Davvero allarga il cuore sentire dirigenti politici e giornalisti, usare
con generosità l’espressione riconversione ecologica, per alludere al nuovo
corso dello sviluppo economico italiano ed europeo. Si capisce che non sanno di
cosa parlano, ma il fatto che ormai ne parlino anche loro è un segno della
popolarità che, almeno l’espressione
verbale, ha finalmente guadagnato presso i produttori di senso comune.
Ricordo che il sintagma riconversione
ecologica è stato coniato in Italia da Alexander Langer e che Guido Viale vi
dedica da anni studi e ricerche, purtroppo con scarsi esiti, sia culturali che
strutturali. Ma che oggi anche l’Ue tenti di progettare i suoi ingenti
investimenti entro la filosofia di un Green Deal, di un modello verde di
sviluppo, è sicuramente una grande novità e un’opportunità da cogliere.
Esattamente al tal fine occorre incominciare a chiarire il significato
delle parole, ricordando che la
riconversione ecologica non si esaurisce nello sviluppo delle energie
alternative, del digitale, nell’uso di tecnologie meno inquinanti, e altre
correzioni del modello industriale novecentesco.
Quell’espressione rinvia a una rivoluzione del paradigma produttivo
che ha dominato per quasi un secolo, quello, per intenderci, nato
negli Usa negli anni ’30 e fondato sulla cosiddetta planned obsolescence,
l’obsolescenza programmata dei beni: le merci devono durare poco per alimentare
il processo produttivo, senza nessuna considerazione del fatto che le merci
consumano natura e che la natura non è infinita. Dunque è necessaria una vera rivoluzione industriale, possibile solo con
un profondo rivolgimento culturale.
Mi confermo in tale necessità, soprattutto in Italia, dopo aver appreso gli
ultimi dati del rapporto Ispra sull’espansione del cemento nel 2019. Ne ha dato
ampio conto Luca Martinelli sul manifesto (23/7), ricordando che l’anno scorso, seguendo un ritmo senza
tregua, sono stati cementificati 57 milioni di m2, due metri quadrati al
secondo. Perché tanto cemento, edifici, strade, ponti, in aumento di anno in
anno, mentre diminuisce la popolazione?
Una parte crescente dell’imprenditoria italiana vede nel territorio non un
bene essenziale dell’equilibrio ambientale, ma una risorsa facile per i propri
affari. Bisogna che il ceto politico e l’intero governo comprendano questo nodo
drammatico dello sviluppo italiano.
I capitali investiti in cemento sfuggono di fatto
al mercato, alla competizione, all’innovazione tecnologica e di prodotto e si
rifugiano nel settore più tradizionale e primitivo dell’economia.
Tutte le facilitazioni offerte a questo tipo di
attività predatoria l’Italia la paga innanzi tutto con un arretramento
progettuale e strategico della sua industria. Il nostro Mezzogiorno ha pagato
duramente, in termini di arretratezza del suo apparato produttivo, il fatto che
i suoi imprenditori hanno avuto agio di fare affari col territorio anziché
misurarsi con nuovi settori merceologici, affrontare mercati e sfide
tecnologiche.
Naturalmente il suolo, soprattutto in Italia,
costituisce il cuore di ciò che chiamiamo natura, ambiente, risorse.
Mostrare preoccupazione per il riscaldamento climatico e continuare a
coprire il suolo verde non è più accettabile, perché il cemento innalza la
temperatura, così come non è accettabile recriminare per l’allagamento delle
città, perché è la copertura totalitaria del verde che trasforma in letti di
fiume le strade cittadine appena piove.
Costruire in Italia significa non soltanto sottrarre
terra all’agricoltura, ma contribuire al riscaldamento globale, operare per
rendere catastrofici gli eventi meteorici. Mentre milioni di edifici vanno in rovina per abbandono, costruire ancora
è opera criminale, indirizzata contro l’interesse generale.
Purtroppo non sono solo gli imprenditori che consumano suolo. Anche i
comuni fanno la loro parte. Voglio qui segnalare un caso prima che sia troppo
tardi e che riguarda la Calabria. A Catanzaro, nella località Giovino, sorge
una pineta in riva al mare, connessa a un sistema di dune popolate da una flora
selvatica con specie insolite e anche rare. Si tratta di un gioiello
naturalistico di quasi 12 ettari presidiato amorevolmente da gruppi
ambientalisti locali.
Naturalmente il comune non si azzarda a mettere le mani su un tale
patrimonio, ma poiché questo innalza i valori fondiari dell’area adiacente, un
piano di lottizzazione per costruzioni varie è sicuramente un buon affare.
In questo modo si salvaguarda l’ambiente e si dà una mano allo sviluppo.
Ricordo che dal 2001 la Calabria ha perso quasi 100 mila abitanti, Catanzaro è
passata da 95.512 a 88.313 nel 2020. Mentre il centro storico si spopola e
nessuno ristruttura vecchi edifici, anche di pregio, si va in cerca di
territori vergini più appetibili.
Considero questo caso esemplare di quel che può accadere in Italia, dove
circola tanta fame di affari e c’è la possibilità di gabellarli per
ecologicamente compatibili.
Articolo pubblicato anche sul il manifesto
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