lunedì 8 agosto 2016

Dai semi la vita. In ricordo di Pia Pera

Tempo fa un’amica mi accompagnò su una collina dove pareva sarebbero potuti nascere degli orti sociali, per adulti come per ragazzi. Raccontò candidamente al proprietario dei terreni di conoscere bene il posto: quando preparava la tesi di laurea c’era stata spesso, insieme al cane Palle, e aveva raccolto semi di piante spontanee, poi in parte donati alla banca del seme del locale orto botanico. Forse c’era qualcosa di strano nell’aria, fatto sta che per alcuni giorni si vide minacciata di denuncia per furto.

Quei liberi semi, che già si erano ingegnati di andarsene per il mondo - vuoi trasportati dalle pellicce degli animali, vuoi dal vento o dagli uccelli ghiotti di frutti e bacche - non avrebbero forse dovuto, per trovare un’altra tra le tante possibili vie per arrivare a discendenza, approfittare della premura di una giovane botanica. La faccenda non ebbe seguito, mi colpì tuttavia come una forma bizzarra, e quanto mai miope, di appropriazione del mondo. Non diversamente da un pensiero, un seme può restarsene tranquillo e pressoché invisibile anche per molti anni, fino a che, non appena le condizioni sono favorevoli, si dispiega in tutta la sua segreta grandezza. Seminare è una delle attività più emozionanti, anche perché non è poi così semplice, non sempre almeno. Prendiamo il prezzemolo: non basta indovinare il momento e spargere i semi rasoterra: occorre poi stendere un pezzo di canapa o un qualche altro tessuto leggero a protezione dalle innaffiature dirette. Altrimenti, niente.

La felicità davanti ai semi appena germogliati ha qualcosa di lieve come un sollevarsi leggero del respiro. Che soddisfazione, quando attraverso la stoffa trasparente e bagnata si scorgono le chiazze delle prime foglioline di un bel colorito verde squillante contro il nero del terriccio fertile.

Le piantine appena spuntate inteneriscono come i cuccioli della gatta di casa. Vorrebbero tutti vivere. Non c’è nulla di strano nel provare affetto per una pianta, prendersene a cuore le sorti e volerla aiutare a non sparire dalla faccia della terra. Specie se questa pianta sarà un certo tipo di fagiolo la cui fragranza ha il sapore della casa dove siamo nati, una mela un po’ strana, di quelle che al supermercato non si vedono, però familiare e cara come un’espressione del dialetto natio. Ancora oggi, in questo mondo sempre più incline all’uniformità, si incontrano - e con quanta gioia - angoli dove è rimasto qualcosa di diverso, una pesca magari che alle altre non somiglia tanto, però ha una sua bellezza - e che sensazione forte al palato! Queste, che non sono piante spontanee ma varietà agricole, ognuna con la sua genealogia locale, sopravvivono a volte per caso, più spesso perché qualcuno si prende la briga di riconoscerle, riprodurle, adoperarsi perché non vadano smarriti frutti ortaggi e sementi che generazioni di donne e di uomini hanno faticato tanto prima per selezionare, poi per tramandare. Tanto lavoro nella consapevolezza che si trattava di qualcosa di buono ed essenziale alla vita: la sopravvivenza di certe varietà era intrecciata alla loro.

Ma non viviamo di solo pane. Per esempio: per secoli nella vallata di Hin-Shin, in Estremo Oriente, ha prosperato una foresta di camelie incantevoli dalle foglie sottili e il fiore minuscolo a forma di anemone, cinque petali rossi intorno a un cuscino serrato di petaloidi e stami dorati. L’effetto era quello di un ricamo prezioso. In quella valle viveva un certo signor Nguyen. Quando seppe dell’attacco imminente dei B52 - correvano infatti gli anni della guerra in Vietnam - il suo primo pensiero fu mettere da parte almeno una manciata di semi dell’amata camelia. Fece appena in tempo: un attimo dopo l’intera vallata, incendiata dal napalm, era in preda ad altissime fiamme. Nguyen riuscì a fuggire, dopo innumerevoli peripezie approdò al porto di Livorno. Aveva sentito parlare di una valle simile per certi versi a quella dove era nato, collinosa, ricca di corsi d’acqua e di ville dove le camelie crescevano bene. 

Raggiunse Pieve di Compito e consegnò i semi, dieci, al proprietario del più bel camelieto. Dopo più di tre mesi comparvero le prime due foglioline. Alla comparsa della terza, quella che indica il passaggio dalla delicata prima radice fittonante a un apparato radicale fascicolato, si passò al trapianto: operazione cui sopravvisse una sola piantina, adesso uno splendido albero in fiore nel tardo autunno. Forse l’unico esemplare sopravvissuto al mondo di quella particolare varietà di camelie, e che sarebbe andato perduto per sempre se il signor Nguyen non avesse capito che gli era toccato un compito: sottrarre all’estinzione qualcosa di unico, e anche di molto amato.

Ogni varietà, che si tratti di alberi, fiori, ortaggi, riso o cereali, oppure di una lingua, un dialetto, rappresenta qualcosa di irripetibile, qualcosa che, una volta perduto o dimenticato, nessuno potrà più riportare in vita. Si tratta dei frutti di un’evoluzione - naturale oppure culturale - che rischia di spegnersi a meno di trovare chi, per un motivo o per l’altro, ne prenda a cuore la sopravvivenza.

Senza il signor Nguyen, che l’aveva cara, quella particolare camelia sarebbe scomparsa per sempre. Senza le donne e gli uomini che rifiutano di accettare che sopravviva solo il più forte - ovvero le poche varietà adottate dalle forze economiche dominanti - andrebbe perduto per sempre il lavoro di chi ha selezionato, generazione dopo generazione, varietà agricole preferibili ad altre, vuoi per il gusto, vuoi per la migliore compatibilità con un particolare territorio, vuoi per l’aspetto.

Specie e varietà compaiono e scompaiono di continuo, nella lunga storia della terra. Se ne può prendere atto con indifferenza, oppure lasciare che vincano le ragioni dell’amore, accettando di farsi protettori, chissà perché, di una certo patata e non di un’altra.

Non ha senso imporre regole e divieti al sentimento spontaneo con cui contadini, agricoltori, giardinieri si preoccupano di preservare le varietà a loro più care. Volere arginare la voglia di scambiare semi, regalarli, condividerli, darli in cambio di un giusto compenso, è attentare a una libertà non meno fondamentale di quella di esprimersi, pubblicare, dare voce al proprio pensiero.

Se il seme può dirsi a ragione di chi lo raccoglie in natura, di chi lo riproduce dalle piante che coltiva, di chi lo riceve in dono o lo compra, di chi lo mette in una bustina e lo vende, questa pretesa di proprietà non può certo estendersi dai singoli semi al loro codice genetico.

Questo non può appartenere a nessuno in particolare: è frutto di una storia infinita che ha visto agire insieme le forze della natura e la sagacia dell’uomo, in un concorrere di azioni dove è davvero impossibile, oltre che insensato, tracciare confini precisi di proprietà. Non abbiamo forse tutti il diritto di adoperarci per la continuazione della vita?

da qui

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