sabato 27 febbraio 2016

E così vuoi essere vegetariano - Anforha

Se già in una famiglia non africana si è restii ad accettare il vegetarianismo di un membro, immaginatevi cosa accade se il membro di una famiglia africana decide di essere vegetariano.

La cosa è iniziato pian piano: lentamente cominciavo a togliere dalla mia alimentazione la carne, il pesce e qualche formaggio. Vabbé che per il formaggio non se ne accorse nessuno in famiglia, fino ad allora, a consumarlo eravamo soltanto io e i miei due fratelli. Papà e Mamma no, loro il formaggio proprio non lo vogliono sui loro piatti e non c'è modo di convincerli.
Se nasci in una famiglia africana, ti tocca crescere in un'ambiente in continuo mutamento, ma in cui ogni mutamento non passa inosservato. Vedete, ogni mutamento, sia esso d'aspetto o caratteriale, si trascina dietro i suoi festeggiamenti o i suoi pianti, a seconda se quel cambiamento verrà considerato positivo o meno e il mio passaggio al vegetarianismo venne considerato in male assoluto.

"E così vuoi essere vegetariano" Papà, un pomeriggio, mentre ero immerso nella lettura di alcuni blog. Lo disse con naturalezza, quasi come se la cosa non lo urtasse in alcun modo. Notando ciò, fui entusiasta e con coraggio feci "outing".
Vivendo da africano tra gli africani, uno delle caratteristiche che si notano è la pazienza con cui si dispongono i fatti e si è disposti a parlarne. Nelle comunità africane, esistono addirittura dei modus operandi che prevedono delle formule di apertura. Da me, si usa memorizzare un sacco di proverbi e primi di iniziare un discorso si è soliti aprire con un "È stato detto dagli anziani...", solo allora sei sicuro di venire ascoltato. Tutte cose che mi affascinano e che conosco, in qualche modo, una parte indissolubile del mio bagaglio culturale che difficilmente mi  riuscirà facile usare con la stessa maestria con cui lo usano certi miei conoscenti.
Comunque, quel pomeriggio, papà dispose i fatti con la stessa pazienza e lo stesso modus operandi. "Guarda che ti ammalerai..." "Non crescerai bene...". I suoi, tutti discorsi che miravano certamente a un mio convincimento, in un istante mi sentivo come un bambino disobbediente, mi venne pure in mente quel verso biblico che il pastore urla in preda alle convulsioni divine "Verrà il tempo in cui i figli si rivolteranno contro i genitori, eccetera eccetera...", ma per la prima volta sentii che non ero costretto ad ubbidire ai miei genitori. L'ubbidienza e lecito se da uomo nascono i primi principi?
"Non vorrai mica dire che mamma è cattiva perché mangia la carne?", il tono già cominciava a cambiare, eppure i suoi occhi apprensivi, giganti come i miei, mi tranquillizzavano.
"Certo che NO!"
"Allora perché ti fai tutto questo"Lo disse senza aspettarsi una risposta, sapeva che non ne avevo, e se ne andò apprensivo e amorevole.

"Pure Gesù era vegetariano!" cercai di spiegare mio fratello, perché se ero riuscito ad affrontare Papà e Mamma(stessa cosa che con Papà, solo con i cibi davanti a mo di tentazioni), ora toccava parlare con mio fratello e si trattava di religione. Perché i miei genitori gli avessero dato questo compito ancora mi sfugge, ma neppure lui riuscì a smuovermi.
"Beh, come fai ad esserne sicuro?", Tra fratelli parliamo in italiano, la facilità con cui passiamo da una lingua all'altra ormai ci è indifferenti, siamo degli abitanti del mondo.
"Innanzitutto perché non credo fosse bastardo ipocrita, cristo. Tutte prediche sull'agnello di Dio, per poi divorarli come se niente fosse, non credo proprio; poi nella bibbia non viene mai scritto che Gesù mangia animali, senza considerare che prima di Noè non lo si mangiava affatto", lo avevo battuto, e col cazzo, mi ero informato prima. Finalmente anche il capitolo sulla religione era chiuso.

Quelle volte furono gli unici tentativi di convincimento serio, poi ne susseguirono altri e susseguono ancora, soprattutto perché sto diventando vegano, aspetto solo che lo scoprano, ma per questo ci vuole più impegno.

venerdì 26 febbraio 2016

mio figlio a 18 anni non è più autistico


Un 'fantasma'. Troppo grande per la scuola, per essere ancora accettato nei centri diurni, per essere seguito dagli specialisti che lo hanno avuto in cura, come i neuropsichiatri infantili, ma 'sconosciuto'agli psichiatri. Tuttavia da gestire come un bambino,a rischio di solitudine e inattività e con una patologia che, attraverso un 'ginepraio' complicato, rischia di dover essere dimostrata di nuovo per poter vedere garantito quanto previsto della legge 104 del 1992 sull'assistenza alle persone con handicap. Ecco cosa può accadere al 18esimo compleanno di un ragazzo autistico, secondo la denuncia del giornalista e scrittore Gianluca Nicoletti, che descrive la situazione che si trova a vivere con suo figlio Tommy, affetto da questa patologia e che il 26 febbraio diventa maggiorenne. "Tommy compie 18 anni il 26 febbraio e a tutti gli effetti non sarà più considerato un autistico. Entra nel limbo dei fantasmi, di quelli che qualche psicanalista d'antàn chiama 'i post autistici' - scrive Nicoletti - c'è da mettersi le mani nei capelli: io per casa ho ancora a tutti gli effetti un bambino da sorvegliare come se avesse tre anni, anche se è alto due palmi più di me e pesa 90 chili. Al Caf poi mi hanno ricordato l'aspetto più ridicolo: non è più autistico quindi dovrò nuovamente rifare tutta la trafila per la 104 che scade.

Spero davvero che non sia così, c'è da spararsi". Ma, quasi una 'provocazione', "il primo atto spiega all'Ansa "sarà festeggiare il compleanno di Tommy non più autistico, in una location che stiamo cercando". "Quelle del compleanno saranno anche le prime scene di un docufilm sull'autismo che stiamo girando" aggiunge. "Il mio vuole essere un pungolo soprattutto alle famiglie- conclude - bisogna inventarsi qualcosa. Penso ad esempio all'idea che alcune possano consociarsi in piccoli gruppi, mettendo insieme contributi pubblici e beni da dare ai figli per offrire un futuro dignitoso nel 'dopo di noi'".

Le straordinarie abilità dei popoli indigeni nella conservazione dei loro ambienti


I popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro.
Gli Awá della foresta amazzonica nord-orientale, in Brasile, conoscono almeno 275 piante utili e almeno 31 specie di api. A ogni tipo di ape è associato un animale della foresta, come la tartaruga o il tapiro.
Negli anni ’80 il Programma Gran Carajás aprì le terre awá a taglialegna e allevatori illegali; da allora, più del 30% di uno dei territori della tribù è stato distrutto.
I “Pigmei” Baka dell’Africa centrale mangiano 14 tipi diversi di miele selvatico, e più di 10 tipi di igname. I Baka lasciano parte della radice nel terreno e in questo modo diffondono nella foresta l’igname selvatico – uno dei cibi preferiti da elefanti e cinghiali.
I Baka imparano sin da piccoli a non eccedere nella caccia degli animali della foresta. “Quando troviamo una femmina con il suo piccolo, non possiamo ucciderla” racconta una donna baka. “In particolare, è severamente proibito uccidere i cuccioli se camminano vicino alla loro madre”.
Tuttavia, nonostante la loro intima conoscenza dell’ambiente, i Baka del Camerun sud-orientale vengono arrestati, picchiati, torturati e persino uccisi dai funzionari forestalifinanziati e sostenuti dal gigante della conservazione WWF.
Boscimani consumano più di 150 specie di piante; la loro dieta è ricca di vitamine e altri elementi nutritivi. Tuttavia, se vengono sorpresi a cacciare per nutrire le loro famiglie, gli ultimi cacciatori boscimani d’Africa subiscono abusi, torture e arresti.
“So come prendermi cura degli animali. Con gli animali sono nato e vissuto; qui c’è ancora tanta selvaggina” ha detto un Boscimane. “Se venite nella mia terra troverete tanti animali, e questo dimostra che so prendermi cura di loro. In altre aree, non ce ne sono più.”
In India i Baiga hanno dato vita a un progetto per “salvare la foresta dal dipartimento forestale” e hanno stabilito regole, per la propria comunità e per gli esterni, a protezione della foresta e della sua biodiversità. Grazie al loro progetto, la disponibilità di acqua è aumentata e la tribù ha potuto raccogliere nella foresta più erbe e medicine rispetto a prima.
La tribù non caccia le tigri – al contrario, considera questo animale la sua “piccola sorella”. Tuttavia, migliaia di Baiga – così come altri popoli indigeni dell’India – sono stati sfrattati illegalmente e con la forza dalle loro terre ancestrali nel nome della ‘conservazione’ della tigre, mentre i turisti sono benaccetti.
“Le guardie forestali non sanno prendersi cura delle tigri” ha detto un uomo baiga. “Se ne vedono una, fanno venire molti gruppi di turisti a vederla. Tutto ciò è davvero dannoso per le tigri, ma i guardaparco non riescono a capirlo.”
Ci sono molti altri esempi che dimostrano come i popoli indigeni siano i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale – immagini satellitari e ricerche accademiche, ad esempio, rivelano che i popoli indigeni costituiscono una barriera fondamentale contro la deforestazione delle loro terre. Nonostante ciò, gli indigeni vengono sfrattati illegalmente nel nome della “conservazione”. Anche se le hanno vissute e gestite per millenni, spesso le loro terre sono erroneamente definite vergini.
 “I popoli indigeni sanno prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro – dopo tutto li gestiscono, e ne dipendono, da millenni” ha dichiarato il Direttore generale di Survival, Stephen Corry. “Se vogliamo che la conservazione funzioni davvero, i conservazionisti dovrebbero iniziare a chiedere ai popoli indigeni di quale aiuto hanno bisogno per proteggere le loro terre, ascoltarli, ed essere pronti a sostenerli il più possibile. Quando si parla di conservazione urge davvero un cambiamento radicale di mentalità. "

martedì 23 febbraio 2016

Dove nascono i tumori che verranno - Alberto Castagnola

Abbiamo ricevuto da due amici alcuni testi che trattano un tema che a noi sembra di gravità estrema e ormai ineludibile, e cioè l’impressionate aumento dei tumori nella popolazione mondiale. Una parte rilevante degli sforzi del settore sanitario in quasi tutti i paesi è concentrato sulla individuazione e la cura dei tumori; minore attenzione, se si escludono gli interventi sui siti maggiormente inquinati da sostanze carcinogene, è dedicata alla presenza nell’ambiente di sostanze che possono indurre la nascita di tumori (leggi anche l’appello Siamo angosciati. Il grido dei medici). In altre parole, stenta ad affermarsi l’idea che l’ambiente planetario (naturale, urbano o in aree desertiche, nonché l’aria e le acque) è ormai talmente inquinato che le cause nella nascita dei tumori non sono più limitate a miniere, industrie, prodotti chimici per l’agricoltura e così via, ma sono diffuse con concentrazioni crescenti in qualunque ambiente si svolga la vita degli esseri umani.
La lista dei prodotti cancerogeni, riconosciuti formalmente come tali o fortemente sospettati di esserlo, non cessa di aumentare e quindi è ormai difficile individuare per ogni singolo tipo di tumore la sua causa, mentre è sempre più probabile che la sua origine possa trovarsi nell’aria che si respira o nelle acque dove ci immergiamo o che inaliamo, per non parlare dei cibi sempre più trasformati industrialmente e quindi pieni di conservanti, coloranti, potenziatori dei sapori, e così via.
Abbiamo cominciato a raccogliere dei testi che documentano questi fenomeni così preoccupanti e speriamo che esperti della materia vogliano contribuire a precisare e ad approfondire il problema. In ogni caso sono evidenti i collegamenti con le scelte discusse al vertice sul clima di Parigi, poiché non si tratta soltanto di ridurre certi consumi o di eliminare alcune sostanze che portano ad aumentare la C02 nell’atmosfera, di bonificare un sito inquinato o di chiudere un centro di produzione all’origine di tumori specifici, ma di pervenire rapidamente ad eliminare completamente le sostanze cancerogene in terra, nelle acque e in aria onde rendere più sana l’esistenza di esseri umani, animali e piante, che non soffrono solo per il riscaldamento eccessivo, ma anche per l’ambiente profondamente inquinato in cui cercano di sopravvivere. In particolare per quanto riguarda l’aria, lo studio pubblicato su Lancet nel 2013 è stato talmente convincente che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Airc) di Lione, ha annunciato il 13 ottobre dello stesso anno di avere incluso l’inquinamento atmosferico e le polveri sottili (in gergo particolato) fra i cancerogeni umani di tipo 1. Più di recente, l’Organizzazione Mondiale per la Salute (ottobre 2015) ha reso noto ufficialmente che alcuni tipi di carne sono state inserite tra le sostanze che possono contribuire a provocare il cancro. Quelle “lavorate” sono ora nel Gruppo 1 (sostanze sicuramente cancerogene) per i tumori di colon e stomaco, mentre la carne rossa è nel gruppo II (sostanze probabilmente cancerogene) per i tumori di colon, pancreas e prostata. Le carni lavorate sono quelle salate, essiccate, fermentate, affumicate, trattate con conservanti. Quelle rosse sono manzo, vitello, agnello, montone, cavallo e capra. Questa decisione è stata presa sulla base di ottocento studi epidemiologici. Ovviamente l’annuncio è stato seguito da una serie di articoli che tendevano a ridimensionarne la portata, da un lato suggerendo che modeste quantità eliminavano i rischi, dall’altra escludendo la carne “italiana” considerata particolarmente sana. Pochi i commenti che ricordavano l’esistenza di allevamenti intensivi e di macellazioni crudeli per gli animali, oppure la mancanza di controlli sulle importazioni di bestiame.
Infine, non va dimenticare un fatto importante che non concerne ovviamente solo i tumori. È vero che la durata media della vita, specie nei paesi cosiddetti “sviluppati” è aumentata, ma non si deve però sottovalutare il fatto che in Italia si è invece ridotta “l’aspettativa di vita in salute”, e che questo fenomeno è particolarmente accentuato per le donne.

domenica 21 febbraio 2016

A Budapest si allarga la città decrescente - Oscar Güell Elias


Ogni domenica mattina, poche ore dopo aver salutato i più nottambuli, il Szimpla Kert, il bar più famoso di Budapest, si trasforma in un mercato di prodotti locali. Circa 40 produttori/venditori e un migliaio di visitatori danno vita a questo mercatino nel quale tutto ciò che viene venduto è stato prodotto a non più di 50 chilometri dalla capitale. Un gruppo di volontarie che prepara cibo per raccogliere fondi a scopo di beneficenza e un trio musicale completano la scena che Vincent Liegey, attivista del movimento per la decrescita, definisce come “decrescente”.
Spiega Liegey: “La gente qui è gentile e felice, tutti si conoscono e comprano cibo sano e biologico di produzione locale“. Liegey, che ha scritto un libro dal titolo Proyecto Decrecimiento, assicura che sempre più persone vogliono riappropriarsi della propria vita perché non sono soddisfatte del modello di vita attuale. Accanto a lui, Logan Strenchock, responsabile per l’ambiente e la sostenibilità presso l’Università Centroeuropea di Budapest, vende ortaggi dell’azienda agricola biologica Zsámboki Biokert . Nel frattempo, risponde anche alle domande di una giornalista interessata al suo progetto e saluta parecchie persone che passano vicino alla sua bancarella. Come dice Liegey, nel mercatino tutti si conoscono. Levente Erös, che sta lì con loro, è il creatore di Kantaa, un’impresa che effettua consegne in maniera sostenibile, usando come mezzo la bicicletta; in questa attività lavorano nove persone. Tutti e tre collaborano al progetto denominato Cargonomia che a Budapest prevede la consegna in bicicletta di alimenti biologici.
L’idea di decrescita è alla base di questo progetto comune, tuttavia Erös ha dei dubbi se definire sé stesso come attivista della decrecita. “La gente dice che sono un attivista della decrescita, ma non lo so, non è mia intenzione esserlo, voglio solo mostrare alle persone come si può vivere in altro modo”, si difende questo ingegnere elettrico, mentre elude le domande sulla politica, sostenendo che questo è un argomento per Vincent e che lui è solo un esperto di biciclette.
Vincent Liegey, che tiene conferenze sulla decrescita in tutta Europa, spiega che quella che stiamo vivendo “non è una crisi ambientale, un’altra economica, un’altra sociale…ma che tutte le crisi sono interconnesse e non si può cercare di risolvere un solo problema a prescindere dal resto. La decrescita collega diverse discipline per comprendere i problemi in forma globale e trovare una soluzione alla radice degli stessi “. La soluzione che propone si basa sul “decostruire” la fede nel progresso, nello sviluppo, nella scienza e nell’economia per cominciare una transizione democratica verso nuovi modelli per una società sostenibile, piacevole, autonoma, democratica e giusta.
Liegey fa parte del gruppo di persone che sta preparando la prossimaconferenza internazionale sulla decrescita che si terrà a Budapest dal 30 agosto al 3 settembre 2016. Secondo lui, Budapest è una sede eccellente per l’evento perché già si vive una certa atmosfera di decrescita. La bassa densità di popolazione nel centro città, la tradizione creativa nel risolvere i problemi e le numerose iniziative sorte in manera indipendente e decentralizzata, danno forza al movimento.
Una delle iniziative più interessanti è Wekerle Estate. Quasi alla fine della linea 3 della metropolitana, accanto alla fermata di Hátar út, si trova questo quartiere che è stato creato agli inizi del XX° secolo per dare alloggio agli operai giunti in città dai paesi e rendere più facile il loro adattamento alla vita di città. Difatti, entrare a Wekerle è come uscire dalla città e addentrarsi in un villaggio. Le basse case unifamiliari con un orto per coltivare ortaggi, continuano ad essere l’immagine tipica del quartiere.
Negli ultimi anni, in questo particolare quartiere che attualmente fa parte della rete delle città in transizione, due associazioni di quartiere assieme alle associazioni WTE e Átalakuló Wekerle, hanno dato impulso a iniziative ecologiche e solidali come, ad esempio, un mercatino di produttori locali, l’isolamento termico gratuito delle finestre delle abitazioni per le persone più povere, il compostaggio negli orti delle case, l’uso di cibi locali nelle mense scolastiche o corsi di agricoltura biologica. Krisztian Kertesz, membro della direzione di WTE, sottolinea che “ci sono molte persone che potrebbero pagare affitti più cari in altre zone della città ma preferiscono vivere a Wekerle per il tipo di vita che abbiamo qui”.
A Budapest, la decrescita ha anche il suo aspetto accademico. Miklós Antal è un ricercatore della Eötvös Loránd University e sebbene non si consideri un “decrescente”, studia come abbandonare l’attuale paradigma economico e ridurre la dipendenza dalla crescita. Oltre a fornire una base scientifica a molte idee di questo movimento, Antal applica la semplicità volontaria alla sua vita quotidiana. Non viaggia in aereo perché lo considera uno spreco e in città usa sempre la bicicletta; è vegetariano, non mangia alcun cibo prodotto da società che non gli vanno a genio, non compra prodotti testati sugli animali né quelli che contengono prodotti chimici inutili e cerca di essere moderato nei consumi. Antal difende la sua posizione spiegando che nei paesi sviluppati si potrebbe raggiungere lo stesso livello di felicità con la metà del PIL attuale, perché “un maggior consumo non ci rende più felici”.
Antal aggiunge: “Faccio molte cose diverse dal resto delle persone, ma in fondo ho una vita normale: è solo un modo per dimostrare che si può vivere in maniera sostenibile e allo stesso tempo avere una vita normale“. Poi indica sé stesso e commenta dicendo che il suo aspetto è simile a quello di qualsiasi altra persona dell’università. Ed è così. Così come è del tutto normale il ristorante accanto all’università dove si reca a mangiare anche se in questo caso, confessa che già da tempo ha convinto i cuochi a proporre ogni giorno un menù vegetariano. Prende la bottiglia vuota del succo che ha bevuto mentre mangiava, perché sa che lì, tuttavia, non effettuano il riciclo.
Prima di incamminarsi, dice che è fiducioso che in futuro il sistema cambierà e ricorda che i suoi genitori pensavano che avrebbero trascorso tutta la loro vita in un pase socialista, ma alla fine non è stato così.

sabato 20 febbraio 2016

foto da Repubblica




Dal macero al ristorante: la sfida della chef catalana agli sprechi alimentari – Alessandro Oppes


Un ristorante alla moda, una chef di prestigio e un'idea provocatoria: cibo di scarto per palati raffinati. La sfida viene da Ada Parellada, che nel cuore dell'Eixample di Barcellona gestisce un locale "cool" per giovani e turisti, La Semproniana. Per protestare contro la tendenza sempre più diffusa di destinare al macero prodotti alimentari ancora perfettamente commestibili, ha preparato un succulento menù con cinque primi, cinque secondi e quattro dessert al modico (di più, impossibile) prezzo di 4 euro: il tutto, rigorosamente, con cibi salvati dal cassonetto.

La chef catalana ha visitato il mercato di quartiere, il Ninot, i supermercati della zona, alcuni negozi di frutta e verdura, panetterie e pasticcerie, e si è rivolta ai suoi fornitori tradizionali. A tutti ha chiesto di dare a lei, per una volta, i prodotti che non sarebbero stati messi in vendita, scartati perché prossimi alla scadenza o per imperfezioni che li rendono poco appetibili dal punto di vista commerciale.

Succede spesso, ad esempio, nei supermercati: basta che le mele, pere o pomodori abbiano una forma irregolare, che un tipo di verdura abbia una macchia o una piccola ammaccatura, per destinarli senza grandi scrupoli al macero. Scarti che non sono responsabilità unica dei commercianti: anzi, secondo le statistiche spagnole, per il 42 per cento vengono direttamente dai domicili privati, il 39 per cento sono imputabili all'industria che non mette i prodotti neppure sul mercato. E anche i ristoranti contribuiscono per un 14 per cento allo spreco della vergogna. In tutto, si calcola, 1400 tonnellate di cibo buttate ogni anno, con le quali si potrebbero sfamare dodici milioni di persone.

Da qui la provocazione della chef barcellonese, accolta con curiosità ed entusiasmo dai clienti di un ristorante che di solito pagano 25 euro per un menù paragonabile a quello offerto in quest'occasione per soli 4 euro. Un'idea una tantum che Parellada aveva già lanciato in passato e ripete ora, sperando di poter sensibilizzare presto anche parecchi altri suoi colleghi in modo da poter creare un vasto movimento anti-sprechi. Per questo, a chi ha provato in questi giorni i suoi manicaretti "riciclati" alla Semproniana, la chef ha chiesto di commentare l'iniziativa su Twitter con l'hashtag #gastrorecup.

"Il nostro sistema alimentare è putrefatto", denuncia la cuoca catalana. "Prodotti che non hanno più vita utile dal punto di vista commerciale" dice a El País, "sono ottimi dal punto di vista nutritivo. E con i miei menù cerco di dimostrare che lo sono anche gastronomicamente".

venerdì 19 febbraio 2016

L'orto urbano? Ora è "componibile" come i mobili fai da te – Nicola Perilli

Tempo di costruzione stimato: dieci giorni, assicurano gli ideatori Mikkel Kjaer e Ronnie Markussen, una coppia di giovani imprenditori, fondatori del laboratorio di progettazione urbana Human Habitat. Non solo facile da montare ma anche riutilizzabile innumerevoli volte. Quindi semplice da reimpiantare all'esigenza.

"Abbiamo voluto rendere l'agricoltura urbana ancora più intelligente - dice Markussen - La nostra idea era quella di progettare un'unità che fosse capace di aumentare la sicurezza alimentare in città, abbassare l'impronta ecologica della produzione alimentare e creare posti di lavoro. Abbiamo voluto ricollegare le persone al cibo, dando loro uno spazio verde che porti nuovamente la natura nelle nostre città. Non solo, volevamo che questo spazio "green" fosse anche facilmente adattabile ai cambiamenti del paesaggio urbano". Versatile ma soprattutto funzionale: progettata per essere autosufficiente al suo fabbisogno di acqua, calore ed elettricità, l'intera fattoria ha un ingombro di poco più di trenta metri quadrati, ma una volta installata la zona di produzione interna e protetta, da poter dedicare alle colture, sviluppata in verticale semplicemente raddoppia. Il progetto pilota è partito ed ora è attivo e funzionante e lancia la sfida al futuro: riuscire ad ovviare agli ostacoli che si oppongono allo sviluppo dell'agricoltura "urbana". Due tra tutti: la mancanza di spazio nelle città sempre più densamente popolate, e le incertezze dovute ai cambiamenti climatici. E questa sfida parte proprio dalla capitale danese: "L'azienda stazionerà lì per un periodo di dieci mesi, durante i quali ci dedicheremo alla raccolta di dati, concentrandoci principalmente sulla capacità di produzione e sullo sviluppo e consumo di energia e sull'utilizzo di acqua.


La farm ospiterà anche laboratori didattici e di formazione in primavera con l'obiettivo di avviare un'impresa sociale in grado di creare posti di lavoro "green". - spiegano gli ideatori - I prodotti saranno poi venduti a ristoranti e caffetterie locali e da primavera i residenti locali saranno in grado di acquistare prodotti personalmente presso il mercato alimentare settimanale che albergherà proprio di fronte alla fattoria". Una produttività che secondo Kjaer e Markussen può essere stimata su due modelli: per le aziende indipendenti che puntano a vendere i loro prodotti al dettaglio a piccoli commerciati o grazie ai banchi del mercato la resa finale potrebbe attestarsi sulle tre tonnellate all'anno; un  progetto più ampio invece che miri alla produzione di ortaggi, verdure e frutta per la distribuzione di scuole, asili, per fare degli esempi, potrebbe puntare ad una produzione annua da stimare all'incirca sulle sei tonnellate.

Ma il progetto non immagina solamente un'agricoltura urbana più sostenibile e non punta solo alla riqualificazione di luoghi cittadini dismessi, come parcheggi abbandonati o spazi inedificabili tra edifici adiacenti: "Con il tempo, vorremmo sviluppare una versione della fattoria, che possa contribuire ad affrontare le crisi umanitarie, in particolare dove le persone sono costrette a vivere in condizioni precarie (campi profughi, centri d'accoglienza, vittime di disastri naturali). - precisano - Per questo successivo step il modello che immaginiamo avrà un design ancora più "componibile", il che permetterà un trasporto più agile ma anche la possibilità di creare delle farm assemblate ad hoc capaci di provvedere a delle esigenze commisurate". Un progetto ambizioso, quindi, che decisamente non mira a restare cofinato a questo primo ed innovativo esperimento di Copenhagen.

giovedì 18 febbraio 2016

Abbiamo bisogno di social network più lenti - Will Hutton


In media controlliamo il telefono duecento volte al giorno, che si tratti di posta elettronica, notifiche, tweet o messaggi di testo. Questo livello di connettività non ha precedenti. Ed è difficile immaginare la vita senza: essere così connessi significa accedere in un istante a informazioni, persone, momenti di divertimento e di rabbia. L’aspetto inquietante è il modo in cui questa connettività sta trasformando la struttura del nostro pensiero.
Non è affatto detto che gli aspetti positivi superino quelli negativi.
L’istantaneità è il nuovo dio: istantaneità di presenza, comunicazione e risposta. Da un lato è una cosa fantastica, ma dall’altro è preoccupante. Quale profondità di pensiero può esserci dietro delle risposte così veloci? Non si può fare altro che riproporre opinioni preesistenti e affidarsi a reazioni istintive. Non c’è tempo per veri confronti, dibattiti e argomentazioni.
Recentemente Tim Berners-Lee, l’uomo che ha inventato il world wide web nel 1989, ha preso una posizione molto dura contro la negatività e la prepotenza che imperversano sui social network, in particolare su Twitter.
In un mondo veloce e senza troppa riflessione, ha detto Berners-Lee, i tweet sono diventati un veicolo per la rabbia. A quanto pare le cose che ci fanno arrabbiare hanno dieci volte più probabilità di essere ritwittate rispetto a quelle che ci rendono felici. Da qui l’atmosfera che domina in molti social network: prepotente, misogina e negativa. Berners-Lee ha auspicato che queste piattaforme siano reinventate in modo da favorire l’espressione di “critiche costruttive e armonia”.
È difficile non essere d’accordo, ma altrettanto complicato è immaginare che aspetto potrebbero avere simili social network. Per prima cosa, forse, dovrebbero essere molto più lenti.
Nel suo best seller Pensieri lenti e veloci, Daniel Kahneman ha sostenuto che il cervello umano funziona in base a due sistemi fondamentali. Durante il nostro sviluppo come primati pensanti dovevamo fare affidamento su pensieri reattivi, istintivi ed emotivi per affrontare i pericoli. L’istinto era il modo migliore per restare vivi. Kahneman definisce questo tipo di riflessione sistema 1. Spesso commette errori, è irrazionale e si affida all’inconscio, ma permette scelte rapide, necessarie alla sopravvivenza. Il sistema 2 è più lento e deliberativo. Soppesiamo le prove, esercitiamo il giudizio, discutiamo con gli altri e cerchiamo di arrivare a conclusioni fondate. È uno sforzo intellettuale che richiede tempo. Ovviamente sarebbe meglio se la maggior parte delle nostre decisioni fosse presa dal sistema 2, ma nel trambusto della vita quotidiana è semplicemente impossibile.
Nonostante tutti i suoi difetti, spesso dobbiamo fare affidamento sul sistema 1 per andare avanti. Siamo iperottimisti, iperemotivi, troppo influenzati dagli eventi recenti, troppo ansiosi di evitare un rischio invece di cogliere un’opportunità. E tutto a causa del sistema 1. Per gestire tutti gli impulsi che riceviamo siamo costretti ad affidarci al pensiero intuitivo.
Quando abbiamo il telefono in mano, il sistema 1 diventa il nostro principale modo di pensare. Nessuno può gestire il volume di dati a cui siamo sottoposti oggi senza fare affidamento sui sentimenti per elaborare risposte istantanee, spesso motivate dalla reazione che osserviamo negli altri. C’è meno spazio per la riflessione ed è più forte la pressione che ci spinge a prendere decisioni immediate e a passare oltre. Adoro questo film, questo articolo è orrendo (o fantastico), questo politico è una ventata d’aria fresca (o un bastardo ipocrita) e così via. Una delle ragioni per cui c’è tanta misoginia in rete è che criticare l’aspetto fisico di una donna è l’impostazione predefinita di troppi uomini. Non esiste un legame logico tra le opinioni di una donna e il suo aspetto, ma al sistema 1 questo non interessa.
Berners-Lee ha ragione: internet è il miglior strumento per cambiare il mondo che sia mai stato inventato. Democratizza e apre nuove possibilità. Ma questo vale solo se è usato per rafforzare il sistema 2. Certo, spesso ricorriamo a internet per prendere decisioni cruciali, documentarci su una malattia, organizzare una vacanza, comprendere una scoperta scientifica. Ma la maggior parte delle volte lo usiamo per perdere tempo su YouTube e su Facebook. È un comportamento compulsivo, perché ci spinge continuamente verso un universo da sistema 1, fatto di sciocchezze e comportamenti impulsivi.
Forse l’appello di Berners-Lee verrà ascoltato e qualcuno inventerà dei social network diversi, in cui uno dei protocolli fondamentali sarà il tempo per pensare. Ma per ora sembra improbabile. Il dibattito pubblico sta diventando più emotivo e rabbioso dei suoi protagonisti. I partiti tradizionali si stanno allontanando dalle posizioni moderate anche a causa della rabbia alimentata dai social network, che favorisce le posizioni più estreme. I social network stanno cambiando le regole.
Paradossalmente, ci stanno insegnando che abbiamo bisogno di più tempo per pensare e più spazio per essere seri.
Fonte: The Guardian
Traduzione: Internazionale n. 1140

martedì 16 febbraio 2016

E’ guerra negli ambulatori di Medicina di Base mentre crollano gli ospedali sardi - Claudia Zuncheddu

E’ difficile per i medici spiegare ai propri assistiti che a colpi di decreti, chi ci governa, pone fine al Sistema sanitario pubblico e che l’unica alternativa è la sanità privata, per chi potrà pagarsela. Il Decreto Lorenzin “sull’appropriatezza delle prescrizioni mediche” taglia il diritto dei cittadini all’assistenza sanitaria pubblica e lede la dignità dei medici per ripianare le voragini finanziarie della sanità. I medici di Base che chiedono di poter curare al meglio i propri assistiti e di poter continuare a fare prevenzione e diagnosi precoci sono impossibilitati ad andare avanti a causa della burocratizzazione del servizio e delle minacce di sanzioni. Per chi gestisce la Sanità, spesso senza averne la competenza, è difficile comprendere che il contenimento e la razionalizzazione della spesa sanitaria è garantita proprio quando si tutela il diritto alla salute del cittadino.
Il bilancio in materia di sanità pubblica potrà essere attivo solo se i cittadini sono ben assistiti. Le cause dei buchi finanziari e del crescente disavanzo sanitario, anche in Sardegna, vanno ricercate principalmente negli sperperi legati ai meccanismi di spartizione del potere politico nella Sanità gestito dai partiti. Il Decreto Lorenzin aggrava questi meccanismi impedendo ai medici di prescrivere secondo scienza e coscienza esami indispensabili per diagnosi precoci e terapie avanzate più efficaci, seppur in alcuni casi più costose. Tutelando così la salute del cittadino si riducono le ospedalizzazioni e i suoi alti costi, oltre a quelli sociali.  Garantire il diritto all’assistenza sanitaria pubblica per tutti, è l’unica logica che può contrastare e ridurre il disavanzo sanitario. Consentire ad esempio il controllo dei markers tumorali o della funzionalità epatica solamente se la malattia è in corso evidenzia quanto dietro il Decreto Lorenzin manchi il coinvolgimento degli esperti di sanità ovvero i medici.  C’è da chiedersi quale sia l’appropriatezza del Decreto rispetto alla Prevenzione e alle diagnosi precoci e quali i costi per il sistema sanitario a medio e lungo termine, se queste pratiche non vengono attuate… senza entrare in merito ai costi sociali.
Il Decreto Lorenzin, l’ennesima mannaia per la sanità pubblica, è confuso e inapplicabile per errori e incongruenze ma nasconde un aumento del costo del ticket, insostenibile per la gran parte della popolazione. La logica dell’aumento dei ticket orienta volutamente il cittadino verso la sanità privata e chi non potrà pagare perirà, come avviene nella sanità americana. Saranno sempre meno i cittadini che potranno curarsi mentre aumenteranno le ospedalizzazioni, con incremento esponenziale dei costi e purtroppo delle vite perdute. Il Ministero della Sanità, su indicazione del Governo, accusa i sardi di spendere troppo in cure ospedaliere ignorando, volutamente e in modo criminale, che a incidere sui costi sono le cure oncologiche, e che la Sardegna è ai primi posti in Italia per tumori e gravi patologie croniche legate spesso all’inquinamento ambientale. Eppure la Sardegna per la sanità paga più di ogni altra regione mentre gli investimenti dello Stato nell’isola sono irrilevanti.
Sia il Ministero alla Sanità che l’Assessorato alla Sanità della Regione Sardegna, ignorano colpevolmente che i sardi inoccupati sono sempre più numerosi e che in modo beffardo e paradossale, la Legge non garantisce a questi il diritto all’esenzione del ticket, per cui intere fasce di popolazione impossibilitate a curarsi fanno sì che cresca l’incidenza dei ricoveri e quindi della spesa sanitaria. La Regione Sardegna può legiferare riconoscendo agli inoccupati lo status di disoccupati, così come hanno fatto altre Regioni Autonome, ma a tutt’oggi non l’ha fatto.
La Politica miope e affaristica perseguita da una classe politica totalmente subalterna ai voleri romani, mina le nostre eccellenze scientifiche e sanitarie ammazzando la ricerca e l’università, decretando la chiusura di ospedali altamente specializzati, agevolando con ciò la fuga dei cervelli e delle professionalità, aggiungendo così all’impoverimento economico e sociale della Sardegna, quello culturale e scientifico.
I giganti della sanità sarda, punto di riferimento per tutta l’Isoladall’ospedale Brotzu al Binaghi, dal Marino al Microcitemico, sono in fase di dismissione e parcellizzazione dei reparti, delle specialità e delle professionalità per cui non potranno più garantire in futuro le loro eccellenze scientifiche e professionali. Queste logiche sanitario-politiche sono gestite dallo strapotere dei direttori generali (nomine politiche) che spesso ben poco sanno di sanità ma che devono rispondere agli assessori che a loro volta devono rispondere ai partiti di provenienza e alle direttive imposte dal governo italiano. La Giunta Pigliaru crede ancora che il Mater Olbia del Qatar, benché a tutt’oggi non dia segni di attività, disattendendo tutti gli impegni presi, meriti il sacrificio delle nostre eccellenze e dei servizi territoriali con il disagio per tutti i sardi.
Il ritorno all’etica della responsabilità nell’ambito della Salute implica un’ulteriore riflessione critica sulla scellerata aziendalizzazione della sanità (vedi Legge 502 del 92 e successive norme di attuazione e modifiche). Un ospedale per sua natura non può essere gestito come un’azienda, che per sua natura deve fare utili, ma è un servizio sociale con costi spalmati su tutta la comunità. I fatti dimostrano che il Decreto Lorenzin non è solo un pasticcio ma è stato ideato per far pagare ai cittadini i buchi finanziari generati dalle intrusioni affaristico/politiche nel sistema sanitario.
Rientra in queste logiche il caos che regna nella Politica sarda sul Riassetto della sanità nell’Isola con pesanti tagli che penalizzano aree geografiche importanti come ad esempio l’Ogliastra. Le carenze di organico e lo stato di dismissione di servizi di eccellenza incidono pesantemente sul sistema territoriale, come ad esempio la diabetologia dove le liste d’attesa per i pazienti arrivano al 2017. Così come non si può continuare a ignorare la “condizione da Sud del mondo” della Struttura Complessa di Chirurgia Plastica – Centro Ustioni dell’ospedale Brotzu. In questa struttura nonostante il livello di specialità abbia superato di gran lunga il requisito minimo per far parte degli Ospedali ad Alta Specializzazione, nulla si fa per la sua sopravvivenza e valorizzazione. La Dirigenza medica è stata ridotta del 70%, così pure il personale infermieristico. Gli spazi sono stati mortificati, il numero di sedute operatorie è ridotto al minimo mentre si allungano le liste di attesa per gli interventi chirurgici di pazienti affetti da tumori, spesso molto aggressivi e che in tempi stretti possono divenire inoperabili e con prognosi infauste. Nonostante la dedizione e la grande professionalità dei due medici dimenticati dai gestori della Sanità, c’è il rischio che come tanti altri cervelli fuggano. Nell’abbandono di questa struttura resta il mistero sul destino dei 450.000 euro stanziati dalla Regione per questo reparto nel 2009.
Storie di conti che non tornano mai, come l’ulteriore disavanzo di 172 milioni a cui la Politica chiederà ai sardi ancora una volta di pagare.

lunedì 15 febbraio 2016

la caccia al lupo

“Il Ministero dell’Ambiente e la Conferenza delle Regioni si apprestano a varare il nuovo Piano di conservazione e gestione del lupo che, dopo ben 45 anni, consentirà gli abbattimenti di lupi e ibridi e renderà addirittura possibile dare la caccia e uccidere i cani vaganti, contro il divieto fissato per legge nel 1991! Un piano predisposto per la gestione del lupo, ma che di fatto sconfina nella gestione del randagismo, con la previsione di “soluzioni finali” anche per i cani, cosa assolutamente vietata nel nostro ordinamento – dichiara la LAV, che aggiunge – si tratta di un atto inaccettabile, sotto il profilo scientifico e ancor più sotto quello morale, che riporta indietro l’Italia di mezzo secolo.”
Un ritorno al passato debolmente argomentato dai tecnici del Ministero che, nel documento in via di approvazione, chiedono la riapertura della caccia ai lupi come risposta alle tensioni sociali: un vero e proprio paradosso! Infatti, come dimostrano le esperienze di altri Paesi europei, gli abbattimenti non fanno diminuire le predazioni e l’apertura della caccia non arresta il bracconaggio, che potrebbe invece beneficiare di maggiore tolleranza sociale, all’interno di un sistema che avalla l’uccisione del lupo.
A ciò si aggiunga che, mentre nella bozza inizialmente diffusa dal Ministero l’abbattimento di cani vaganti era limitato alle sole “aree protette”, in una successiva versione non inviata ufficialmente alle associazioni, questa possibilità viene estesa anche alle “aree rurali”, attraverso un’esplicita richiesta di revisione urgente della legge 281/91 (Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo). Una modifica che permetterebbe di intervenire con piani di abbattimento sui cani vaganti delle aree rurali e sugli ibridi cane-lupo, secondo quanto previsto dall’articolo 19 della legge 157/92, che già oggi consente lo sterminio delle nutrie.
“A fronte di modifiche così invasive e drastiche, il coinvolgimento delle associazioni portatrici di interessi è stato del tutto bypassato: un vulnus considerevole e un’occasione mancata” – commenta LAV, che ha fatto predisporre da esperti internazionali e sottoposto al Ministero, un dossier tecnico-scientifico che illustra tutte le ragioni per cui l’abbattimento dei lupi è inutile e non deve essere consentito:

 perché non esistono dati precisi e attendibili sulla popolazione di lupi in Italia;

 perché lo stato di conservazione del lupo potrebbe essere pericolosamente compromesso;

 perché non sono possibili abbattimenti realmente selettivi e gli effetti sono sempre imprevedibili;

 perché non diminuirebbe comportamenti predatori ma potrebbe aggravarli, come in altri Paesi;

 perché non avrebbe effetti positivi sulle tensioni sociali e, anzi, potrebbe comportare una maggiore tolleranza verso atti di bracconaggio e di “giustizia” privata.


Alla mancanza di un adeguato coinvolgimento delle parti - le associazioni non hanno mai ricevuto formale riscontro alle proprie osservazioni sulla prima bozza di Piano, né sono state convocate in preparazione del prossimo Comitato paritetico Stato - Regioni del 16 febbraio, come previsto da un Decreto dello stesso Ministero dell’Ambiente - si sommano le anomalie in materia di competenze, sia sul piano istituzionale che tecnico.
“Sulla questione del randagismo, la competenza spetta infatti al solo Ministero della Salute, che è stato soltanto marginalmente consultato – commenta la LAV – il tutto in un quadro in cui si rimanda esplicitamente a un parere dell’ISPRA (Genovesi e Dupré, 2000), che oltre a non essere l’ente competente a intervenire su questioni di randagismo, nel parere citato prevedeva addirittura la possibilità di reintrodurre l’eutanasia per i cani e l’abbattimento dei cani vaganti”.
“Fino ad oggi abbiamo atteso una riformulazione radicale della bozza di Piano, ma senza successo – prosegue la LAV - Preoccupati che si voglia dare un’incredibile accelerazione all’approvazione, chiediamo che il Ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti e il Presidente della Conferenza delle Regioni Stefano Bonaccini, dicano esplicitamente se sottoscriveranno l’abbattimento di cani, ibridi e lupi e se intendano procedere alla convocazione delle associazioni interessate, come previsto dal Decreto ministeriale. Analoga interrogazione rivolgiamo al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, per quanto riguarda l’abbattimento dei cani vaganti, su cui il Ministero è stato chiamato a dare parere”.
“Ci auguriamo vivamente che i Presidenti di Regione e gli Assessori all’Ambiente, assumano una netta posizione contro un Piano che consente l’uccisione, non solo di lupi e ibridi, ma anche dei cani randagi o lasciati incustoditi, persino dei cani ‘di proprietà’ che si fossero smarriti! Fatti, questi, gravissimi e che siamo certi i cittadini non tollererebbero. Ministro Galletti, Ministro Lorenzin, volete davvero essere ricordati come quelli che, dopo 45 anni per il lupo e 25 anni per il cane, hanno dato via libera alla caccia e alle uccisioni?
E’ la domanda aperta che la LAV rivolge ai vertici dei due dicasteri e l’occasione per l’Italia di non cedere terreno, né la sua posizione di avanguardia, sul piano della tutela di una specie particolarmente protetta come il lupo e dei diritti di tutti gli animali.

domenica 14 febbraio 2016

Seghe su seghe

…La foresta demaniale si trova tra i versanti sud-orientali del Gennargentu e l’Ogliastra. Si tratta, si legge in una nota di “uno dei compendi naturalistici più belli e preziosi della Sardegna, inclusa nel SIC-ZPS Monti del Gennargentu”. Lì ci sono leccete ad alto fusto con numerosi esemplari monumentali, agrifogli e tassi, che si stendono tra doline, altipiani e falesie. La vista spazia dalla vetta più alta, a 1300 metri, il Pizzo Margiani Pubusa fino alla valle del Flumendosa e ancora ai versanti del Gennargentu, fino a  Punta La Marmora.
Il piano forestale particolareggiato. Il Gruppo d’intervento giuridico punta il dito sul Piano Forestale Particolareggiato – quello redatto per conto dell’Ente Foreste della Sardegna. E soprattutto sulla volontà di “trasformare ben 175 ettari (200 campi di calcio) di questo paradiso in una “fabbrica” di legna su cui applicare la forma di governo più speculativa: il taglio raso, ossia l’abbattimento di tutti gli alberi tranne due o tre ogni cento”. Con tanto di eliminazione di lecci monumentali.
E ancora, si legge nella nota “lascia sconcertati la previsione di estendere i deleteri tagli rasi persino nei recessi più selvaggi del compendio”. Ci si riferisce ai ripidi versanti che dalle falesie dei Tonneri. Per il Gruppo d’intervento giuridico: “Risulta davvero incomprensibile come, per giustificare un simile intervento, si possa affermare, tra le altre cose, che il taglio raso farà del bene al paesaggio e all’ecosistema, perché, così si afferma nel piano, romperebbe la monotonia dell’alto fusto di leccio”.
In realtà “nella zona più settentrionale del territorio che scende verso il Flumendosa rimangono soltanto relitti di un soprassuolo boschivo, mentre prevalgono gli arbusti e le specie tipiche della macchia mediterranea; la parte più bassa, presso il fiume, è occupata da vegetazione riparia”. Relitti dell’immensa foresta che fu, altro che monotonia da “spezzare”. Il virgolettato è tratto dalla scheda descrittiva della Foresta di Montarbu redatto da quello stesso Ente Foreste che ora vorrebbe approvare un piano che prevede il taglio raso di quei relitti di soprassuolo boschivo! E lo stesso piano forestale classifica come “di rilevante interesse naturalistico” le formazioni a monte della strada, contigue a quelle che si vorrebbero tagliare a zero!

qui e qui

giovedì 11 febbraio 2016

Robert Lewis va a canestro



Il coach lo ha mandato in campo e lui ha segnato il canestro decisivo con una bomba da tre punti. Protagonista del match di basket tra i college Usa Franklin Road Academy e University School of Nashville (giocato il 5 febbraio) è stato Robert Lewis, studente con sindrome di down. Quando Robert ha segnato il canestro decisivo il palazzetto è esploso e lui è stato portato in trionfo dai compagni di squadra, dagli avversari e da tutto il pubblico.

lunedì 1 febbraio 2016

Bimbi e ragazzi disabili: un’altra occasione mancata - baruda


Si leggono storie di madri e padri che mettono la sveglia all’alba per portare i loro figli al parco. O che aspettano le ore più fredde ed umide, quando gli altri portano i bimbi a casa, al riparo dal vento o dal troppo caldo: solo per far giocare i loro figli.
Noi mamme di bambini disabili impariamo ogni giorno a notare ogni minima differenza: attraverso i nostri figli impariamo, come dei bambini spauriti, a riconoscere i particolari di ogni bimbo, i particolari di ogni disabilità. Imparare a conoscere le piccole differenze (spesso enormi) nella disabilità dei figli delle altre mamme nella mia condizione mi permette di comunicare, di provare a giocare, di tentare di farli sentire meno esclusi e allo stesso tempo di escludere meno me. E mio figlio.
Mio figlio accede ai parchi per ora: accede perché è piccolo, accede perché ha un passeggino posturale ingombrante ma funzionale, accede perché malgrado i miei 40 kg riesco a prenderlo in braccio, a caricarlo sulle altalene, a fare lo scivolo con lui in braccio tornando un po’ bambina anche io.
Mio figlio osserva il mondo con la sua bocca un po’ troppo aperta, con gli occhi enormi e pieni di parole, con il silenzio e il nervosismo di un bimbo che non parla, che ha una diagnosi pesante, che palesemente capisce di essere diverso dagli altri, che combatte le sue menomazioni da quando è nato.
Non tutte le diagnosi che hanno i nostri figli permettono di combattere: per tutte però dovremmo trovare un po’ di integrazione e socialità. Tutte.
Esiste un mondo grandissimo, che non conosco ancora molto bene, che è quello dell’autismo. Lo stesso autismo che per lo stato italiano finisce col compimento del 18esimo anno di età…e sappiamo bene quanto non è vero.
I ragazzi autistici spesso vivono un isolamento simile a quelli con disabilità motorie gravissime, vengono violentemente allontanati dalla società, dalle famiglie altre che non conoscono queste genere di patologie.
Perché la maggior parte di questi ragazzoni autistici può far paura, quando non si sa cosa hanno, quando si accompagna un bimbo piccolo in un parco a giocare: sono grossi e ingombranti, si comportano in modo strano perchè son ragazzi grandi eppure voglion saltare e andare sugli scivoli, correre e correre e correre.
Oddio quanto chiacchiero… volevo raccontarvi una notizia e sto qui a blaterare.
La notizia l’ho letta stamattina e la potete leggere per intero qui.
E’ una notizia triste e surreale. Si parla di un’inaugurazione di un parco tanto atteso, di un’inaugurazione che avrebbe dovuto coinvolgere anche i ragazzi autistici, che avrebbe dovuto permettere a quelle mamme che vanno a far giocare i loro figli nei parchi “quando gli altri bimbi non ci sono, almeno non diamo fastidio” di andare insieme alle altre.
Doveva esserci un’area dedicata ai ragazzi autistici:
“Da tempo avevamo comunicato al sindaco Massimo Zedda e all’assessore Paolo Frau che c’era l’esigenza di un parco dove i nostri figli potessero andare. Così, quando abbiamo saputo che forse era stato trovato, siamo andati subito a vederlo. E’ successo molti mesi fa. E l’assessore Frau ci ha fatto da guida. Abbiamo dato dei suggerimenti. C’erano certe zone pericolose, certe piante con le spine, certe pozze d’acque. Bisognava recintarle. E’ stato fatto. Forse si riferisce a questo il sindaco quando oggi, nella sua pagina Facebook, scrive:  “Uno spazio che è stato progettato pensando anche alle richieste arrivate nel tempo da associazioni e genitori che convivono con l’autismo perché possa essere un giardino per tutti”. Già, il problema è che tutti i giardini sono di tutti. Nessuno è per i disabili.
Quando ieri siamo andati all’inaugurazione del parco eravamo certi che sarebbe stato detto che quel luogo era per i nostri figli. Attenzione: non esclusivamente per i nostri figli, ma preliminarmente per i nostri figli. Che, cioè, era quel luogo sempre sognato dove i nostri figli sono i cittadini e gli altri sono gli ospiti. Un luogo straordinario per noi, ordinario per le persone ‘normali’. Si trattava di dire che – in quel piccolo e unico luogo – si ribaltava l’ordinaria gerarchia della titolarità: a chiedere ‘permesso’ non dovevano essere i nostri figli. Nessuno doveva chiedere permesso. Ma chi andava in quel parco doveva sapere che era prima di tutto frequentato da strani bambini-uomini. E che chiunque poteva portare i suoi figli ‘normali’ sapendo che c’era, nel parco, questa ricchezza. Qualcosa da spiegare, da raccontare, ai bambini ‘normali’ per renderli uomini. Per ‘educarli alla diversità’. Come Siro Vannelli, il botanico a cui è stato dedicato il parco, educava alla diversità delle piante.”
Niente da fare. Nessuna zona dedicata ai disabili. Niente di niente.
E la spiegazione è stata che si sarebbe rischiato il “ghetto”.
Il ghetto capite? si rischiava un ghetto nel creare uno spazio adatto a bimbi e ragazzi che altrimenti devono affrontare guerre che non possono e spesso nemmeno capiscono per poter salire su uno scivolo. Il ghetto, quello che noi conosciamo bene perchè per permettere al nostro bimbo, e al suo normalissimo fratello, di fare una vita quasi normale, ogni giorno dobbiamo EVADERE. Dal ghetto dove farebbe comodo che noi rimanessimo,
noi che sbaviamo, noi che non parliamo, noi che abbiamo comportamenti non consoni, dal ghetto dell’ignoranza.
Peccato per Cagliari: in Emilia e in tanti piccoli altri comuni stanno sorgendo parchetti per disabili molto belli, dove si gioca tutti. Ma quanto tempo ci vorrà ancora…

Nessun parco giochi per i ragazzi autistici. L’occasione perduta dal comune di Cagliari - Giovanni Maria Bellu

Eravamo tutti molto contenti. Come lo può essere chi vede risolto un problema che gli complica la vita. Stavamo per avere ilnostro parco. Un luogo dove andare a trascorrere con i nostri figli qualche ora la domenica o il sabato mattina, qualche pomeriggio libero durante la settimana. Sì, la cosa può apparire strana. Noi viviamo a Cagliari (ma sarebbe lo stesso se vivessimo a Palermo o a Milano: è un problema nazionale) e a Cagliari ci sono tanti parchi: Monte Urpinu, Monte Claro, Terramaini. Cagliari, come ha sottolineato il sindaco Massimo Zedda inaugurando il nuovo parco della Fonsarda, è una delle città d’Italia con più spazi verdi.
Il fatto è che noi siamo genitori di ragazzi autistici.
L’esistenza dell’autismo è nota a tutti. Di cosa si tratta, molto meno. L’idea che ne hanno le persone che non ci convivono, spesso si fonda su informazioni confuse. Alcuni ritengono che i ragazzi autistici siano molto intelligenti, ma isolati dal mondo. E’ l’idea che è stata diffusa da un film, Rain Man. Che però raccontava una forma di autismo minoritaria. Ma non c’è una forma di autismo ‘maggioritaria’. C’è una moltitudine di situazioni diverse. Ci sono ragazzi autistici che si fanno male da soli, che compiono gesti autolesionistici. Altri che hanno una affettività ‘normale’, solo che non sanno parlare. Hanno un forte ritardo mentale. In altri tempi, meno ipocriti, venivano chiamati ‘scemi’. Di solito lo ‘scemo del paese’ era un autistico non diagnosticato.
L’elemento che accomuna le persone affette da autismo, è che hanno bisogno di essere accudite continuamente. Non sono autonome. Infatti, noi genitori di ragazzi autistici conviviamo con l’incubo di cosa sarà di loro quando non ci saremo più.
Nel frattempo c’è la vita quotidiana. I luoghi dove andare. I parchi, appunto.
Mio figlio Ludovico, che è un ragazzo autistico di 17 anni, per niente aggressivo, per fortuna non autolesionista, solo che non sa parlare e ha un forte ritardo mentale, ama correre. Salire sugli scivoli, giocare con le altalene. Fin quando ha avuto 14 anni abbiamo passato ore e giorni così.
Da un paio d’anni molto meno. Ludovico è diventato grande, fisicamente grande. Anche se è come un bambino piccolo. Ma gli altri bambini piccoli e ‘normali’ non lo sanno. E nemmeno i loro genitori. Quando sale sullo scivolo o sull’altalena, si crea un certo clima di apprensione. I genitori dei bambini piccoli hanno paura che quel ragazzo-bambino possa inavvertitamente fare male ai loro figli.
Da due anni non andiamo più a Monte Claro. Non andiamo più nei parchi pubblici, se non la mattina molto presto o, a volte, la sera prima che chiudano. Andiamo in macchina, fino a certi percorsi in campagna. Corriamo lì, dove non possiamo far male a nessuno. A volte non c’è il tempo per arrivare sui monti di Dolianova. Allora camminiamo per la città. O, quando va bene, ci fermiamo in certi parchetti scalcinati, troppo malmessi per i bambini ‘normali’ e i loro genitori. Ce n’è uno al Cep, un altro alla periferia di Sestu. L’altalena – sistemata su uno sterro – è quasi sempre libera. Sempre libera quando è piovuto e per salirci devi guadare una pozzanghera.
Per questo eravamo tutti contenti quando abbiamo saputo che il comune di Cagliari stava per aprire il nuovo piccolo parco della Fonsarda. Un parco che nasceva dal recupero di un’area che per anni era rimasta chiusa al pubblico. Era prima il giardino del brefotrofio, poi la pertinenza di un parcheggio per le auto dei dipendenti che lavoravano in certi uffici della Provincia.
Da tempo avevamo comunicato al sindaco Massimo Zedda e all’assessore Paolo Frau che c’era l’esigenza di un parco dove i nostri figli potessero andare. Così, quando abbiamo saputo che forse era stato trovato, siamo andati subito a vederlo. E’ successo molti mesi fa. E l’assessore Frau ci ha fatto da guida. Abbiamo dato dei suggerimenti. C’erano certe zone pericolose, certe piante con le spine, certe pozze d’acque. Bisognava recintarle. E’ stato fatto. Forse si riferisce a questo il sindaco quando oggi, nella sua pagina Facebook, scrive:  “Uno spazio che è stato progettato pensando anche alle richieste arrivate nel tempo da associazioni e genitori che convivono con l’autismo perché possa essere un giardino per tutti”. Già, il problema è che tutti i giardini sono di tutti. Nessuno è per i disabili.
Quando ieri siamo andati all’inaugurazione del parco eravamo certi che sarebbe stato detto che quel luogo era per i nostri figli. Attenzione: non esclusivamente per i nostri figli, ma preliminarmente per i nostri figli. Che, cioè, era quel luogo sempre sognato dove i nostri figli sono i cittadini e gli altri sono gli ospiti. Un luogo straordinario per noi, ordinario per le persone ‘normali’. Si trattava di dire che – in quel piccolo e unico luogo – si ribaltava l’ordinaria gerarchia della titolarità: a chiedere ‘permesso’ non dovevano essere i nostri figli. Nessuno doveva chiedere permesso. Ma chi andava in quel parco doveva sapere che era prima di tutto frequentato da strani bambini-uomini. E che chiunque poteva portare i suoi figli ‘normali’ sapendo che c’era, nel parco, questa ricchezza. Qualcosa da spiegare, da raccontare, ai bambini ‘normali’ per renderli uomini. Per ‘educarli alla diversità’. Come Siro Vannelli, il botanico a cui è stato dedicato il parco, educava alla diversità delle piante.
Il quartiere della Fonsarda è pieno di cemento. Ed è un quartiere abitato da persone anziane. Questo un po’ lo immaginavamo, ma il sindaco Massimo Zedda ce l’ha confermato perché ha tenuto a dirlo nel discorso che ha fatto per l’inaugurazione del parco. E, in effetti, alla sobria cerimonia, assistevano molte persone anziane. Contente di avere quello spazio verde sotto casa.
E il “nostro” parco? Niente. Quello deve ancora attendere. Ci siamo rimasti malissimo. Addirittura l’assessore Paolo Frau – sicuramente senza intenzione di offendere, sicuramente per errore, perché in tutta questa vicenda è stato, a parte la sua conclusione, sempre disponibile e quasi accudente  – a un certo punto ha detto che questo nuovo parco era stato realizzato in mondo da essere godibile ‘anche’ dai bambini disabili. Ma questo vale, e ci mancherebbe altro, per tutti i parchi! Non ho mai visto un cartello con su scritto: “Vietato l’accesso ai disabili”. Non c’è bisogno di alcun cartello. A seconda della disabilità, basta un gradino troppo alto, una fontana troppo bassa. O, semplicemente, basta che ci siano altri bambini troppo piccoli con i loro genitori apprensivi e disinformati.
Ci siamo rimasti malissimo. Abbiamo chiesto spiegazioni. Non più al sindaco, non più all’assessore. Che avevano avuto da noi un quadro chiarissimo della situazione e dell’esigenza e hanno evidentemente fatto una scelta. Una scelta politica. Perché sono proprio questi piccoli luoghi, in queste zone di confine tra il giusto e l’opportuno, che si rivela una certa o una cert’altra concezione del mondo. Hanno scelto, ci è stato spiegato, di introdurre ‘gradualmente’ l’idea di questa destinazione del parco. A noi pareva, invece, che fosse opportuno dirlo subito. Perché nei luoghi si creano prassi, abitudini. Dopo è molto più difficile cambiare.
Abbiamo chiesto ad altri che assistevano alla cerimonia. I più esperti e avveduti – quelli che la sanno lunga – ci hanno detto, come se fosse un’ovvietà, che fare un parco per bambini autistici sarebbe stato, in fondo, un modo di fare una specie di ghetto: un ‘parco ghetto’ per autistici. Perché, a quanto pare – quello era l’ambiente, quelle erano le persone – nemmeno a sinistra è chiara la nozione fondamentale secondo cui l’eguaglianza non è trattare tutti allo stesso modo. Lo è quando le situazioni sono uguali. Ma trattare in modo uguale situazioni diverse non è uguaglianza. E’ il suo esatto opposto. Ed è questa la ragione per cui un piccolo evento come questo ha una valenza politica.
Nessuno chiama ‘porte-ghetto’ gli accessi per i disabili. Nessuno definisce ‘protesi-ghetto’ gli auricolari per i sordi. Nessuno chiama ‘bestie-ghetto’ i cani dei ciechi. Chissà perché dovrebbe diventare ‘un ghetto’ un luogo, l’unico luogo, dove dei ragazzi autistici possono giocare senza timori.
Eravamo contenti quando siamo arrivati, eravamo dispiaciuti e delusi quando siamo andati via. Non sappiamo se torneremo in quel parco. Forse sì. Ma dovremo essere noi a spiegare questa storia. Gli anziani delle Fonsarda, probabilmente, staranno a sentirla. Anche i genitori dei bambini ‘normali’. Forse troveremo un modo di convivere. Ma l‘avremo fatto da soli. Come sempre.