mercoledì 30 settembre 2020

FACTORY SCHOOLS - DISTRUGGONO I POPOLI INDIGENI NEL NOME DELL’EDUCAZIONE

 

“A scuola, gli insegnanti dicono che siamo sporchi. Ci chiamano porci e cani.”

Rahman, Orang Asli, Malesia

Oggi, circa due milioni di bambini indigeni di varie parti del mondo studiano nelle “Factory School”, ovvero in scuole residenziali finalizzate all’assimilazione, dove gli strappano l’identità indigena e li indottrinano per conformarli alla società dominante.

Ci siamo dati l’obiettivo di mettere fine a queste fabbriche dell’assimilazione. I popoli indigeni e tribali devono mantenere il controllo della loro educazione, che vogliono sia radicata nella loro terra, nella loro lingua e nella loro cultura, rendendoli orgogliosi di loro stessi e dei loro popoli.

Aiutaci a restituire ai popoli indigeni il controllo della loro educazione.

 

Per le Factory School, l’essere indigeni è qualcosa di “sbagliato”

“L’educazione” fornita nelle scuole per l’assimilazione mira a “correggere” quello che ci sarebbe di sbagliato nell’essere indigeni. Si vantano di fornire ai bambini indigeni i mezzi per avere “successo” nella società dominante, ma la storia dimostra che queste scuole distruggono intere vite, provocano traumi e devastano i bambini, le loro famiglie e le loro comunità per generazioni.

 


Carlisle Indian Industrial School, Pennsylvania, Stati Uniti c1900. © Cumberland County Historical Society


Le Factory School nel passato

 Nei secoli XIX e XX, le Factory School erano note in Canada, Australia e Stati Uniti come “Scuole Residenziali” o “Collegi”. Nel solo Canada, vi sono morti più di 6.000 bambini – ovvero uno studente ogni 25.

Il trauma inimmaginabile prodotto da questo sistema ha lasciato in molte comunità una cruda e dolorosa eredità, con alte percentuali di depressione, suicidi e abusi di alcol e stupefacenti.

È inconcepibile che scuole di questo genere possano esistere ancora, ma attualmente se ne contano migliaia tra Africa, Asia e Sud America.

Le Factory School oggi

Stimiamo che i bambini indigeni ‘educati’ nelle ‘fabbriche per l’assimilazione’ del mondo siano attualmente 2 milioni.

In queste scuole, i bambini vengono alienati dalle loro case, dalle loro famiglie, dalle loro lingue e culture. Spesso subiscono abusi psicologici, fisici o sessuali. Nelle scuole residenziali del solo stato indiano di Maharashtra, per esempio, tra il 2001 e il 2016 sono morti circa 1500 bambini indigeni, di cui 30 di suicidio.

 

Distruggere comunità e lingue

 

Norieen Yaakob del popolo Temiar della Malesia, sopravvissuta a stento dopo essere scappata dalla scuola residenziale in cui si trovava. È stata ritrovata 47 giorni dopo la fuga dall’istituto; gli altri 5 bambini che erano con lei erano ormai morti.

Le scuole per l’assimilazione insegnano ai bambini che le credenze e le conoscenze dei loro popoli sono “arretrate”, inferiori o sbagliate.

A milioni di bambini indigeni è vietato parlare la propria lingua madre a scuola, o sono scoraggiati dal farlo. Ciò minaccia la sopravvivenza delle lingue indigene. La prima causa d’estinzione di una lingua è il mancato uso, da parte dei bambini, della lingua dei genitori. È un disastro, perché le lingue indigene sono fondamentali per capire il mondo in cui viviamo, chi siamo e di cosa possono essere capaci gli esseri umani.

Trasformare le “passività” in “patrimonio attivo”

Le scuole per l’assimilazione esistono per trasformare i bambini indigeni e tribali – che hanno lingue e culture proprie – in arrendevoli lavoratori del futuro. “Trasformiamo costi in contribuenti, passività in patrimonio attivo” vanta la più grande Factory School del mondo.

Spesso sono sponsorizzate dalle industrie estrattive e da grandi aziende. Queste compagnie aspirano a trarre profitto dalla terra, dal lavoro e dalle risorse indigene, e le Factory School costituiscono il modo più economico per assicurarsi questo utile nel lungo termine.

In India e in Messico, le industrie estrattive sostengono scuole che insegnano ai bambini ad apprezzare le attività minerarie e a rifiutare il legame che esiste tra il loro popolo e la loro terra, in quanto “primitivo.”

Alcuni stati usano il sistema scolastico come strumento per inculcare il patriottismo e sedare i movimenti indipendentisti, come nel Papua Occidentale, dove il governo indonesiano sta cercando di “indonesizzare” gli indigeni papuasi, e reprime violentemente il dissenso.

Un altro movente è la conversione religiosa. In Bangladesh e in Indonesia, l’attività missionaria islamica punta molto sulla scolarizzazione indigena; in Sud America diverse confessioni cristiane dirigono scuole missionarie residenziali. I fondamentalisti induisti, in India, targettizzano i bambini indigeni per convertirli tramite la scolarizzazione.

 









Bambini papuasi in un collegio islamico a Jakarta. © Michael Bachelard / Survival

Una perdita per tutta l’umanità

Questo disprezzo per le conoscenze e le culture indigene finisce per distruggere i popoli indigeni e le loro culture e conoscenze uniche.

A casa, i bambini indigeni imparano tecniche e conoscenze complesse e sofisticate, che permettono loro di vivere bene nella loro terra e di farla prosperare per il futuro. I popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e custodi del mondo naturale. Se i bambini indigeni non potranno più imparare nelle loro comunità e nelle loro lingue, nel corso di una sola generazione potremmo perdere migliaia di anni di saggezze collettive, di conoscenze e visioni uniche.

 

La soluzione

I popoli indigeni e tribali devono poter gestire la propria educazione. L’educazione deve essere radicata nella terra, nella lingua e nella cultura dei popoli indigeni stessi, e fornire ai bambini un’educazione solida e un profondo orgoglio in loro stessi e nel proprio popolo.

Facciamola diventare realtà per tutti i bambini indigeni – prima che sia troppo tardi.

Cosa fa Survival?

Denunciamo il problema

Dobbiamo far conoscere al mondo l’entità dell’impatto delle Factory School per contribuire a mettere fine a questo sistema brutale.

Promuoviamo il cambiamento

Facciamo pressione sui governi e sull’ONU per far chiudere queste scuole ovunque.

Promuoviamo una soluzione

Raccogliamo esempi di scuole e programmi educativi positivi, dove i bambini studiano nelle loro terre, con le loro famiglie e nelle loro lingue. Li stiamo condividendo il più possibile per dare speranza e ispirare cambiamenti.

Non ci arrenderemo finché ogni comunità indigena e tribale non potrà scegliere per i propri bambini un’educazione che rispetti le loro famiglie, la loro cultura, la loro lingua e il legame con la loro terra – e che dia loro più di quel che toglie.

Come puoi aiutarci?

 

Attivati

Fai una donazione

Report di Survival

Leggi il nostro report illustrato sulle Factory School

Scarica il report completo

 

https://www.survival.it/scuoleperassimilazione

martedì 29 settembre 2020

Una Lucha. Con le donne zapatiste

L’autunno è il momento che segna il passaggio morte/rinascita. Sembra contro-intuitivo, ma è così. È il momento in cui tutto, o quasi, in questo emisfero, ha finito di sbocciare e fruttificare; in cui si concludono i raccolti e si prepara la terra; in cui vengono abbandonate le strutture organiche che hanno finito il loro ciclo e la nuova vita si riorganizza e si predispone ai prossimi germogli. Nulla subisce battute di arresto, tutto prepara le nuove stagioni. Così le lotte e l’impegno della molta umanità organizzata a protezione della Terra, dei flussi della vita, del patto sacro con le forze che ci sostengono come specie, del buen vivir.

Le donne zapatiste ci hanno consegnato una piccola luce per ricordarci che la lotta è unica, in qualunque modo si manifesti, in qualunque tempo e geografia. Quella luce ci lega da sempre, è una eredità degli sforzi delle nostre antenate che vivono in noi, è il motivo per cui siamo qui ora, è ciò che abbiamo l’impegno di tenere acceso e consegnare al futuro. Ed è importante mantenerci intessute e vicine le une alle altre, specie nei momenti difficili, come quello che stanno vivendo le comunità zapatiste.

Per questo il gruppo Mujeres Resistencias – Mujeres adherentes a la Sexta en Chiapas hanno invitato le donne del mondo a sottoscrivere una lettera di sorellanza con le donne, le bambine, le anziane che dal Chiapas ci chiamano e ci parlano, mantenendo viva quella fiamma, e a cui auguriamo la forza della rinascita.

 

Questo è il testo, firmato già da 118 collettivi e da 239 donne da tutto il mondo.


Alle donne zapatiste
Alle donne che abitano i diversi angoli del mondo
A chiunque ritiene di avere il cuore di una donna

Quelle di noi che aderiscono a questa Carta sono donne del Chiapas, del Messico e del Mondo, convocate dalla forza della “piccola luce” che ci hanno affidato le donne zapatiste al Primo Incontro Internazionale, Politico, Artistico, Sportivo e Culturale delle Donne che Lottano nel 2018, e anche dal messaggio di speranza e impegno per difendere la vita, che ci hanno dato al Secondo Incontro Internazionale Orme del Cammino della Comandanta Ramona nel 2019.

In questi momenti di Guerra verso di noi e Madre Terra, questi piccoli fuochi-luce si sono moltiplicati assieme con altre donne, ci siamo incontrate lungo la strada e ora siamo parte di un cuore collettivo. Da qui cerchiamo di illuminare in modo da non sentirci sole, in modo da non avere paura. E anche se questa lotta per la vita sembra molto dura in questa disgregazione che questo sistema criminale genera, abbiamo deciso di accendere le nostre lotte per la vita, la verità e la giustizia che merita il dolore di ogni donna in ogni mondo.

Compagne, ora, in questo contesto di pandemia, abbiamo ricevuto informazioni sulla riattivazione della Guerra nei confronti dei vostri corpi, famiglie, comunità e popoli zapatisti in diverse aree della Selva e degli Altos delle montagne del Chiapas, in Messico. Sappiamo che vengono attaccati da persone e gruppi che alimentano il sistema patriarcale per continuare a violentarci con il fuoco e privarci della nostra terra. Soffriamo nel vedere come è stato incendiato il Comedor Compañera Lucha, ubicato nel Centro de Comercio Nuevo Amanecer del Arco Iris. Per ciò che rappresenta come memoria viva per il nostro cuore.

Sorelle del mondo, nello scorrere del 2020, vediamo con rabbia e dolore come le nostre sorelle zapatiste continuano ad essere violate e attaccate da leader armati che agiscono con forme e modi appresi dal paramilitarismo, grano marcio incorporato da anni in questa Guerra Integrale di Logoramento in Chiapas, per educare e contaminare le persone che maltrattano i popoli e avvelenano la terra, le montagne, le foreste e i campi coltivati, ottenendo così accesso al potere e al denaro. E sentiamo il dolore della nostra Madre Terra che continua crudelmente ad essere sfruttata e avvelenata da tutta questa trama capitalista-patriarcale-coloniale attraverso i suoi Stati-narco-imprenditori, i suoi mega-progetti di morte, i suoi partiti politici e i suoi programmi canaglia.

Siamo con voi nel prenderci cura e nel camminare la speranza e la libertà che come donne meritiamo e necessitiamo per proteggere e difendere la vita. Continuiamo, come possiamo, ravvivando le nostre piccole luci e, dai nostri cuori e geografie, le portiamo fin dove siete, ricordandovi che non siete sole. Siamo convinte di “Lottare affinché mai più una donna al mondo, di qualunque colore, di qualunque taglia, di qualunque origine, si senta sola o abbia paura”. Pertanto, ci assumiamo la responsabilità di continuare; denunciare, diffondere, difendere e riprodurre la vita affinché i bambini e le bambine che verranno possono vivere con tranquillità, libertà e giustizia.

Care sorelle del mondo e compagne zapatiste, con un affetto solidale e impegnato, ora vi diciamo: “che non siete sole, che abbiamo bisogno di voi, che ci mancate, che non vi dimentichiamo, che ci siete necessarie’”.


Traduzione di Rebecca Rovoletto

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lunedì 28 settembre 2020

Bambini e beceri - Grig

Bambini beceri sono due parole che iniziano con la lettera b, ma hanno un significato molto diverso nella lingua italiana.

Anche quando vengono accostate mantengono un diverso significato. 

Un esempio triste e significativo è stato offerto dal recente sbarco dalla nave Alan Kurdi (in realtà una specie di peschereccio) nel porto di Olbia per evitare una prevista burrasca di 125 disgraziati provenienti da Costa d’Avorio, Nigeria, Senegal e Libia che cercano in qualche modo un futuro migliore.

Di questi 56 sono bambini.

Come da accordi internazionali, dopo la quarantena obbligatoria, solo 25 di loro resteranno in Italia, mentre gli altri 100 saranno accolti da altri Paesi europei.

Molto probabilmente nessuno rimarrà in Sardegna.

Mentre parecchi olbiesi hanno portato vestiti, giocattoli e tanta solidarietà, il commissario regionale della Lega on. Eugenio Zoffili, l’Assessore regionale ai trasporti Giorgio Todde, i consiglieri regionali Michele Ennas e Annalisa Mele (medico)  – tutti della Lega – hanno cercato di impedire lo sbarco, con il coro di qualche buontempone che vomitava insulti di ogni genere.

Dal canto suo, l’Amministrazione regionale sarda avrebbe provato a bloccare i test diagnostici sul coronavirus COVID 19, ottenendo la precettazione da parte della Prefettura di Sassari.

Grazie davvero alla professionalità, alla serietà e all’umanità delle Forze dell’ordine qualsiasi problema è stato superato.

 

Nel mentre in Sardegna, per esempio, sono stati riscontrati complessivamente 1.836 casi di contagio da coronavirus COVID 19, di questi 1.709 sono in isolamento domiciliare, 109 sono ricoverati in ospedale e 18 in terapia intensiva (dati I.S.S. al 26 settembre 2020).

Nel mentre, sempre per esempio, a Cagliari sono stati esauriti i posti nel reparto terapia intensiva anti-Covid dell’Ospedale SS. Trinità, il punto di riferimento per mezza Sardegna. E i restanti posti stanno finendo.

Nel mentre, ovviamente a titolo di esempio, interi paesi sardi (Orune, Aidomaggiore) vengono nuovamente chiusi per cercare di contrastare la pandemia.

 

Nel mentre, banalmente per esempio, la Giunta e il Consiglio regionale della Sardegna, a guida indipendentista d’obbedienza leghista, ha varato l’ennesima riforma del servizio sanitario regionale e s’appresta a spartirne i posti di responsabilità e di potere, come se non vi fosse altro di più urgente da fare.

L’on. Zoffili, fra le varie imprese a favore della Sardegna, si è distinto nell’agosto scorso per chiedere e sostenere il mantenimento dell’apertura delle discoteche (ordinanza presidenziale n. 38 dell’11 agosto 2020), in particolare del Billionaire, attività che hanno drammaticamente favorito la ripresa della diffusione della pandemia nell’Isola.

Ricordiamoci tutti che bambini beceri, pur iniziando ambedue con la lettera b, hanno un significato molto diverso nella lingua italiana.

Ricordiamocelo sempre, anche quando ritorneremo nella cabina elettorale.

Stefano DeliperiGruppo d’Intervento Giuridico onlus


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Non piove, governo ladro - Marco Bersani

 

É stato pubblicato recentemente il rapporto “Analisi del Rischio. I cambiamenti climatici in Italia”, realizzato dalla Fondazione CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici). Si tratta della prima analisi integrata del rischio climatico in Italia.

Che cosa prevede? I diversi modelli climatici sono concordi nel valutare un aumento della temperatura fino a 2°C nel periodo 2021-2050 (rispetto a 1981-2010) e, nello scenario peggiore, un aumento che può raggiungere i 5°C.

Con quali conseguenze? Un  significativo aggravamento della situazione già ora complessa relativa al rischio geo-idrogeologico; una drastica riduzione della disponibilità di risorsa idrica rinnovabile, sia superficiale che sotterranea, con periodi prolungati di siccità ed eventi metereologici estremi; pesanti conseguenze quali-quantitative sui sistemi agricoli;

forte peggioramento della qualità della vita nelle città, dovuta al legame tra l’innalzamento della temperatura in ambiente urbano (isole di calore) e le concentrazioni di ozono (O3) e di polveri sottili (PM10), con particolari ripercussioni sulla salute delle fasce più fragili della popolazione

Con quali costi economici per la collettività? Lo studio rileva una proporzionalità diretta tra aumento della temperatura climatica e aumento dei costi economico-finanziari, con valori compresi tra lo 0,5% e l’8% del Pil a fine secolo.

I cambiamenti climatici aumenteranno la disuguaglianza economica tra le regioni e tutti i settori dell’economia italiana risulteranno impattati negativamente, mentre le perdite maggiori si andranno a determinare nelle reti e nella dotazione infrastrutturale del Paese, nell’agricoltura e nel settore turistico nei segmenti sia estivo che invernale.

Essendo il primo studio che affronta le conseguenze del cambiamento climatico non solo da un punto di vista globale, ma nello specifico della situazione italiana, sarebbe logico che divenisse la base sulla quale i governi formulassero le proprie strategie d’intervento.

Di cosa parlano invece le linee guida del governo italiano per il Recovery Plan, ovvero l’insieme di progetti e interventi per accedere agli oltre 200 miliardi previsti dal Recovery Fund europeo?

L’obiettivo sembra essere la riduzione dell’impatto economico provocato dalla pandemia, attraverso il raddoppio del tasso di crescita e un aumento di 10 punti del tasso di occupazione.

Non si parla di conversione ecologica come strategia tanto radicale quanto assolutamente necessaria, ma semplicemente come opportunità per realizzare gli obiettivi economici sopra richiamati.

Data la premessa, sembra ovvia la conseguenza: l’insieme dei progetti di investimento che accompagnano le linee guida sono un ammasso informe di centinaia di iniziative, senza capo né coda e spesso contraddittorie tra loro, concepite con l’unico obiettivo di spendere per “far girare l’economia”.

Salvo concludersi con l’usuale monito che il tutto dovrà essere accompagnato dalla riduzione del rapporto debito/Pil attraverso un significativo aumento del saldo primario (leggi: drastica riduzione della spesa sociale).

Possiamo immaginare due anni di spese folli dettate dai diktat di Confindustria e dalle lobby finanziarie con l’obiettivo del rilancio dell’economia (che poi è da sempre l’econo-loro) e poi la riedizione dell’austerità, basata sulla trappola del debito, sul patto di stabilità e sul pareggio di bilancio?

“Uscire dall’economia del profitto, costruire la società della cura” è l’obiettivo di un percorso di convergenza che centinaia di realtà sociali, reti associative e di movimento hanno avviato dentro la pandemia e dopo il lockdown e sul quale chiamano tutt* alla partecipazione e alla mobilitazione sociale.

Sarà di questo che dovranno parlare le strade dell’autunno che comincia.

https://comune-info.net/linsostenibile-leggerezza-politica/

sabato 26 settembre 2020

Il tradimento - Alex Zanotelli

 

Siamo ormai al decimo anniversario del Referendum sull’acqua. Il 12 e 13 giugno 2011, infatti, ben 26 milioni di italiani hanno votato a favore della gestione pubblica dell’acqua. Ma dopo dieci anni la politica istituzionale non è ancora riuscita a tradurre in legge questa decisione fondamentale del popolo italiano.

In questo decennio si sono succeduti ben sette governi, di destra come di sinistra (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte 1 e Conte 2) e nessuno di essi si è ricordato che il popolo italiano aveva deciso a larga maggioranza: l’acqua doveva uscire dal mercato e non si poteva fare profitto sull’acqua.

Purtroppo la politica istituzionale non obbedisce più a quello che il popolo decide, ma è prigioniera dei poteri economico-finanziari. Questi hanno capito che l’era del petrolio è finita e che si apre l’era dell’oro blu con cui potranno fare ancora più soldi. Con il surriscaldamento del Pianeta, l’acqua potabile andrà sempre più scarseggiando e diventerà il bene più essenziale e quindi più appetibile.

Trovo incredibile che i nostri politici non capiscano quanto sia fondamentale, in questo momento epocale, la gestione pubblica dell’acqua. Trovo altrettanto incredibile che l’unico partito, i Cinque stelle, avendo fatto dell’acqua la propria bandiera, la loro “prima stella”, non siano riusciti, dopo tre anni al governo, a tradurre il Referendum in legge. Tanto più che come presidente della Camera c’è Roberto Fico, il quale in un incontro con il Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, aveva detto: “Lego la mia presidenza della Camera all’approvazione di una legge per la gestione pubblica dell’acqua”. Eppure Roberto Fico aveva tanto lottato con a Napoli con il movimento per l’acqua.

E nonostante tutto questo, la legge di iniziativa popolare che aveva avuto oltre quattrocentomila firme, è ancora bloccata in Commissione Ambiente della Camera. Malgrado le pressioni del Movimento per l’acqua, i Cinque Stelle sono stati incapaci di sottrarre i poteri di controllo sull’acqua ad Arera (l’autorità che ha per fine la gestione dell’acqua nel mercato) per restituirli al ministero dell’Ambiente.

Chiaramente la pressione sui parlamentari, fatta dalle quattro potenti multiutility italiane – Iren, A2A, Hera e Acea – nonché dalle multinazionali Veolia e Suez, deve essere stata molto forte. Ne è una riprova la campagna delle grandi testate nazionali (Il Sole 24 ore, Corriere della Sera, Repubblica….) sui costi della ripubblicizzazione con cifre incredibili: 15-20 miliardi di euro!

Il Forum Italiano dell’Acqua ha presentato in Parlamento un dossier Il costo della ripubblicizzazione del servizio idrico integrato sostenendo invece che il costo dell’operazione potrebbe essere di un miliardo o al massimo un miliardo e mezzo. La stampa se n’è ben guardata dal riprendere questo studio fatto da esperti.

Trovo incredibile che l’attuale governo M5S e Pd non trovi un miliardo per il bene più prezioso che abbiamo, mentre stanno arrivando oltre duecento miliardi di euro da Bruxelles. È mai possibile che il governo pensi ancora alle Grandi Opere, come la Lione-Torino o il Ponte di Messina, anziché alla grande opera di riparare i trecentomila chilometri di rete idrica che perde il 50 per cento di questo prezioso bene? Siamo alla follia.

È mai possibile che il Pd abbia detto SÌ al taglio dei parlamentari, (nonostante fosse sempre schierato per il No) e non riesca a dire Sì alla legge di iniziativa popolare, bloccata in Commissione Ambiente?

Per questo mi appello ai Cinque Stelle e al Pd perché al più presto portino la Legge di iniziativa popolare in Parlamento per essere votata. Potrebbe essere questo il più bel dono che questo governo potrebbe fare al popolo italiano, in un momento così grave della storia umana perché con questo disastro ecologico saranno gli impoveriti a pagarne le spese, morendo di sete. Sarebbe un bel segno per noi e per tutta l’Europa perché l’acqua è il “diritto alla vita” come afferma papa Francesco. Mai come in questo momento, in cui ci sentiamo minacciati di morte, abbiamo bisogno di segni di vita.

https://comune-info.net/il-tradimento/

venerdì 25 settembre 2020

La loro resilienza - Paolo Cacciari

C’è una nuova parolina magica che salverà il mondo: resilienza. Mutuata dalla fisica (la capacità di un materiale di mantenere le proprie caratteristiche dopo aver subito una perturbazione) è approdata alla psicologia umana e infine alla economia politica. Il mega-piano dell’Unione europea varato a giugno dal Consiglio, ora in discussione in Parlamento, per rilanciare l’economia post-Covid ha preso il nome di Recovery and Resiliance Facility Plan.

Secondo le definizioni delle agenzie Onu per resilienza si deve intendere: “The ability of any system to maintain continuity through all shocks and stresses while positively adapting and transforming towards sustainability”. Traducibile, più o meno, così: “La capacità di qualsiasi sistema di conservarsi nel tempo attraverso ogni shock e stress, adattandosi e trasformandosi positivamente verso la sostenibilità”. Il che ci riconduce tautologicamente al concetto di sostenibilità. Una vecchia conoscenza, che viene ora caricata di ambiguità ancora maggiori. Nel senso corrente, infatti, “resilienza” è intesa come sinonimo di elasticità e tolleranza: la capacità dei sistemi naturali di adattarsi alle pressioni antropiche. L’attenzione così viene spostata sugli interventi necessari ad aumentare la “resilienza” piuttosto che diminuire gli impatti. In questo senso la vicenda della pandemia da Covid-19 è esemplare: nessuna azione viene proposta sul versante della lotta alle cause primarie della zoonosi (la distruzione degli habitat naturali dove vivono in equilibrio animali selvatici, virus e batteri) e massimi investimenti sulla “prevenzione secondaria”, di tipo difensiva, igienica-sanitaria.

É dalla Dichiarazione dell’Onu sull’Ambiente umano della Conferenza di Stoccolma del 1972 che i potenti della terra inseguono lo Sviluppo sostenibile. In altre parole la crescita del valore monetario delle merci prodotte e vendute (il Prodotto interno lordo) e la contemporanea diminuzione (decoupling – disaccoppiamento) degli impatti del sistema produttivo e di consumo sull’ambiente naturale. Una chimera. Un fallimento più e più volte certificato dal progressivo surriscaldamento del globo, dalla perdita di biodiversità e di fertilità dei suoli, dall’acidificazione degli oceani, dall’aumento costante delle materie prime estratte dalla terra e dei rifiuti scaricati e, da ultimo, dalla diffusione delle epidemie. L’indicatore sintetico più semplice della deriva all’ecocidio è il consumo del “capitale naturale”, come si suole definire il tasso di estrattivismo degli apparati produttivi. Dal 1970 al 2017 il consumo mondiale di materiali è cresciuto ad un ritmo doppio rispetto a quello stesso della popolazione. Abbiamo raggiunto la impressionante media di 14,5 tonnellate annue pro-capite (acque escluse). In Italia non stiamo andando meglio (vedi il Rapporto 2020 del Circular Economy Network). Insomma, mentre il denaro messo in circolazione cresce come un fiume in piena, i “servizi” ecosistemici che il “capitale” naturale gentilmente ci mette a disposizione gratuitamente (ossigeno, acqua pulita, carbonio organico, azoto e fosforo al suolo, piante e animali di genere vario) degradano e collassano. Evidentemente c’è qualcosa nel sistema socioeconomico che funziona alla rovescia. Ha detto l’economista britannico Graeme Maxton, già segretario del Club di Roma, a proposito del Green Deal europeo: “Tutti vogliono trovare una soluzione semplice per poter continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto”. Ma, come ha scritto James K. Galbraith, occorrerebbe “modificare tutta la struttura di produzione”.

Giusto cinque anni fa, il 27 settembre a New York, centocinquanta capi di stato firmarono solennemente gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals). Un’Agenda traguardata al 2030 con diciassette obiettivi e 169 target specifici. Povertà e fame zero, lavoro per tutti e tutte, diminuzione delle disuguaglianze, salute e benessere, pace e soprattutto: acqua, energia pulita, rigenerazione della vita terrestre e acquatica. In Italia la benemerita Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS, animata dall’ex ministro del governo Letta ed ex presidente dell’Istat, prof. Enrico Giovannini, sostenuta dalle principali fondazioni bancarie, cooperative e gruppi industriali) sta promuovendo una settimana di iniziative celebrative e di bilancio dei trend e degli scostamenti rispetto ai target. Sarà un lavoro non facile. Molte delle tappe intermedie previste dall’Agenda 2030 sono già clamorosamente salate. Per di più tutti i governi sono impegnati a far fronte alle conseguenze economiche della pandemia da Covid-19 e non sembrano dare fede ai solenni impegni presi solo pochi mesi fa sul versante “verde”.

Per gli stati europei il banco di prova saranno i piani nazionali del Recovery Plan. Una sfida che il governo italiana sembra aver perso in partenza. Le Linee guida presentate da Conte e lo sterminato elenco di interventi contenuti nel documento “Progettiamo il rilancio” elaborato dal Comitato interministeriale costituito presso la Presidenza del consiglio sono un’incredibile accozzaglia di progetti che non fanno alcun riferimento all’Agenda 2030 e nemmeno alle modeste “condizionalità verdi” contenute nella Next Generation Eu e nel Green Deal Europeo. Per il governo italiano la priorità è semplicemente quella di “ridurre l’impatto economico” provocato dalla pandemia, “raddoppiare il tasso di crescita” e aumentare di 10 punti il tasso di occupazione. Costi quel che costi. La “transizione verde” viene considerata più come un’opportunità che un fine della riconversione ecologica degli apparati produttivi e dei comportamenti umani, necessari per avviare un percorso di sostanziale sostenibilità. La incredibile lenzuolata di interventi proposti – una accozzaglia di progetti di investimenti – inizia significativamente con la Rete nazionale di fibra ottica e con la Rete 5g. Passa attraverso la Intelligenza artificiale e la robotica e plana sul Voucher per le famiglie e le imprese che useranno i pagamenti digitali. Prevede il completamento delle tratte ad Alta velocità e di 39 opere stradali, grandi porti, collegamenti con aeroporti, ecc. Ma ci sono anche i sentieri nei parchi e l’“Italia in bici”. Impossibile dare conto di tutto ciò che è stato possibile rastrellare nei cassetti dei ministeri, nei libri dei sogni e in quelli contabili delle lobby dei promotori di project financing. Ce n’è per tutti. L’assalto alla diligenza che trasporta i 208,6 miliardi della Ue è partito e se ne vedranno delle belle. Torneremo a parlarne per capire se alla “rivoluzione economica” in atto, con l’abbandono del neoliberismo monetario e il ritorno al neokeynesismo della spesa in deficit, corrisponderà anche una rivoluzione ecologica.

da qui

giovedì 24 settembre 2020

500 cetacei spiaggiati sul litorale della Tasmania - Grig

Un vero e proprio disastro ambientale è quello che si sta consumando nella Macquarie Harbour, baia della costa occidentale della Tasmania.

Centinaia di Globicefali (Globicephala) si sono spiaggiati a partire dal 21 settembre per motivi non conosciuti, forse – essendo molto forte lo spirito di gruppo – a causa di un avventato avvicinamento di alcuni individui al litorale, in acque eccessivamente basse, per ragioni di caccia.   Centinaia di esemplari li avrebbero seguiti, senza curarsi del pericolo.

Nonostante i soccorsi pressochè immediati, centinaia di cetacei sono già morti.

Gli spiaggiamenti collettivi di cetacei sono fenomeni abbastanza frequenti, ma questo appare un episodio decisamente preoccupante per le dimensioni.

Ancor più preoccupante vista la caccia tuttora esistente del  Grindadráp, la sanguinaria caccia al Globicefalo (Globicephala melas) – più raramente anche alla  Balena dal naso a bottiglia (Hyperoodon ampullatus) e al Delfino dai fianchi bianchi atlantico (Lagenorhynchus acutus) – sulle  Isole Fær Øer, arcipelago situato nell’Oceano Atlantico appartenente alla Danimarca, ma non appartenente all’Unione europea.

Speriamo davvero che gli sforzi dei soccorritori siano premiati da successo e quanti più Globicefali possano salvarsi.

 

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus



Tasmania, le balene spiaggiate spezzano il cuore. Ora l’uomo può agire perché una fine simile non si ripeta - Giuseppe Notarbartolo di Sciara


Ci sono luoghi nel pianeta dove una combinazione tra morfologia della costa e intensità di correnti e maree crea delle vere e proprie trappole per i cetacei che si avventurano nei paraggi. Se poi i cetacei sono specie come i globicefali (per favore non chiamateli “balene pilota”), grossi delfini con la testa tipicamente arrotondata che vivono e si muovono in comunità spesso di centinaia, la situazione può trasformarsi presto da drammatica in catastrofica, come nel recente evento avvenuto sulla costa occidentale della Tasmania, tuttora in corso.

Alla notizia di ieri, che un branco di 270 globicefali si è spiaggiato in quell’area, se ne aggiunge ora un’altra che segnala la presenza, poco più in là, di un altro gruppo di 200. Se confermato, si tratterebbe nell’insieme dello spiaggiamento più imponente mai registrato in Australia, e uno dei più grandi di cui si sappia.

Navigare in condizioni difficili può essere una sfida per un globicefalo isolato, ma non difficile da affrontare vista l’agilità e la forza di questi animali; tuttavia navigare in condizioni precarie cercando di mantenere l’integrità di un gruppo di svariate decine, se non di centinaia di individui, può diventare impossibile; e l’insorgere di un problema anche modesto può scatenare il panico, in cui è più facile che prevalga la spinta a rimanere coesi su quella di salvarsi individualmente.

La vista di centinaia di questi animali miseramente spiaggiati, morenti e sofferenti, ha un forte impatto emotivo sulle persone e, come sta avvenendo in questo caso, scatena uno sforzo massiccio per prestare loro soccorso, non solo da parte di volontari ma anche di personale delle agenzie di governo. Aiutare gli animali in questi casi è comunque molto difficile, e quando va bene se ne riesce a rimettere in mare una parte minima; la struttura sociale del branco ne esce malconcia.

Fortunatamente si ritiene che questi fenomeni di spiaggiamento, per massicci che siano, non costituiscano una minaccia per la sopravvivenza della specie, abbastanza in buona salute nell’Emisfero australe. Ma vedere tanta sofferenza spezza il cuore agli astanti e scatena un impulso di solidarietà inter-specifica che spinge a fare qualcosa, per quanto poco questo qualcosa possa essere.

Occorrerebbe adesso che tale impulso si estendesse in maniera più diffusa nella società umana, per evitare che non centinaia, ma centinaia di migliaia di cetacei ogni anno, alcuni appartenenti a specie veramente minacciate di estinzione, facciano una fine simile a quella dei globicefali della Tasmania – ma nelle reti da pesca.

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La trappola della ripartenza - Antonio Tricarico

Dopo la pandemia del Covid-19 nulla sarebbe stato come prima, ci è stato detto a lungo dai media e dai governanti del pianeta. Ed è sembrato un po’ così per le prime settimane dell’emergenza sanitaria. Si pensi solo al mercato dell’energia, al tracollo del prezzo del petrolio che ha disintegrato in due mesi i profitti delle oil majors e generato panico e incertezza sistemica.

Ma poi, ridimensionata temporaneamente la crisi sanitaria, sono entrate in campo le banche centrali, le misure urgenti della ripresa da parte dei governi e le richieste di aiuto faraonico dalle imprese.

“Ricostruiamo, ma meglio, più verdi, più giusti”, si è chiesto da più parti. Sei mesi dopo l’inizio del lockdown globale, i numeri e le scelte dei vari esecutivi purtroppo ci dicono ben altro.

Gli analisti dell’IHS Crude Oil Market Service qualche giorno fa hanno annunciato che la domanda mondiale di petrolio è già risalita all’89 per cento dei livelli pre-Covid ed è attesa al 95 a inizio 2021. “Siamo quasi normali”, secondo gli esperti del think tank; all’appello mancano solo l’aviazione e alcuni trasporti. Inevitabile, con il virus che ancora circola per il mondo.

Allo stesso tempo la mole finanziaria di aiuti per le società fossili ed energetiche messa in campo da governi e banche centrali è spaventosa.

Dall’inizio della pandemia, la Banca Centrale Europea ha iniettato oltre 7 miliardi di euro nelle casse dell’industria fossile, Eni inclusa.

In Italia, oltre al caso più noto di FCA, la lista di multinazionali che in questi mesi hanno beneficiato di aiuti pubblici è lunga, e comprende colossi come Fincantieri, che ha appena ricevuto un prestito da 1,15 miliardi tramite Garanzia Italia, e Maire Tecnimont, società specializzata nell’oil&gas, a cui sono andati 365 milioni.

La lista è destinata ad allungarsi, viste le mire delle lobby europee del gas sui nuovi soldi del tanto ambito “Recovery Fund”, in nome del mantra delle nuove infrastrutture che faranno ripartire il Bel Paese.

Insomma, sussidi di stato ai soliti noti, in nome della ripresa e lo sviluppo, ben poco di nuovo nella narrazione delle élite.

Ma non si tratta solo di soldi. Il Decreto “Semplificazioni”, in in questi giorni in dirittura di arrivo con la sua conversione in legge in Parlamento, prevede addolcimenti dei vincoli di legge a man bassa per le grandi imprese fossili ed energetiche.

Nei mille cavilli del decreto del governo per la ripresa post-Covid si trovano permessi più semplici per le conversioni degli impianti da carbone a gas (leggi Enel, A2A), esenzione da bonifiche attese da decenni con auto-certificazioni all’acqua di rosa, ricorsi amministrativi più difficili e velocizzati in caso di gasdotti e nuove mega opere (leggi Snam e TAP) e tanto altro ancora.

Per ripartire tocca fare presto e fidarsi che i campioni italiani delle grandi opere fanno tutto solo per noi cittadini, non per i loro interessi. Certo, lo sappiamo bene dalla Tav Torino-Lione in poi. Anche qui nessuna novità, ahimé.

A livello europeo, la dinamica sembra meno tradizionale di quella italiana. Ma anche lì l’azione delle lobby non è da meno.

Ad esempio, in questi giorni si sta chiudendo il pacchetto sui fondi per la transizione giusta, e si moltiplicano le voci per rendere eleggibili i progetti a gas, e quindi fossili, che ritarderebbero di decenni una vera decarbonizzazione.

In effetti, come si legge in un recente studio dell’Università di Oxford che ha analizzato 3mila utilities a livello mondiale, si capisce come tre quarti non hanno investito in rinnovabili e delle rimanenti almeno la metà ha investito tanto anche in nuovi impianti a gas. Altro che sviolinate giornaliere sulla sostenibilità ed i cambiamenti climatici!

(Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common)

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lunedì 21 settembre 2020

Cosa diavolo stiamo aspettando? - Luke Savage

Cieli rosso sangue. Intere città bruciate. Popolazioni sfollate. Gli incendi in California e in tutta la West coast sono l'ennesima dimostrazione che servono politiche ecologiche per far fronte a condizioni apocalittiche

All’inizio di questa settimana, i cittadini della Bay Area di San Francisco si sono svegliati con un cielo che sembrava infernale, a causa del fumo che circolava nell’atmosfera e bloccava la luce del sole. È solo una delle tante immagini inquietanti prodotte dagli incendi che attualmente imperversano sulla costa occidentale del Nord America: un disastro che, al momento in cui scrivo, ha già bruciato 2,3 milioni di acri, causato la chiusura forzata di scuole e l’evacuazione di prigioni, e lasciato quasi 200 mila persone senza energia elettrica.

Mentre il fuoco infuria nell’entroterra e in più stati, il peggio potrebbe ancora accadere, superando tutti i precedenti in quella che è già stata una stagione da record di alte temperature e condizioni climatiche secche. Il mese scorso, la temperatura nella Death Valley ha raggiunto 129,9 gradi Fahrenheit (54,4 gradi Celsius), si tratta probabilmente della temperatura più alta mai registrata. Gli incendi sono quasi più inquietanti se visti dallo spazio, un punto di vista che sottolinea la loro portata mozzafiato e la possibilità che eventi simili si diffondano ancora più ampiamente nel prossimo futuro.

Le fiamme stagionali in California, ovviamente, non sono un fenomeno nuovo. Ma un clima sempre più caldo crea le condizioni affinché gli eventi meteorologici – come i fulmini che inizialmente hanno innescato la maggior parte degli incendi attuali – producano effetti più estremi di quanto avrebbero fatto altrimenti. Non è certo un caso che tutte e dieci le stagioni di incendi più devastanti in California si siano verificate dal 2003, successione di eventi che pone il cambiamento climatico al centro dell’attuale crisi. Uno studio del 2018, prodotto nientemeno che dalla prospettiva del nichilismo ambientale dell’amministrazione Trump, ha previsto che queste tendenze continueranno per decenni, con la stagione degli incendi della California destinata ad allungarsi progressivamente.

Le immagini cupe e talvolta distopiche di cieli rosso sangue e edifici incendiati hanno innescato un comprensibile diluvio di reazioni allarmate da parte di eminenti politici liberal. La loro retorica, tuttavia, non deve essere confusa con una preoccupazione effettivamente proporzionata all’entità del problema.

Il governatore della California Gavin Newsom, ad esempio, ha annunciato che «non ha tempo per i negazionisti del cambiamento climatico» nonostante da aprile abbia approvato circa quarantotto nuovi permessi di fracking (strettamente correlato a un aumento delle emissioni globali). Nancy Pelosi, dopo aver respinto con derisione il Green New Deal («Il sogno verde o come lo chiamano»), punta il dito contro il cambiamento climatico sia per gli incendi violenti del suo stato d’origine che per l’uragano del mese scorso sulla costa del Golfo.

Barack Obama, in modo tipicamente ellittico, ha utilizzato Twitter per dichiarare: «Gli incendi nella costa occidentale sono solo gli ultimi esempi dei modi molto reali in cui il nostro clima mutevole sta cambiando le nostre comunità. Bisogna proteggere il nostro pianeta alle urne. Vota come se la tua vita dipendesse da questo, perché è così». Durante i due mandati di Obama alla guida dell’ufficio più potente del mondo, la produzione di gas degli Stati uniti è aumentata di circa il 35%, mentre quella di petrolio greggio è cresciuta di un sorprendente 80%, cosa di cui l’ex presidente si fa vanto.

Questi esempi, e molti altri simili, sottolineano la necessità di una nuova comprensione della negazione del cambiamento climatico che vada oltre il mero riconoscimento della realtà scientifica. Il fatto è che, mentre adesso più che mai i politici statunitensi rispettano le conclusioni di base della scienza ambientale, i leader di entrambi gli schieramenti continuano a perseguire posizioni pretestuose, definendo il cambiamento che deriverebbe da proposte come il Green New Deal come utopico o troppo costoso.

Giudizi del genere sono ormai ancora più vuoti e forzati del solito. Quando è stato sfidato sul presunto irrealismo delle sue politiche climatiche, Bernie Sanders ha giustamente detto di considerarle necessarie, indipendentemente dalla loro ambizione o dal costo.

La stagione degli incendi in California è la peggiore di sempre, le immagini che vediamo sembrano uscite direttamente dalla narrativa distopica e, data la tendenza, ci sono tutte le ragioni per pensare che quella del prossimo anno sarà ancora più dura.

Che diavolo stiamo aspettando?

 

*Luke Savage è staff writer per Jacobin. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro.

 

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