lunedì 26 novembre 2012

data di scadenza


…Il latte fresco di alta qualità per legge scade 7 giorni dopo il confezionamento. Se però viene conservato bene nel frigorifero domestico, si può tranquillamente bere anche uno-due giorni dopo senza problemi. Il latte crudo invece va fatto bollire sempre prima del consumo, soprattutto se destinato ai bambini.

Lo yogurt scaduto da 7-10 giorni si può ancora consumare se non ci sono rigonfiamenti o muffe (l'inconveniente è che, dopo i 30 giorni di durata stabiliti dal produttore, i fermenti rimasti vivi sono davvero pochi e in alcuni casi il gusto può essere più acidulo).

Per le uova bisogna stare attenti. La legge fissa la scadenza entro 28 giorni dalla deposizione, ma i microbiologi consigliano di consumarle 8-10 giorni prima, per evitare qualsiasi problema. Dopo questa data, le membrane interne cominciano ad alterarsi e la Salmonella è in agguato.
Se vengono consumate crude o come ingredienti della maionese o della crema è meglio usare le uova "extra fresche", classificate così fino a 7 giorni dopo la deposizione (sono facilmente riconoscibili perché riportano la praola "Extra" in evidenza sulla confezione)…

…i succhi di frutta hanno un intervallo variabile da 6 a 12 mesi, da molti considerata troppo generosa. Conviene consumarli prima visto che dopo 6 mesi le bevande perdono sapore. La stessa cosa vale per l’olio extravergine di oliva e il caffè macinato, di solito l’intervallo è di 12-24 mesi, ma dopo un anno il cibo perde parte dell’aroma, che per questi alimenti ha un'importanza rilevante.

I pomodori pelati e la salsa di pomodoro, il tonno sott'olio, cetrioli, cipolle e conserve vegetali sottaceto, e altri cibi in scatola, sono alimenti sterilizzati e possono tranquillamente essere consumati 3-4 mesi dopo la data sulla confezione.

Conserve sottaceto (2-3 anni) non ci sono problemi anche se vengono portate a tavola 1-2 mesi dopo.

Conserve pomodoro ( 12-20 mesi) non ci sono problemi anche se vengono portate a tavola 1-2 mesi dopo.

Per i vegetali sott’olio come carciofini, funghi... (18-24 mesi) conviene rispettare l’indicazione perché le spore anaerobiche potrebbero essere ancora attive. Bisogna invece stare molto attenti quando si consumano conserve vegetali  "preparate in casa" per la questione del botulino che rappresenta sempre un serio problema…

mercoledì 21 novembre 2012

Vertice sull'ultimo dei problemi – Marinella Correggia


Lunedì le Nazioni unite hanno celebrato la «Giornata mondiale del gabinetto», World Toilet Day. Può sembrare strano, ai cittadini del Nord globale del mondo (il Nord geografico e quello sociale): per loro è l'ultimo dei problemi, o meglio: non è affatto un problema, salvo estemporanei guai d'ordine idraulico (o la sporcizia delle ritirate sui treni). Ma per 2,7 miliardi di persone nelle aree impoverite, è il problema in un certo senso «finale»: quello iniziale essendo la disponibilità di cibo e acqua per i bisogni essenziali. 
Molti non sanno che l'accesso a servizi igienici appropriati è stato dichiarato un diritto umano di base dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 28 luglio 2010. Ma oltre un terzo della popolazione mondiale non gode di questo accesso. E un miliardo e mezzo è ancora costretto a defecare all'aperto. Eppure l'accesso a una decente sanitation non solo gioca un ruolo importante nella lotta contro la mortalità infantile da infezioni (ogni anno 1,5 milioni di piccoli al di sotto dei cinque anni muoiono tuttora di diarrea, che è la seconda causa di morte per quella fascia di età) ed è inoltre un fatto di dignità, riduzione del disagio di vivere. Perfino di parità di genere. Secondo uno studio dell'Onu Plan India, oltre il 20 per cento delle bambine si ritira da scuola non appena raggiunta la pubertà proprio per il disagio di non avere a disposizione toilette adatte. 
Così la giornata mondiale delle toilette è stata un'occasione per affrontare un tema poco glamour anche in modo creativo in giro per il mondo…

lunedì 19 novembre 2012

Basta il giusto – Andrea Segre

raccomandato per tutti, sopratutto per chi pensa che tanto non si capisce niente, tanto non si può fare niente.
in ogni caso un agile ripasso, per chi ne sa già - francesco



E' tempo di dire basta e di incamminarsi verso un nuovo civismo, ecologico, etico, economico: questo libro spiega come e perché.
La visione di una società della sufficienza è il fulcro di questa “lettera” a uno studente che Andrea Segrè indirizza in realtà a tutti noi. 
La logica della crescita e del debito ci ha portato a una crisi economica e ambientale profonda e a disuguaglianze sociali non più tollerabili. Basta il giusto è un vero e proprio manifesto per costruire un nuovo mondo fondato sulla coscienza dei limiti naturali e umani, governato da una rivoluzionaria “ecologia economica” e vissuto -finalmente- da un homo civicus che pratica uno stile di vita sostenibile e responsabile. Un appello alle generazioni future: per passare da un falso ben-essere a un autentico ben-vivere e a un mondo più giusto, per tutti…

Andrea Segrè, economista triestino e preside della facoltà di Agraria all'Università di Bologna, immagina come sarà l'apocalisse del mondo occidentale, schiavo della triade crescita-consumo-debito. Lo fa nel suo Basta il giusto (quanto e quando) (Altreconomia), un libretto sottile costruito come una lettera a uno studente universitario diciottenne. Quando un giorno la Terra sarà troppo piccola per tutti, sarà pure troppo tardi. Perciò bisogna agire adesso, e una strada per Segrè esiste già. Sarà l'ossimoro a salvare il mondo, a garantire ancora un futuro. La strada delle contraddizioni apparenti condurrà "lentamente, ma per davvero" a meno benessere e più ben vivere. A una società con un modello economico in grado di ridurre le diseguaglianze riducendo il possesso, votandosi alla cultura della sufficienza…

sabato 10 novembre 2012

il giuramento di Ippocrate

Ci sono medici, in Spagna, che ogni giorno proteggono i più deboli. Ci sono medici che aggirano le regole per aiutare i propri pazienti. Perché in gioco c’è la sopravvivenza. E se c’è chi non può accedere alle cure a causa di tasse eccessive, ecco che loro riescono comunque a garantirgli il diritto alla Salute. O almeno ci provano. In che modo? Grazie a una rete formata da medici di base, specialisti e personale ospedaliero che in base al problema agiscono dietro le quinte. Senza tener conto delle regole. Potrebbero essere definiti novelli “Robin Hood”, ma forse sono solamente dottori che non «accettano che si abbandonino le persone bisognose di cure».
LA SITUAZIONE- Lo scenario è quello della crisi spagnola. I tagli non hanno risparmiato alcun settore. Dall’istruzione alla cultura. Ad aprile un real decreto (una sorta di decreto-legge) ha cambiato le norme per quel che riguarda la Sanità. «È evidente che si vuole andare verso una privatizzazione totale del settore. Dividendo la popolazione in due categorie: chi si può permettere di pagare e chi no», spiega Maria Bajo, medico di base nella capitale spagnola. Il risultato della nuova legge è stato che «sono state introdotte nuove imposte sui servizi». Per esempio? «Le ambulanze sono diventate a pagamento. Le protesi, interne ed esterne, sono a carico del paziente. Gli anziani devono pagare le medicine in base al reddito. E a Madrid è stata introdotta una nuova tassa: si dovrà pagare un euro a ricetta». La paura è che «presto proveranno a far pagare anche l’aborto». Il sistema prevede che sotto i 25 anni la sanità è inclusa nelle tasse dei genitori. Poi bisogna pagare. Ma la situazione più preoccupante è quella che riguarda i migranti senza permesso. «Se vogliono avere accesso al sistema, anche per il primo soccorso, devono versare oltre 700 euro se minori di 25 anni, dopodiché mille euro». In altre parole: esclusi...

lunedì 5 novembre 2012

Il dilemma dell'onnivoro - Michael Pollan

La prima metà è eccezionale e il libro merita solo per questo. 
poi piano piano diventa, per i miei gusti, meno interessante, ma vale certamente la pena leggerlo.
si scopriranno molte cose interessanti, davvero utili e importanti - francesco




Che cosa mangiamo, e perché? Sono domande che ci poniamo ogni giorno, convinti che per rispondere basti sfogliare la rubrica di un giornale, o ascoltare per qualche minuto l'ultimo imbonitore nutrizionista ospitato in tv. Ma se quelle domande le si guarda un po' più da vicino, come fa Michael Pollan in questo suo documentato saggio, forse il primo sull'argomento a non prendere alcun partito, se non quello dell'ironia e del buon senso, le risposte appaiono meno scontate. Che legga insieme a noi le strepitose biografie del defunto pollo "biologico" riportate sulla confezione di petti del medesimo, o attraversi le lande grigie e fangose del Midwest, dove milioni di bovini nutriti a mais e antibiotici vivono la loro breve esistenza fra immensi stagni di liquame, Pollan arriva immancabilmente a conclusioni di volta in volta raccapriccianti o paradossali.

Se ci sono voluti quasi sei mesi per recensire questo libro di Michael Pollan, non lo si deve soltanto alla nostra inveterata pigrizia. Il fatto è che risulta davvero difficile decidere da che parte iniziare a descrivere, o anche soltanto a classificare, un’opera tanto ricca di spunti di riflessione, dibattito e analisi che toccano in profondità l’oggetto del nostro lavoro e della nostra passione: il cibo.
“Il dilemma dell’onnivoro” è, prima di tutto, una lucida e obiettiva inchiesta sui processi produttivi del cibo nella nostra epoca, ma è anche un saggio critico che non si astiene da giudizi, proposte, speranze e utopie per il futuro della nostra alimentazione; è una leggera ma acuta riflessione filosofica sullo strettissimo rapporto (materiale e immateriale) che ci lega alle sostanze di cui ci nutriamo; è, per finire, una concreta esposizione, non viziata dai consueti toni apocalittici e da prese di posizione aprioristiche, delle ragioni per le quali il modello di sviluppo praticato nel mondo occidentale non è, alla lettera, “sostenibile” dalla nostra civiltà. Sotto quest’ultimo aspetto, il libro si sarebbe potuto intitolare senza scandalo “L’uomo è una locusta”, vista la pertinenza con cui affronta la tematica dell’insensato dispendio (e spreco) di risorse che caratterizza l’agricoltura e l’allevamento, ma non solo, nell’epoca contemporanea...


…Il manuale subisce poi un picco di indecenza nel momento in cui, da “manuale dell’onnivoro” qual è, comincia a diventare un “manuale del vegetariano”.
Dopo aver visto macellare mucche, dopo aver ucciso lui stesso del polli e dopo aver mangiato di tutto e di più, improvvisamente Pollan dice “quasi quasi divento vegetariano”. 
Questo pensiero dura circa un secondo. 
Già alla pagina successiva, infatti, Pollan ci spiega perché diventare vegetariani non abbia senso (per lui) e si vanta persino di essere riuscito e convertire molti vegetariani a mangiare carne (ma complimenti!). 
In un vergognoso capitolo chiamato “Una buona morte”, Pollan ci racconta di come sia giusto macellare le mucche perché esse non provano dolore come noi. 
O meglio, provano esattamente lo stesso tipo di dolore che proviamo noi (e proviamo a immaginare se noi venissimo fucilati, appesi a testa in giù per un gancio, lasciati dissanguare e poi squartati), ma siccome non hanno consapevolezza della morte e non provano paura subito prima di morire, allora tutto ciò è giustificato! 
Le mucche, infatti, non avendo coscienza di cosa succede all’interno dei padiglioni adibiti alla macellazione, salgono senza paura sulle rampe che le porteranno alla morte. E tutto ciò è giustificato perché è la loro incoscienza può essere concepita come un tacito assenso alla morte. 
Ma che bel ragionamento! 
Quindi gli ebrei che venivano scortati all’interno delle camere a gas meritavano di morire perché, pensando che fossero docce, acconsentivano ad entrarvi?


È un libro scritto con garbo e ironia, e più avvincente di un romanzo, ma che fa emergere abissi nei quali la maggior parte di noi non vuole ficcare lo sguardo. Chi infatti, quando compra una confezione di uova al supermercato, si chiede come vivano le galline ovaiole che le hanno prodotte e di quali mangimi siano state nutrite? Preferisce ignorarlo, fidandosi dei controlli sanitari (che in Italia sarebbero i migliori del mondo civile - mentre in tutto il resto saremmo al di sotto: un vero paradosso), e respingendo ogni domanda inopportuna (ad esempio circa il rispetto dei pretesi “diritti degli animali”). Pollan segue il percorso di una gallina e di un vitello, e ci fa vedere in che modo prendano forma i prodotti alimentari industriali che si consumano in un fast food, indaga poi su quello che chiama il biologico industriale, quindi si immerge nella operosa vita quotidiana della fattoria Polyface, dove l’intelligenza di Joel Salatin riesce a sfruttare la terra senza impoverirla, anzi arricchendola con un mirabile ciclo produttivo in cui piante e animali interagiscono, seppur governati dall’umano, secondo la propria natura. E infine si fa cacciatore e raccoglitore, con una immersione nel passato della nostra specie che gli fa riscoprire quale sia il sapore di un pranzo totalmente creato dalle sue mani. 
Il testo di Pollan è ricchissimo di spunti su cui riflettere. Anzitutto sui limiti entro i quali la natura delle singole specie animali e vegetali può essere forzata senza ripercussioni a catena dalla portata catastrofica. Impressionanti, in questo senso, le pagine sul mais, che più della soia è diventato il vero signore e padrone della nostra catena alimentare. La sua sovrapproduzione ha effetti a cascata. I suoi derivati sono onnipresenti, anzitutto nei mangimi per animali. Ma mentre un pollo può benissimo essere allevato a mais, un bovino ne soffre. Il suo organismo è stato selezionato dalla natura per nutrirsi di erba, e il mais lo fa ingrassare rapidamente, ma male, soprattutto per il suo fegato. Quindi farmaci a gogò (peraltro diffusi in tutti gli allevamenti intensivi anche da noi), e alleanza tra il mais e la chimica, che fornisce anche i concimi necessari alla monocultura di massa.

domenica 4 novembre 2012

Shock Shopping - Saverio Pipitone


L’ipermercato, i punti vendita (store), il cinema multisala, i ristoranti e i pub, la palestra e il centro benessere, sono tutti inglobati nello stesso complesso, situato strategicamente vicino all’uscita autostradale e alla stazione ferroviaria; al suo interno vi è un residence e a pochissimi chilometri - facilmente raggiungibili - ci sono altre grosse strutture commerciali come Carrefour, Ikea, Castorama, Comet: in questo contesto, il classico centro commerciale si evolve in un vero e proprio “distretto commerciale”. 
Molti esempi di questa nuova realtà  riempiono l’Emilia-Romagna: da Savignano sul Rubicone ai Lidi ferraresi, da Rimini a Ravenna a Ferrara. 
E non solo. Madrid offre piscina e pista di sci dentro uno shopping village. A Vienna, una muraglia di insegne s’affaccia sull’autostrada formando un quartiere commerciale che attira il consumatore, proponendogli anche un museo e molti altri tipi di intrattenimento: concerti, arte di strada, lezioni di ballo, giochi per bambini, feste e mostre, per un totale coinvolgimento emotivo e culturale. Nei paesi dell’Europa dell’est, le scritte della propaganda comunista sono state sostituite da giganteschi cartelloni pubblicitari che indirizzano verso queste cittadelle del consumo fast, easy e low cost.

La prima conseguenza di un siffatto fenomeno mercantilista è una trasformazione: il “cittadino del centro storico” diviene “consumatore del centro commerciale”; tale mutamento è stato colto, fra gli altri, anche dal settimanale Economist, che ha posto la questione se il carrello della spesa abbia preso il posto della cabina elettorale. L’esposizione prosegue poi con una descrizione delle diverse forme distributive utilizzate dal moderno commercio organizzato e una breve esposizione della storia, del pensiero e dei fatti che hanno caratterizzato - e caratterizzano tutt’ora - i principali marchi della GDO, quali Coop, Esselunga, Auchan, Carrefour, Mediaworld, Lidl, McDonalds, Wal-Mart, IKEA e tanti altri; procedendo fra gli shopping center, gli outlet, i mall, e i village retail che li ospitano, viene proposta un’analisi critica di questi templi del consumo, oggi assurti al ruolo di protagonisti egemoni del panorama commerciale nazionale. 

In Italia, infatti, si contano attualmente circa 850 centri commerciali, a cui se ne aggiungono altri 50 in corso di realizzazione o in fase di apertura nei prossimi cinque anni, con una forte concentrazione al centro e al sud, nelle periferie e nei centri storici. In questi luoghi, la grande distribuzione organizzata è conduttrice di rigide logiche capitalistiche, lavoro precario, soppressione delle piccole attività locali o di prossimità, danni ambientali e disintegrazione dei tradizionali legami comunitari. 
Al riguardo, il sociologo Renato Curcio, nei suoi tre libri Il consumatore lavorato, Il dominio flessibile e L’azienda totale, denuncia azioni di sfruttamento e licenziamento praticate dalla GDO, in particolare dalla catena Esselunga. Qualche anno fa quest’ultima insegna, per rilanciare la sua immagine sociale, stipulò un accordo commerciale con CTM-Altromercato per la fornitura di prodotti appartenenti al circuito del commercio equo e solidale, tra cui banane provenienti dall’Equador. L’intesa, tuttavia, durò solo pochi mesi, dato che Esselunga decise all’improvviso di tagliare gli ordini in quanto la logica della competitività, delle strategie aziendali di breve periodo e del profitto prevalsero aggressivamente sull’economia solidale.

Ma la GDO non si limita ad assumere semplicemente le sembianze ingannatrici dell’azienda socialmente responsabile; una componente fondamentale della sua politica dell’immagine si basa sulle innumerevoli e incessanti iniziative volte a conquistare l’affezione dei clienti, per indurli ad acquistare sempre di più attraverso carte fedeltà, sconti, premi, raccolte punti, “paghi 1 prendi 2”, carrelli più grandi, merchandising, prezzi low cost, percorsi prestabiliti e molte altre trovate pubblicitarie inibitrici della capacità critica dei consumatori. 
Questi ultimi sono poi sorvegliati da telecamere onnipresenti, che hanno il compito di individuare eventuali ladruncoli – certo – ma soprattutto di spiare e analizzare il comportamento della clientela effettiva e potenziale. 
Inoltre, con il sistema del self-service - dal montaggio del mobile con brugola e cacciavite alla prezzatura in tempo reale degli acquisti tramite i dispositivi salvatempo – l’utente del supermarket è diventato un lavoratore non retribuito e produttore di  plusvalore per l’azienda. 
Di sicuro, con la GDO è già pronto un futuro fatto di totalizzanti tecniche di controllo e di fidelizzazione. Ad esempio, Wal-Mart ha munito il suo impero di un sistema bancario proprio, utilizzato per i rapporti con i fornitori, e ha intenzione di aprire 2000 ambulatori low cost dove infermieri professionali saranno in grado di fornire assistenza medica per le piccole patologie e consigliare i farmaci da acquistare all’ipermercato. Coop dispone già di diverse farmacie all’interno dei punti vendita e di sportelli per gestire il risparmio e - mediante la Telecom - è entrata nel mercato della telefonia mobile con il marchio CoopVoce. Oggi all’Iper è possibile acquistare anche l’automobile SUV DrMotor all’imbattibile prezzo di 16.000 euro oppure stipulare contratti per la fornitura di energia elettrica o il pieno di benzina. Banca, petrolio, farmaci, telecomunicazioni ed energia sono i nuovi obiettivi della moderna distribuzione, che avanza puntando verso tutto quello che può diventare consumo di massa. In Italia, le liberalizzazioni sancite dalla legge Bersani agevolano decisamente queste tendenze che, se a una prima occhiata sembrano avvantaggiare il consumatore, in ultima analisi fanno spudoratamente il gioco delle lobby commerciali e dei gruppi di potere. 

Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, Karl Marx scriveva: «Ogni uomo s’ingegna a procurare all’altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo a una nuova dipendenza e spingerlo a un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica». 
Lo slogan “lavora, consuma, crepa” si adatta perfettamente alla situazione odierna di un consumatore che acquista beni indotti, di scarsa utilità e provenienti da paesi distanti migliaia di chilometri, come la Cina comunista - che paradossalmente è diventata la “classe operaia” dell’opulento occidente. Per rendere l’idea degli sprechi causati da questa catena, basti dire che un carrello con 26 prodotti alimentari percorre quasi 250.000 chilometri e produce 80 chili di gas serra prima di giungere al consumatore finale.
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