mercoledì 31 agosto 2016

Disintossicarsi da internet in tre giorni - Viviana Devoto

Navarro, California – Tute da ginnastica, infradito, scarpe da tennis, molti piedi nudi. La prima lezione di yoga è all’alba. In prima fila c’è un tizio coi pantaloncini corti, piuttosto maldestro, che si allunga i muscoli su un tappetino in silicone. Mi chiedo, goffaggine a parte, chi possa essere: il Ceo di una startup della Silicon Valley, o forse un insegnante di Stanford. Certamente qualcuno che è convinto di passare troppo tempo davanti a uno schermo. E che, di conseguenza, è venuto qui per disintossicarsi. Come tutti gli altri, rigorosamente in incognito.
Sono circa trecento i “campeggiatori” che trascorrono le vacanze qui aCamp Grounded, una specie di bootcamp per la “disintossicazione digitale”: mente e cuore si liberano dal morbo della tecnologia per «tornare individui», spiegano da Digital Detox, l’organizzazione terapeutica nata a un’ora della Silicon Valley per tamponare la “tossicodipendenza digitale”. Il programma prevede tre giorni di immersione nella natura, senza connessioni: «Ricordiamo come si torna liberi, insegniamo a diventare di nuovo ragazzi».
I partecipanti vengono perquisiti all’ingresso: no computer portatili, no Ipad, niente social network. Messi in riga come militari, a rispondere a regole e superiori. Un po’ fa Full Metal Jacket, un po’ Moonrise Kingdom.Anche il proprio nome va abbandonato prima di abbracciare la natura, in un villaggio nella foresta di Mendocino attraversata da filari di vigneti e dove la Rete non arriva (e persino Google Maps fa fatica a rintracciare la strada).
Alcuni consigli: è gradito portare la propria tenda sa casa e i dormitori sono divisi, donne e uomini (con una clausola: «Se però volete sgattaiolare nel reparto altrui, non è un problema», è scritto sul regolamento). Solo su un punto, non c’è morbidezza: «Siamo chiari. Questa non è una conferenza, un evento per creare net-working. Una opportunità per incontrare un contatto giusto per la vostra carriera». A disposizione per le presentazioni, un qualsiasi pseudonimo. C’è un tizio che si fa chiamare “Maniglie dell’amore”, un altro “Campo di grano”.
Il cervello inizia a dare segni di astinenza a partire dal secondo giorno: quando il divieto di immortalare le sequoie che fanno ombra alle tende su Instagram diventa un’inquietudine (sento una scout che sospira: «ma quanto diventerebbe “popular” questa scena tra i miei contatti?»).

I campeggiatori hanno facce paonazze dal sole, dal movimento. Pallavolo, tiro con l‘arco. Laboratori di pelletteria, panificazione. Lezioni di respirazione. Tra i volontari c’è un professionista delle coccole, che abbraccia i più bisognosi (il soprannome al villaggio è Topless, nella vita, specifica, «non indossa una camicia da almeno sei anni»). Il cibo è rigorosamente vegano. Il messaggio che vogliono mandare, suppongo, è questo: davanti allo schermo si consuma cibo-spazzatura, disintossicati pure da questo. Il sabato sera a cena è di regola il silenzio. Così si può «riascoltare i sapori», concentrandosi soltanto sulle papille, «e godendo di quel che si mangia».
Tra le più gettonate nel villaggio Grounded: guardare le stelle È un rehab, ma ha qualcosa di romantico.
Ovunque cartelli No phone zone e sveglie senza lancette con una scritta sul vetro: Now. Per tutta la durata del campo non c’è modo di sapere che ore siano.
Levi Felix ha fondato Digital Detox dopo essere finito in ospedale. Per troppo Internet, sostiene: «A farmi ammalare è stato il distaccamento dalla realtà», racconta prima di chiudere il terzo campo Scout e aprire la sessione invernale di incontri battezzati con lo slogan “disconnettersi per riconnettersi”. Nel cuore del suo rehab sono arrivati da tutta America, e da grandi compagnie (Google, Oracle, Airbnb, Facebook): «Ho avuto una carriera promettente, fino a quando mi sono trasferito a Los Angeles e sono stato promosso vicepresidente di Causecast.org, una piattaforma “sociale”: organizzavo campagne sui social media, eventi di beneficenza, produzione di cortometraggi. Tutto perfetto, fino al giorno in cui mi sono trovato in terapia intensiva per una emorragia».
«Un colpo di fortuna, o di sfortuna», commenta Felix. «Sono uscito dalla clinica, ho lasciato il mio lavoro, ho fatto un viaggio intorno al mondo e poi su una isola in Cambogia ho scritto il progetto di un campo di disintossicazione, e l’ho creato».
Erin Freeny ha trent’anni, il suo soprannome al Campo è Petit Gavroche: «Il mio personaggio preferito nei Miserabili di Hugo», dice. Vive a San Francisco e cura la sezione Social Media di una scuola di lingua per stranieri. Ha comprato i biglietti per Camp Grounded in dieci minuti, «un’amica mi ha mandato il link dell’evento per ironizzare sull’ultima follia del momento: un campo di disintossicazione digitale. Lei rideva per come gli hipster stessero sprecando i propri soldi. Io invece ho trovato l’idea geniale, ho preso il mio pass al Summer Camp, e ci sono andata».
Erin non è mai stata una campeggiatrice e mai ha avuto la chance, adolescente, di passare l’estate in un villaggio scout. Da adulta e in mezzo ad adulti sconosciuti, stressati dal lavoro e della vita, ha ritrovato energia: «Non è stato soltanto la fuga della tecnologia ad arricchirmi ma la possibilità di giocare, di essere leggera, sciocca. Camminare nella natura. Conoscere nuove persone senza preoccuparmi dell’aspetto “professionale” di chi avevo davanti». Tutti adulti, tutti professionisti, un po’ di pazzia: «Ci siamo spinti emozionalmente dove l’uomo non sa spingersi più. Una grande esperienza, da uomini, senza stereotipi».
Dopo l’esperienza a Camp Grounded, qualcuno ha deciso di lasciare il lavoro. Altri hanno semplicemente ridotto l’eccesso di check-in su Facebook.

martedì 30 agosto 2016

I braccianti bloccano per ore la filiera del pomodoro - Clash City Workers


Ieri grande giornata di lotta dei braccianti in Puglia! In più di 400 hanno bloccato per sei ore la Princes, la più grande fabbrica di trasformazione del pomodoro d'Europa, 3 miliardi di fatturato l'anno, alla periferia di Foggia.
Pomodoro che raccolgono in condizioni indegne nei campi della provincia, senza rispetto dei contratti, vivendo in ghetti alla periferia della città. Abbiamo più volte dato notizia della loro mobilitazione sulle nostre pagine. Pubblichiamo di seguito il comunicato del Comitato dei lavoratori delle Campagne e di Campagne in lotta che fa una cronaca della giornata.

Si è concluso il blocco dei lavoratori delle campagne davanti alla Princes, ma la loro lotta non si ferma. Oggi è stata una grande giornata: 400 lavoratori delle campagne hanno scioperato e bloccato per oltre sei ore la trasformazione del pomodoro a Foggia. Le due grandi aziende della zona industriale, la Futuragri e la Princes, non hanno potuto lavorare il pomodoro né far uscire dalle fabbriche conserve e pelati. Molti i camionisti solidali con la lotta, visto il trattamento che ricevono dall'azienda.
Questo è solo l'ultimo capitolo di una mobilitazione che prosegue dallo scorso settembre, e che pretende la regolarizzazione di tutti i lavoratori senza permesso di soggiorno e il rispetto dei contratti collettivi. Grazie al blocco, i lavoratori hanno ottenuto un impegno da parte dell'associazione nazionale delle industrie conserviere (ANICAV) a partecipare ad un incontro in cui pretenderemo che riconoscano le loro responsabilità nel garantire il rispetto dei diritti contrattuali, e un incontro con il questore riguardo ai permessi di soggiorno. Dal canto suo, il governo preferisce trincerarsi dietro ad un muro di silenzio.
Siamo consapevoli che questo è solo l'inizio, ma oggi è una giornata storica per la lotta dei braccianti! Dalle campagne, WE STILL NEED YES!!

Comitato Lavoratori delle Campagne
Rete Campagne in Lotta
Solidaria Bari




domenica 28 agosto 2016

Giorgio Todde a Zedda: “State cancellando l’anima di Cagliari. Adesso fermatevi”

Pubblichiamo una lettera-appello dello scrittore, e socio onorario all’Associazione Italia Nostra, Giorgio Todde, indirizzata al sindaco di Cagliari Massimo Zedda. Una critica spietata, ma ci pare costruttiva, ad alcune delle recenti opere pubbliche realizzate nel capoluogo.

Caro Sindaco,
come si capisce guardandosi intorno, la nostra città si è trovata, per merito di chi l’amministra e per sua fortuna, una grande quantità di fondi spendibili per le opere pubbliche. Così, tra tanti cantieri, alcuni impeccabili, altri meno, ne sono toccati alcuni anche al nostro centro storico. E poiché penso che tutti, questa Giunta compresa, siamo accomunati dalla volontà di proteggere e conservare il nostro patrimonio storico e la nostra identità, che poi coincidono, vorrei proporre una riflessione su alcuni punti vitali per la salute, la bellezza e la ricchezza della città.
Con grande fiducia, s’intende, nella sensibilità di chi legge.
Quando si ama un luogo lo si ama per come è.
E intorno ad alcuni princìpi fondamentali si raccolgono tutte le comunità e tra questi princìpi ci sono quelli che regolano il modo di abitare i luoghi.
Questo non significa che quei luoghi non possano mutare mai, però il cambiamento, come il loro costituirsi, è una faccenda delicata.
Noi abitiamo sempre gli stessi luoghi e cerchiamo le tracce di come abitavamo.
Un’immensa forza simbolica hanno i luoghi e rappresentano anche la continuità delle esistenze. Sono la vita stessa. I luoghi sono noi e noi siamo i luoghi. E dal loro stato dipende il nostro benessere.
Ovvietà, ma ricordarlo non fa male a chi, per sentirsi vivo e al passo, deve rassomigliare a qualcuno o a qualcosa lontani.
Allora si genera dolore perché chi “è” non corrisponde a chi vorrebbe essere.
Quante volte abbiamo sentito: facciamolo anche noi perché a Barcellona fanno così e cosà, a Valencia, a Marsiglia, a Nizza. Un lungo elenco inverosimile. Come se noi non avessimo un passato, come se a noi non fosse necessaria la continuità con il come eravamo e, peggio, come se avessimo come unico futuro possibile l’imitazione, lo scimmiottamento di modelli non nostri.
Una malattia incurabile che ha conseguenze terribili.
Il colle di Castello a Cagliari rappresenta la città e in un certo senso tutta la storia dell’isola senza che per questo valga sentimentalmente più degli altri luoghi. D’altronde ognuno di noi ne possiede uno che segna la sua esistenza e la lega a quella di chi l’ha preceduto e di chi lo seguirà.
Il colle, si sa, ha due versanti, uno a oriente e uno a occidente.
Un progetto illegittimo di parcheggio interrato ne storpierebbe il lato a tramonto, però su questo c’è una discussione in corso.
Ma un altro progetto illegittimo come il primo ne ha modificato il lato che guarda all’alba. Oh, non si trascura nulla in questa città. Così sono apparsi sotto le mura orrendi campetti verdi di plastica e azzurri, pali altissimi con riflettori abbaglianti, una orribile costruzione che neppure finita ha iniziato a funzionare come bar. Tutto sicuramente illegittimo, visto che il Piano paesaggistico lo vieta con nettezza.
Continua a vincere l’urbanistica decisa dai barman. La filosofia della birretta che non può reggere nessuna città orienta le decisioni degli uffici. E i quartieri storici, vivi sino a qualche anno fa perché la gente, appunto, ci viveva, le scuole si animavano, le botteghe lavoravano, sono in via di trasformazione in un unico bar ristorante che si anima la notte.
I campetti sono una vetta di schifezza, frutto di menti urbanisticamente suggestionate da un’idea morbosa di modernità. Modernità scimmiotata, appunto. Lì, molto tempo fa, c’erano campetti, ma erano aggraziati, possedevano il pregio della leggerezza e quasi “dell’invisibilità”. E c’era perfino qualche albero. Poi diventò la squallida terrazza di un parcheggio. E ora sono un’offesa per le retine oneste.
E così, in pochi anni, i due lati del quartiere più simbolico della città potrebbero ridursi a una poltiglia inguardabile.
Lo squallore ordinato – anche le città sovietiche erano ordinate – spacciato come bellezza. Un’ondata di anonimo e mediocre perbenismo urbanistico.
Insomma c’è un disegno di città ridotta a tavolo di biliardo, mezza disabitata e mezza abitata da creature che imitano i rendering, con le strade uguali alle strade di tutto il mondo. Gli stessi lastroni di pietra uguali a Monaco e nelle vie del centro storico a Cagliari dove, pure, sotto l’asfalto c’era molto selciato da recuperare.
La passeggiata al Poetto identica a quella di Rimini, senza alberi, senza ombre e senza speranza. I chioschi bolscevichi. Un grande rendering vivente.
E i campetti sotto le mura sono coerenti con l’orrore trasformativo che si vede in giro.
Le Sovrintendenze rilasciano i nulla osta oppure li negano. E’ una loro funzione fondamentale. Possiedono e usano gli strumenti della tutela. Un compito che, per sua stessa natura, dovrebbe partire dalla difesa dei luoghi sino ai particolari, visto che i luoghi sono costituiti da un insieme e da una somma di particolari.
Una domanda alla Sovrintendenza: come si fa a mettere d’accordo il dozzinale intervento sotto le mura con il nostro piano paesaggistico che vieta ogni forma di intervento che non sia conservativo e proibisce ogni costruzione?
Ci si può impippare di una norma e rilasciare autorizzazioni? Beh, evidentemente sì. Almeno da queste parti.
Se una norma vieta qualsiasi modifica di un complesso paesaggistico – in questo caso del patrimonio irripetibile della rocca – allora è possibile solo la manutenzione e, parola sconosciuta in città, il restauro. Dunque quell’autorizzazione, se c’è, è illegittima. E dunque la “colpa” del Comune è relativa.
Perfino i bimbi definiscono un assurdo quei campetti. E alla domanda “ti piace?” un bambino ha risposto con la semplicità intelligente dei suoi dieci anni: i campetti si fanno da una parte e le cose antiche si lasciano in pace. Elementare.
L’amnesia delle regole, l’ignorare strumenti di civiltà come il Codice Urbani e il Piano paesaggistico conducono inevitabilmente alla distruzione di ogni bene e trasformano la nostra città in un luogo ordinario, uguale a mille altri luoghi. La perdita dei connotati, la scomparsa di ogni caratteristica, la nostra scomparsa come comunità, disciolti in una pappa uguale dappertutto.
La città, nata sul palmo di un dio, si imbruttisce e si perde.
Ma l’opera prosegue.
Le scalette di Santa Teresa costituivano un’unicità e imploravano da anni di essere curate e restaurate. Ora, con la pioggia di milioni per i lavori pubblici, avevamo immaginato proprio un’opera di restauro, di recupero dei basoli, dell’acciottolato, la conservazione del passato e la continuità. Chi mai toglierebbe la patina di antico da un mobile, da un quadro, da un gioiello o da un angolo delle nostre città? Noi viaggiamo alla ricerca dell’antico e ci commuoviamo di fronte a oggetti, opere, palazzi, edifici, manufatti carichi di reminiscenze.
Ma a Cagliari, dove le scalette – e chissà cosa ha risposto la Sovrintendenza alla scheletrica relazione paesaggistica del Comune – sono state sbrigativamente ritenute irrecuperabili mentre ci si camminava sino al giorno prima. A Cagliari non si restaura, si cancella. E le scalette settecentesche – una delle poche testimonianze dell’epoca dopo la distruzione recente di quelle di Villanova – saranno sostituite dal solito granito e dagli stessi tozzetti, ma proprio gli stessi, che si vedono in buona parte d’Europa. Tutto uguale a tutto.
Caro Sindaco, chiediamo in tanti e lo chiede anche Italia Nostra, di fermare i lavori nelle scalette e di trasformarli in restauro, una parola che stride alle orecchie delle nostre imprese. Chiediamo di rimuovere i campetti sotto le mura e di trasformarli in qualcosa di rispettoso per le stesse mura e per la rocca. Chiediamo un esempio di come si possa conservare e preservare, proprio come si fa nelle città che noi andiamo a vedere ammirati.
Salvaguardare è difficile, costa, il restauro è faticoso, richiede grandi conoscenze. E, come nella chirurgia, il restauro e la cura più belli sono quelli che non si vedono.
Sulla conservazione, oltretutto, si costruisce un’intera economia, si genera lavoro di qualità e si vive meglio dentro un mondo autentico nel quale ci si riconosce.
Chi camminerebbe tra le strade di Siena se le avessero ripavimentate gli ingegneri che si occupano di via Manno? Nessuno. Chi andrebbe a vedere le nostre rocche medievali sparse in tutto il paese se fossero state affidate a coloro che pavimentano le scalette di Santa Teresa? Nessuno.
Quella iniziata sulle scalette è la distruzione di un bene monumentale e chiediamo a chi ha la responsabilità di fermare questa devastazione, di riflettere sulla gravità e le conseguenze di quello che è stato fatto, di tornare indietro e di dare un esempio per il futuro della città che, grazie al lavoro di certi nostri avi, ancora possiede un patrimonio da amare e proteggere.
Sarebbe un segno importante e manterremmo la speranza di benessere restando noi stessi, senza patire cercando di essere quello che non siamo. Qualcuno, un grand’uomo, ha scritto che solo tornando all’antico si è moderni.
Cordiali saluti e auguri di buon lavoro,
Giorgio Todde
(Italia Nostra)

sabato 27 agosto 2016

Primi provvedimenti di limitazione del glifosato - Gruppo d'Intervento Giuridico

Una delle sostanze tossiche più diffuse in agricoltura e per la pulizia delle fasce di rispetto stradali è il glifosato, potente erbicida sospetto cancerogeno.   In proposito, è in corso da oltre un anno una disputa scientifica sul livello di cancerogenicità tra l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (I.A.R.C.) dell’Organizzazione mondiale della sanità e l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (E.F.S.A.).
Fra mille tentennamenti degli Stati membri, la Commissione europea, nel luglio 2016, ne ha prorogato l’autorizzazione all’utilizzo fino al 31 dicembre 2017, in attesa del parere da parte dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (E.C.H.A.), pur con diverse prescrizioni.
Molto opportunamente il decreto Ministero Salute del 9 agosto 2016 ha posto il divieto, a partire dal 22 agosto 2016, l’utilizzo di prodotti fitosanitari contenenti la sostanza attivaglifosate “nelle aree frequentate dalla popolazione … quali: parchigiardinicampi sportivi earee ricreativecortili aree verdi all’interno di plessi scolastici, aree gioco per bambini e aree adiacenti alle strutture sanitarie”, nonchè durante le operazioni finalizzate al raccolto e alla trebbiatura.

La diffusione di elementi inquinanti, come il glifosato, è ormai fin troppo ampia, come testimoniato dal Rapporto nazionale pesticidi nelle acque 2013-2014(edizione 2016) pubblicato recentementedall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (I.S.P.R.A.), autentica analisi approfondita sui livelli di contaminazione delle acque superficiali e sotterranee in Italia.
Finalmente vengono adottati i primi provvedimenti di limitazione dell’uso, un primo passo per migliori obiettivi di qualità ambientale e sanitaria.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus



giovedì 25 agosto 2016

L'azzurro intenso del lapislazzuli che fa dannare l'Afghanistan - Marina Forti

Per secoli è stato il blu più ricercato nella pittura europea. Ha colorato il manto di infinite madonne rinascimentali e i drappeggi dell’età barocca. Era chiamato blu oltremare e nei trattati di pittura quattrocenteschi era definito “il più perfetto di tutti i colori”. Però era dannatamente costoso. Infatti è ottenuto dalla povere del lapislazzuli, pietra semipreziosa nota fin dall’antichità proprio per il suo azzurro intenso.
Pare che per abbassare i costi molti pittori usassero pigmenti meno pregiati, con solo un piccolo strato di “oltremare” in superficie. Ma oltre alla mano del maestro conta la qualità del colore: si dice per esempio che Tiziano non si sia mai abbassato a usare altro che il colore puro, che del resto arrivava attraverso il porto della sua Venezia, un hub del commercio globale dell’epoca.
Il lapislazzuli infatti veniva dall’Afghanistan. Era così fin dall’antichità, che fosse usato come pietra o come pigmento colorato, nelle decorazioni delle tombe reali nell’Egitto di cinquemila anni fa, la maschera funeraria di Tutankamon, o nei monili dei nobili. Dall’inizio dei tempi e almeno fino al diciottesimo secolo, ogni lapislazzuli in Egitto o in Europa arrivava dalle montagne del Badakhshan, in quello che oggi è l’Afghanistan nordorientale.

Una guerra d’impresa
Solo là si trovava la pietra blu intenso, a volte con venature dorate di pirite. Anche se ora si conoscono giacimenti nella regione andina del Cile, e in quella del lago Baikal in Russia, gran parte delle pietre (le migliori) arriva sempre da quelle montagne, brulle e aspre.
Ancora oggi dunque il lapislazzuli è la principale ricchezza del Badakhshan. Le miniere afgane sono gallerie scavate nella montagna per lo più con la dinamite, nulla di altamente tecnologico. Dalle miniere, i blocchi di pietra azzurra sono portati a valle, da uomini carichi come muli e poi in camion; prendono la via di Kabul e infine, in blocchi ancora grezzi, vanno per lo più in Cina, in parte anche in India.
Solo che l’esportazione di lapislazzuli non ha contribuito a rendere la provincia né più ricca né più pacifica. Piuttosto ha arricchito alcuni “signori della guerra” che si contendono da decenni il controllo del territorio. E poi, un’indagine recente conferma che i lapislazzuli fruttano milioni di dollari anche ai ribelli taliban. Global witness, l’organizzazione che ha condotto questa ricerca, dice che i lapislazzuli sono un nuovo caso di “minerali di guerra”: proprio come i “diamanti insanguinati”, quelli estratti nelle zone dell’Africa teatro di guerre civili, che finiscono per finanziare le parti in conflitto.
Nel gioco e nel Badakshan sono entrati i taliban che pretendono una parte del ricavato dalla vendita di lapislazzuli
Intendiamoci: qui parliamo di ribelli, “signori della guerra” e taliban, ma l’ideologia e le fedeltà politiche non c’entrano molto. “Questa è una guerra d’impresa”, unabusiness war, spiega un commerciante ai ricercatori di Global witness (che per due anni ha studiato una delle maggiori miniere attive, intervistando autorità locali, imprenditori, commercianti, lavoratori, comandanti di milizie, “anziani” dei villaggi, operatori sociali e giornalisti).
La “guerra d’impresa” ha opposto prima due comandanti locali, Abdul Malek e Zulmai Mujadidi, entrambi allineati con il governo di Kabul e perfino appartenenti allo stesso partito (Jamiat-e islami, il più antico partito islamista del subcontinente indiano). Dopo la caduta del regime taliban, nel 2001, il primo è divenuto capo della polizia, l’altro comandante delle forze di sicurezza del Badakhshan.

La maledizione delle risorse
Per dodici anni la miniera è stata feudo personale di Mujadidi, anche se era in concessione a un’azienda privata. Poi nel 2014 il rivale Malek ha fatto un “golpe”, con i suoi miliziani. In zona, Mujadidi era malvisto: dicono che accumulava solo profitto personale. Di Malek invece molti intervistati dicono che fa lavorare la gente del luogo e aiuta tutti – anche se pare che tutto si limiti a un po’ di carità ai più poveri e qualche offerta alle moschee locali. In ogni caso, il padrone ora è lui.
Poi però nel gioco sono entrati i taliban. Dopo il ritiro delle truppe occidentali (all fine del 2012) il movimento ribelle ha aumentato la pressione, infiltrando anche il Badakhshan. E quando è arrivato a controllare la zona che dà accesso alla miniera, un anno fa, Malek ha dovuto scendere a patti. Secondo Global witness ci sono prove che di recente abbia accettato di versare ai taliban metà dei ricavi dei “suoi” lapislazzuli.
L’indagine stima che nel solo 2014 i lapislazzuli di quella singola miniera abbiano fruttato oltre 18 milioni di dollari a Malek e circa un milione ciascuno alle milizie dei Mujadidi e ai taliban, che però in seguito hanno aumentato la loro parte. Questo significa anche che ogni anno lo stato centrale perde royalty e tasse su quei circa 20 milioni di dollari (ma questo era vero anche senza i taliban).
In definitiva, “il più perfetto dei colori” finora ha portato a chi lo estrae solo violenza e corruzione. Si dice che sia la “maledizione delle risorse”.

martedì 23 agosto 2016

Il miracolo della desalinizzazione israeliana babbo natale e altre fiabe - Susan Abulhawa


Scientific American ha recentemente condotto un servizio sull’industria di desalinizzazione israeliana, vista come un atto miracoloso di ingegno di una piccola nazione nel mezzo delle fiamme, le nazioni arretrate.
Per citare il linguaggio romanzato dell’articolo, l’autore si riferisce a Israele come “una civiltà galvanizzata che ha creato l’acqua dal nulla”, dove solo a poche miglia di distanza, alludendo alla Siria e all’Iraq in particolare, ma anche paesi arabi in generale, “l’acqua è scomparsa e la civiltà si è sbriciolata “.
E ‘sorprendente vedere sulle pagine di Scientific American come la promozione palese dell’eccezionalità di Israele e la risurrezione menzognera della mitologia di “fare fiorire il deserto”. E’ importante analizzare i fatti, la storia e la realtà in questa favola dell’acqua.
L’autore sostiene sfacciatamente di conoscere 900 anni di storia palestinese è israeliana. In realtà, Israele è un paese 68 anni, abitato da immigrati ebrei europei che conquistarono la Palestina, espulso la maggior parte della popolazione indigena e rivendicato per loro tutti i terreni, fattorie, case, aziende, biblioteche e risorse.
Oltre a ciò l’appropriazione gratuita della storia palestinese, l’articolo non fornisce alcun contesto storico dell’ambiente, delle precipitazioni e delle risorse idriche naturali, dando l’impressione di una terra inospitale e naturalmente arida.

Nei fatti, nel corso della storia, il nord della Palestina vantava un clima mediterraneo, con estati calde e secche, con precipitazioni abbondanti in inverno. E infatti, le precipitazioni a Ramallah sono superiori a quelle di Londra, così come la pioggia di Gerusalemme.
La metà meridionale della Palestina diventa deserto intorno ai territori di Beersheba, dove il deserto Naqab si espande fino alla punta della Palestina. Quando è stato fondato Israele, i palestinesi vivevano in modo sostenibile coltivando il 30% del loro paese. Escludendo  Beersheba, la percentuale  sale a una media del 43%, raggiungendo il top del 71% a Gaza.
La gestione dell’acqua al servizio del colonialismo
La funzione del regime idrico israeliano è in modo sinergico all’interno di un contesto più ampio di esclusività ebraica e di negazione palestinese. Separare i due aspetti della discussione è ipocrita, dal momento che gran parte della crisi idrica corrente è direttamente e indirettamente imputabile al sionismo che ha rivoltato l’organizzazione sostenibile della società nativa del territorio e dell’agricoltura.
Nel suo primo anno di fondazione, la deviazione israeliana dell’acqua di fiumi e affluenti cominciò sul serio, forzando la natura con variazioni innaturali per applicare una ideologia in contrasto con il territorio locale.
Ignorando l’incompatibilità ecologica di piantare colture estranee ad alta intensità di acqua per alimentare i palati europei e irrigando il deserto rubando l’acqua dei vicini, ignorando gli abitanti  e la biodiversità locale, con il sovra-pompaggio e la sottrazione di acqua per servire gli insediamenti sionisti con standard europei insostenibili, si  impostano  le basi per un gran numero di disastri ambientali in tutta la Palestina.
Ad esempio, anche se Israele avesse diffuso una percezione di pratiche agricole di ebrei ingegnosi (attraverso narrazioni PR di eccezionalismo ebraico simile a quello utilizzato nell’articolo di Scientific American), l’agricoltura israeliana era in realtà distruttiva per l’equilibrio ecologico della Palestina. Con l’80% di acqua disponibile utilizzata in agricoltura, che ha contribuito meno del 3 per cento all’economia israeliana, Israele ha continuato a sfruttare le risorse idriche per promuovere il sistema coloniale sionista, una contraddizione ecologica per l’ambiente locale.
Privare i palestinesi della loro acqua
Contemporaneamente alla colonizzazione avanza la negazione e l’esclusione della società palestinese nativa. Con il furto su larga scala della ricchezza e dei beni palestinesi, Israele ha iniziato  la distruzione della vita palestinese, soprattutto distruggendo l’agricoltura, che dipendeva da colture non irrigue come alberi di ulivo.
Oltre a questo, il controllo totale di Israele su tutti di acqua della Palestina ha permesso loro di mantenere i palestinesi assetati e in ginocchio. La distribuzione iniqua e razzista dell’acqua è stato ampiamente documentato nei rapporti severi da parte di organizzazioni locali e internazionali.
L’articolo [pubblicato da Scientific American] afferma che Israele fornisce l’acqua ai  palestinesi, ignorando il fatto cruciale che l’acqua appartiene ai palestinesi, in primo luogo. L’acqua dolce è pompata da una falda acquifera di montagna sotto villaggi palestinesi e i territori  per rifornire gli insediamenti israeliani. Una piccola frazione di questa acqua viene poi rivenduta ai palestinesi, in genere a prezzi molto più alti rispetto a quello per le colonie ebraiche della stessa zona.
Mentre i coloni ebrei consumano oltre cinque volte più acqua, godendo di prati verdeggianti e piscine private, l’accesso dei palestinesi all’acqua è variabile, a volte discontinua per settimane o mesi, o negato del tutto. Non è raro per interi villaggi trovarsi senza acqua potabile, per non parlare di ciò che questo significa per l’agricoltura palestinese.

Appropriarsi delle acque di superficie
Uno sguardo alla gestione delle acque di superficie fornisce ulteriore esempio della distruzione di Israele del potenziale idraulico della Palestina. Il fiume Al Auja, che Israele ha ribattezzato come il Yarkon, era un fiume costiero vigorosa, con una grande varietà di pesci e  di fauna, alcune delle quali non esistono in nessun altro luogo.
Gli abitanti del villaggio palestinese di Ras al-Ayn,  in una guida del  1891 lo hanno descritto come “un fiume prospero che scorre a zig zag fino a buttarsi in mare … la sua forza fa girare le pale dei mulini e piccoli pesci possono essere catturati in esso”.
In solo un decennio di gestione israeliana dell’acqua della Palestina, questo fiume che dava la vita è stato ridotto a un rivolo di acque reflue, le sue acque dirottate e sostituite con un fango tossico di sostanze inquinanti industriali e domestiche che, nel 1997, ha corroso  i polmoni e gli organi vitali di un atleta in gara ai Maccabiah Games  caduto nel fiume a seguito del crollo di un ponte.

Uno dei primi progetti idrici di Israele quando conquistò l’accesso al Giordano, è stato quello di iniziare a portare lontano l’acqua  dai loro vicini, incitando la Siria e la Giordania a seguire l’esempio di conservare la propria quota di acqua regionale. Decenni più tardi, i livelli d’acqua sono così bassi che il fiume Giordano non può più ricostituire il Mar Morto. I livelli dell’acqua in diminuzione, insieme con i “bacini di evaporazione” di Israele per estrarre minerali ed altre attività industriali hanno creato un disastro ambientale mai visto prima in Palestina.
Nel 1950, Israele prosciuga le zone umide Huleh della Palestina, un tesoro di biodiversità del Vicino Oriente, per stabilire insediamenti ebraici. Centinaia di questi progetti coloniali hanno notevolmente compromesso la ricca diversità biologica e geografica che ha prosperato in questo terreno crocevia  di tre continenti.
Un miracolo israeliano?
Così, ignorando la storia del sionismo, la degradazione dell’ambiente della Palestina e il ruolo fondamentale di Israele nella genesi della crisi idrica in corso, l’articolo di Scientific American pone le basi per spiegare il miracolo a basso costo, non invadente, fornitura apparentemente illimitata di acqua dolce. Francamente, questo racconto appartiene ad altri miti come “una terra senza popolo per un popolo senza terra” e Babbo Natale, le sue renne e la fabbrica dei giocattoli al Polo Nord.
Tuttavia la desalinizzazione  effettivamente proposta e altri  vantaggi, non è per nulla miracolosa né è  un’eccezione in Medio Oriente, simili sfide sono state vinte nei paesi del Golfo che hanno impiegato tecniche di dissalazione per qualche tempo.
Da esperienza qui e altrove, sappiamo che ci sono dei costi grandi per l’ambiente e gravi rischi per la salute conseguenti alla  desalinizzazione, compresi i sottoprodotti di gas a effetto serra e l’inquinamento. Non è chiaro se il costo propagandato di 0,58 dollaro per metro cubo di acqua include il costo dell’inquinamento o il costo di ampie fasce di prezioso terreno costiero che deve essere utilizzato per le infrastrutture di dissalazione. Né vi era alcuna menzione della devastazione nota e prevedibile per la vita marina locale inseguito alle alterazioni fisiche e chimiche dell’ambiente conseguenti ai processi di desalinizzazione.
Report onesto.
Negli ultimi due decenni, gli ambientalisti israeliani hanno lavorato per sensibilizzare la loro società sulla portata della loro distruzione del mondo naturale locale, ed i loro sforzi, così come la legislazione e dei regolamenti, hanno iniziato a mitigare alcuni degli effetti deleteri di conquista di Israele, insediamenti e pesanti alterazioni ambientali.
Non è un recupero facile, tuttavia, per come le politiche israeliane, sostenute dalla politica coloniale, hanno quasi cancellato l’organizzazione sostenibile della civiltà indigena della Palestina e l’ecologia nativa.
E’ irresponsabile e disonesto continuare a diffondere il mito romanzato dell’eccellenza israeliana come unica brillante scelta per guidare e ispirare. La cosa intelligente da fare  è spiegare coraggiosamente i fallimenti economici, ambientali e sociali, maschere di Israele, l’orribile distruzione della società  nativa, sia di  umani che non umani.
Scientific American farebbe meglio a fornirci inchieste incisive e resoconti onesti sulla pletora di sfide ambientali cui deve far fronte l’umanità, soprattutto in Medio Oriente, in un’epoca in cui l’inquinamento e le dimensioni della popolazione han raggiunto proporzioni inaudite, caratterizzata da guerre incomprensibili e diminuzione delle risorse invece di promuovere la favoletta di uno stato di coloni che si autoincensa.

lunedì 22 agosto 2016

A quando un Mc Donald’s dentro il Colosseo? - Gruppo intervento giuridico

Il livello di civiltà di un Paese si misura anche e soprattutto con l’attenzione con cui cura e difende il proprio ambiente, la propria salute pubblica, i propri beni culturali.    Grandi patrimoni come l’ambiente e la cultura sono anche grandi risorse economiche per la nostra Italia, impossibile da dimenticare.
L’Italia, grazie al Governo Renzi, ha fatto recentemente un imbarazzante passo indietro, dalle conseguenze potenzialmente disastrose.
Infatti, il 28 luglio 2016 è entrato in vigore, nel silenzio generale, il decreto legislativo 30 giugno 2016, n. 127 “Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124”, che ha radicalmente modificato in negativo le disposizioni inerenti la conferenza di servizi.
Com’è noto, nelle conferenze di servizi vengono convocate le varie amministrazioni pubbliche competenti per l’esame, l’espressione di pareri e la decisione sulle attività amministrative più disparate (es. opere pubbliche, rilascio di autorizzazioni, ecc.).   In precedenza, in caso di “motivato dissenso … espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, la decisione” veniva “rimessa dall’amministrazione procedente, entro dieci giorni: a) al Consiglio dei ministri, in caso di dissenso tra amministrazioni statali; b) alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano …  in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali; c) alla Conferenza unificata … in caso di dissenso tra un’amministrazione statale o regionale e un ente locale o tra più enti locali”.
Insomma, quando le amministrazioni pubbliche preposte alla difesa di interessi ambientali, sanitari o culturali esprimevano il loro parere contrario, la decisione veniva rimessa all’esame collegiale del Consiglio dei Ministri o della Conferenza Stato-Regioni-Province autonome.
Oggi non è più così.
Il nuovo art. 14 quater della legge n. 241/1990 e successive modifiche e integrazioni (s.m.i.) prevede decisioni a maggioranza semplice delle amministrazioni pubbliche partecipanti.  Le “amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità dei cittadini”dissenzienti rispetto alla decisione finale della conferenza di servizi possono solo proporre formale opposizione al Presidente del Consiglio dei Ministri, con atto del Ministro competente, “entro 10 giorni dalla … comunicazione … a condizione che abbiano espresso in modo inequivoco il proprio motivato dissenso prima della conclusione dei lavori della conferenza” (art. 14 quinques della legge n. 241/1990 e s.m.i.).
A quel punto, il Presidente del Consiglio convoca le varie amministrazioni competenti per raggiungere un’intesa: qualora non sia raggiunta, se ne occuperà il Consiglio dei Ministri che decide definitivamente. A maggioranza, ovviamente.
La nuova formulazione del testo normativo apre la strada potenzialmente a infiniti piccoli e grandi scempi ambientali e culturali: basta che entro dieci giorni dalla comunicazione formale della decisione assunta in conferenza di servizi non riesca a intervenire l’atto ministeriale di opposizione e lo “scempio a maggioranza” sarà legittimo ed esecutivo.
Per capirci, a questo punto anche un Mc Donald’s dentro il Colosseo non è più una follìa inconcepibile. Il sonno della ragione genera mostri.

giovedì 18 agosto 2016

Singer e l'eterno olocausto - Massimo Comparotto

“Herman pronunciò mentalmente l’elogio funebre della topolina che aveva diviso con lui un tratto della propria vita e che per colpa sua se n’era andata da questa terra.” “Che ne sanno di quelli come te gli studiosi, i filosofi, i leader di questo mondo? Si sono convinto che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno.”
Questo elogio è tratto dal racconto breve L’uomo che scriveva lettere di Isaac Bashevis Singer (1904-1991) premio Nobel per la letteratura 1978.
Olocausto, dal greco holòkauston, formato da hòlos (tutto) e kàiein (bruciare), è una parola che dopo la Seconda Guerra Mondiale ha assunto un significato molto profondo non solo per gli ebrei ma per tutta l’umanità. Rappresenta lo sterminio da parte dei nazisti di quasi 6 milioni di ebrei nei campi di concentramento di Auschwitz, Birkenau, Dachau, Buchenwald, Mauthausen, Treblinka e numerosi altri sparsi in Europa. Soprattutto la tragedia dell’Olocausto deve essere ricordata come monito per tutte le generazioni future, affinché non dimentichino di che cosa è stato capace l’uomo. Il voler paragonare l’Olocausto compiuto in passato dai nazisti e l’Olocausto compiuto quotidianamente nei confronti dei miliardi di animali macellati, cacciati, pescati, torturati ogni anno, per molti potrebbe apparire come un’eresia.
Ma Singer era uno scrittore Yiddish, un ebreo proveniente da una famiglia ortodossa e anch’egli era fedele alle antiche tradizioni ebraiche. Eppure scrisse quello che abbiamo letto e molto altro ancora riguardo quella assurda razionalizzazione dello sterminio compiuto sugli altri animali per ogni futile bisogno umano, compreso il mangiar carne.
Anche se Singer non divenne definitivamente vegetariano che nel 1962, appare evidente il suo costante rifiuto della macellazione degli animali, in particolare della macellazione con rito ebraico, consistente nel recidere la carotide della gola per far dissanguare l’animale ancor vivo e sofferente.
Nel suo primo romanzo Satana e Goray scritto nel 1935 vi sono descritte delle raccapriccianti scene ambientate nel mattatoio con alcuni protagonisti nelle vesti dimacellatori rituali.
Queste scene di morte sono riportate anche nel suo più famoso romanzo dinasticoLa famiglia Moskat che gli è valso il Nobel per la letteratura. In particolare nel racconto Sangue, la protagonista principale è una ricca donna ebrea di nome Risha, che diventa di volta in volta adultera, macellaia, assassina e, alla fine della storia, diventa un lupo mannaro, come fosse una graduale, sanguinaria discesa negli inferi.
Ne Il macellatore Yoine Meir è un giovane rabbino che diventa suo malgrado un macellatore ossessionato dal suo lavoro dal momento che l’uccisione dell’animale: “gli causava lo stesso dolore che avrebbe provato se avesse tagliato la gola a se stesso”. Poi finirà per impazzire con la costante angoscia di essere inseguito da miriadi di animali insanguinati che gli spruzzano addosso fiele e bava e che lo portano ad imprecare: “Padre del Cielo, Tu sei il macellatore e l’angelo della morte! il mondo intero è un macello!”.
Quasi un’autobiografia è il romanzo Il penitente che narra la storia di Joseph Shapiro, un ebreo sfuggito dall’Olocausto che, in seguito trasferitosi a New York diventa un convinto vegetariano, tanto da affermare: “Più volte ho pensato che per quanto riguarda il suo comportamento verso gli animali, ogni uomo è nazista”. Sono poi numerosi i romanzi in cui Singer prende il preteso per scagliarsicontro la caccia, come in Lo schiavo o in Ombre sull’Hudson dove addirittura afferma: “Fino a quando le altre nazioni continueranno ad andare in chiesa al mattino e a caccia nel pomeriggio, resteranno bestie scatenate destinate a produrre altri Hitler e altre mostruosità”; e sulla pesca: “Non li sfiora neppure per un istante l’idea che esseri innocenti soffriranno e moriranno a causa di questo divertimento innocente”.
Il paragone con l’Olocausto Singer lo fa anche nel romanzo Nemici: Una storia d’amore in cui il personaggio di Herman Broder che ha perduto l’intera famiglia per mano dei nazisti quando viene portato dinanzi agli animali dello zoo vede gli occhi del leone che: “esprimevano la disperazione di colori ai quali non è concesso né di vivere né di morire… e il lupo che andava su e giù, girando nella sua stessa pazzia..Come gli ebrei, gli animali sono stati trascinati qui da tutte le parti del mondo, condannati all’isolamento e alla noia.. Un uccello girava la testa a destra e a sinistra come cercando il colpevole che lo aveva ingannato a questo mondo”.
Nel libro di Charles Patterson Un’eterna Treblinka di Editori Riuniti apprendiamo da fonti ben documentate anche l’antivivisezionismo di Singer: “Non potrò mai dimenticare le crudeltà perpetrate contro le creature di Dio nei macelli, con la caccia e nei vari laboratori scientifici”; e a proposito di coloro che difendono i diritti degli animali: “è un bene che esistano persone che esprimono una forte protesta contro l’uccisione e la tortura degli indifesi”.
Il libro riporta anche un’intervista rilasciata per un importante quotidiano nel 1964 in cui dice: “Lasciatemi aggiungere che sono vegetariano convinto. Forse vi interesserà sapere che, benché io non segua alcun dogma, questo è diventato il mio dogma”.
Quando qualcuno gli chiedeva se era vegetariano per motivi di salute, egli rispondeva sempre: “Sì, certo, per la salute degli animali”.
Massimo Comparotto - presidente OIPA Italia
da qui

mercoledì 17 agosto 2016

Guerre bestiali - John Berger



Cosa c’è tra le budella
dove circola la merda
e le budella che formano
il sanguinaccio?

Cosa c’è tra la scodella
dove mangiamo
gli animali e il piatto
che contiene la carne?

Cosa c’è tra il letto
di paglia dove dormono
i maiali e il letto
di legumi
dove cuoce l’arrosto?

Cosa c’è tra la vita
di un maiale e il pasto
di un uomo?

Un sacrificio



venerdì 12 agosto 2016

Gioco e azzardo. Dov’è il problema? - Flaminia Brasini



Sono una giocatrice, di quelli che giocano per il piacere di giocare, di stare insieme, di mettersi alla prova, non per soldi. Con il gioco ci lavoro pure, come educatrice.
Ho iniziato a occuparmi di gioco d’azzardo perché mi facevano arrabbiare quelli che parlavano di ludopatia riferendosi a persone dipendenti da certe forme di azzardo. E perché mi sembrava incredibile che qualcuno chiamasse giochi le slot machines.
All’inizio la questione mi pareva semplice: c’è il gioco sano, quello che ti fa stare bene, e c’è l’azzardo che, visto che può farti stare male, è cattivo.
Ovviamente, più ci pensavo più le cose non mi parevano così semplici.
E allora dov’era il nocciolo del problema?
La prima questione era distinguere gioco e azzardo: l’azzardo, per sua natura, esce dal cerchio perfetto del “puro gioco” nel momento stesso in cui non è “disinteressato”, mettendo in campo vincite reali e soldi. Inoltre il gioco d’azzardo si basa prevalentemente (a volte solamente) sulla fortuna e questo secondo alcuni è di per sé un male. Ma la presenza della fortuna (anche di una grossa componente di fortuna) in un gioco non mi pare poi così terribile: in fondo nella vita la fortuna c’è e, per chi considera i giochi anche come strumento educativo, il fatto che giocando si possa scoprire che esiste una tensione reale fra caso e logica, tra controllo e abbandono, con cui imparare a fare i conti, mi pare addirittura una potenzialità interessante e positiva. Il gioco permette di mettere insieme aspetti contraddittori, di lavorare sui paradossi, di stare nella complessità e questa è una delle sue caratteristiche più straordinarie. Logica e fortuna possono coesistere: si può lavorare con la logica, si può accettare la fortuna, si può addirittura cercare la logica dietro alla fortuna (la statistica, per esempio).
I soldi già sono un problema più serio, ma non credo siano di per sé e sempre il problema principale: se fra amici facciamo una partita a poker ogni tanto, in cui nessuno rischia nulla di rilevante per il suo benessere, nemmeno i soldi sono più un problema.
I soldi cambiano le motivazioni e gli esiti del gioco e così ne cambiano ogni aspetto (le emozioni, le relazioni, le potenzialità), eppure di per sé non sono sufficienti a escludere certi giochi d’azzardo dalla categoria dei “giochi”: il poker è un gioco senza dubbio, ma una slot lo è davvero?
Evidentemente conta anche quanto peso abbia la componente economica nel piacere di ciascun gioco e quanto “giocare a soldi” possa incidere realmente sulla vita reale dei giocatori (nessun “gioco” che mi faccia rischiare 1 euro è di per sé economicamente significativo per la mia vita).
Un’amica per aiutarmi ha provato a restringere il campo: “il problema non è l’azzardo, ma l’azzardo patologico”, il fatto che qualcuno con certi giochi possa perdere e perdersi, diventare dipendente e rovinarsi. Ok, questo lo riconosco come un problema. Ma mi pare la vetta di un iceberg. Perché riguarda solo una piccola parte di giocatori d’azzardo e perché temo riguardi solo giocatori con problemi di altra natura e precedenti al gioco stesso. In più su questo non saprei cosa fare, almeno nel caso di patologie conclamate.

Ho provato ad ascoltare qualche psicologo che si occupa del problema. Tralasciando gli aspetti clinici, che non mi competono, ho sentito alcune riflessioni che mi hanno colpita. Una in particolare ha fatto risuonare qualcosa: “i giochi che creano dipendenze si basano sulla fortuna e spingono totalmente su leve emotive: per contrastarli bisognerebbe lavorare con giochi basati sulla logica, giochi di abilità, in cui si vince con capacità e impegno”. La proposta era di riaffermare la razionalità contro l’emotività, l’abilità contro la fortuna. E ancora una volta i conti non mi tornavano. Effettivamente nella nostra società molto spesso ci attraggono e ci imbrogliano facendo leva sulla nostra emotività. Ma non mi pare proprio che si possa dire che viviamo in un mondo in cui la razionalità ha poco spazio! Forse il problema anche qui sta nell’innaturale tentativo di tenere separate le due sfere: razionalità da una parte, emotività dall’altra, dove c’è una non c’è l’altra e viceversa. Anche qui il gioco (quello vero) potrebbe fare molto: il gioco mette insieme emotivo e razionale, ci coinvolge nella nostra interezza e ci costringe a misurarci con diversi aspetti di noi stessi e a trovare conciliazioni e compromessi. Insomma, anche questa cosa dei giochi che puntano sull’emotività contro quelli razionali non mi tornava.
Allora mi sono trovata a pensare: cos’è che a me stona davvero? Cosa mi sembra così grave e doloroso da aver voglia di dedicare tempo e risorse a questa faccenda?
E per prima cosa mi sono venuti in mente i vecchietti del mio quartiere imbambolati davanti a una slot, o certe signore che conosco che si comprano un gratta e vinci dopo l’altro. Mi è venuto in mente il gioco (?) dei pacchi in TV e certi giochini del cellulare che ti acchiappano senza offrirti nessun piacere reale, ma solo con specchietti colorati… Ho pensato alle sale slot che hanno invaso Roma (e non solo) e alla loro infinita bruttezza.

Per finire ho pensato al mio lavoro e ai ragazzi con cui provo ad impegnarmi. Uso il gioco come strumento educativo perché il gioco mi permette di rendere i ragazzi protagonisti, mi permette di dire loro (sempre, qualsiasi sia il tema del nostro lavoro insieme) “tu sai pensare, tu sai inventare, tu sai agire a seconda di quel che hai sperimentato/pensato/sentito; tu puoi scegliere, tu puoi cambiare le cose”. I giochi con cui lavoro dicono sempre questo, perché sono veri giochi: ti mettono in gioco, appunto, ti fanno confrontare con te stesso, con gli altri, con una realtà (simulata e semplificata quanto vogliamo, ma comunque complessa, mutevole, modificabile con le azioni dei giocatori).
Così ho focalizzato: per me il problema non è certo il gioco! Ma nemmeno l’azzardo in sé. Non è solo la patologia (azzardopatia, per chiamarla col suo nome), né il prevalere in certi giochi di fortuna o emotività.
Per me il problema è un modello culturale che sta dentro a certi giochi che ci hanno invasi e conquistati. Sta nelle slot e nei gratta e vinci e nel gioco (?) dei pacchi in TV. È un modello culturale che dice “tu non sei in grado di cambiare la tua vita con le tue risorse, con le tue scelte, con le tue azioni… affidati a qualcos’altro e spera bene”. Ti puoi affidare alla fortuna o a chi vuoi tu, ma è comunque inutile che ti impegni: stacca pure il cervello, rilassati, perditi e spera.
Ovviamente non sto parlando di un complotto!
Parlo di un modello culturale che semplicemente si adatta così alla perfezione con la nostra politica, con la nostra economia (legale e illegale!), con la nostra storia culturale e educativa (gioco, partecipazione e cittadinanza sono ancora lontani dalle nostre scuole), da essersi affermato senza trovare resistenze, o trovandone troppo poche.
Ecco, io vorrei lavorare per contrastare questo modello culturale. Vorrei farlo giocando, facendo giocare e se serve anche lottando un po’.
Flaminia Brasini inventa giochi e videogiochi, scrive, progetta e realizza interventi di espressività, gioco e didattica. Ha all’attivo diverse collaborazioni con scuole e case editrici scolastiche. Ha ideato vari prodotti ludici, in rete e nella formazione a distanza. Ha gestito ludoteche e realizzato progetti di animazione ludica e culturale. Con  un gruppo di persone unite da esperienze e idee comuni sul gioco, sulla comunicazione e sull’educazione nel 2005 ha fondato ConUnGiocoeducare e comunicare. “I temi che ci stanno più a cuore sono quelli legati alla relazione (con gli altri, con l’ambiente…), alla trasformazione, alla partecipazione, alla creatività: lavoriamo giocando e mettendoci in gioco.
da qui