciano la strada e si avventurano”, aggiunge Sophian Fanen che ne ha fatto un intero catalogo in uno degli episodi della sua inchiesta sui SUV. 

Dunque, rispetto allo spot della Fiat Punto del 1999, dove l’auto si destreggiava in una giungla urbana affollata di animali, la maggior parte di queste pubblicità oggi raccontano di fughe dalla vita cittadina. Lo spot della Ford Ecosport (2019) comincia con una domanda fatidica in una pausa caffé, al lavoro: “Bel weekend?” “Pieno”, risponde l’altro, “super pieno” e si susseguono immagini divertenti e vitali, accompagnate dall’auto fedele, perché “la vita è là fuori”.

I SUV di oggi inquinano di più delle auto, perché sono più pesanti e spesso meno aerodinamici, e resteranno in circolazione nel mercato dell’usato per vent’anni.

L’auto rappresentata è un’auto che torna alla sua virtualità assoluta, al polo opposto di quella imposta dall’autostrada per come la descrive Alessandro Mantovani in un suo articolo sul Tascabile. Se infatti “l’autostrada è di per sé un’anti-strada, è l’unica a non condurre mai realmente a nessun edificio, nessuna sede”, i sentieri intrapresi in queste pubblicità sono potenzialmente tutti e conducono esattamente a ciò che desideri, perché è l’automobile stessa che ti permette di assecondare la tua propria strada. 

Patrick Le Quément ci riporta quindi a uno sguardo più ampio sull’intera storia dell’auto: “si è sempre giocato sul fatto che l’automobile fosse un mezzo per fare quello che chiamiamo porta-a-porta. Dunque la pubblicità ha sempre rappresentato forme di fuga e di grande libertà, anche nelle pubblicità degli anni Cinquanta e Sessanta degli Stati Uniti, dove vediamo le auto col bagagliaio aperto e il sacco da golf pronto. Idealmente quando saliamo in auto entriamo in un mondo fatto a sé, siamo i soli padroni a bordo e ce ne andiamo dai problemi della vita e gioiamo di questa libertà”. 

Tuttavia, come si è detto, il mondo che produce quest’immaginario è un mondo in crisi. “L’auto è minacciata”, chiosa Fanen, “eppure c’è un punto da tenere a mente, almeno in Francia: chi compra un’auto nuova ha più di 60 anni. I pubblicitari vendono quindi auto a persone che non vogliono che il mondo sia meno fatto per le auto. Ci trovo anche un’ansia climatica. Siamo dentro una sorta di negazione, queste sono pubblicità ultraconservatrici che vendono il rifiuto di un mondo che cambia”.

Ecosistemi e città
Intanto, i SUV inquinano di più delle auto a loro contemporanee, perché sono più pesanti e spesso meno aerodinamici. In uno 
studio della Agenzia europea per il clima nel 2018 la maggioranza dei nuovi SUV circolavano a benzina ed emettevano “in media 13 g di CO2 per km in più delle emissioni medie delle altre auto nuove a benzina”. Inoltre secondo i dati di Jato Dynamics, quando l’espansione dei SUV in Europa ha raggiunto una massa critica ha invertito la rotta delle emissioni medie di CO2, che calavano di anno in anno. Tra il 2018 e il 2019 le emissioni medie sono cresciute, per attestarsi attorno ai 131,5 g per chilometro percorso. E il tetto fissato dall’Ue è 95 g/km, oltre cui scattano le sanzioni. Dunque il successo dei SUV è contraddittorio anche per gli stessi produttori: “nel sistema europeo di crediti di CO2 la FIAT, per esempio” spiega Fanen “è costretta a comprare i crediti a Tesla. Tesla non emette CO2 dunque acquista crediti che rivende ai costruttori più inquinanti. Questo di fatto diventa un lasciapassare abbastanza goffo e se fossimo rimasti alle berline avremmo risparmiato tonnellate di CO2 nell’aria.”

Tuttavia nel 2021 le immatricolazioni di auto elettriche e ibride in Europa hanno raggiunto il 10%. Nell’elettrificazione i SUV di grossa taglia hanno due vantaggi: tecnicamente sono già pronti per alloggiare le grosse batterie, e sono più costosi dunque è più facile spalmare il costo extra dell’elettrificazione. Ma resiste un altro problema, come fa notare Fanen, e cioè che la diffusione dei SUV è “una bomba a orologeria”. Perché queste auto possono restare in circolazione nel mercato dell’usato per vent’anni: “vedremo SUV acquistati da un single o da una giovane coppia che non ne hanno del tutto bisogno, semplicemente perché è la sola auto che trovano di seconda mano”. Per arginare il fenomeno dei tentativi legislativi in Francia sono stati fatti, ancora senza successo.

Ci troviamo all’incrocio di fenomeni di mercato e culturali che riguardano anche l’ecologia e lo spazio del nostro vivere.

Insomma ci troviamo all’incrocio di fenomeni di mercato e culturali che riguardano anche l’ecologia e lo spazio del nostro vivere. Se per 50 anni abbiamo costruito mondi per l’auto di massa e plasmato quartieri e banlieue, come racconta Coccia, oggi vogliamo meno auto in città. Ma, contraddittoriamente, ci circolano auto più grosse. “È un modo di dire agli altri o a sé stessi: non voglio sottomettermi alla città, non voglio che il mondo cambi”, secondo Fanen. Forse in questo mondo, conclude il designer Le Quément “il picco dell’auto è passato da tempo e l’automobile ha in verità abbandonato anche il mondo dei sogni”.

La contraddittoria presenza di un SUV, immobile in città con la sua massa sproporzionata, ci interroga. Parcheggiato, le sue fattezze di notte sembrano incoerenti. Prima che la transizione elettrica sia reale e prima che detti davvero nuove forme di design – o prima che finalmente si scelgano nuove forme di mobilità collettiva–, se il SUV è davvero l’ultima sigaretta, sembra però piuttosto la famosa ultima sigaretta di Zeno, il personaggio di Italo Svevo: ogni volta l’ultima, così che le giornate “finirono con l’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più”.

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