lunedì 18 marzo 2024

Manifesto. Il fronte di liberazione del contadino impazzito - Wendell Berry

Il manifesto di Wendell Berry (1973) è forse tra le poesie più famose del poeta e scrittore americano.

La traduzione qui riportata è di Vincenzo Perna ed è contenuta nella raccolta di saggi Mangiare è un atto agricolo.

 

Manifesto. Il fronte di liberazione del contadino impazzito (1973)

Ama il guadagno facile, l’aumento di stipendio,
le ferie pagate. Desidera con tutte le tue forze
i prodotti impacchettati.
Vivi nella paura
dei vicini e della morte.
La tua mente non avrà segreti,
e neppure il tuo futuro sarà più un mistero.
I tuoi pensieri saranno schedati
e archiviati in un cassetto.
Quando vorranno farti comprare qualcosa,
ti chiameranno.
Quando vorranno sacrificarti al profitto,
te lo faranno sapere.
Perciò, amici miei, fate tutti i giorni qualcosa
d’irragionevole. Amate il Signore.
Amate il mondo. Lavorate gratis.
Prendete ciò che avete e fatevi poveri.
Amate chi non se lo merita.
Denunciate il Governo e abbracciate
la bandiera. Cercate di vivere liberi
nella libera repubblica che essa simboleggia.
Approvate ciò che vi sfugge.
Lodate l’ignoranza, perché quello che l’uomo
non ha ancora scoperto non ha ancora distrutto.
Interrogatevi sulle domande senza risposta.
Investite nel millennio. Piantate sequoie.
Dichiarate che il raccolto più importante
è la foresta che non avete seminato,
che non vivrete abbastanza per tagliare.
Dichiarate che il raccolto di foglie è compiuto
quando marcisce nel terriccio scuro.
Chiamate tutto ciò profitto, profetizzatelo come guadagno.
Riponete la fede nelle tre dita di humus
che crescono sotto gli alberi
ogni mille anni.
Ascoltate i corpi in decomposizione – accostate l’orecchio
al tenue brusio
dei canti che verranno.
Preparatevi alla fine del mondo. Ridete.
Il riso non si può computare. Siate gioiosi
nonostante tutto.
Finché le donne non si svendono al potere,
assecondatele più degli uomini.
Domandati: potrà tutto questo soddisfare
una donna felice di generare un figlio?
Turberà il sonno
di una donna prossima al parto?
Vai con la tua innamorata nei campi.
Stenditi placido all’ombra. Posale il capo in grembo.
Giura fedeltà a ciò che ti è più vicino.
Appena generali e politicanti
riescono a predire il corso del tuo pensiero,
sbarazzatene. Abbandonalo lì, come una pista falsa,
una strada non intrapresa.
Fa’ come la volpe
che lascia più tracce del necessario,
a volte in direzione sbagliata.
Esercitati a rinascere.

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domenica 17 marzo 2024

Quando i miliardari si preparano al collasso - Raúl Zibechi

 

L’1 per cento più ricco della popolazione mondiale sta costruendo rifugi per sopravvivere a collassi ambientali, sociali e nucleari. La tendenza non è nuova, ma si è moltiplicata dopo la pandemia e l’invasione dell’Ucraina e sono cambiate le modalità. Quell’1 per cento sa che non è più sufficiente costruire rifugi blindati, serve creare ecosistemi, non per proteggere le popolazioni, come è accaduto in passato, ma solo la propria famiglia… Il vero problema, scrive Raúl Zibechi, è che né quel che resta delle sinistre né le accademie e neanche i movimenti stanno coltivando pensiero e azione di fronte al collasso. L’unico che ha promosso alcuni anni fa una settimana di straordinari seminari su questi temi è stato il movimento zapatista


L’1 per cento più ricco sta costruendo rifugi sicuri per sopravvivere a possibili collassi ambientali, sociali e nucleari. La tendenza non è nuova, ma si è moltiplicata dopo la pandemia e l’invasione dell’Ucraina. Soprattutto sono cambiate le modalità, in sintonia con i tempi del neoliberismo.

Le centinaia di siti web che offrono rifugi o bunker assicurano che gli affari sono in aumento: secondo il New York Post (4/4/20), negli Stati Uniti c’è stata una crescita del 400 per cento, mentre una società berlinese, secondo un comunicato della Deutsche Welle (1/18/23), dice che le consultazioni del sito web si sono centuplicate.

Il portale xataka.com segnala che le aziende dedicate alla “gestione delle emergenze” o “preparazionismo”, come lo chiamano, guadagneranno 149 miliardi di dollari entro il 2025. Si stima che il 50 per cento dei miliardari della Silicon Valley abbia almeno un rifugio blindato, che costa da 40.000 a 2,5 milioni di dollari (2/8/23).

Un giro tra i portali dedicati all’offerta di rifugi ci permette di apprezzare le esigenze sofisticate di una classe dirigente che non risparmia risorse per vivere meglio.

Durante la guerra fredda, i paesi europei, l’Unione sovietica e la Cina – dove una conflagrazione nucleare era più probabile – costruirono enormi rifugi per le loro popolazioni. La Repubblica Federale Tedesca aveva circa 2.000 rifugi che potevano ospitare 3 milioni di persone, il 5 per cento della popolazione. In Finlandia sono stati costruiti più di 50.000 rifugi, per l’80 per cento della popolazione. In Cina, Mao invitò la gente a costruire rifugi: la risposta fu rapida e massiccia, al punto che “le 75 città più grandi del paese scavarono tunnel che potevano ospitare il 60 per cento della popolazione” (Clarin, 10/8/20). Anche l’URSS costruì città sotterranee per milioni di persone.

Tuttavia, i rifugi sono molto diversi ora, come sottolinea un recente articolo di Asia Times (1/3/24) intitolato “I bunker dei miliardari sono il nuovo tecno-feudalesimo“. Mark Zuckerberg, il miliardario creatore di Facebook, ha acquistato grandi appezzamenti di terreno sull’isola hawaiana di Kauai, dove sta costruendo un complesso da 400 milioni di dollari australiani. La tenuta è sorvegliata da numerose guardie. Oltre a un “enorme bunker sotterraneo”, ci sono diversi edifici di grandi dimensioni e impianti per la depurazione, la desalinizzazione e lo stoccaggio dell’acqua. “Sta allevando il proprio bestiame, nutrendolo con noci di macadamia coltivate nel podere e anche con la birra prodotta lì”, segnala l’articolo di Asia Times firmato dai professori Katherine Guinness, Grant Bollmer e Tom Doig.

A quanto pare, alcuni miliardari capiscono che non è più sufficiente costruire rifugi blindati sotterranei, per cui cercano di creare i propri ecosistemi, perché la sopravvivenza della classe dominante dipende dallo sviluppo e dal controllo di un proprio ecosistema, in cui si possa non solo salvarsi dal collasso, ma anche continuare a vivere la propria vita. Come si vede, l’obiettivo non è più proteggere le popolazioni dai disastri, ma solo quello di proteggere la propria famiglia, il che rivela il trionfo di un individualismo feroce che non tiene conto del resto dell’umanità. Tutto ciò manifesta l’attuale deriva dei settori dominanti nel mondo.

Per i settori popolari non sono queste le possibili alternative al collasso. Non possono costruirsi rifugi o ecosistemi. Riescono a malapena a sopravvivere sotto un capitalismo di guerra che li costringe nelle cantine del sistema. Gli Stati e i governi dell’America latina non pensano assolutamente a prevedere le catastrofi che verranno. Basti ricordare che milioni di persone, nelle grandi città come Città del Messico o San Paolo, non hanno acqua potabile né fognature.

I popoli non possono affrontare il collasso individualmente, ma lo fanno come comunità, sulla base di lavori collettivi e prendendosi cura gli uni degli altri. Alla luce di ciò che fa l’1 per cento più ricco, possiamo comprendere meglio la tenacia dei popoli nel prendersi cura del proprio mondo naturale, e nello stesso tempo la determinazione di quelli che stanno in alto nel distruggere gli ecosistemi che possono proteggere la vita in comune.

Per quanto ne so, solo l’EZLN ha promosso un dibattito sul collasso, nove anni fa, nel seminario Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista (se ne parla in questo articolo di Gustavo Esteva, di cui sentiamo molto la mancanza, Il semenzaiondr). Sono stati coerenti e si preparano a sopravvivere al moltiplicarsi dei disastri, come dimostrano i 21 comunicati emessi dall’ottobre 2023 fino al 1° gennaio 1994, trentesimo anniversario dell’insurrezione. Sfortunatamente, né la sinistra progressista, né le accademie, né la maggior parte dei movimenti stanno adottando un simile atteggiamento di pensiero e di azione di fronte al collasso. Solo alcuni popoli indigeni condividono le preoccupazioni zapatiste, sulla base delle proprie visioni del mondo.


Fonte: Cuando los millonarios se preparan para el colapso, in La Jornada, 08/03/2024. Traduzione a cura di Camminardomandando. Qui pubblicato con l’autorizzazione dell’autore (nell’archivio di Comune sono leggibili oltre articoli duecento articoli di Raúl Zibechi)

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sabato 16 marzo 2024

I ruralistas spadroneggiano in Brasile - David Lifodi

 

Esponente della comunità pataxó hãhãhãi, nel sud dello stato di Bahía, la donna è stata assassinata a seguito di una spedizione della milizia paramilitare Invasão Zero con la complicità della polizia militare che non è intervenuta.

 

In Brasile i popoli indigeni continuano a restare sotto l’attacco dei ruralistas, definitivamente sdoganati durante la presidenza di Jair Bolsonaro.

Il 21 gennaio scorso, a cadere in quella che è sembrata, per le modalità, una vera e propria esecuzione, è stata María de Fátima Muniz, leader indigena della comunità pataxó hãhãhãi e conosciuta anche come Nega Pataxó.

Ad ucciderla è stata una squadraccia paramilitare del gruppo di estrema destra Invasão Zero, che ha fatto irruzione nel territorio ancestrale pataxó (nel sud dello stato di Bahía), secondo la tecnica tipica dei fazendeiros che progettavano incursioni nelle terre indigene allo scopo di sterminare la popolazione. A rimanere ferito nell’attacco è stato anche il fratello della donna, Nailton Muniz, altro esponente storico degli indios pataxó hãhãhãi.

La milizia Invasão Zero, fondata nel 2023 e dedita ad espropriare con violenza le terre indigene, è sempre stata tollerata dalla polizia, tanto che i paramilitari, nella più totale impunità, hanno diffuso dei video dell’assalto sui social network. Lo scopo del gruppo è quello di creare uno stato parallelo a quello ufficiale, grazie ad un arsenale di armi creato soprattutto durante la presidenza Bolsonaro, notoriamente favorevole ad incentivarne l’uso, la vendita e il commercio.

Invasão Zero, che conta su un significativo appoggio di politici di estrema destra in seno al Congresso, si prefigge di recuperare tutti quei territori che loro ritengono esser stati usurpati dalle comunità indigene o da movimenti sociali come i Sem terra all’interno delle loro fincas. Il giorno prima della spedizione che ha ucciso María de Fátima Muniz, i pataxó erano riusciti a riconquistare il proprio terreno. Solo nello stato di Bahía, negli ultimi 30 anni, sono stati assassinati ben trenta leader delle comunità indigene.

Purtroppo, le istituzioni non riescono a contrastare efficacemente le azioni delle milizie paramilitari, né a livello politico né sul piano del controllo del territorio. A comandare resta l’intolleranza tipica del bolsonarismo, nonostante i timidi tentativi di Lula di promuovere politiche favorevoli ai popoli indigeni la nomina di personalità come Joenia Wapichana alla Fundação Nacional do Índio (Funai), per la prima volta diretta da una indigena e la creazione del Ministero dei Popoli indigeni, anch’esso guidato da un’indigena, Sonia Guajajara.

Nei giorni precedenti all’attacco, nei gruppi Whatsapp dei ruralistas, circolava una sorta di chiamata alle armi per sgomberare il territorio riconquistato dai pataxó e, del resto, il coordinatore nazionale della milizia, Luiz Uaquim, potente proprietario terriero del sud dello stato di Bahía e padrone di fincas in numerose terre indigene, non aveva alcuna intenzione di lasciare impunito questo affronto. Solo un mese prima del ferimento di Nailton e dell’omicidio di María de Fátima Muniz, a cadere sotto i colpi dei paramilitari era stato Lucas Kariri-Sapuyá, nella terra indigena Caramuru-Paraguassu.

Al funerale della donna hanno partecipato, tra gli altri, la ministra Sonia Guajajara e la diputata federale Celia Xakriaba, ma nonostante lo Stato brasiliano abbia cercato di far sentire la sua presenza (lo stesso governatore di Bahía, Jeronimo Rodrigues, appartiene al Partido dos Trabalhadores) e Lula abbia promesso che prenderà delle misure urgenti per tutelare la vita degli indios, le milizie paramilitari, finora, godono di un ampio spazio di manovra e agiscono indisturbate. I circa duecento proprietari terrieri che hanno dato l’assalto agli indios pataxó hãhãhãi si erano infatti riuniti indisturbati senza alcun controllo da parte delle forze dell’ordine.

La polizia militare, secondo gli indios, è rimasta ben lontana dai fazendeiros armati e non ha fatto nulla per impedirne l’assalto, secondo uno schema non troppo diverso dall’attacco delle milizie di Bolsonaro al Planalto nei primi giorni del gennaio 2023 per creare il caos in occasione dell’insediamento di Lula.

Sono circa cinquemila gli appartenenti a “Invasão Zero” nello stato di Bahia e gruppi simili stanno nascendo in tutto il paese: per adesso, purtroppo, indisturbati.

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venerdì 15 marzo 2024

L’assalto della finanza sulla casa - Marco Bersani

 

Il “Piano Casa Salvini” e il nuovo Piano strategico del Comune di Milano sulle politiche abitative preparano l’assalto finale dei grandi interessi finanziari al patrimonio immobiliare pubblico e a quel che resta del diritto all’abitare

 

“Cos’è la destra, cos’è la sinistra?” cantava l’indimenticabile Giorgio Gaber e, se analizziamo le politiche abitative, non possiamo che dare ragioni ai dubbi del compianto autore.

Partiamo dai dati: calcolando le famiglie che hanno già subito uno sfratto con la forza pubblica, quelle che si ritrovano in mano una sentenza di sfratto e quelle che si apprestano a riceverlo, in Italia si supera la cifra di 450mila. Un’emergenza reale, vera e drammatica, che richiederebbe misure urgenti in direzione del diritto all’abitare.

Prontamente il ministro Salvini ha aperto un tavolo con l’obiettivo di varare un Piano Casa nazionale da rendere operativo nel 2025: peccato che gli invitati al parterre contemplino grandi banche e assicurazioni, fondazioni e agenzie di mediatori d’affari, grandi costruttori e fondi immobiliari e nessun sindacato degli inquilini, né tanto meno alcun movimento per il diritto all’abitare. Cosa dovrebbe produrre questo tavolo e soprattutto in quale direzione? Domanda retorica, visti i protagonisti, e risposta semplice: la valorizzazione del patrimonio pubblico esistente, che, tradotto, significa consegnare gli immobili inutilizzati ad affaristi del mattone e avvoltoi della finanza affinché li recuperino e li mettano a reddito (il loro, of course), con conseguente smantellamento degli enti gestori dell’edilizia popolare e la messa sul mercato della stessa. Ma questo è Salvini, lo sappiamo.

E allora facciamo un giro a Milano, seconda metropoli del Paese, da tempo governata dal centro-sinistra, che ha appena costituito Società Casa, un piano strategico con i seguenti obiettivi: a) incrementare il numero degli spazi abitativi pubblici passando da 22mila a 25mila unità; b) ampliare l’offerta, attivando 10mila nuovi alloggi di edilizia residenziale sociale; c) ottimizzare le manutenzioni ordinarie, la gestione sociale del patrimonio e la gestione dei pagamenti e conseguenti morosità.

Finalmente, verrebbe da dire. Ma come si prevede di realizzare tutto questo? Attraverso la consegna strategica di tutto il patrimonio abitativo pubblico a Invimit Sgr (Investimenti Immobiliari Italiani), società per azioni con capitale interamente detenuto dal MEF, il cui compito storico, è quello di “valorizzare il patrimonio immobiliare pubblico, in particolare tramite le cessioni, permettendo al MEF di ridurre il debito pubblico”. Più specificamente e da statuto, la società “(..) opera in ottica e con logiche di mercato per cogliere le opportunità derivanti dal generale processo di valorizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare pubblico, attraverso l’istituzione e la gestione di fondi comuni di investimento chiusi immobiliari”. Se non fosse sufficientemente chiara la direzione, basti riportare alcune frasi tratte da interventi dell’Amministratrice Delegata della società: “Invimit Sgr ha radicalmente cambiato pelle. È l’unica Sgr pubblica sul mercato. Alla società mancava il contatto con il mercato. La nostra missione è la valorizzazione e la dismissione” oppure “Occorre avere uno Stato che diventi giocatore e non sia più solo spettatore. Questa è una narrativa che a livello internazionale è molto importante e viene recepita bene dagli investitori. Più in generale, dobbiamo saper vendere la nazione per colmare il gap con il resto d’Europa…”.

Cosa tutto questo abbia a che fare con gli obiettivi sopra dichiarati dal Comune di Milano resta un mistero. Ciò che è invece assolutamente evidente, tanto a livello locale (Società Casa di Milano) quanto a livello nazionale (Piano Casa di Salvini) è che siamo all’assalto finale dei grandi interessi finanziari sul patrimonio immobiliare pubblico e alla definitiva negazione del diritto all’abitare. Quanto ci manchi, Giorgio Gaber.


*Pubblicato su il manifesto del 9 marzo 2024 per la Rubrica Nuova Finanza Pubblica

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giovedì 14 marzo 2024

Lo scienziato che «non vola» è diventato simbolo del climattivismo mondiale

(intervista di Andrea Di Turi a Gianluca Grimalda)


Gianluca Grimalda si è rifiutato di prendere l'aereo ed è stato licenziato dall'istituto tedesco per cui lavorava.

 

I viaggi low-carbon e il rifiuto di volare sono una forma diffusa di protesta e allo stesso tempo di azione contro la crisi climatica. È il caso di Gianluca Grimalda, ricercatore presso l’Università di Passau, in Baviera, scienziato del clima e attivista del movimento Scientist Rebellion. Per la coerenza con cui ha portato avanti le sue convinzioni, ha perso il posto di lavoro. Di rientro da un progetto di ricerca in Papua Nuova Guina, infatti, Gianluca Grimalda si è visto intimare dall’istituto tedesco per cui lavorava di rientrare velocemente in aereo. Ha rifiutato ed è stato licenziato.

Una storia che ha fatto il giro del mondo (e su cui sta scrivendo un libro) rendendolo un vero e proprio simbolo del climattivismo mondialeUn suo recente tweet sui rischi di collasso di AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation, fondamentale corrente oceanica dell’Atlantico) ha avuto oltre 2 milioni di visualizzazioni. «Ha sorpreso anche me», dice. «Forse vuol dire che la narrativa sulla crisi climatica basata solo sull’aumento delle temperature non basta».

Com’è maturata la sua decisione di rifiutarsi di volare?

Mi sono ispirato agli Scienziati per la responsabilità globale sapendo che, in un viaggio dall’Inghilterra a Kyoto compiuto in treno, traghetti e bici, avevano abbattuto le emissioni di CO2 di otto volte rispetto a un volo. Ho fatto il mio primo “viaggio lento” intercontinentale nel 2011, dalla Spagna alla Cina. Era più che altro un’esigenza personale perché pensavo che i disastri climatici sarebbero arrivati dopo il mio orizzonte di vita. 

Quando ha abbracciato la disobbedienza civile?

Mano a mano mi rendevo conto sia della gravità dell’emergenza climatica, sia del fatto che le Conferenze delle parti sul clima non agivano con la decisione necessaria. Allora ho pensato che bisognava alzare la voce. Alla Cop26 di Glasgow sono entrato in contatto con Scientist Rebellion. Nel 2022 la svolta, quando ho cominciato con azioni di disobbedienza civile che mai prima avrei pensato di fare. Come incatenarmi all’aeroporto dei jet privati di Linate, o incollarmi al padiglione del museo dell’auto a Wolfsburg.

Nel mondo accademico si stanno diffondendo prese di posizione come la sua?

Qualche sviluppo c’è, ma di più non direi. Persone come Julia Steinberger, autrice di rapporti del Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC), che tra l’altro mi ha dato un grande supporto, sposano la causa dell’attivismo. Altri, invece, pur volendo impegnarsi e facendo affermazioni radicali su ciò che va fatto per il clima, non arrivano a varcare la soglia della disobbedienza civile. Che, va detto, comporta molti costi da pagare sul piano personale, che gli attivisti tendono a nascondere. Anche se ci sono tanti modi di fare disobbedienza civile.

Vale a dire?

C’è la disobbedienza civile indiretta, dove ad esempio blocchi una strada per dare visibilità a una determinata istanza. Non sono però convinto che porti a conseguenze positive, al consenso nell’opinione pubblica, perché c’è il rischio che si guardi all’atto e non al messaggio. Poi c’è quella diretta, dove la protesta è mirata contro chi identifichi come “colpevole”, ad esempio bloccando in massa gli scavi di una miniera di carbone come è successo a Lützerath. Trovo che in questo modo il messaggio sia più chiaro.

Poi c’è differenza tra azione personale e collettiva. Personalmente ho trovato un grande consenso quando ho detto no al mio datore di lavoro che voleva rientrassi in aereo. Forse perché il sacrificio che comportano azioni come questa è più evidente e comprensibile, anche se ammetto che, avendo una posizione accademica, probabilmente ho più ascolto e ho bisogno di fare di meno. Tuttavia l’azione individuale, anche se può spostare le coscienze, produce effetti maggiori quando si inserisce in un’azione collettiva. Comunque non considero la disobbedienza civile l’unica strada: credo siano molto efficaci, ad esempio, le climate litigation, che si stanno sviluppando molto. Concordo con Peter Kalmus: occorre combattere su diversi piani e con diverse strategie, avanzando per prove ed errori.

Che tipo di narrazione ritiene più efficace sulla crisi climatica?

La difficoltà principale è che la nostra mente procede per generalizzazioni di solito non fondate logicamente, utilizzando molto più il pensiero intuitivo, veloce, rispetto al pensiero razionale, lento. Dire che se superiamo certi limiti di aumento delle temperature siamo spacciati, o che abbiamo solo un tot. di anni per salvare il Pianeta, oltre che fattualmente sbagliato secondo me è controproducente. Credo invece possa funzionare soprattutto aiutare le persone a cambiare il punto di riferimento. Mi spiego: non dobbiamo indorare la pillola, è giusto dire che abbiamo già perso molto, che siamo oltre la safe climate zone, che siamo vicini al collasso degli ecosistemi anche se non sappiamo quanto.

Tutto questo ovviamente fa paura, ma la paura associata alla possibilità di azione è una leva potentissima. Per cui bisogna anche dire che dobbiamo lottare per non perdere ancora di più: accettare la perdita, cioè, ma essere consapevoli che c’è tantissimo da difendere, che forse abbiamo già “perso” la Groenlandia ma possiamo salvare l’Amazzonia. Perché è vero che come il Titanic stiamo andando incontro a un iceberg, ma arrivarci a 20 invece che a 100 all’ora fa molta differenza. Diminuire la velocità d’impatto può voler dire salvare milioni di vite.

https://valori.it/gianluca-grimalda-scienziato-simbolo-climattivismo/

mercoledì 13 marzo 2024

Direttiva Due Diligence: gli Stati scelgono il profitto - Campagna abiti puliti

Due Diligence di sostenibilità aziendale: gli Stati membri scelgono di anteporre i profitti delle imprese al rispetto dei diritti umani e del lavoro. L’Italia fra i paesi che hanno affossato il voto.

Il Consiglio dell’Unione europea ha fatto un altro regalo al mondo delle imprese, inclusa all’industria dell’abbigliamento e delle calzature, non approvando in sede Coreper l’accordo che aveva precedentemente concluso con il Parlamento europeo su una normativa per proteggere i diritti umani e l’ambiente dagli abusi delle imprese, tra cui salari da miseria, condizioni di lavoro pericolose e negazione di libertà di associazione sindacale. Un colpo basso inferto a lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo e alla salute e stabilità del nostro pianeta.

Sebbene la proposta di direttiva sia stata oggetto di due anni di negoziati tra le tre istituzioni, una minoranza di Stati membri, guidata dalla Germania e sostenuta vigorosamente anche dall’Italia, ha deciso di fare marcia indietro rispetto all’accordo provvisorio raggiunto al termine di sei mesi di trilogo.

Le lavoratrici che producono gli abiti che indossiamo sono state ancora una volta deluse da un sistema che protegge le aziende a scapito dei loro diritti, dei loro salari e del loro benessere“, ha dichiarato Deborah Lucchetti, coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti. “La Germania e altri Stati membri che si sono opposti al voto, fra cui il nostro paese, hanno avanzato argomentazioni fuorvianti per far fallire un accordo che è stato il risultato di lunghi negoziati sotto due presidenze dell’UE, uno sviluppo preoccupante che in ultima analisi mantiene i più vulnerabili nell’economia globale bloccati in un ciclo di povertà e abusi“.

Presentata dal Commissario per la Giustizia Didier Reynders, la direttiva sulla dovuta diligenza in materia di sostenibilità delle imprese (CSDDD) è stata la risposta ad anni di campagne condotte da organizzazioni della società civile, sindacati e movimenti sociali per prevenire e porre fine a comportamenti irresponsabili da parte di aziende con sede e operanti nell’Unione, attraverso le loro attività nelle catene globali del valore. Peraltro, anche molte aziende e associazioni di impresa si sono espresse con favore nei confronti di questa normativa, a partire in Italia da CNA Federmoda, che in una lettera aperta dello scorso 22 febbraio indirizzata al Ministero delle Imprese e del made in Italy ha ricordato come la direttiva due diligence aiuterebbe le PMI italiane ad essere più competitive.

La direttiva avrebbe affrontato questioni quali la povertà e i salari non pagati, le condizioni di lavoro pericolose e la discriminazione di genere, tra le altre. Nel settore dell’abbigliamento e delle calzature, le aziende che si vantano di essere sostenibili e inclusive utilizzano complicate catene del valore e pratiche commerciali abusive e sleali per estrarre profitti da lavoratori scarsamente retribuiti e talvolta non pagati.  

Alla Presidenza belga dell’UE resta ora poco tempo ma soprattutto poco spazio di manovra per riaprire i negoziati sul testo e trovare un accordo che possa essere approvato dal Consiglio e dal Parlamento, a settimane dalla fine dell’attuale mandato e dalle prossime elezioni europee.

Non approvando questa direttiva, i governi europei mandano un messaggio molto chiaro: le aziende possono continuare a sfruttare i lavoratori e la politica le proteggerà. Il fatto che l’Italia si sia allineata alla posizione tedesca è molto grave: è evidente che anche il nostro paese preferisce continuare a tenere i lavoratori in povertà. Lo ha dimostrato facendo il funerale al salario minimo, lo dimostra ancora una volta con il voto di oggi“, ha aggiunto Priscilla Robledo, coordinatrice lobby e advocacy di Campagna Abiti Puliti. “Continueremo a stare al fianco di lavoratori e lavoratrici alla conquista di diritti umani, dei redditi da lavoro e di condizioni di lavoro dignitose e chiediamo alla Presidenza belga di riaprire prontamente i negoziati in modo da concordare un nuovo accordo che mantenga gli elementi chiave del precedente prima della fine di questo mandato“.

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martedì 12 marzo 2024

L'Italia dei paesi - Franco Arminio

 

L’Italia tutta è in crisi demografica, come tante parti del mondo. L’Italia ha delle zone sempre più intensamente spopolate. 

È in atto da più di un decennio una strategia di ripopolamento che le chiama aree interne. Qui si preferisce chiamarle aree intense per indicare che non sono luoghi banali a cui dedicare attenzioni residue, ma devono essere i luoghi da cui partire per le sfide dell’Italia e della politica. Non si tratta di aiutare dei poveretti. Le aree intense sono una grande occasione di pensare alle persone e ai luoghi quando si fanno delle politiche. Pensare alla vita di una partoriente, di un bambino, di un giovane, di un anziano. Pensare alla vita e non al solito baratto: finanziamenti in cambio di consenso elettorale. Questo metodo sta letteralmente uccidendo le aree intense e quindi un patrimonio enorme per l’intero paese: pensiamo solo a quante case, spesso di pregio, ci sono in quelle aree e allo stato di abbandono in cui versano. Basta fare un giro in Svizzera per capire come siamo messi: in Svizzera non esistono i musei delle porte chiuse a cui si stanno riducendo tanti paesi dell’Italia intensa. A conti fatti nei paesi italiani abitano ancora 13 milioni di persone e almeno la metà stanno in zone fortemente disagiate. Quindi stiamo parlando di un’emergenza che non riguarda un’esigua minoranza di territorio e di popolazione.

 

Noi soffriamo di una sorta di miopia geografica: pur essendo una nazione fatta in gran parte di paesi e di montagne facciamo politiche come se fossimo fatti solo di pianure: l’Italia non è solo Roma e Milano e l’allarme inquinamento della pianura padana ci ricorda che è un errore mortale concentrare tutta la produzione nelle pianure. Sappiamo tutti che la crisi climatica non è un’ipotesi, ma un dramma in pieno svolgimento. E non dobbiamo guardare solo a quello che vuol dire per noi umani: pensiamo alla spaventosa riduzione della biodiversità. Da questo punto di vista è evidente che nelle aree intense, facendo politiche adeguate, il cambiamento climatico può diventare un’occasione per attrezzare zone del paese utili ad accogliere chi vuole fuggire dalle estati torride, chi vuole passare un poco o molto tempo tra gli alberi e non in mezzo al cemento e all’asfalto perenne con cui abbiamo arredato le zone urbane. Non pensiamo al turismo domenicale o di Pasquetta e Ferragosto, ma ad azioni organiche che sappiano investire in primo luogo sulla cultura: troppi beni culturali vengono restaurati e poi restano chiusi.

Chiediamo alla politica di mettersi alla prova veramente sulle aree intense. Cominciare da qui, dal grande cantiere della sfiducia. Se in Italia il cinquantacinque per cento delle persone sente che la propria voce è inascoltata (la media europea è del trentasei per cento), si può dire che nei piccoli paesi montani questa percentuale sale al novanta per cento. Praticamente le politiche attuali è come se mettessero acqua in un secchio rotto. Senza infierire sul fatto che molte azioni sono anche profondamente sbagliate: che senso ha dare venti milioni di euro a un paese che poi non sa come spenderli?

La strategia nazionale delle aree interne aveva uno spirito diverso quando è stata concepita, era il “centro” a recarsi nei paesi ed erano loro a disegnare il proprio futuro. Il metodo che ha provato a introdurre era importante proprio perché le politiche hanno bisogno di seguire un metodo, non possono essere improntate all’umore del politico di turno.

 

Oggi grazie a quella strategia abbiano una visione di come stiamo messi, abbiamo una sceneggiatura, ma è necessario cominciare a girare il film. E bisogna prendere atto che il lavoro di sceneggiatura è stato troppo lungo. E mentre giravano le carte, i ragazzi, cioè gli attori possibili del film, andavano viaTra l’altro bisogna impedire che la strategia venga eccessivamente regionalizzata diventando un “progetto senza strategia” e abbia come unico obiettivo la spesa delle risorse comunitarie e del PNRR più che il ripopolamento e la rigenerazione dei luoghi. Non serve solo tenere la gente, serve un ripopolamento cognitivo: arieggiare i paesi con un nuovo slancio, servono abitanti di una comunità ruscello più che di comunità pozzanghera. 

È necessario a questo punto un perentorio atto di richiamo verso le aree intense rivolto a chi ha lasciate, a chi è rimasto e a chi non c’è mai stato: bisogna mettere all’attenzione di tutti la sfida di rigenerare questo pezzo d’Italia che non è confinato in una provincia o in una regione, ma è diffuso ovunque, da Nord a Sud.

La sfida deve partire dalla giusta impostazione della strategia messa in atto a suo tempo da Fabrizio Barca: no al localismo, no al dirigismo. Le questioni delle aree intense si affrontano con un intreccio di intimità e distanza, serve la visione centrale e serve il confronto acceso e sperimentale coi territori, ciò che vale per una zona non vale per un’altra. La differenza deve stare nelle risposte non nella domanda: da questo punto di vista le istanze che arrivano al centro dalla Val Maira o dall’Irpinia sono le stesse, mentre sono ben diverse le istanze di Napoli o di Milano. Da questo punto di vista la tenuta dell’unità della nazione parte proprio dalle aree intense, ma servono politiche alte e non rimasugli finanziari, serve investire sulle persone e non su opere, tipo rifacimento di piazze che spesso danno l’idea di mettere un anello al dito di uno scheletro. 

Non servono solo convegni tra addetti ai lavori, serve che ogni area abbia un gruppo di giovani allenatori, mischiando chi è del territorio con chi viene da fuori. Questi ragazzi devono stare almeno tre anni con la funzione di allenare letteralmente chi è fuori forma: non si può affrontare la partita con chi non sta in piedi. Ci vuole un grande intervento pubblico per mettere a lavoro nelle aree intense ragazzi e ragazze italiane che spesso sono andati via, che spesso stanno all’estero. Possono essere agronomi, biologi, architetti, urbanisti, medici, informatici, artisti. A loro spetta il compito di mettere testa e gambe per chiamare queste aree alla sagra del futuro: la tenuta identitaria non basta, è su un progetto di futuro che si possono davvero ravvivare i paesi. 

Lo sviluppo locale si fa in primo luogo coi ragazzi e con chi vuole costruire un futuro, e poi con tutte le altre fasce della popolazione. Bisogna mobilitare i cittadini e non gli esperti a procacciarsi finanziamenti che poi non hanno ricadute reali sulla vita dei luoghi. È chiaro che ogni politica corre dei rischi, nessuna politica ha risultati garantiti, ma la via di mettere le aree intense in mano alla migliore gioventù italiana può darci anche una scossa emotiva, un sussulto visionario di cui abbiamo bisogno. Non si possono ripopolare dei territori tenendo questa questione al margine dell’agenda politica e mediatica: non si è mai visto in televisione un dibattito in prima serata sulla questione. Per intenderci: fino a quando il ragionamento sui paesi è riservato a trasmissioni fatte in orari marginali vorrà dire che non abbiamo capito l’importanza della questione. Parlare dei servizi: scuole, trasporti, sanità, partendo dalle persone che devono fare le cose più che dai piani che girano da un ufficio all’altro. Parlare della filiera dello sviluppo locale puntando in primo luogo su una nuova filiera dell’energia (dall’idrogeno alle altre energie rinnovabili, badando alle ricadute sul territorio più che agli interessi delle multinazionali) e su una innovativa filiera agricola (le proteste di questi giorni sono la spia di un disagio che non è solo economico, gli agricoltori si sentono trascurati). 

Le aree intense sono anche la resistenza dell’intelligenza artigianale all’intelligenza artificiale, il luogo dell’intreccio tra il computer e il pero selvatico, il laboratorio di azioni urgenti e concrete per costruire una nuova poetica dell’abitare, un nuovo umanesimo di cui l’Italia può e deve essere punto di riferimento nel mondo. Noi non possiamo contare tanto su quello che produciamo, ma su un’idea di un futuro che sappia di antico e di nuovo, su un modo di fare comunità radicate e aperte all’impensato in un mondo sempre più irreale, abitato da un’umanità ridotta a una sommatoria di spaventi e solitudini, incapace di darsi un destino comune e non violento.

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